Economia

Parole antiche per capire il presente

(di Nicola Sguera)

Il 15 gennaio si è svolta, in oltre duecento Licei italiani, la seconda edizione de La notte nazionale del Liceo Classico. Nell’ultimo decennio il Classico ha visto una netta contrazione dei propri iscritti che ne mette in discussione la stessa sopravvivenza nel medio periodo. Ha ancora senso lo studio del greco e del latino? Questa la domanda ricorrente. Personalmente la risposta è scontata. Non solo perché da quella scuola provengo e in quella scuola attualmente insegno, ma perché buona parte degli strumenti di comprensione del mondo li ho ricevuti dai classici.

Anche quanto apparentemente di più lontano dalla classicità, come la teoria politica contemporanea, è debitrice di lemmi e concetti a quel mondo. Questa caratteristica, lungi dall’essersi affievolita, pare crescere nel tempo, costituendo, dunque, un campo privilegiato per l’indagine della permanenza del classico. Il rapporto in ambito politico può modularsi in due maniere diverse. Il classico può divenire:

  1. il totalmente altro che proprio in virtù della sua diversità radicale consente uno sguardo straniato su un presente opaco, e dunque formidabile strumento di comprensione che ci consente di “uscire” dal nostro presente per guardarlo dall’alto;

  2. oppure strumento operativo da attualizzare, attraverso un processo di innesto in un mondo che presenta bisogni nuovi.

Partenza obbligata di questo percorso non può essere che la casa in campagna dove Niccolò Machiavelli venne esiliato dai Medici nel 1513, per la sua collaborazione con la Repubblica fiorentina. Qui il segretario, costretto forzosamente all’ozio, elaborò i fondamenti della teoria politica moderna, confluiti nel De principatibus e ne I discorsi sulla prima deca di Tito Livio. Nelle sue giornate il senso è tutto racchiuso nel momento epifanico di confronto con gli antichi, che assume contorni addirittura sacrali.

Machiavelli “usa” i classici per capire il suo tempo drammatico, quello in cui l’Italia è corsa da eserciti spagnoli, tedeschi, francesi, per capire se e come sia possibile fondare uno Stato forte nella penisola, per cogliere le leggi della storia che fondino un’azione efficace nel presente.

A me pare che tutta la teoria politica novecentesca resti nel solco dell’insegnamento del Segretario fiorentino nel guardare agli antichi come fonte viva di risposte per il presente. Il che non significa che gli antichi sono nostri contemporanei!

Carl Schmitt è un pensatore grandioso, che ci pone enormi problemi, stante l’importanza delle sue intuizioni ma anche la sua adesione convinta al nazismo. Ebbene, per comprendere le epocali trasformazioni in atto nel corso del secolo-belva, chiusasi l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, Schmitt afferma che non può esservi storia di una comunità, storia umana, se non sulla base di radicamento nell’elemento terra. Di tutto ciò è memoria la parola greca νομός. Schmitt è autore prezioso per capire le grandi trasformazioni ancora in atto (la globalizzazione su tutte, con lo stravolgimento delle categorie spaziali). Ma qui mi interessa rimarcare il suo approccio metodologico: la parola-chiave della sua filosofia giuridica e politica è una parola greca che viene “forzata” per capire il presente. E non in una banale attualizzazione (rischio sempre in agguato con i classici), ma per consentire all’osservatore uno sguardo “distante” (perché la vicinanza spesso si impedisce di cogliere ciò che accade). La forza del classico, dunque, risiede proprio nella sua “differenza”, nella sua “distanza” illuminante.

Guardare al mondo greco (non romano!) significa per Hannah Arendt, entrando nella complessità di quel mondo, nella sua stratificazione interna, che contrappone, ad esempio alcuni sofisti e Pericle da una parte, Platone dall’altra, e nella sua relazione con il mondo prima romano poi cristiano, cercare la possibilità di un “nuovo inizio” per la politica, che la fondi non come “necessità” biologica (l’uomo non è per la Arendt  ζῷον πολιτικόν) ma libera scelta, sul modello dell’arte, che compie, realizza l’esistenza umana, elevandola. E, dunque, compito in linea di principio per e di tutti, non solo di presunti detentori di una tèknè politikè, reggitori-filosofi o “tecnici” che siano. Dunque, l’operazione della Arendt è attivare una polarità del mondo classico, sconfitta e depotenziata dalla corrente che, con una semplificazione didattica, potrei definire platonico-romana-cristiana. L’Atene cui guarda la pensatrice ebrea-tedesca non è quella dell’Accademia ma quella che Platone contestò nella Politeia. È la possibile rifondazione di un luogo politico che parte non dalla pistis ma dalla doxa, perché fondata sulla pluralità degli uomini e non sull’unicità dell’Uomo.

Toni Negri, che fa della biopolitica il suo campo d’indagine privilegiato, nell’ambizioso tentativo di riscrivere un marxismo adeguato alla tarda modernità, coniugandolo, dunque, con le intuizioni di Foucault, intitola il primo libro della sua fortunata trilogia Impero. Dunque, un’altra categoria classica che gli permette di cogliere la strutturazione di un potere planetario e la formazione dialettica di un contropotere, anch’esso planetario (la spinoziana “moltitudine”). Polibio, Sallustio, Tucidide sono solo alcuni degli autori di cui Negri si serve per costruire la sua filosofia della prassi. Potremmo dire, con un gioco di parole, che in questo caso il classico diventa strumento della lotta “di classe”.

Tutti riconoscono in Homo sacer l’opera chiave della magmatica produzione di Giorgio Agamben. Egli definizione di “Homo sacer” dal grammatico latino Festo: «homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidii non damnatur» («colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio»). Da ciò si evince la violenza connaturata del diritto: la nuda vita è portatrice del bando sovrano, ovvero del nesso tra violenza e diritto perché è in quanto tale colpevole. Si tratta della “nuda vita”, secondo l’enigmatica espressione adottata da Walter Benjamin. Un esempio è dato dagli ebrei nella Germania nazista: gli ebrei erano colpevoli perché erano ebrei, in questo senso diventavano anche sacri e di conseguenza uccidibili. La nuda vita in quanto sacra viene deportata nel campo (di sterminio): il campo così inteso (come paradigma biopolitico del moderno) è lo spazio in cui si manifesta appieno la sacertà della vita. Ma, chiediamoci, i migranti che vengono lasciati morire nelle acque del Mediterraneo, non sono anch’essi “nuda vita”, “homines sacri”? Ancora una volta, la prospettiva straniante del classico ci consente di cogliere i grandi processi storici e politici della modernità e della tarda modernità. Agamben, in assoluto, è l’autore in cui questo impianto metodologico viene spinto alle massime conseguenze.

Le parole antiche, proprio in virtù della loro antichità “straniante”, ci aiutano a capire i fenomeni più complessi del presente. La perdita del latino e del greco (e della cultura che quelle lingue espressero) ci priverebbe di strumenti preziosi di analisi della realtà