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agenzia delle entrate

(di Debora Mirarchi)

Con il numero di marzo della Rivista[1] è stato approfondito l’ambito di applicazione e i risvolti del nuovo diritto alla rivalsa dell’IVA accertata, previsto dal novellato art. 60, comma 7, del D.P.R. n. 633/72, anche alla luce dei chiarimenti forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare del 17 dicembre 2013, n. 35/E.

Giova ribadire che il vigente art. 60 del D.P.R. n. 633/72, profondamente modificato dall’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. Decreto liberalizzazioni), afferma il diritto del cedente/prestatore di rivalersi, nei confronti del cessionario/committente, dell’imposta dovuta sulla base di avvisi di accertamento o di rettifica.

In buona sostanza, la norma citata consente al cedente/prestatore, destinatario di un avviso di accertamento in materia IVA, con cui sia stata contestata, ad esempio, l’errata applicazione dell’aliquota IVA o la non rilevanza ai fini IVA dell’operazione sottesa, di addebitare al cliente la maggiore imposta accertata.

A chiarire l’efficacia temporale della norma de qua ci ha pensato l’Agenzia delle Entrate, che con la circolare n. 35/E del 2013, ha affermato che “l’articolo 60, settimo comma, del DPR 26 ottobre 1972, n. 633, così come modificato dall’articolo 93 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, si applica agli accertamenti divenuti definitivi successivamente alla sua entrata in vigore (24 gennaio 2012)”.

La data del 24 gennaio 2012 funge, secondo l’Agenzia delle Entrate, da spartiacque ai fini dell’applicabilità della novella: la nuova disciplina trova, infatti, applicazione soltanto per tutti gli atti impositivi divenuti definitivi dopo tale data.

A pochi mesi dall’emissione della citata circolare, la Commissione tributaria regionale di Bolzano con la sentenza n. 40/1/2014 smentisce la posizione sostenuta dalla Agenzia delle Entrate, affermando l’opposto principio in base al quale il diritto alla rivalsa dell’IVA o della maggiore IVA accertata deve trovare applicazione anche in ipotesi in cui l’eventuale atto impositivo sia divenuto definitivo prima del 24 gennaio 2012.

La questione sottoposta al giudizio dei giudici aveva ad oggetto un avviso di accertamento relativo al periodo di imposta 2007, con cui era stata contestata l’errata applicazione dell’aliquota IVA (10% anziché 20%). L’atto impositivo era, però, divenuto definitivo, per effetto dell’acquiescenza prestata dal contribuente, prima del 24 gennaio 2012.

Quest’ultimo aveva, dunque, addebitato l’IVA nei confronti del suo cliente e emesso la relativa nota di variazione. L’Ufficio, nel frattempo, aveva iscritto a ruolo i maggiori importi IVA definiti dal contribuente e da questo versati al Fisco.

Il contribuente aveva poi impugnato il predetto ruolo emesso dall’Ufficio.

L’Ufficio resisteva in giudizio opponendosi all’esercizio del diritto di rivalsa nel caso oggetto di giudizio perché l’atto impositivo era diventato definitivo prima della data fatidica del 24 gennaio 2012.

La controversia giunge sino al secondo grado innanzi ai giudici della Commissione tributaria regionale di Bolzano che, ponendosi in netta antitesi con l’interpretazione fornita dall’Agenzia delle Entrate, ha affermato che il diritto di rivalersi della maggiore Iva accertata deve ritenersi applicabile in via retroattiva anche in ipotesi in cui la definitività dell’atto sia da collocarsi temporalmente prima del 24 gennaio 2012.

La motivazione posta a fondamento del decisum risiede, secondo i giudici, nella naturale retroattività insita nella norma dovuta al principio del favor rei.

I giudici, dopo aver ricordato che la novella normativa è stata dettata dalla necessità di chiudere la procedura di infrazione n. 2011/4081, instaurata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia, hanno ritenuto che il principio del favor rei, fosse applicabile anche alle ipotesi disciplinate dall’articolo in parola e dovesse ritenersi prevalente tanto da giustificare l’applicabilità della norma in via retroattiva.

Secondo i giudici della Commissione, quindi, non è il principio di neutralità dell’Iva a legittimare l’applicazione retroattiva ma un altro e ben diverso (per presupposti ed effetti) principio del favor rei.

Pur non potendosi considerare risolutiva sul punto è indubbio che alla citata sentenza deve riconoscersi il coraggio di aver affermato il diritto di rivalsa anche a discapito dell’esigenza, da sempre anteposta ad opposti interessi, di garantire in termini di certezza i rapporti giuridici sorti.

[1] Sul punto D. Mirarchi, La rivalsa dell’IVA accertata, in in Economia e Diritto, Novembre 2013. in Economia e Diritto, Novembre 2013.EconomiaeDiritto, Marzo 2014

(di Valerio Micheli)

La risoluzione N. 63/E dell’Agenzia delle Entrate del 17 giugno 2014 risponde all’interpello concernente l’interpretazione dell’art. 172, comma 7, del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).

