Economia

Neuroeconomia: qualche nota esplicativa

(di Ferdinando Zamprogno, Massimo Cocchi, Alfredo De Filippo, Alessandro Scuotto, Lucio Tonello, Andrea Carta, Glenda Cappello and Fabio Gabrielli)

Se qualcuno avesse detto a Charles Darwin che alla fine del XX secolo sarebbe nata una nuova disciplina chiamata “neuroeconomia”, certamente non ci avrebbe creduto. Ma nel 1872 veniva dato alle stampe L’ espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, per cui inconsapevolmente Darwin fu tra coloro che ne resero possibile, molto tempo dopo, lo sviluppo. Certo non poteva conoscere le recenti scoperte delle neuroscienze o della neurobiologia e, quindi, alcune sue argomentazioni furono successivamente meglio chiarite, ma ciò che scrisse rimane rivoluzionario e di grande impatto concettuale. L’amico Thomas Henry Huxley disse che Darwin fu colui che: “Scoprì una grande verità, calpestata e oltraggiata dai bigotti, e messa in ridicolo da tutto il mondo; e visse abbastanza a lungo per vederla, principalmente grazie ai suoi stessi sforzi, irrefutabilmente consolidata nella scienza, inseparabilmente incorporata nei comuni pensieri dell’uomo, odiata e temuta solo da coloro che la vorrebbero oltraggiare ma non osano farlo[1]. La teoria darwiniana ha molto a che fare con l’economia. Anzi, potremmo dire che la selezione naturale, che “è una teoria dell’adattamento locale ad ambienti che cambiano[2], non può non influenzare l’economia. Prima di Darwin, anche gli economisti mettevano in evidenza la tendenza degli individui a perseguire i propri interessi, senza tuttavia riconoscere che tale propensione derivava dall’assicurare il mantenimento dei propri geni nelle generazioni future.

Dunque, cos’è la neuroeconomia?

In primis, la neuroeconomia[3], almeno dal punto di vista storico, molto meno su quello applicativo, non va confusa con l’economia comportamentale (Behavioral Economics): la prima germina dall’incontro tra economia e neuroscienze, la seconda da quello tra psicologia sperimentale ed economia (“Ricerca Comportamentale in Presa di Decisione”). Sul piano reale, sappiamo bene che, alla luce delle tecniche di neuroimmagine, qualsiasi approccio sperimentale non può prescindere dalla lettura delle dinamiche dei circuiti neurali.

I più sono concordi nel ritenere che la neuroeconomia nasca attorno agli anni Settanta del secolo scorso, allorché alcuni neuro scienziati e psicologi cominciarono a porsi la questione del ruolo delle emozioni nel processo decisionale e a mettere in discussione la teoria economica neoclassica basata sul presupposto che le decisioni degli individui, che affrontano gli aspetti economici della vita, siano razionali, soggetti forti[4], insomma. In particolare, negli anni Novanta, gli studi sulle emozioni di Le Doux, Damasio, Rolls, Pansksepp hanno prodotto una sorta di riorientamento gestaltico: le emozioni non sono più studiate sul versante dell’esperienza soggettiva, ma sulla base delle funzioni motivazionali e degli effetti sul comportamento. Insomma, quanto processi emotivi come la rabbia, la paura, il disgusto, ecc. incidono sul comportamento, in senso attrattivo o repulsivo, ripetitivo o evitante?

Per entrare nel dettaglio – pur nei limiti dello spazio che ci è concesso e senza pretese “specialistiche”, vista la trasversalità del contributo -, i modelli economici classici prevedevano che un soggetto fosse perfettamente in grado di stabilire un ordine di preferenze e di elaborare aspettative facendo ricorso al calcolo delle probabilità, prevedendo anche gli effetti delle sue azioni.

Il punto di svolta della scienza economica si ebbe dopo la pubblicazione nel 1944 di The Theory of game and economic behavior di John Von Neumann[5]. Da questo momento la teoria economica subirà rilevanti innovazioni. Per la prima volta, il comportamento di ogni individuo viene descritto come dipendente, sia direttamente, sia indirettamente, dal comportamento degli altri individui, con la conseguente indagine concentrata sul processo di formazione delle decisioni e del comportamento razionale nei processi sociali.

