Economia

Illich e la nemesi medica

(di Nicola Sguera)

La recente polemica Grillo-Veronesi, in buona parte distorta a causa dei consueti meccanismi mediatici, ha avuto in ogni caso il merito di stimolare la riflessione su un approccio alla salute che spesso finisce con l’essere meramente “tecnico”, perdendo di vista l’uomo nella sua integralità, come dovrebbe accadere secondo un approccio “olistico”. Il prossimo anno si celebrerà il 40° anno dall’uscita di Nemesi medica, libro epocale di Ivan Illich, figura tanto grande quanto misconosciuta del pensiero novecentesco, per le sue eresie non solo teologiche ma anche pedagogiche. Primo teorico, insieme a Ellul, della “decrescita conviviale”, oggi divulgata da Latouche, alfiere di un sapere libero dal “totalitarismo scolastico” (Descolarizzare la società), nemico dei sistemi unici in qualunque settore (ad esempio quello dei trasporti, discusso in Elogio della bicicletta), Illich mostrò in Nemesi medica, uscito nel 1976, come la medicina, gestita da una “casta” vera e propria, spesso appoggiata dalla grande industria farmaceutica, abbia iniziato a produrre, superata la soglia dei benefici che poteva e ha indotto, malattia. Il termine che il filosofo usa è “iatrogenesi”, poi divenuto celebre: ««La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute. L’effetto inabilitante prodotto dalla gestione professionale della medicina ha raggiunto le proporzioni di un’epidemia. Il nome di questa nuova epidemia, IATROGENESI, viene da IATRÒS, l’equivalente greco di ‘medico’, e GENESIS, che vuole dire ‘origine’». Illich accusa la medicina di aver indotto negli individui una radicale forma di eteronomia, per cui anche nella gestione di patologie lievi ognuno di noi sente una sorta di coazione a rivolgersi al medico curante, essendo diventato incapace di gestire autonomamente la propria salute. Lo stesso ambiente di vita è diventato pesantemente generatore di malattie. Ma Illich arriva ad affermare che esiste anche una “iatrogenesi culturale” che rende l’individuo incapace di accettare la sofferenza come parte costitutiva della condizione umana. In realtà, già con Cartesio nella cultura occidentale balugina l’idea di una sapere medico capace di vincere ogni male e prolungare indefinitamente la vita umana: «La medicina organizzata professionalmente è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa a propagandare l’espansione industriale come una guerra contro ogni sofferenza. Ha così minato la capacità degli individui di far fronte alla propria realtà, di esprimere propri valori e di accettare il dolore». Per l’ex sacerdote cosmopolita, la medicina iatrogena è solo uno degli aspetti rovinosi del dominio dell’industria sulla società, che egli chiama “controproduttività paradossale” (per indicare qualcosa che nasce per migliorare la condizione dell’uomo e poi finisce col peggiorarla). «La medicina patogena è il risultato di una sovrapposizione industriale che paralizza l’azione autonoma». La soluzione che egli prospetta, ovviamente, non è un “ritorno al passato”, ma la creazione dell’autonomia negli individui, che diventano capaci di gestire la propria salute, rivolgendosi al medico in caso di vera necessità, ma anche educati a gestire da soli problemi elementari di salute. È evidente che la proposta di Illich ha senso solo presupponendo un’antropologia completamente diversa da quella attuale e mettendo in discussione l’idea, divenuta senso comune nella modernità, che esistano “esperti” cui delegare (integralmente) la soluzione di determinati problemi (e non cambia che sia la salute, il trasporto o il sapere). La conclusione del libro di Illich ci riporta alla polemica Grillo-Veronesi da cui siamo partiti: «Solo un programma politico diretto a limitare la gestione professionale della sanità può permettere alla gente di recuperare la propria capacità di salvaguardarsi la salute, e che tale programma è parte integrante di una critica e limitazione sociale del modo di produzione industriale». Coerente con queste idee, quando Illich venne colpito dal tumore, che gli deturpò il viso, saputo che un’operazione avrebbe rischiato di compromettere la capacità di parlare, preferì convivere con “la sua mortalità”, come scrisse, utilizzando tecniche della medicina tradizionale messicana e fumando oppio per lenire il dolore.