Il tema è quello relativo all’individuazione del “patrimonio netto” di una stabile organizzazione (S.O.) cui far riferimento, ai fini del riporto delle perdite, con riguardo ad un’operazione transfrontaliera.

L’istante, nel caso specifico, è la stabile organizzazione italiana (chiamata ALFA) di una società di diritto inglese (BETA), quest’ultima capofila di un Gruppo (GAMMA) rappresentate una delle maggiori istituzioni finanziarie al mondo (retail, corporate, investment banking, ecc.). BETA opera in Italia tramite la S.O. ALFA e la controllata DELTA S.p.A..

A fronte di una riorganizzazione e di una razionalizzazione interna, il Gruppo GAMMA ha deciso di procedere alla “fusione di DELTA S.p.A. in ALFA”, ai sensi della Direttiva 2005/56/CE e del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 108 (che disciplina le fusioni transfrontaliere).

ALFA dichiara di disporre di perdite fiscali e chiede chiarimenti all’Agenzia delle Entrate sulla possibilità di assumere – in luogo del patrimonio netto contabile – il c.d. “patrimonio di vigilanza” quale parametro per verificare la “capienza” patrimoniale rispetto alle perdite riportabili (ai sensi e per gli effetti dell’art. 172, co. 7, TUIR).

L’Agenzia, nell’esporre il suo parere, configura quale risultato della fusione transfrontaliera in esame, la fattispecie di un’integrazione dell’attivo (della società incorporata) in una stabile organizzazione della società incorporante.

L’Agenzia dichiara che (considerando che l’intero patrimonio della società incorporata italiana confluirà nella branch italiana preesistente della casa madre inglese) all’integrazione di attivi risulteranno applicabili solamente i limiti al riporto delle perdite e/o di interessi passivi indeducibili previsti dall’art. 172, co. 7, del TUIR.

Ai sensi del citato comma 7, le perdite fiscali sono riportabili, a condizione che l’entità cui afferiscono rispetti dei parametri di “vitalità economica”, nei limiti del patrimonio netto emergente dal bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2501-quater del codice civile.

L’Agenzia ritiene che il patrimonio netto (per considerare il limite patrimoniale di cui all’art. 172, co. 7 del TUIR) deve essere identificato con il fondo di dotazione appartenente alla S.O. stessa. Si precisa inoltre che la S.O. non è giuridicamente un’entità autonoma e distinta rispetto alla casa madre, ma una sua diramazione amministrativa. Dal punto di vista fiscale invece, come indicato dall’ordinamento nazionale e dall’OCSE, viene considerata un’entità separata e la S.O. dovrà quindi dotarsi di una appropriata struttura patrimoniale. La S.O. di un’impresa non residente, quindi, dovrà avere un suo fondo di dotazione che, ai fini fiscali, potrà essere anche “figurativo”.

Il limite del patrimonio netto, ai fini della corretta determinazione dell’ammontare di perdite contabili riportabili ai sensi dell’art. 172, co. 7, TUIR, è dato dalla sommatoria del fondo di dotazione (o patrimonio netto) contabile (risultante dal rendiconto di cui all’art. 14, co. 5, d.P.R. n.600/73) e degli adeguamenti posti in essere sul piano fiscale[1].

Altro quesito posto riguardava la necessità o meno di “sterilizzare” il fondo di dotazione degli eventuali incrementi effettuati nei 24 mesi antecedenti la fusione, per adeguarlo all’ammontare ritenuto fiscalmente congruo.

Si precisa che tale periodo di sorveglianza vuole contrastare artificiosi versamenti e conferimenti, che abbiano il fine di incrementare il patrimonio netto e di incidere sul plafond delle perdite riportabili. Tale disciplina è da estendere anche nel caso in cui la casa madre incrementi, nel periodo di sorveglianza, il fondo di dotazione della propria branch. Gli incrementi operanti tramite rettifiche contabili o fiscali sono assimilabili a conferimenti o versamenti operati dalla casa madre e l’Agenzia ha quindi una visione estensiva[2].

Note

[1] A condizione che essi abbiano concorso alla formazione della base imponibile. Tali adeguamenti sono posti in essere per ottenere la riclassificazione figurativa dei debiti (produttivi di interessi passivi) risultanti dal proprio passivo patrimoniale in fondo di dotazione.

[2] Si ritiene che l’ulteriore previsione recata dall’art. 172, comma 7, relativa ai conferimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione patrimoniale, sia da intendersi riferita a tutti i suddetti incrementi.

(di Marco Cardillo)

Il legislatore ha ritenuto opportuno riaprire i termini per rivalutare i beni dell’impresa e partecipazioni mediante l’approvazione della Legge 147/2013.

Tutti i soggetti d’imposta individuati dall’art. 73 comma 1, lettera a) e b) hanno la facoltà di ricorrere alla rivalutazione predetta, a meno che che non redigano il bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS, IFRS).

