Diritto

Stabile Organizzazione: definizione nel contesto nazionale ed internazionale

di Mauro Merola

1. Introduzione

In un contesto di crescente decentramento produttivo e commerciale transnazionale, la nozione di stabile organizzazione è utilizzata, ormai universalmente, per individuare il presupposto soggettivo sufficiente e necessario per l’imposizione di un’attività economica svolta nel territorio di uno Stato da un soggetto residente in altro Stato,  definendo così la sottile linea di demarcazione tra l’operare con uno Stato estero e l’operare in uno Stato estero. La validità di tale orientamento, infatti, è ampiamente riconosciuta sia nelle Convenzioni bilaterali contro le doppie imposizioni sia nelle legislazioni nazionali.

Il tema ha destato sempre grande interesse da parte della dottrina e della prassi. Il fiume d’inchiostro versato sull’argomento non sembra, tuttavia, giustificato alla luce della realtà che appare assai diversa: infatti, gli investimenti produttivi da parte di imprese estere in un altro Paese, in forma di una stabile organizzazione, rappresentano un fenomeno di proporzioni limitate (con l’eccezione di alcuni settori) rispetto all’investimento in forma di una società di capitali autonoma controllata al 100% dall’impresa estera.

Lo scarso interesse all’utilizzo dell’istituto della stabile organizzazione deve essere attribuito al fatto che la stessa sia dotata di una limitata soggettività giuridica; infatti, la responsabilità civile ed amministrativa delle attività riconducibili ad una stabile organizzazione ricade direttamente sulla società madre non residente.

2. Stabile organizzazione: definizione

Il concetto di stabile organizzazione trae origine dal dibattitto relativo alla problematica della doppia imposizione che si è sviluppato intorno agli anni 20 del secolo scorso, quando alcuni economisti individuarono due elementi di collegamento – la fonte, cioè il luogo in cui il reddito era prodotto, oppure la residenza, luogo di percezione e consumo di quel reddito – con il territorio dello Stato, che avrebbero potuto legittimare l’imposizione da parte dello stesso.

Gli studiosi cercarono di trovare una soluzione che limitasse l’imposizione sul reddito d’impresa sussistente nello Stato della fonte e individuarono un compromesso accettabile prevedendo che non tutto il reddito prodotto da un’impresa in uno Stato diverso di quello di residenza potesse essere da questo assoggettato ad imposizione, ma soltanto quella parte prodotta mediante un insieme di mezzi materiali e personali costituenti la soglia minima di collegamento tra il contribuente ed un determinato territorio: la stabile organizzazione.

Per quanto riportato sopra, appare evidente che il concetto di stabile organizzazione (i.e. permanent establishment) occupa, da sempre, un posto di primaria importanza, tanto in ambito interno quanto in ambito internazionale:

  • nella sfera dell’ordinamento interno, in quanto criterio per la localizzazione dei redditi prodotti dalle imprese (e, dunque, per l’attribuzione della soggettività tributaria passiva), nonché per l’individuazione delle correlate norme di determinazione del quantum imponibile;
  • nella sfera del diritto internazionale convenzionale, in quanto criterio di attribuzione della potestà impositiva ai fini dell’eliminazione della doppia imposizione.

2.1. La definizione di stabile organizzazione contenuta nella legislazione italiana

L’ordinamento tributario italiano, fino alla riforma del TUIR ad opera del D.Lgs. n. 344/2003, non contemplava alcuna nozione di stabile organizzazione, per cui le questioni controverse venivano risolte in base alla definizione generale contenuta nel Modello di Convenzione OCSE o sulla base di specifiche Convenzioni contro le doppie imposizioni.

La lacuna è stata rimossa con l’introduzione dell’art. 162 del Testo unico delle imposte sui redditi. Detta norma, infatti, ha introdotto una definizione di stabile organizzazione che, pur riproponendo nell’impostazione generale l’omologa definizione contenuta nell’art. 5 del Modello di Convenzione elaborato dal Comitato per gli Affari fiscali dell’OCSE, assume connotazioni del tutto particolari rispetto alla maggior parte delle Convenzioni contro la doppia imposizione stipulate dall’Italia.

