Economia

Il rischio di liquidità durante i periodi di crisi

di Alessio Rombolotti

Recentemente mi sono occupato della gestione del rischio di liquidità di una banca italiana e ho colto l’occasione rivedere come le banche americane abbiano gestito la loro liquidità e le loro esposizioni durante la crisi del 2008/2009.

La decisione di quante attività liquide mantenere fa parte della strategia di gestione del rischio di liquidità, rischio che in larga misura, in una banca commerciale, nasce dalle linee di credito accordate e non ancora utilizzate completamente, dai prelievi sui depositi della clientela isituzionale e dalla perdita di altre fonti di fondi a breve termine. Per esempio, quando nel settembre del 2008 il mercato di commercial paper si congelò, le società emittenti iniziarono a prelevare fondi dalle linee di credito che tenevano a disposizione per far fronte a situazioni impreviste, le banche esposte incrementarono il volume di attività liquide e di conseguenza dimunuì la loro capacità di effettuare nuovi finanziamenti. Dal lato delle attività, gli istituti che avevano titoli poco liquidi aumentarono le loro riserve di liquidità, in particolare mi riferisco a mortgage-backed securities e asset-backed securities, a discapito della possibilità di servire sia i loro che nuovi clienti. Questi effetti riguardarono sia le piccole che le grandi banche e avvantaggiarono gli istituti più capitalizzati e con stabili fonti di finanziamento, tipicamente i depositi di conto corrente del pubblico. Dai dati di uno studio effettuato da Cornett et al. durante la crisi del 2008/2009 il rischio di liquidità è negativamente correlato ai nuovi finanziamenti ed è correlato positivamente alle attività liquide mantenute in bilancio, infatti la necessità di alcune banche di aumentare il livello delle loro attività liquide ha spostato la capacità di finanziare nuove esposizioni verso altri istituti meno esposti al rischio. Inoltre, se poniamo l’attenzione sul grado di liquidità delle attività di una banca, risulta evidente come esso sia correlato positivamente al volume di nuove esposizioni e correlato negativamente al volume di liquidità e attività equivalenti mantenute in bilancio.

Un sistema di gestione del rischio deve considerare i fattori sistematici, che potrebbero indurre un aumento della richiesta di liquidità e nei casi più estremi causare quel panico che diverse banche americane hanno dovuto affrontare fra il settembre e l’ottobre del 2008. A proposito un indice informativo sulla condizione generale del sistema finanziario e sul rischio di credito percepito è il TED. I primi segnali della crisi arrivarono nell’estate del 2007 e si possono leggere proprio nel TED, definito come la differenza fra il tasso LIBOR a tre mesi e il tasso, sempre a tre mesi, dei Treasury Bills. Il suo livello in condizioni normali è intorno allo 0.5%, nel mese di agosto del 2007 iniziò a crescere, fino a superare il 2.5% alla fine dell’estate di quell’anno, poi si mantenne fra l’1 e il 2% fino all’agosto del 2008 per poi salire fino al 4.5% in concomitanza del fallimento di Lehman Brothers e di altre istituzioni finanziarie. Ma torniamo al rischio sistematico, per esempio, un congelamento del mercato monetario o dei capitali produrrebbe l’aumento della domanda di liquidità verso gli istituti di credito e mentre in condizioni normali le esposizioni tenute in portafoglio potrebbero essere vendute per essere cartolarizzate oppure utilizzate come garanzia per assumere maggiori fondi, quando i mercati monetari non funzionano anche molte attività considerate “liquide” perdono questa loro caratteristica. Durante un periodo di stress il rischio di liquidità è collegato principalmente alle linee di credito non ancora erogate e ai depositi, specialmente quelli dei clienti istituzionali, mentre i depositi di conto corrente del pubblico e l’equity spesso fungono da mitigatori di tale rischio. Alla luce di queste considerazioni ho controllato i seguenti quattro drivers del rischio di liquidità: 1. Il grado di liquidità delle attività, 2. Il peso dei depositi del pubblico nella struttura finanziaria, 3. Il peso dell’equity nella struttura finanziaria e 4. L’esposizione verso linee di credito non ancora erogate. Mi aspettavo che durante i periodi di rischio elevato, identificati da uno spread TED alto, le banche più esposte avessero incrementato le loro attività liquide e diminuito le loro esposizioni, specialmente quegli istituti più sbilanciati sulle mortgage e asset-backed securities, il cui mercato si era completamente congelato. Dall’altra parte, se i depositi del pubblico e l’equity fossero serviti davvero da argine contro il rischio avrei dovuto vedere i soggetti con alti livelli di entrambi incrementare le loro esposizioni e guadagnare quote di mercato.

Dalla lettura dei risultati si capisce che durante la crisi, le banche americane, indipendentemente dalla loro dimensione, hanno effettivamente aumentato le loro attività liquide e diminuto i nuovi finanziamenti, determinando quindi una contrazione del credito, dove, come secondo le attese, l’eccezione è rappresentata dal maggior utilizzo delle linee di credito precedentemente accordate. Un dato di estrema importanza per la gestione del rischio riguarda i depositi di conto corrente del pubblico, che hanno supportato le nuove esposizioni e confermato la loro funzione di argine contro il rischio di liquidità. Nell’ottobre del 2008 la Federal Deposit Insurance Corporation estese l’assicurazione praticamente a tutti i depositi di conto corrente e a fronte di una diminuzione complessiva dei depositi istituzionali di 200 miliardi, il sistema bancario americano registrò un incremento dei depositi di conto corrente di 500 miliardi e ovviamente le banche che più si erano affidate a questa forma di raccolta ne beneficiarono significativamente. Guardando i comportamenti delle aziende di credito si nota come il loro livello di esposizione abbia inciso sulle strategie di concessione di nuovo credito maggiormente sulle grandi rispetto a quelle piccole, la motivazione probabilmente la si può leggere nella situazione in cui le grandi banche si trovavano all’inizio della crisi, rispetto alle piccole avevano meno capitale, più linee di credito inutilizzate, una quota maggiore di depositi istituzionali e più attività non-smobilizzabili. L’importanza dei depositi, in relazione all struttura del passivo, tende a decrescere con la dimensione della banca, mentre l’importanza delle linee di credito non erogate tende ad aumentare con la dimensione, quindi il volume di credito accordato dalle banche di grandi dimensioni è stato maggiormente assoggettato ad aggiustamenti rispetto al credito erogato dalle banche medie e piccole.

In Italia così come in Europa e negli Stati Uniti gli imprenditori hanno avuto, e tuttora hanno, difficoltà sia ad accedere a nuovo credito, sia a mantenere le esposizioni che avevano prima della crisi. Buona parte della spiegazione di questa difficoltà la troviamo negli aggiustamenti che le banche maggiori hanno dovuto apportare alla loro struttura dell’attivo in funzione del rischio di liquidità a cui erano esposte. Una delle tante lezioni della crisi del 2008 è proprio quella che in determinate condizioni, i.e. congelamento dei mercati monetari e illiquidità delle attività finanziarie tenute in portafoglio dalle banche, gli strumenti tradizionali delle banche centrali non raggiungono gli obiettivi attesi.