Affinché la rivalutazione abbia effetto, il contribuente deve procedere al pagamento dell’imposta sostitutiva. Quest’ultima sostituisce sia le imposte sui redditi sia l’Irap e le eventuali addizionali, l’ammontare della stessa varia dal 16%, per i beni ammortizzabili, al 12% per quelli non ammortizzabili. Gli effetti fiscali si avranno dal 2016 per i primi, mentre dal 2017 per le plusvalenze derivanti da cessioni.

L’imposta sostitutiva può essere pagata in tre rate annuali oppure in un’unica soluzione, ed è importante sottolineare che, in qualsiasi caso, non sono previsti interessi in caso si optasse per la rateazione dell’importo dovuto.

Per procedere alla rivalutazione si può ricorrere a:

– perizie redatte da esperti indipendenti;

– perizie interne.

Alcuni contribuenti hanno ripetutamente sollevato dubbi e questioni sul fatto che si potesse procedere a rivalutare solo civilisticamente i beni dell’impresa: di conseguenza, l’Agenzia dell’Entrate con la recentissima Circolare 10/E del 14/05/2014 ha chiarito che non è possibile procedere ad una rivalutazione solo civilistica, poiché quest’ultima assume obbligatoriamente anche valenza fiscale, e si perfeziona con il pagamento dell’imposta sostitutiva.

Quindi nel caso in cui un contribuente decidesse di rivalutare solo civilisticamente i beni delle imprese, ossia senza riconoscere fiscalmente il maggior valore iscritto in bilancio, quindi senza procedere al versamento dell’imposta sostitutiva, incorrerebbe nel rischio di vedersi accertata (soggetta a controllo fiscale), da parte dell’Amministrazione Finanziaria, l’imposta sostitutiva non versata ed all’irrogazione della sanzione del 30% per omesso versamento.

(di Valerio Micheli)

È del 28 aprile la circolare dell’Agenzia delle Entrate con oggetto l’art. 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 – Riduzione del cuneo fiscale per lavoratori dipendenti e assimilati, articolo che istituisce gli ormai noti 80 euro in più in busta paga promessi dal Governo Renzi per chi percepisce un determinato reddito annuo.

La finalità dell’intervento è quella di ridurre la pressione fiscale e contributiva sul lavoro nell’immediato e, strutturalmente, il cuneo fiscale. L’articolo 1 del decreto-legge 24 aprile 2014, n.66 riconosce un credito ai titolari di reddito di lavoro dipendente (e taluni redditi assimilati a quello di lavoro dipendente), la cui imposta lorda sia di ammontare superiore alle detrazioni da lavoro ad essi spettanti.

Il credito riconosciuto è di 640 euro per chi non supera i 24.000 euro di reddito e decresce fino ad azzerarsi al raggiungimento di un reddito di 26.000 euro (da considerarsi al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e delle relative pertinenze). Il credito è rapportato al periodo di lavoro nell’anno[1] e in relazione alla durata del rapporto di lavoro, considerando il numero di giorni lavorati nell’anno.

I presupposti per beneficiare del credito introdotti dall’art. 1-bis dell’art. 13 del TUIR (introdotto dal sopracitato decreto) sono tre e sono legati alla tipologia di reddito prodotto, al fatto che sussista un’imposta a debito (post detrazioni per lavoro) e all’importo del reddito complessivo.

Tra i beneficiari si annoverano i contribuenti il cui reddito complessivo è formato da redditi da lavoro dipendente[2]; da redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente[3] quali ad esempio compensi percepiti dai lavoratori soci di cooperative, compensi per lavori socialmente utili, le prestazioni pensionistiche (di cui al d.lgs. n. 124 del 1993) e altri.

Il contribuente dovrà avere un’imposta lorda di ammontare superiore alle detrazioni da lavoro loro spettanti ex art. 13, comma 1 del TUIR[4].

Il contribuente, infine, dovrà essere titolare di un reddito complessivo per l’anno di imposta 2014 pari o inferiore ai 26.000 euro.

Quanto premesso esclude dal credito i contribuenti il cui reddito non è formato da quelli specificati dal comma 1-bis, quelli che non hanno un’imposta lorda superiore alle detrazioni sopra citate e chi – pur avendo un’imposta capiente – è titolare di un reddito maggiore ai 26.000 euro.

Il credito eventualmente spettante viene riconosciuto dai sostituti di imposta “in via automatica” e “ripartendolo fra le retribuzioni erogate successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, a partire dal primo periodo di paga utile”. La circolare ricorda chi sono i sostituti di imposta tenuti ad applicare la ritenuta a titolo d’acconto, tra i quali si annoverano gli enti e le società indicati nell’art. 73, comma 1, del TUIR; le società e le associazioni indicate nell’art. 5 del TUIR; le imprese agricole; il curatore fallimentare, tra gli altri. Sono tenute a riconoscere il credito anche le amministrazioni dello Stato, della Camera dei deputati e del Senato, tra le altre.