In particolare, il comma 1 dell’art. 162 TUIR ha definito la stabile organizzazione “una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato” mentre il comma 2 ha completato la portata dello stesso comma enunciando un’elencazione in positivo ed in negativo di ipotesi.

Nello specifico, quali ipotesi positive vengono indicate rispettivamente: una sede di direzione, una succursale, un ufficio, un’officina, un laboratorio, una miniera, un giacimento petrolifero o di gas naturale o un altro luogo di estrazione di risorse naturali, anche in zone situate al di fuori delle acque territoriali in cui, conformemente al diritto internazionale consuetudinario ed alla legislazione nazionale relativa all’esplorazione ed allo sfruttamento di risorse naturali, lo Stato può esercitare diritti relativi al fondo del mare, al suo sottosuolo ed alle risorse naturali. Invece, quali ipotesi negative vengono indicate situazioni in grado di configurare attività di carattere ausiliario e/o preparatorio, non costituenti aspetti determinanti dell’attività d’impresa e concorrenti alla realizzazione dell’utile solo in misura marginale.

La precisione dimostrata dal legislatore nel puntualizzare gli ambiti entro cui si concretizza una stabile organizzazione evidenzia limiti e criteri di esercizio della potestà impositiva statale; la stessa viene esercitata attraverso la tassazione dei redditi generati dai soggetti non residenti nel territorio dello Stato, che per questo assume la qualifica di Stato della fonte del reddito: un fatto economico fiscalmente rilevante in presenza, appunto, di una stabile organizzazione.

In questo modo, di conseguenza, viene sancita la possibilità per lo Stato di tassare i redditi di impresa prodotti da un soggetto non residente, a condizione che risulti possibile localizzarne l’ubicazione della fonte nel suo territorio attraverso la configurazione di una stabile organizzazione. Detto istituto è dotato della forza di attrarre i redditi qui prodotti per mezzo di una struttura stabile nel tempo, che fa assumere all’imprenditore estero, nell’ordinamento giuridico italiano, una presenza fiscale qualificata, sostanziale e permanente in grado di collocarlo operativamente su un piano di ipotetica parità.

2.2. La definizione di stabile organizzazione secondo il Modello OCSE

L’art. 5 del  Modello OCSE – fine di fornire una nozione di stabile organizzazione, rilevante ai fini del successivo art. 7, paragrafo 1, dello stesso modello – dispone che, se l’impresa di uno Stato contraente svolge la propria attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, gli utili da essa conseguiti sono imponibili, oltre che nello Stato di residenza, anche nello Stato della fonte, ma unicamente nella misura in cui siano attribuibili alla stabile organizzazione stessa.

Al riguardo, il citato art. 5 contempla una ipotesi tipica, risultante dal combinato disposto dei paragrafi 1, 2 e 4, che richiama il concetto di luogo fisso d’esercizio dell’attività, mediante il quale l’impresa estera esercita, in tutto o in parte, il proprio business. Secondo l’indirizzo dello stesso OCSE, tale definizione prevede il verificarsi di tre condizioni, quali l’esistenza di una sede d’affari, cioè di un luogo (locali o magazzino) o, in certi casi, macchinari ed attrezzi, il fatto che tale sede di affari sia fissa, cioè situata in un sito determinato e caratterizzata da un certo grado di permanenza, nonché lo svolgimento dell’attività d’impresa per mezzo di tale sede.

In particolare, il paragrafo 2 del citato art. 5 fornisce una lista di esempi caratteristici che possono configurare una stabile organizzazione, fra i quali vengono individuati una sede di direzione, una succursale, un ufficio, un’officina, un laboratorio, una miniera o giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali, un cantiere di costruzione e montaggio la cui permanenza superi i dodici mesi.