Ma cosa significa comportamento razionale?

Oskar Morgenstern ne da una definizione molto semplice: “Quali che siano le diversità tra le varie scuole, tutti sembrano concordare in ciò: il soggetto economico e l’impresa si comporta razionalmente se agisce

in modo da giungere a un “massimo” di utilità o di guadagno, oppure, il che è lo stesso, a un “minimo” di sforzo o di costo[6].

Von Neumann e Morgenstern precisarono il concetto attraverso la formulazione degli “assiomi dell’ utilità attesa”. Desideri e credenze, che sono i termini di un processo cognitivo per giungere ad una scelta, vengono sintetizzati in ordinamenti di preferenze e funzioni di probabilità. Quasi tutte le nostre decisioni hanno, tuttavia, un certo grado di incertezza perciò la teoria della decisione si basa su “lotterie” del tipo VA = (px +(1-p)y).

Ora, nel corso degli ultimi decenni la teoria dell’utilità attesa è stata messa in discussione, laddove si è constatato che il comportamento reale degli individui non corrisponde a quello dettato dalla teoria.

L’economista francese Maurice Allais, ad esempio, attraverso il noto “paradosso di Allais” descritto nel 1952 (che gli valse il premio Nobel per l’economia), rilevò che a volte le persone prendono le decisioni senza seguire la regola della massima utilità. L’esperimento (diventato famoso perché alcuni autorevoli matematici ed economisti, come Savage, caddero in errore) prevedeva di rispondere ad un questionario dove venivano richieste due scelte;

la prima (A) comprendeva due lotterie:

  • Probabilità del 10% di vincere 1 milione, 89% di vincere 1 milione e 1% di vincere un milione;
  • Probabilità del 10% di vincere 5 milioni, 89% di vincere 1 milione e 1% di non vincere nulla;

la seconda (B) comprendeva due lotterie:

  • Probabilità del 10% di vincere 5 milioni e 90% di non vincere nulla;
  • Probabilità del 11% di vincere 1 milione e 89% di non vincere nulla;

Dall’esito dell’esperimento si è notato che molti tendevano a preferire l’opzione (1) alla (2), anche se l’utilità attesa della (2) è maggiore della (1) – diversa sensibilità delle persone rispetto alla “certezza” e “all’avversità al rischio” – e la opzione (3) alla (4) con conseguente violazione dell’ assioma di indipendenza.

Allais, dunque, riuscì a dimostrare che il modello di Von Neumann e Morgenstern non rappresentava pienamente la percezione del rischio, in quanto spesso viene alterato da aspetti psicologici.

Successivamente, Ellsberg[7] evidenziò numerose anomalie della teoria dell’utilità attesa dimostrando che il concetto di probabilità non ricomprende interamente quello di incertezza.

Ellsberg propose un esperimento – chiamato paradosso di Elsberg – che prevedeva due urne all’interno delle quali c’erano biglie rosse e nere. La prima urna conteneva 100 biglie ma il numero di biglie rosse e nere non era noto. La seconda urna, invece, conteneva 50 biglie rosse e 50 biglie nere. La lotteria prevedeva che se si fosse puntato sul rosso e fosse stata estratta una biglia rossa, la vincita sarebbe stata di 100 dollari ed analogamente nel caso di una biglia di colore nero. Se, tuttavia, la puntata fosse stata effettuata sul colore sbagliato, non si sarebbe vinto nulla.

La prima domanda era banale: su quale colore avreste puntato in ognuna delle due urne ?

La maggior parte degli individui rispose indifferentemente tra rosso (r) e nero (n) per entrambe le urne, il che significava che la probabilità valutata era la medesima per entrambe. In effetti:

prima urna: p(r1) = p(n1) = 50%

seconda urna: p(r2) = p(n2) = 50%

La seconda domanda, invece, era di questo tipo: su quale urna avreste preferito estrarre una biglia rossa (o nera): sulla prima o sulla seconda?