La dicitura “in via automatica” comporta che i sostituti di imposta dovranno riconoscere il credito in aggiunta alla retribuzione erogata e senza richiesta da parte dei beneficiari. L’erogazione del credito avverrà a partire dal mese di maggio 2014, salvo impossibilità dovute a ragioni esclusivamente tecniche legate alle procedure di pagamento, che potranno far slittare la prima erogazione al mese di giugno.

La determinazione della spettanza del credito viene effettuata dai sostituti di imposta sulla base dei dati reddituali a loro disposizione, su dati previsionali e sulle detrazioni, oltre che a dati in loro possesso per effetto di comunicazioni da parte del lavoratore. Il decreto definisce puntualmente gli adempimenti dei sostituti di imposta e al comma 5 dell’art. 1 stabilisce che per l’erogazione del credito il sostituto utilizza l’ammontare complessivo delle ritenute disponibile in ciascun periodo di paga e, per la differenza, i contributi previdenziali dovuti.

Qualora i soggetti beneficiari abbiano remunerazioni non erogate da un soggetto sostituto di imposta, essi potranno richiedere il credito nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta 2014. Si precisa che tale procedura di richiesta potrà essere anche seguita dai contribuenti per i quali il credito “ non sia stato riconosciuto (in tutto o in parte) dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, ad esempio perché relativo a un rapporto di lavoro cessato prima del mese di maggio”.

Qualora il sostituto di imposta abbia riconosciuto il credito a soggetti con reddito complessivo superiore ai 26.000 euro (derivante da redditi diversi da quelli erogati dal sostituto), questi dovranno comunicarlo al sostituto che, nelle buste paga che seguiranno la comunicazione, recupererà il credito non spettante. Il credito non spettante (in tutto o in parte) andrà restituito dal contribuente in sede di dichiarazione dei redditi.

La Circolare ricorda infine che il credito non concorre alla formazione del reddito e quindi le somme ricevute non sono imponibili ai fini delle imposte sui redditi (comprese addizionali regionali e comunali). Tali crediti, inoltre, non incidono sul calcolo dell’IRAP dei soggetti eroganti.

____________

[1] Cfr. comma 2, art. 1 del decreto. Considerando che il credito è rapportato al periodi di lavoro nell’anno, qualora il rapporto di lavoro abbia la durata dell’intero anno, alcuni “correggono” il tiro del Governo: anziché 80 euro, su base annua il “beneficio” è di 53,33 euro (640/12 = 53,33. Sono 80 in quanto l’importo di 640 verrà erogato in 8 dei 12 mesi del 2014).

[2] Cfr. art. 49, comma 1, TUIR.

[3] Cfr. art. 50, comma 1, TUIR.

[4] L’importo di dette detrazioni è stato modificato dall’art. 1, comma 127, della legge 147/2013 (legge di stabilità per il 2014) e per la loro determinazione il reddito complessivo va assunto al netto del reddito dell’unità immobiliare adibita ad abitazione principale e delle relative pertinenze.

(di Debora Mirarchi)

Che il professionista sia soggetto passivo di imposta ai fini IRAP è pacifico.

Ciò non significa, però, che il professionista sia tenuto al pagamento dell’imposta in parola per il solo fatto di essere titolare di redditi di lavoro autonomo. Per l’effettiva assoggettabilità al tributo de quo occorre, altresì, la sussistenza del presupposto impositivo che, ai sensi dell’art. 2 del D.Lgs. n. 446/97, “è l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”.

Numerosi professionisti si sono chiesti, negli anni, se la loro attività si svolgesse con l’ausilio di una autonoma organizzazione e, nell’incertezza, in molti hanno scelto di adottare un comportamento prudenziale versando l’imposta salvo poi chiedere il rimborso all’Agenzia delle Entrate, ovviamente, invano.

La presente disamina non ha la pretesa di ripercorrere la copiosa giurisprudenza pronunciatasi sul punto ma quella, forse meno elevata, ma più utile e concreta a parere di chi scrive, di fornire spunti per poter affrontare un eventuale contenzioso con l’Amministrazione finanziaria.

1. Il presupposto dell’autonoma organizzazione ai fini IRAP

Al fine di delimitare il campo di applicazione dell’imposta de qua con riferimento ai redditi di lavoro autonomo occorre chiedersi, in primis, cosa si intende per attività autonomamente organizzata.

La Corte Costituzionale ha tentato di rispondere a questo interrogativo con la sentenza del 21 maggio 2001, n. 156 con cui ha affermato che se “l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitale o lavoro altrui”.

La predetta sentenza pur non risolvendo il punto controverso, relativo alla definizione di autonoma organizzazione, ha però l’importante merito di aver scardinato il radicato convincimento secondo cui l’attività di lavoro autonomo presupponga, ipso iure, quella tipica struttura organizzata che costituisce il presupposto ai fini IRAP. Infatti, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, la successiva giurisprudenza di merito e delle Corti superiori ha sposato tale principio e rigettato l’automatica assoggettabilità all’IRAP del reddito di lavoro autonomo.