Il paragrafo 4 dello stesso articolo prevede che, comunque, non si considera che vi sia una stabile organizzazione, qualora si faccia uso di una installazione a soli fini di deposito, esposizione o consegna di merci, ovvero quando queste ultime siano immagazzinate solo per le suddette finalità, la sede fissa sia utilizzata unicamente per acquisto merci ovvero per raccogliere informazioni per l’impresa, o per fini di pubblicità, fornitura di informazioni, ricerche scientifiche o attività analoghe che abbiano carattere preparatorio o ausiliario.

Non si ha quindi stabile organizzazione – come è stato precisato in sede OCSE – nel caso dell’ufficio di rappresentanza, né allorquando l’attività si estrinsechi in un contratto d’affitto o di concessione in uso di immobili, impianti macchinari o attrezzature, posto in essere senza un insediamento stabile, a meno che in questo contesto non siano compresi anche altre attività, quali, a titolo di esempio, la gestione immobiliare, l’approvvigionamento di materie prime, la manutenzione e la riparazione dei beni affittati.

Il paragrafo 5 precisa, altresì, che si ritiene configurabile una stabile organizzazione anche quando una persona, diversa da un agente che goda di uno status indipendente, agisce per conto di una impresa ed abitualmente esercita in uno Stato contraente il potere di concludere contratti in nome dell’impresa stessa, a meno che le attività svolte da detto oggetto siano limitate a quelle che, qualora esercitate per mezzo di una sede fissa d’affari, rientrerebbero nelle ipotesi escluse di cui al menzionato paragrafo 4.

3. Stabile organizzazione: analogie e differenze tra la la legislazione nazionale e il Modello OCSE

La nozione di stabile organizzazione proposta dalla legislazione nazionale presenta, tuttavia, alcune differenze rispetto a quella contenuta nel Modello OCSE. Una delle più significative è rilevabile già dalla lettura del comma 1, dell’art. 162 del TUIR, dove viene chiarito che la nozione di stabile organizzazione è valida sia ai fini delle imposte sui redditi che ai fini Irap, nonostante quest’ultima imposta, a rigore, non possa essere inquadrata in una definizione di imposta sul reddito convenzionale. Tale previsione sembrerebbe, peraltro, confermata dall’autonomia del concetto di stabile organizzazione ai fini Iva sostenuta da parte della dottrina, con conseguente necessità per il legislatore italiano di introdurre una definizione domestica di stabile organizzazione quale centro di attività stabile valida anche ai fini di quest’ultimo tributo.

Un’ulteriore significativa differenza tra la normativa domestica e quella convenzionale è riscontrabile nella disposizione contenuta al comma 3 dell’art. 162 TUIR, che attribuisce un più ristretto limite temporale di riferimento ed una espressa rilevanza all’attività di supervisione al fine della determinazione di una stabile organizzazione.

A partire dal 1° gennaio 2004, infatti, i cantieri aperti in Italia da imprese non residenti potranno configurare molto più facilmente delle stabili organizzazioni, atteso il limitato termine temporale  previsto dal comma 3 dell’art. 162. La soglia dei tre mesi appare, tuttavia, eccessivamente esigua anche in relazione al fatto che il Commentario OCSE precisa che nella nozione in esame devono essere computate anche le attività preliminari alla creazione del cantiere, come gli studi sulla scelta del sito o altre attività tecniche ad esso connesse. Coerentemente, l’analoga disposizione contenuta al paragrafo 3 dell’art. 5 del Modello OCSE fissa in dodici mesi il periodo minimo oltre il quale un cantiere di costruzione o di montaggio può essere considerato stabile organizzazione. Sulla base del combinato disposto dell’art. 162, comma 1, e dell’art. 169 del TUIR, il più breve termine previsto dal comma 3 in esame si applicherà, tuttavia, soltanto in relazione ai soggetti residenti in Stati o territori con i quali non sono state stipulate Convenzioni contro le doppie imposizioni.

