Economia

Reputation Risk

di Alessio Rombolotti
(Twitter: alexrombolotti)

Il 2012  è stato decisamente un anno di grandi scandali finanziari. Sono state coinvolte alcune fra le maggiori istituzioni del globo, Goldman Sachs, HSBC, Standard Chartered, UBS, Morgan Stanley, JP Morgan Chase e Barclays con la manipolazione dei tassi Libor e il 2013 ci ha subito seguito servendoci la vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Questi avvenimenti avranno un effetto sulla reputazione delle società coinvolte.

In questo articolo diamo uno sguardo ai metodi utilizzati per quantificare il Rischio di Reputazione.

Nell’economia moderna gli assets intangibili hanno sempre più importanza competitiva per la ragione che, contrariamente a quelli tangibili, sempre più alla portata di tutti, essi non sono standardizzabili e replicabili. La reputazione è un’ attività intangibile, con una natura molto particolare che rende difficoltosa la sua misurabilità; per l’ importanza che ricopre è tuttavia opportuno conoscerne il valore e cercare di mantenerlo intatto nel tempo. La particolarità della reputazione è la sua dipendenza non tanto dalle nostre azioni ma dalla percezione che i soggetti hanno delle nostre azioni. A differenza del marchio, che è costruito e gestito direttamente dalla società proprietaria, la reputazione viene attribuita dai terzi che osservano il nostro comportamento in modo differenziale rispetto agli altri attori del mercato.

Garry Honey (professore alla School of Management – University of Southhampton), definisce il rischio di reputazione come la distanza fra i risultati/comportamenti attesi e i risultati/comportamenti effettivi (Figura 1). Questa definizione è appropriata soprattutto per poter misurare il rischio di reputazione quantitativamente; una volta ottenuta la misura del rischio possiamo trasformarla in valori monetari utilizzando dei benchmarks rappresentati da situazioni conosciute. Generalmente si utilizzano interviste, verbali o scritte, agli stakeholders (clienti, fornitori, dipendenti, finanziatori) per conoscere i risultati e i comportamenti attesi mentre quelli effettivi sono rilevati consultando i documenti societari ed effettuando visite di verifica.

Figura 1

Sergio Scandizzo (2011) prende l’intuizione di Honey per sviluppare un modello basato sugli stress-tests. Il procedimento ipotizza scenari diversi per i quali viene misurato il rischio di reputazione; ogni volta che la differenza fra realtà e attese supera una soglia predeterminata si applica uno stress-test relativamente allo scenario in questione. Questo procedimento è sicuramente dispendioso ma permette di analizzare nel dettaglio gli effetti di eventi negativi e di valutare come trarre vantaggio dalle situazioni opposte, vale a dire quando la realtà è migliore delle attese e ci troviamo quindi con un surplus di reputazione.

Molti professionisti del settore sostengono che il rischio di reputazione non abbia un proprio profilo indipendente ma piuttosto sia un rischio derivato da altre tipologie di rischio, per esempio le irregolarità contabili, che sicuramente incrinerebbero la reputazione di una società una volta diffusa la notizia, rientrano nella più ampia categoria dei rischi operativi. La conseguenza della tesi della non-indipendenza implica l’ inutilità di gestire il rischio di reputazione in quanto il framework di controllo dei rischi operativi coprirebbe automaticamente anche quelli con ripercussioni sulla reputazione aziendale. Personalmente sono dell’ opinione che effettivamente la gestione del rischio operativo dovrebbe assicurare l’ azienda contro gli eventi reputazionali ma nei casi in cui vogliamo tenere un focus specifico sul rischio di reputazione dovremo necessariamente enuclearlo dal rischio operativo e utilizzare delle procedure specifiche di lettura.

Altri Metodi di misura della reputazione e del relativo rischio sono basati sulla variazione dei prezzi dei titoli azionari. Le ipotesi di base sono la sensibilità dei prezzi alle notizie con rilievo reputazionale e la preferenza degli investitori per le società con una buona reputazione. Alcuni studi dimostrano che una buona reputazione influisce positivamente sui prezzi indipendentemente dai risultati finanziari (Jones et al.), altri dimostrano che elevati risultati finanziari e un basso profilo di rischio conducono ad una elevata reputazione (Chung et al.).

Anderson e Smith a livello aggregato e Bellini e Grossi a livello della singola società hanno studiato gli affetti delle notizie con un potenziale impatto sui prezzi azionari. La metodologia utilizzata è stata quella di quantificare la variazione dei prezzi in presenza di notizie di rilievo e valutare se le variazioni dei prezzi osservate fossero anomale rispetto alle fluttuazioni attese. Il risultato è rappresentato da un intervallo, positivo o negativo, entro il quale i prezzi possono variare in presenza di notizie di rilievo reputazionale e naturalmente possiamo considerare il punto minimo dell’ intervallo negativo come stima del rischio di reputazione (Figura 2). Anche se la metodologia descritta è applicabile solo alle società quotate è possibile utilizzare i risultati come benchmarks per le aziende private.

Figura 2

Una grandezza che sta assumendo rilevanza nell’ambito della misura della reputazione è il Reputation Equity. Il reputation equity rappresenta il valore di mercato della propria reputazione e viene stimato dal valore di mercato della società a cui viene sottratto il valore di libro del capitale netto e il valore del marchio, il residuo è quindi un surplus che il mercato riconosce e include il valore di quegli assets definiti reputazionali come leadership, capacità innovativa, proprietà intellettuale, presenza sul mercato. Il reputation equity è uno strumento di controllo e di gestione quantitativa del rischio di reputazione che ha una base logica sicuramente intuitiva ma essendo derivato dai valori di mercato bisogna essere molto precisi a depurare i prezzi di quelle componenti derivanti da fattori che possono distorcere l’ informazione fornita sulla reputazione.

Per ultimi vorrei citare alcuni metodi qualitativi di misura della reputazione che si basano su interviste dirette agli stakeholders di una società oppure a persone terze indipendenti e cercano di valutare il livello di reputazione in funzione di punteggi attribuiti alle risposte. Le caratteristiche principali sottoposte all’ attenzione degli intervistati sono la leadership, la cultura aziendale, l’ambiente di lavoro, i prodotti e i servizi offerti, la strategia, l’ innovazione, la responsabilità sociale, i risultati finanziari, l’ attrattività. In questa tipologia i metodi di misurazione più conosciuti sono il Reputation Quotient ideato da Harris-Fombrum, il Reputation Index, Il Fortune’s Most Admired Companies (AMAC) e la sua versione internazionale , il Gobal Most Admired Companies (GMAC) e Il RepTrack Index ideato dal Reputation Institute. Questi metodi sono utilizzati da tempo, spesso a livello giornalistico, cercano di identificare il livello di reputazione di una società ma non sono disegnati per quantificare e controllare il rischio.

Potrebbe sembrare che il problema della reputazione riguardi solo le società oggetto di attenzione dei media ma non è così, ogni soggetto che lavori in una comunità ha interesse, anche per mere ragioni finanziarie, a mantenere un alto livello della propria reputazione e in funzione della complessità dell’ organizzazione è opportuno che adotti strumenti di gestione più o meno sofisticati. Potrebbe sembrare che il carattere aleatorio della reputazione suggerisca l’ inutilità di misurare e controllare il proprio rischio ma non è  così, non solo la curva dell’ esperienza rende sempre più affidabili i risultati ottenuti ma è solo misurando le cose, anche se il risultato comprende un errore di misurazione, che riusciamo a comprenderne il significato e a farle nostre.