Qui molti individui non rispondevano che la cosa fosse indifferente: preferivano la seconda contraddicendo la scelta iniziale che prevedeva indifferenza tra la prima e la seconda urna.

Questi e molti altri esperimenti fecero sì che la ricerca cognitiva rivolgesse la sua attenzione in particolare sulle anomalie della scelta razionale e consentirono che il paradigma dell’utilità attesa venisse riveduto in modo tale da tenere conto soprattutto degli elementi irrazionali del comportamento umano.

In effetti, come recentemente è stato affermato[8]: “[….]Il cervello cerca di trovare logica e significato anche in situazioni che ne sono prive o in risposta a messaggi che, senza raggiungere il lobo del linguaggio, arrivano al lobo destro il quale, da solo, può innescare risposte comportamentali o emotive… l’irrazionale, dal punto di vista del funzionamento dei circuiti nervosi, ha la stessa nobiltà di origine razionale, si tratta in entrambi i casi di attività cerebrale, frutto dell’attività elettrica di neuroni, della produzione di mediatori chimici, dell’attivazione di catene molecolari o della produzione di ormoni. L’irrazionale non è un errore cerebrale dovuto ad un malfunzionamento delle cellule nervose o una qualche mutazione genetica correggibile con i trucchi della biologia molecolare. Esso deriva da un funzionamento cerebrale del tutto fisiologico che l’evoluzione, con i lunghi tempi della sua saggezza e il confronto continuo con l’ambiente, non ha ritenuto opportuno cambiare come fosse una proprietà essenziale per l’adattamento e quindi per la sopravvivenza…. Senza addentrarmi nei problemi dell’evoluzione, considero l’irrazionale un necessario arricchimento della vita, un ridimensionamento che colloca l’uomo nell’armonia degli altri esseri viventi e che lo distingue dalla precisione delle macchine. L’irrazionalità è alla base dell’anima, nel senso della complessità e della creatività del pensiero…”.

Ma torniamo alla funzione di utilità. Gli elementi che influiscono in misura preponderante nel comportamento umano possono essere schematicamente sintetizzati in tre punti: le attese, le credenze e le motivazioni.

Ora, la funzione di utilità, come abbiamo precisato, prevede un insieme di aspettative razionali che si discostano dal sistema delle attese, in quanto i soggetti utilizzano differenti strategie più o meno efficienti per risolvere velocemente vari problemi o per prendere decisioni.

E tale comportamento si determina a causa della complessità dell’ambiente in cui operano gli individui, dalla difficoltà se non dalla oggettiva impossibilità di prevedere e valutare tutte le alternative, e dal fatto che la mente umana non funziona per assiomi ma per convincimenti e interpretazioni[9].

Spesso siamo portati a ritenere che le persone scelgano in base a costi e benefici di ogni alternativa e che più alternative ci siano, maggiore sia la probabilità di scegliere quella migliore. Si trovano sovente moltissimi esercizi commerciali e supermercati con una quantità notevole di prodotti: i proprietari pensano che così facendo possano incrementare le loro vendite. Sembra vero, invece, il contrario, perché la mente umana ha un limite di elaborazione delle informazioni e di memoria a breve termine; questo limite viene indicato nel numero sette dai ricercatori, con uno scostamento variabile di più o meno due.

Su questo tema si è scritto molto ma valga per tutti la seguente considerazione: “Viviamo nell’era del cosiddetto paradosso della scelta: preferiamo avere il maggior numero possibile di opzioni, perché ciò esalta e appaga il nostro sentimento di libertà e la nostra convinzione di poter decidere cosa fa al nostro caso, ma nel contempo l’eccesso di opzioni ci espone a dubbi e conflitti[10]”.