Di conseguenza, appare evidente che l’effetto pratico dell’introduzione di una nozione domestica di stabile organizzazione sia comunque limitato. Le previsioni dell’art. 162 possono, infatti, essere applicate solo nei confronti dei soggetti residenti con i quali l’Italia non ha ancora stipulato una Convenzione contro le doppie imposizioni, nonché, ai sensi del combinato disposto dell’art. 162, comma 1, e dall’articolo 169 del TUIR, in tutti i casi in cui, in presenza di una Convenzione contro le doppie imposizioni, le previsioni del TUIR risultino più favorevoli al contribuente.

Pertanto il riferimento alla nozione di stabile organizzazione è condizionata alla valutazione di quale, fra la nozione domestica e quella convenzionale, risulti, nel caso specifico, più favorevole al contribuente.

Sono riscontrabili anche importanti analogie tra la normativa nazionale ed il Modello OCSE.  Entrambe le fonti richiamate, infatti, individuano sotto un unico nomen due distinte ipotesi di stabile organizzazione: la stabile organizzazione cosiddetta “materiale”, ovvero l’esercizio all’estero di un’attività mediante una serie di mezzi organizzati direttamente dall’operatore economico, e la stabile organizzazione cosiddetta “personale” (i.e., agency clause), che si configura allorquando un’impresa opera all’estero senza l’esercizio diretto di un’attività, ma per il tramite di un rappresentante.

In particolare per il modello Ocse il concetto di stabile organizzazione esprime il legame dell’attività imprenditoriale con il territorio dello Stato, ovvero il collegamento con un determinato punto del territorio. Questo è il concetto di stabile organizzazione materiale ed è definito nei commi da 1 a 4 dell’art. 5 Modello OCSE.

Se manca però una sede fissa d’affari, può sussistere una stabile organizzazione meramente sulla base dell’elemento personale del rappresentante, ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 5 del modello OCSE. E’ questa la stabile organizzazione personale in grado di esprimere una certa intensità della partecipazione di un’impresa alla vita economica di un altro Stato.

I due presupposti, quello materiale e quello personale, sono alternativi come anche recentemente sottolineato dalla Corte di Cassazione civile[1], secondo cui, ai fini dell’esistenza di una stabile organizzazione, non ricorre la necessità di una compresenza dell’elemento oggettivo (i.e., stabile organizzazione materiale) e di quello soggettivo (i.e., stabile organizzazione personale).

Secondo l’OCSE, invece, i due presupposti possono coesistere; in tal caso, non esisterebbe una forza di attrazione della stabile organizzazione materiale rispetto a quella personale (ad esempio, nel caso in cui un’impresa ha in uno Stato una sede fissa ed un rappresentante ai sensi dei commi 5 e 6 dell’art. 5 del Modello OCSE, che è distaccato dalla sede fissa e non opera all’interno di essa), ma si configurerebbero due stabili organizzazioni nello stesso Stato. Se invece all’interno di una sede fissa di affari sussistessero i presupposti della stabile organizzazione personale, questa avrebbe carattere sussidiario rispetto a quella materiale, tanto da essere assorbita da quest’ultima.

4. Stabile organizzazione: definizione secondo la normativa Iva

In ambito Iva è possibile affermare che non esiste una nozione legislativa di stabile organizzazione, in quanto le definizioni contenute, rispettivamente, nell’art. 162 del T.U.I.R. e nell’art. 5 del modello di Convenzione OCSE rappresentano solamente dei punti di riferimento anche ai fini dell’applicazione dell’IVA, ma vanno applicate esclusivamente nella sfera delle imposte dirette.

Al fine di fornire una definizione ragionevole di stabile organizzazione anche ai fini Iva è necessario, quindi, raffrontare i princìpi contenuti nella normativa nazionale e in quella convenzionale con gli stessi princìpi e le condizioni individuate dalla Corte di giustizia; sarebbe irrazionale procedere ad una trasposizione degli stessi principi da una disciplina all’altra senza un’analisi comparativa.