Ma, il merito di aver chiarito il concetto di autonoma organizzazione va non al Legislatore ma alla Corte di Cassazione ormai consolidatasi nel ritenere sussistente il presupposto dell’autonoma organizzazione quando il contribuente: “a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione, e non sia quindi inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti le qualità che secondo l’«id quod plerunque accidit», costituiscono nell’attualità il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività anche in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui” (ex multius Cass. 27 febbraio 2013, n. 4923 – Cass. 24 maggio 2013 n. 12967 – Cass. 16 febbraio 2007, n. 3678).

Per i giudici di legittimità l’autonoma organizzazione, rilevante ai fine dell’applicazione dell’IRAP, deve, quindi, consistere “in un apparato esterno alla persona del professionista e distinto da lui”(Cass. 15 giugno 2010, n. 14379) in grado di garantire “un qualcosa di ulteriore e diverso rispetto a quella razionale autoorganizzazione che necessariamente accompagna qualunque attività professionale svolta abitualmente” (Cass., n. 22020/2013).

In conclusione non vi può essere autonoma organizzazione, secondo i giudici di legittimità, senza una struttura distinta dal professionista. Diversamente opinando e, quindi, ritenendo in ogni caso sussistente il presupposto impositivo ai fini IRAP per il solo fatto di produrre reddito di lavoro autonomo si frusterebbe la ratio stessa dell’imposta de qua che, come noto, “colpisce un reddito che contenga una parte aggiuntiva di profitto, derivante da una struttura organizzativa «esterna», cioè da un «complesso di fattori che, per numero, importanza e valore economico siano suscettibili di creare un valore aggiunto rispetto alla mera attività intellettuale supportata dagli strumenti indispensabili e di corredo al know-how del professionista” (Cass., n. 22020/2013).

Sulla definizione generale di autonoma organizzazione la Corte è chiara: il professionista non deve essere inserito in strutture riconducibili alla altrui responsabilità e deve svolgere la propria attività con l’ausilio di un insieme di strumenti che eccedono l’id quod plerunque accidit.

2. Come dimostrare all’Agenzia delle Entrate l’insussistenza dell’autonoma organizzazione?

Il professionista che omette il versamento dell’IRAP o che ne chiede il rimborso è tenuto a fornire prova negativa circa la sussistenza dell’autonoma organizzazione, in alcuni casi, tutt’altro che semplice (ex multius Cass. del 29 luglio 2009, n.17533).

Quanto al primo presupposto il titolare di redditi di lavoro autonomo deve dimostrare di non essere responsabile della struttura organizzativa. A tal proposito è utile produrre in sede di giudizio eventuali copie di fatture attive emesse dal professionista nei confronti del proprio committente al fine di dimostrare che i ricavi complessivi dello stesso derivano dall’attività prestata nei confronti del proprio cliente responsabile a cui sono attribuiti tutti gli incarichi. A nulla rileva che il professionista abbia un elevato volume d’affari per giustificare l’assoggettabilità all’IRAP. Diversamente opinando si giungerebbe a dare rilevanza a dati meramente quantitativi frustando la natura di imposta reale dell’IRAP che deve incidere sulla “capacità contributiva, impersonale, basata sulla capacità produttiva che deriva dalla combinazione di macchine, materiali ecc” (così Relazione al decreto istitutivo dell’imposta)

Le maggiori difficoltà si possono incontrare con riferimento alla prova che gli strumenti e i fattori utilizzati nello svolgimento dell’attività del professionista rientrino nel “minimo” indispensabile di dotazione organizzativa.

In tal caso può essere utile produrre in sede contenziosa copia delle dichiarazioni dei Modelli Unici al fine di sottolineare l’insussistenza di costi sostenuti per dipendenti.

Ma, occorre precisare, che l’inserimento di un dipendente nella struttura organizzativa del professionista non comporta assoggettabilità, tout court, all’imposta in parola.

Sul punto si è più volte pronunciata la giurisprudenza di legittimità, forse, in modo non del tutto risolutivo. Negli ultimi anni gli Ermellini, in alcune occasioni, hanno respinto “l’automatica sottopozione ad IRAP del lavoratore autonomo che disponga di un dipendente” (Cass., sent. 22020/2013) per poi, a distanza di pochi mesi, mitigare la propria posizione affermando che il professionista che si avvale part-time di una segretaria è tenuto al versamento dell’IRAP (Cass. n. 7609/2014).

Degna di nota è la sentenza n. 2520 del 5 febbraio 2014 della Corte di Cassazione con cui i giudici hanno affermato che il professionista che si avvale unicamente di praticanti per lo svolgimento della propria attività, non potrà definirsi autonomamente organizzato e, in quanto tale, non potrà essere assoggettato all’imposta regionale sulle attività produttive.