Accade poi che molte decisioni vengano prese avvalendosi del sistema intuitivo che funziona attraverso semplici meccanismi (regola del pollice o euristiche). Questo sistema è molto veloce ed efficiente ma non tollera il sovraccarico di informazioni. Tuttavia, quando le informazioni sono scarse o addirittura nulle, il cervello tende ad “aggiustare le cose”. Gigerenzer, nel descrivere alcune particolarità del punto cieco del sistema visivo, ha messo in evidenza che:”Il cervello “riempie” il punto cieco con qualche buona ipotesi“ …Un buon sistema percettivo deve andare oltre l’informazione ricevuta, deve “inventare” delle cose. Il cervello vede più degli occhi; intelligenza significa fare scommesse, correre dei rischi”.[11]

Quando prendiamo decisioni che hanno, ad esempio, risvolti economici, mente emotiva e mente cognitiva interagiscono tra loro[12]. Ma spesso la mente emotiva si avvia prima, per cui, di fronte ad una scelta, l’emozione orienta la decisione prima ancora che si attivi la corteccia prefrontale (considerata sede del pensiero razionale). Perciò le emozioni sono ritenute una componente essenziale della decisione, qualcosa di cui il cervello non può fare a meno, quindi non un fattore di disturbo o che allontana dalla scelta più razionale. “Il miglior risultato decisionale si ottiene dunque utilizzando contemporaneamente e in maniera sinergica la componente emotiva e consapevole del cervello. Dobbiamo pensare e sentire, ovvero sentire e pensare[13].

Ma decidere, termine che deriva dal latino de-cidere – “tagliare con la spada”[14], porta con se l’ansia di non aver fatto la scelta migliore e, quindi, il rimpianto di aver perso delle opportunità.

Motterlini e Guala, che riprendono i concetti enunciati da Kahneman, distinguono le decisioni intuitive da quelle ragionate: le prime sono quelle prese in modo rapido e inconscio e appartengono ad un sistema cognitivo automatico, che spesso causa errori sistematici; le ultime, invece, sono prese in modo conscio, lento, controllato, impegnativo, e appartengono al sistema cognitivo retto da regole[15].

Molti neuro-scienziati sono concordi nel ritenere che le emozioni sono essenziali anche per la sopravvivenza di un organismo e, quindi, sono preservate nell’evoluzione.

Ma come entrano in gioco le emozioni nel comportamento economico?

Antonio Damasio, sostiene che:“Tutti gli organismi viventi, dall’umile ameba all’essere umano, nascono dotati di meccanismi progettati per risolvere automaticamente, senza bisogno di alcun ragionamento, i fondamentali problemi della vita, e precisamente: il reperimento di fonti di energia; l’incorporazione e la trasformazione di quell’energia nell’organismo; la conservazione di un equilibrio chimico interno compatibile con la vita; la conservazione della struttura dell’organismo mediante la riparazione dei danni prodotti dall’usura; e la difesa da agenti esterni causa di malattia e danni fisici…. Nel corso dell’evoluzione, la dotazione innata e automatizzata per il controllo dei processi vitali – in altre parole, la macchina omeostatica – divenne sofisticatissima”[16].

Damasio immagina la macchina dell’omeostasi anche come “un grande, ramificatissimo albero di fenomeni deputati alla regolazione automatica della vita”. Sui rami più bassi egli pone il processo del metabolismo, i riflessi fondamentali e il sistema immunitario, mentre sui rami intermedi colloca i comportamenti associati all’idea del piacere o del dolore e a livello immediatamente superiore, impulsi e motivazioni. Più in alto, ma non ancora in cima, mette le emozioni vere e proprie: nel punto più in alto, i sentimenti.

Quindi, il sistema emozionale è una componente essenziale ed evoluta dell’omeostasi. Le emozioni hanno, di conseguenza, a che fare, direttamente o indirettamente, con la salvaguardia dell’organismo. Damasio aggiunge che: “Le emozioni vere e proprie influenzano gli appetiti – e viceversa. Per esempio, l’emozione paura inibisce impulsi come la fame e il sesso, e altrettanto fanno la tristezza e il disgusto. Al contrario, la felicità promuove gli impulsi della fame e del sesso. La soddisfazione degli impulsi, invece – fame, sete e sesso, per esempio – induce felicità; soffocare la soddisfazione di quegli impulsi, invece, può causare rabbia, disperazione o tristezza…..e costa molta energia”.