In particolare, la giurisprudenza comunitaria[2] ha individuato i tratti più importanti che deve possedere una stabile organizzazione in ambito Iva, il cui carattere fondamentale è da individuarsi nella necessaria presenza di una consistenza minima e permanente di mezzi umani (come personale dipendente) e di mezzi tecnici (come materiali). Secondo la Corte, infatti, affinché un centro di attività possa essere qualificato come stabile, è necessario che esso presenti un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea, sul piano del corredo umano e tecnico, a rendere possibili in modo autonomo le prestazioni di servizio considerate[3]. Per riconoscere la stabile organizzazione quale centro di imputazione Iva è inoltre necessario verificare se l’attività svolta dal soggetto non residente nel territorio dello Stato abbia natura commerciale o meno, posto che chiunque eserciti un’attività avente carattere commerciale assume la qualifica di soggetto passivo Iva[4].

La posizione espressa dalla giurisprudenza comunitaria trova conferma nell’art 9 della direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (cd. VI direttiva) e negli artt. 44 e 45 della direttiva “rifusione”[5]. Da entrambe le fonti citate consegue che, almeno per quanto riguarda il profilo che attiene alla localizzazione delle prestazioni di servizi, la stabile organizzazione nel sistema dell’IVA richiede la compresenza permanente di mezzi umani e tecnici che consentano l’effettuazione di operazioni IVA rilevanti.

Recentemente, sulla problematica relativa all’identificazione della stabile organizzazione ai fini Iva, occorre porre l’attenzione sul Regolamento 282/2011/UE[6]. L’art. 11,  al comma 1 della richiamata normativa, precisa che la stabile organizzazione corrisponde ad una struttura “caratterizzata da un grado sufficiente di permanenza e una struttura idonea in termini di mezzi umani e tecnici atti a consentirle di ricevere ed utilizzare i servizi che le sono forniti per le esigenze proprie di detta organizzazione”. Anche in questo caso viene evidenziata la presenza contemporanea dell’elemento materiale e di quello personale al fine di configurare una stabile organizzazione.

Il comma 2 dell’art. 11 del Regolamento 282/2011/UE, poi,  va ben oltre la questione definitoria, ritenendo che la qualifica di stabile organizzazione sia attribuibile, non in funzione degli acquisti effettuati ma in relazione alle operazioni attive effettivamente prodotte dalla branch, utilizzando gli acquisti di beni fisicamente ad esse collegati.


[1] Cfr. Corte di Cassazione, Sezione tributaria, 9 aprile 2010,  sent. n. 8488.

[2] Cfr. Sent. della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 17 luglio 1997, causa C-190/05 “Aro Lease Bv”, e sent. della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 7 maggio 1998, causa C-390/96 “Lease Plan Luxembourg S.A.”.

[3] Cfr. Sent. della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 17 luglio 1997, causa C-190/05 “Aro Lease Bv”, cit., nella quale è stato escluso che una società di leasing che non disponga in uno Stato membro né di personale proprio, né di una struttura che presenti un sufficiente grado di stabilità e si limiti a mettere a disposizione dei suoi clienti, procurati tramite intermediari indipendenti stabiliti nello Stato membro, i veicoli concessi in locazione, possa configurarsi come una stabile organizzazione.

[4] Su tale aspetto, l’art. 9 della Dir. n. 2006/112/CE dispone che “si considera ‘soggetto passivo’ chiunque esercita, in modo indipendente e in qualsiasi luogo un’attività economica, indipendentemente dallo scopo e dai risultati di tale attività. Si considera ‘attività economica’ ogni attività di produzione, di commercializzazione o di prestazione di servizi, comprese le attività estrattive, agricole, nonché quelle di professione libera e assimilate”.

[5] Cfr. Direttiva 12 febbraio 2008, n. 2008/8/CE.

[6] Cfr. Centore P. (2012), Fiscalità e commercio internazionale, 1/2012, LA SOGGETTIVITA’ PARZIALE AI FINI IVA DELLA STABILE ORGANIZZAZIONE, p. 14.