Altro importante aspetto da non sottovalutare per dimostrare l’insussistenza della autonoma organizzazione è la natura e la consistenza dei beni strumentali utilizzati dal professionista per lo svolgimento della propria attività. Sono considerati indispensabili e, pertanto, non integranti quel quid pluris rilevante ai fini IRAP strumenti quali fotocopiatrice, fax, pc, telefono cellulare e eventuale autovettura utilizzata ad uso promiscuo (Cass., n. 3674 e 3678 del 2007). Può costituire valido strumento di difesa contro eventuali pretese dell’Amministrazione finanziaria la produzione del libro cespiti con cui il professionista può dimostrare la natura e la tipologia di beni utilizzati. Sul punto meritevole di pregio è la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto n. 36 del 26 marzo 2013 con cui i giudici di merito hanno affermato che non assume rilevanza alcuna l’eventuale elevato importo del “valore dei cespiti ammortizzabili e dei beni strumentali” nel caso in cui si tratti di “strumentazione senza la quale l’attività non potrebbe essere oggi efficacemente svolta: si tratta di strumentazione assolutamente necessaria”.

(di Mauro Merola) 

Il modello “Cnm 2014”, approvato con provvedimento del 31 gennaio dell’Agenzia delle Entrate, va utilizzato dai soggetti che hanno optato per la tassazione di gruppo di imprese controllate residenti (i.e., consolidato nazionale) oppure per la determinazione dell’unica base imponibile per il gruppo di imprese non residenti (i.e., consolidato mondiale); detto modello deve essere presentato dalla società o ente controllante, in forma autonoma, entro l’ultimo giorno del nono mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta, esclusivamente per via telematica, attraverso il servizio Entratel.

I versamenti delle imposte liquidate in dichiarazione devono avvenire entro il giorno 16 del sesto mese successivo a quello di chiusura del periodo d’imposta, mentre, per i soggetti che approvano il bilancio o il rendiconto oltre il termine di quattro mesi dalla chiusura dell’esercizio, il versamento del  saldo delle imposte dovrà avvenire entro il 16 del mese successivo a quello di approvazione del bilancio o rendiconto.

Nello specifico, il modello del 2014 presenta alcune novità importanti che hanno recepito i cambiamenti legislativi operati nel corso del 2013.

In attuazione dell’art 14 del Dl 63/2013 e dell’articolo 1, comma 319, della legge 147/2013 – con cui è stata prorogata la possibilità di detrarre le spese per il risparmio energetico ed è stata elevata al 65% la percentuale di detraibilità per quelle sostenute a partire dal 6 giugno 2013 – il contribuente sarà tenuto a riepilogare, nella sezione denominata “Oneri detraibili spese per risparmio energetico” del quadro CS, gli oneri detraibili, riferibili alle suddette spese per risparmio energetico sostenute dalle società partecipanti al consolidato e già evidenziate nei quadro NX o MX, nonché le quote detraibili relative a spese sostenute in precedenti periodi d’imposta.

Non meno rilevante – ma con un impatto certamente limitato – appare la detrazione del 65%, disposta dal DI 63/2013 e relativa alle spese per interventi su edifici destinati ad attività produttive, ricadenti nelle zone sismiche, fino ad un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96mila euro per unità immobiliare. Le spese vanno indicate in uno specifico prospetto del quadro CS.

Nella sezione XIII del quadro NX dello stesso modello Cnm, ovvero nella sezione VI del quadro MX, vanno indicati gli importi degli investimenti in start-up innovative, trasferiti da ciascuna società aderente al consolidato, ai fini della determinazione del reddito complessivo del Gruppo. Infatti, l’articolo 29, commi da 4 a 8, del Dl 179/2012 ha previsto la possibilità di fruire di incentivi fiscali per gli investimenti in start-up innovative ed a vocazione sociale e ad alto valore tecnologico in ambito energetico.

La normativa, nello specifico, ha stabilito che, relativamente ai periodi d’imposta 2013, 2014, 2015 e 2016, il 20% della somma investita nel capitale sociale di una o più start-up innovative, direttamente ovvero per il tramite di organismi di investimento collettivo del risparmio, non concorre alla formazione del reddito dei soggetti passivi Ires; invece, per le start-up a vocazione sociale e che sviluppano e commercializzano esclusivamente prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico in ambito energetico, è stabilita una maggiorazione della deduzione pari al 27% della somma investita.

Lo stesso modello, in attuazione della Circolare dell’Agenzia delle Entrate 31/2013, ha previsto la possibilità, per i contribuenti, di correggere gli errori contabili derivanti dalla mancata imputazione di componenti positivi e/o negativi nel corretto esercizio di competenza, non più emendabile ai sensi del comma 8-bis dell’articolo 2 del Dpr 322/1998, mediante variazioni in aumento e in diminuzione dal reddito.

Le società consolidate, qualora abbiano operato correzioni di errori contabili, sono tenute ad alimentare il prospetto “Errori contabili” all’interno del quadro CS.