Molti sono dell’opinione che gli esseri umani non si siano evoluti per essere felici ma per sopravvivere e riprodursi, tuttavia, come abbiamo visto, il mantenimento dell’omeostasi induce felicità. Questo significa che i modelli di comportamento economico dovrebbero tenere conto dell’omeostasi. Solitamente gli economisti considerano le preferenze come punto di inizio del comportamento umano ed il comportamento stesso come punto di arrivo. Ma la neurobiologia non è d’accordo, perché considera il comportamento manifesto come uno dei molti sistemi possibili per mantenere l’omeostasi.

E’ stato dimostrato che in alcune occasioni in cui le persone sono tenute a svolgere prestazioni impegnative, il pensiero razionale può essere addirittura controproducente. Ignorare la saggezza delle proprie emozioni non solo rende più lenta la scelta, ma può causare quello che i ricercatori definiscono uno “choking” , cioè un meccanismo per il quale ci si mette ad analizzare in maniera eccessiva ogni azione che si sta compiendo[17].

Ma gli economisti hanno sottovalutato anche il potere dell’inconscio. Attraverso un esperimento si è compreso che il cervello è sede di “un insieme di ingegnosi meccanismi inconsci che monitorano costantemente il mondo attorno a noi, e gli assegnano valori che guidano la nostra attenzione e formano il nostro pensiero[18]”.

poiché noi siamo sempre insieme alla facoltà di percezione, e noi non siamo una parte dell’anima, ma tutta l’anima.

E’ riconosciuto, infatti, che una quantità elevata di operazioni mentali avviene senza che ne siamo consapevoli (a parte il “solito” Freud, troviamo echi nelle Enneadi di Plotino[19], a proposito della terza ipostasi, l’anima, e, soprattutto, in Leibniz[20] che, in contrapposizione a Cartesio, riteneva che esistessero pensieri di cui gli esseri umani non sono coscienti).

Il problema, come sostiene Dehaene, è che: “Dimenticando lo stupefacente potere dell’inconscio, tendiamo ad ascrivere troppo le nostre azioni a decisioni coscienti e, quindi, contraddistinguiamo erroneamente la nostra coscienza come la principale interprete della nostra vita quotidiana”. Dehaene racconta di alcuni recenti esperimenti condotti dall’olandese ApDijksterhuis, in cui un gruppo di persone doveva scegliere tra diversi tipi di marche di prodotti. A metà dei partecipanti era consentito pensare consciamente per almeno 4 minuti mentre all’altra metà non era consentito. Il risultato fu che il secondo gruppo sceglieva prodotti migliori del gruppo la cui scelta era stata cosciente. Non solo, ma le persone che riferivano di essersi sforzate di più in modo cosciente nel prendere la decisioni, alla fine erano le meno soddisfatte dei loro acquisti.

La neuroeconomia, dunque, tenta di correggere la teoria economica classica attraverso principi neuroscientifici. Anche Kahneman, che ha ricevuto il premio Nobel per l’economia nel 2002 per le sue ricerche condotte con Amos Tversky sul processo decisionale, propone una teoria delle scelte economiche partendo da alcuni aspetti psicologici e neurologici.

Kahneman definisce due tipologie di sistemi mentali, il pensiero veloce e il pensiero lento e adotta i termini (sistema 1 e sistema 2) coniati dapprima dagli psicologi Keith Stanovich e Richard West.

Il sistema 1 farebbe riferimento all’automatismo e spontaneità. Consisterebbe nell’area caratterizzata dallo strato più primitivo del cervello, spesso detto anche “rettiliano”, dove vengono elaborati gli impulsi istintivi e reazioni emotive primitive e che controlla reazioni e movimenti standardizzati ricevendo stimoli sensoriali.

Il sistema 2, che, invece, consiste principalmente nella neocorteccia, elabora i processi mentali e il ragionamento cognitivo; permette i calcoli complessi e il pensiero astratto; pianifica strategie e programmi di lungo termine; è implicato nella scelta e nella concentrazione.

