Diritto

Crisi del rapporto tra banca e impresa e necessità di una gestione aziendalistica della crisi societaria

(di Petro Pavone)

Quello della crisi d’impresa è un tema tanto complesso quanto attuale e che, dati gli svariati risvolti – anche penali – che lo caratterizzano, si presta a sollevare la curiosità di tutti gli operatori economici (professionisti, amministratori di società, magistrati, studiosi).

Peraltro, il dissesto societario non sempre rappresenta un incidente di percorso nel quale può incappare qualunque imprenditore; può anche essere opera di “professionisti del dissesto” perseguibili penalmente con la normativa fallimentare. E’ oggettivo il dato della crescente attenzione della polizia giudiziaria al “business” dei reati fallimentari, vuoi per il dilagare del particolare fenomeno criminale, vuoi per la non difficilissima dimostrabilità processuale delle responsabilità penali degli autori delle condotte incriminate.

Venendo al cuore della questione, vari sono i fattori che possono condurre l’impresa ad una situazione di crisi.

E’ agevole intuire, ad esempio, che senza un’adeguata partnership bancaria l’impresa non raggiunge la propria mission.

Gli enti creditizi e, in particolare, le banche si stanno mostrando assai sensibili alla tematica della crisi d’impresa, considerato che la selezione dei clienti ai quali erogare prestiti o finanziamenti rappresenta uno dei compiti più delicati che tali soggetti sono chiamati a svolgere.

Nella procedura di rating seguita dalle banche per l’attribuzione ai clienti di un punteggio sul merito creditizio, tre sono le macro-classi informative valutate: informazioni qualitative, informazioni quantitative ed informazioni andamentali. Di queste, la seconda area (analisi degli score patrimoniali, economici e finanziari dell’impresa) sembra aver assunto un ruolo centrale nei processi decisori delle banche.

Del resto, tale conclusione è il risultato di un ampio processo storico.

Nel corso degli anni, il rapporto tra banca e impresa è profondamente mutato: se esso è stato, senza dubbio, il principale motore del “miracolo italiano” negli anni cinquanta e sessanta, ben diversa la prospettiva nel ventennio immediatamente successivo, caratterizzato dalla presenza di un sistema bancario molto radicato sul territorio. Sono gli anni in cui la banca conosce l’imprenditore, i rapporti sono informali e, a prescindere dal bilancio d’esercizio, alla banca è già nota quale sia l’impresa sana e quale quella decotta.

Il citato mutamento nel ruolo del sistema bancario italiano non è di poco conto. Basti pensare ai riflessi sulla figura professionale del dottore commercialista: la descritta disattenzione alla funzione comunicativa del bilancio ha avuto l’effetto di spostare il baricentro della professione: il commercialista è andato sempre più facendosi portatore di risposte a quesiti di carattere fiscale.

Ecco dunque un primo punto fermo: la circostanza che ha visto il commercialista vestirsi da fiscalista è uno dei motivi per cui gli studi della crisi d’impresa considerati in un’ottica propriamente aziendalistica e gestionale stentano ad essere concepiti come un filone di ricerca scientifica e applicativa autonoma.

L’excursus storico sul rapporto tra banca ed impresa in Italia, si completa con la riforma del sistema bancario degli anni novanta. Ha inizio il fenomeno delle concentrazioni bancarie: grandi gruppi bancari che rompono ogni forma di legame informale o personale privilegiando un approccio molto più “freddo”: la grande banca ragiona solo nei suoi centri decisionali, distanti dal territorio.

Ciò ha colto impreparati le stesse banche, le imprese, nonché il mondo dei professionisti, questi ultimi abili ad aprire canali di finanziamento ma meno attenti nella fase, delicata, di mantenimento dei rapporti finanziari. Sembrerebbe, dunque, che il solo documento di bilancio non sia sufficiente a soddisfare le pretese bancarie; occorre dare alla banca dell’altro: indicazioni prospettiche, senza tralasciare informazioni storiche, analisi andamentali, previsioni di politiche gestionali future ecc.

Il quadro, per come delineato, è ulteriormente complicato dagli effetti che la crisi di alcune importanti società hanno avuto sul sistema bancario generale: si è messo, infatti, in moto un pericoloso processo in cui le imprese in crisi si vedono impossibilitate a restituire alle banche il capitale e gli interessi maturati e le banche, collezionando crediti in sofferenza, temono in misura sempre maggiore il deteriorarsi dei propri attivi: il tutto sfocia, evidentemente, in una minore concessione di finanziamenti alle imprese.

In questo contesto, si avverte l’esigenza sempre più impellente per gli imprenditori di avvalersi di sistemi di controllo dello stato di salute aziendale, in modo da favorire l’emersione tempestiva della crisi d’impresa per la pronta attivazione delle iniziative volte a porvi rimedio.

Se per le banche un finanziamento è soprattutto un costo, è chiaro che non si può continuare a fare del capitale di terzi la principale fonte di finanziamento. Rottosi lo schema, occorre che cambi il modus operandi. E’ bene, pertanto, individuare, in azienda, strutture e responsabilità idonee a garantire un’efficace attività di monitoraggio delle variazioni dell’equilibrio patrimoniale, economico e finanziario dell’impresa e della solvibilità e solidità aziendale.

In particolare è possibile prevedere la crisi, attivando un adeguato sistema di analisi dei rischi, monitorando le aree critiche all’interno dell’impresa.

Si avverte, in effetti, l’esigenza di spostare l’attenzione dal concetto di insolvenza dell’imprenditore a quello di crisi dell’impresa. La differenza tra gestire la crisi e applicare una procedura, come prevista nel nostro ordinamento, volta alla massima soddisfazione dei creditori appare macroscopica.

Se è vero che, prima di sfociare in uno stato di insolvenza, la crisi si estrinseca in un rischio di insolvenza, sarebbe opportuno valorizzare determinati alert, affiancando alla classica impostazione giuridica dello studio della crisi una impostazione di tipo aziendalistico e gestionale.

La necessità di un cambio di rotta incombe in quanto – come sopra accennato – il rischio di essere indagati per condotte che rappresentano una violazione delle regole gestionali di buona amministrazione, poste a protezione delle ragioni creditorie, è alquanto elevato.

A fronte di ciò,  la difesa in sede processuale da un impianto accusatorio che si basa su evidenze di profili di mala gestio ravvisati nelle condotte poste in essere dagli amministratori non appare agevole.

La potenzialità espansiva di una crisi che può diventare catastrofica si comprende anche pensando alla circostanza che i rapporti fra le società di un gruppo sono di regola tali che la crisi di una di esse spesso si ripercuote sulle altre. Al di là dei crediti dipendenti dal normale esercizio dell’attività di impresa che una società del gruppo può vantare nei confronti di altre, accade assai di frequente che una o più società del gruppo possono avere rilevanti crediti per finanziamenti che la crisi dell’impresa finanziata rende praticamente inesigibili; e di frequente il sistema bancario, nell’accordare credito ad alcune società del gruppo, chiede garanzie alle altre e considera comunque il gruppo come un unico esponente economico, sebbene l’accertamento dello stato di insolvenza vada condotto considerando la situazione economica e finanziaria di ogni singola società del gruppo, dal momento che ciascun ente conserva distinta personalità ed autonoma qualità di imprenditore.