 Nello specifico si possono delineare due ipotesi:

  • il caso in cui la dichiarazione sia una integrativa a favore ed i periodi d’imposta, in cui gli errori sono stati commessi, siano precedenti a quello oggetto della dichiarazione integrativa;
  • il caso in cui la dichiarazione sia una integrativa a sfavore, nella quale confluiscano gli effetti di correzioni di errori contabili, considerati “a favore”, commessi in periodi d’imposta precedenti a quello oggetto della dichiarazione integrativa.

Il prospetto deve essere compilato in modo da evidenziare le risultanze derivanti dalle riliquidazioni dell’imposta operate dalla consolidante nei periodi d’imposta precedenti. Le riliquidazioni determinano effetti significativi sia in relazione alla determinazione dell’imposta finale di Gruppo sia in relazione ai singoli componenti reddituali che vengono assorbiti dalla stessa dichiarazione.

Inoltre, viene data attuazione alla circolare dell’Agenzia delle Entrate 39/2013 relativamente alla liquidazione dell’imposta relativa al reddito dei soggetti che beneficiano delle agevolazioni fiscali per le Zone franche urbane. Nello specifico, il prospetto deve essere compilato se una o più  delle società consolidate manifestano la volontà di usufruire della esenzione ai fini delle imposte sui redditi.

L’agevolazione produce effetti in capo al consolidato cui viene trasferito il reddito di impresa prodotto nella Zona franca urbana dalle società beneficiarie, determinando un risparmio di imposta fruibile dalla fiscal unit. La consolidante, di conseguenza, può utilizzare l’agevolazione attraverso la riduzione dei versamenti effettuati con il modello di pagamento F24.

(di Massimiliano Sammarco)

L’art. 110, commi 10, 11 e 12 del D.P.R. n. 917/1986, detta la disciplina sostanziale relativa ai costi sostenuti dalle imprese nazionali per gli acquisti effettuati da fornitori residenti in Paesi extra UE, aventi un regime fiscale privilegiato (cosiddetti paradisi fiscali).

La disposizione prevede, nello specifico, che non sono ammessi in deduzione dal reddito d’impresa le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti in Stati o territori diversi da quelli individuati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis del D.P.R. n. 917/1986 (c.d. Black list).

Per effetto della disposizione contenuta nell’art. 110, comma 10, del T.U.I.R., in linea di principio non sono deducibili, dal reddito d’impresa, i seguenti costi:

  • spese relative a transazioni economiche e commerciali, (ovvero gli acquisti di beni e/o servizi dal fornitore estero);
  • ogni altro componente negativo di reddito (ad esempio le svalutazioni; le perdite su crediti; gli ammortamenti; gli interessi e altri oneri finanziari derivanti da transazioni aventi causa finanziaria, le minusvalenze su cespiti ammortizzabili).

L’art. 110, comma 11, del D.P.R. n. 917/1986, consente al contribuente di disapplicare il regime di indeducibilità sancito dal comma 10. Infatti, la disciplina dell’indeducibilità dei costi black list, non si rende applicabile quando le imprese residenti in Italia, ai sensi del successivo comma 11 dell’art. 110 del D.P.R. n. 917/1986, forniscono la prova che «le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione».

Si tratta di esimenti tra loro alternative la cui dimostrazione può essere fornita dal contribuente in sede di controllo, oppure, sempre secondo l’Agenzia, in via preventiva, cioè prima di porre in essere l’operazione, inoltrando all’Amministrazione finanziaria apposita istanza di interpello.

L’Agenzia delle entrate ha elencato, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alcuni documenti idonei a dimostrare l’effettiva attività commerciale, quali il bilancio di esercizio, l’atto costitutivo, un prospetto descrittivo dell’attività esercitata, i contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività, la copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche relative agli uffici e agli altri immobili utilizzati, i contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa e le mansioni svolte, i conti correnti bancari aperti presso istituti locali, estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle attività esercitate, copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici, autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali. L’esperienza ha dimostrato come alcuni di questi documenti sono impossibili da ottenere, soprattutto dai fornitori esteri appartenenti a gruppi multinazionali, in quanto a volte contengono delle informazioni riservate. Malgrado sia ragionevole sostenere questo, potrebbe succedere che i verificatori ritengano non provata la relativa esimente in quanto la società non ha fornito la documentazione sopracitata, ma documentazione diversa, anche se sostanzialmente equipollente.

In merito, all’esimente dell’interesse economico, si evidenzia come l’Agenzia delle entrate ritiene necessario un confronto comparativo tra il prezzo al quale è stata conclusa l’operazione e quello potenzialmente raggiungibile nel mercato italiano o in altri mercati a fiscalità ordinaria, mentre la giurisprudenza ha al contrario sostenuto che tale interesse può derivare da un’analisi della sussistenza dell’effettivo interesse economico nell’operazione in sé. Qualche volta infatti mancano operazioni comparabili, perché si tratta di royalties, di marchi, di provvigioni, e di altre prestazioni non fungibili, e quindi non confrontabili col prezzo praticato da terzi, che in genere sarà addirittura mancante.