Kahneman e Tverskysisi chiedono dunque: “Quali regole governano le scelte delle persone quando devono decidere tra vari tipi di azzardi semplici e tra azzardi e cose sicure ?”

La risposta viene riportata nel 1979 sulla rivista Econometrica in una articolo intitolato “Prospect Theory: An Analysis of Decision under Risk”, un modello della decisione differente da quello dell’utilità attesa. E’ una teoria che descrive le scelte reali più che definire quelle razionali.

Giova osservare che la Prospect Theory viene messa in campo dopo la confutazione delle intuizioni di Daniel Bernoulli che nel 1738, nei Commentarii Academiae Scientiarum Imperialis Petropolitanae, aveva teorizzato una funzione che collegava l’intensità psicologica con la grandezza fisica dello stimolo. Bernoulli, in sostanza, proponeva di sostituire al valore monetario l’utilità che tale valore procura al soggetto decisore. Infatti, scrive: “Un guadagno di mille ducati ha più valore per un povero che per un ricco, nonostante entrambi guadagnino la stessa quantità”.

Per Bernoulli utilità significava vari livelli di valore, quindi non solo denaro ma qualsiasi cosa che potesse incrementare in qualche modo la felicità. La funzione di utilità logaritmica che ricava si basava sul seguente assunto: se in un determinato momento un soggetto possiede una certa quantità di denaro e a questa ne aggiunge un’altra, il valore relativo di questo incremento è direttamente proporzionale all’incremento stesso e inversamente proporzionale al patrimonio iniziale.

Come detto, Kahneman e Tversky evidenziano un errore nella teoria di Bernoulli laddove assume che “l’utilità della ricchezza sia ciò che rende le persone più o meno felici”.

In realtà, la felicità di cui parlava Bernoulli dipende anche dalle variazione di ricchezza in un preciso momento, rispetto a determinati stati di ricchezza che definiscono il loro punto di riferimento, cioè “allo stato precedente rispetto al quale sono valutati guadagni e perdite”.

Kahneman e Tversky concludono che la Prospect Theory sta in questo: “Nelle opzioni miste, dove sono possibili sia una perdita sia un guadagno, l’avversione alla perdita induce scelte estremamente avverse al rischio mentre nelle opzioni negative, dove una perdita sicura è messa a confronto con una perdita più grande che è solo probabile, una diminuita sensibilità induce a cercare il rischio”.

Con i loro studi, questi due psicologi hanno così indagato e approfondito il comportamento umano nelle decisioni in chiave neuro scientifica dando spessore alla nuova disciplina, la neuroeconomia, che si propone, appunto, di analizzare le basi neurologiche di alcuni tipi di comportamento.

Oggi la ricerca di neuroeconomia si avvale per lo più delle tecnologie di neuroimaging per registrare l’attivazione delle aree cerebrali nell’esecuzione di un compito mentale o di un azione.

I primi esperimenti di neuro-immagine furono condotti in Svezia e negli Stati Uniti negli anni Ottanta del secolo scorso con l’ausilio della PET (Positron Emission Tomography) e, successivamente, con la fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) che ha una risoluzione spaziale e temporale di gran lunga superiore.

L’uso e la validità di queste tecniche è, tuttavia, molto controverso, e rientra nel più generale dibattito tra neuromaniaci e neurofobici[21].

Brian Castellani dell’ Ohio University (College of Medicine), per esempio, ammonisce come: “Viviamo nell’epoca del cervello. Qualsiasi cosa è stata ridotta agli aspetti genetici e biochimici, dal comportamento criminale agli stili di vita preferiti.[22]

Legrenzi e Umiltà, a loro volta, avvertono che gli studi e gli esperimenti di neuroimmagine sono da trattare con cautela: “Il pensare di essere in grado di manipolare sperimentalmente i processi mentali che intervengono nell’esecuzione di un compito è un’idea eccessivamente ottimistica.[23]

Di contro, ci sono posizioni che, a nostro parere, sembrano più equilibrate, nella misura in cui riconoscono nell’agire umano una combinazione di genetica e ambiente, su cui le neuroscienze offrono comunque un contributo ineludibile[24].