Da quanto fino ad ora esposto, emerge chiaramente come la verifica in merito alla violazione o meno della normativa si debba basare sui fatti e una loro valutazione potrebbe essere soggetta a diverse interpretazioni da parte delle parti.

Sta di fatto, però, che nel caso in cui l’operatore non riesca a documentare una delle esimenti previste dalla normativa, ma sia abbastanza chiaro che l’operazione abbia un senso economico per la sua impresa, questo dovrebbe essere sufficiente per evitare l’irrogazione delle sanzioni, anche quelle di carattere penale quando dovessero superarsi le soglie previste di punibilità.

In tale caso, infatti, la violazione della normativa, consistente nella mancata produzione della documentazione richiesta sarebbe sanzionata solamente con l’indeducibilità del costo.

L’applicazione anche di una specifica sanzione risulterebbe alquanto eccessiva, dal momento che non verrebbe posto il dubbio in merito all’inerenza del costo alla produzione del reddito, ma solamente non sarebbe considerata sufficiente la documentazione prodotta a giustificazione del suo sostenimento.

E come già esposto precedentemente, i motivi per cui la documentazione richiesta dalla norma possa essere ritenuta insufficiente possono essere molteplici.

Si pensi, ad esempio, ad un operatore italiano che è costretto ad acquistare ad un prezzo elevatissimo un determinato bene necessario alla propria produzione da un determinato fornitore residente in Paese a fiscalità privilegiata, il quale è l’unico produttore mondiale che permette di ottenere determinate performances, ma non ha nessuna intenzione di fornire documenti in merito alla sua attività.

In tale caso, potrebbe essere eccepito in capo al soggetto nazionale di avere posto in essere un’operazione economicamente ingiustificata, visto l’elevato prezzo di acquisto, e di non avere dimostrato le esimenti richieste dalla normativa, se non quella che l’operazione è stata effettivamente posta in essere.

A meno che non venga dimostrato che il soggetto italiano abbia ricevuto indietro una parte del maggiore prezzo pagato, la sanzione non dovrebbe essere irrogata.

Per concludere, si ritiene che l’indeducibilità del costo per quegli operatori che intrattengono rapporti con soggetti residenti in Paesi black list sia una sanzione eccessiva, nel caso in cui sia evidente che l’operazione ha un senso economico, ma non si è giunti a fornire la prova suddetta.

Quanto detto ci costringe a fare una brevissima considerazione. fermo restando il doveroso impegno che l’amministrazione finanziaria deve manifestare nella lotta all’evasione fiscale, non si può non considerare il tessuto sociale economico e politico in cui le nostre imprese operano; un sistema globalizzato in cui gli scambi commerciali non necessariamente avvengono tra imprese appartenenti allo stesso stato, ne tantomeno si può obbligare un’impresa ad instaurare rapporti commerciali con imprese residenti in stati non aventi una fiscalità privilegiata (scelta per altro giustificata da ragioni economico/imprenditoriali) ecco, proprio quest’ultimo aspetto (cioè quello del “obbligo”), comporta una ulteriore riflessione: chiedere ad un’impresa di dimostrare che il rapporto commerciale con la società black list non sia stato instaurato al solo scopo di evadere le imposte in italia (con relativo dispendio di costi e tempo), significa, a nostro avviso, “obbligare” un’impresa a scegliere la controparte commerciale esclusivamente in base alla residenza di quest’ultima, piuttosto che sulla base di una valutazione di convenienza economica; tutto ciò al fine di evitare accertamenti fiscali per difendersi dai quali, dimostrare la buona fede rischia di diventare “diabolico”.

Continuando, ad esempio, qualora una società italiana volesse investire in latino-america, con headquarter in Uruguay, magari in JV con una società spagnola, si verificherebbe la seguente situazione:

Per la Spagna l’Uruguay non è paradiso fiscale e i due paesi hanno ratificato la convenzione contro le doppie imposizioni; per l’Italia, invece, l’Uruguay è un paradiso fiscale, il che comporterebbe tutte le conseguenze di cui sopra, a discapito della concorrenza delle nostre imprese a livello globale.

Non basterebbe invertire l’onere della prova … ?

(fonte: www.corriereinfromazione.it)

(di Debora Mirarchi)

1. Introduzione

L’art. 93 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 (c.d. Decreto liberalizzazioni) ha riscritto il comma 7 dell’art. 60 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, introducendo il diritto del cedente/prestatore di rivalersi nei confronti di cessionari di beni/committenti di servizi, dell’imposta o della maggiore imposta pagata a seguito di un avviso di

di Mariella Orlando

Sulla scia delle scelte operate in ambito civilistico il legislatore ha introdotto una procedura conciliativa obbligatoria anche con riferimento alla materia tributaria: nella specie, si tratta dell’art. 39, comma 9, D.L. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111) che ha inserito nel d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario), l’art. 17-bis, denominato “Il reclamo e la mediazione”.

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