Insomma, sembra riproporsi, sia pure in chiave più evoluta, il classico dibattito tra Naturwissenschaften (linguaggio oggettivistico  e impersonale della natura) e Geisteswissenschaften (linguaggio creativo ed esistenziale dello spirito).

Certo è che la neuroeconomia, pur con inevitabili limiti tecnici e metodologici, non potrà fare a meno delle nuove tecnologie di indagine neurologica, e dovrà anche essere in grado di prendere in considerazione, oltre il dato biologico in sé, anche il rapporto tra questo e l’organismo nel suo complesso.

In altri termini, come dice Morin: “ I problemi importanti sono sempre complessi e spesso sono contraddittori. Bisogna quindi affrontarli globalmente, con saperi diversi che debbono interagire tra di loro[25].

Note

[1]T.H HUXLEY, Necrologio, Nature, 27.04.1882.

[2] S. J. GOULD, Questa idea della vita,Codice Edizioni, Torino 2015, pag.39

[3]C. F. CAMERER, G. LOEWENSTEIN & D. PRELEC, (2004). Neuroeconomics: Why economics needs brains. The Scandinavian Journal of Economics, 106 (3), 555–579; C. F. CAMERER, G. LOEWENSTEIN & D. PRELEC Prelec (2005). Neuroeconomics: How Neuroscience Can Inform Economics. Journal of Economic Literature, 43 (1), 9–64.

[4] Sulla natura del soggetto, alla luce delle nuove acquisizioni delle scienze psicologiche e delle neuroscienze, si veda, tra gli altri, M. DI FRANCESCO, M. MARAFFA, a cura di, Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, B. Mondadori, Milano 2009.

[5]J. L. VON NEUMANN, di origine ebreo-ungherese e naturalizzato statunitense col nome di John, è stato un matematico molto apprezzato, scampato alle persecuzioni naziste diede inizio alla cosiddetta Computer science. Egli pensava che il cervello fosse come un computer cioè una macchina che processa informazioni.

[6]O. MORGENSTERN, Teoria dei giochi, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2013.

[7] D. ELLSBERG (1961). Risk, ambiguity and the Savage Axioms.Quarterly Journal of Economics 75 (4): 643–669. doi:10.2307/1884324

[8] L. MAFFEI, La libertà di essere diversi, il Mulino, Bologna2011, pp.51-52.

[9] A. ANTONIETTI – M. BALCONI, Mente ed Economia, il Mulino, Bologna 2008.

[10]L. GIAMPIERO, Troppa scelta, Apogeo, Milano 2012, pag.1.

[11]G. GIGERENZER, Decisioni intuitive, tr, it. R. Cortina, Milano 2009, pp. 41-43.

[12]PLATONE, nel Timeo, 89 c-e, teorizza tre parti dell’anima separando la parte intellettuale o razionale da quella irascibile (thymoeides) e concupiscibile. Nel Fedro, 246a e sgg, paragona l’anima umana ad una biga, che un auriga (anima razionale) conduce verso il mondo iperuranio, spingendo innanzi il cavallo docile (anima irascibile) e quello indocile (anima concupiscibile): symphytōidynameihypopterouzeugous te kaiēniochou,“potenza d’insieme di una pariglia alata e di un auriga” (Fedro, 245 a. Su questo tema, risulta interessante la lettura di. G. LIMONE, Dal mito platonico della biga alata alla colomba di Kant: per una rivoluzione nel rapporto tra corpo e conoscenza, in F. RICCI (a cura di), Il corpo nell’immaginario. Simboliche politiche e del sacro, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012).

[13] G. LUGLI, Neuroshopping, Apogeo, Milano 2010, p.78.

[14] R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, tr. it. Adelphi, Milano 1983, p.300.

[15]M.MOTTERLINI – F.GUALA, Mente Mercati Decisioni, Università Bocconi Editore, Milano 2005, p.64 e sgg, ritengono che il sistema cognitivo intuitivo sarebbe fornito di “un pilota automatico di cui ci ha dotato l’evoluzione per consentirci di gestire le sfide dell’ambiente scegliendo il corso d’azione più adatto alla nostra sopravvivenza, in modo rapido e sulla scorta di poche informazioni”.

[16]A. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, tr. it. Adelphi, Milano 2003, pp.43-49.

[17] La questione è trattata da J. LEHRER, Come decidiamo, tr. it. Codice Edizioni, Torino 2009.

[18]S.DEHAENE, Coscienza e cervello, tr. it. R. Cortina, Milano 2014, descrive un esperimento dove ai partecipanti era stato chiesto di stringere quanto più potevano una maniglia per guadagnare denaro. Si è verificato che quando per una frazione di secondo si proiettava un’immagine che diceva che si sarebbe vinta una sterlina anziché un penny, la maniglia veniva stretta con più forza. E questo succedeva anche quando l’immagine veniva mascherata e i partecipanti erano all’oscuro di quale moneta fosse presentata loro. Si è capito perciò che un immagine inconscia può attivare i circuiti della motivazione, dell’emozione e della ricompensa.

[19]“Non tutto ciò che è nell’anima è immediatamente percepibile, ma raggiunge noi solo quando raggiunge la percezione; se qualcosa è in atto ma non comunica con la facoltà di percezione, allora non è pervenuta all’anima intera. Dunque non lo conosciamo ancora, poiché noi siamo   sempre insieme alla facoltà di percezione, e noi non siamo una parte dell’anima, ma tutta l’anima” ( V, 1 [10], 12, 5-10). Su questo tema, tra gli altri, cfr. P. HADOT, Les niveaux de conscience dans les états mystiques selon Plotin, in «Journal de Psychologienormale et pathologique», 1 (1980), pp. 243-266, spec. 247-252.

[20]Ger. Ph., vol. VII, p. 555. Su questo tema, cfr. G. MICHELETTI,  I pensieri sordi e l’inconscio, Borla, Roma 1991.

[21]G. CORBELLINI (2011).Neuromania e neurofobia, Darwin, 41, 74-81

[22] B. CASTELLANI (2000).Pathological Gambling: The Making of a Medical Problem. Albany New York: State University of New York Press, P. 194.

[23] P. LEGRENZI-C. UMILTA’, Perché abbiamo bisogno dell’anima, il Mulino, Bologna 2014. Gli Autori mettono in guardia anche da facili interpretazioni, che spesso vengono proposte al pubblico, delle mappe colorate del cervello sostenendo che non sia possibile “vedere direttamente il cervello che lavora” con l’impiego delle neuroimmagini.

[24] Su questo tema, cfr., tra gli altri,G. CORBELLINI-E. SIRGIOVANNI, Tutta colpa del cervello. Un’introduzione alla neuroetica, Mondadori Università, Milano 2013; particolarmente equilibrato appare anche: S.AGLIOTI –G.BERLUCCHI, Neurofobia. Chi ha paura del cervello?, R. Cortina, Milano 2013. Gli Autori rimarcano come, al di là delle posizioni ideologiche, le neuroscienze possano offrirci una visioneuna visione equilibrata della natura umana, che prende in giusta considerazione le radici biologiche di comportamenti complessi e per lungo tempo preclusi all’indagine sperimentale, ivi compreso, ovviamente, il contributo delle tecniche di neuroimmagine.

[25] E. MORIN, Introduzione a una politica dell’uomo, tr. it. Meltemi, Roma 2000. Per quanto riguarda la differenza tra complicato e complesso: “Ciò che è complicato, una volta spiegato, può venire reso semplice; ciò che è complesso, invece, non può venire ricondotto agli elementi semplici che lo costituiscono senza che si perda, irrimediabilmente, qualcosa di essenziale. La parola complesso fa infatti riferimento all’incrocio, al tessuto. E il tessuto, pur essendo costituito di parti (i fili, la trama, l’ordito), possiede caratteristiche che le singole parti non hanno, e che solo limitatamente possono venire “spiegate” disfacendo l’intreccio” (G. ZANARINI, Caos e complessità, a cura del Sissa-Isas Napoli, CUEN, 1996).