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conflitto di interessi

(di Alessio Rombolotti)

I fenomeni di globalizzazione e concentrazione conferiscono sempre più rilevanza alle transazioni intragruppo, che assumono sempre più peso sulla ricchezza prodotta. Indipendentemente dalla questione fiscale vi sono importanti motivi, per gli economisti, per gli istituti di statistica e per i gruppi multi-business, di studiare e capire l’economia e la funzione del transfer pricing, a tale riguardo teoria e pratica non sono certo in accordo. Se ci chiediamo quale sia il “corretto” transfer price la prassi e i regolamenti ci dicono che è il prezzo corrente di mercato, ma se invece di definire “quale” sia il transfer price corretto cercassimo di definirlo in relazione alla “funzione” che svolge ?

Attualmente vi sono tre indirizzi di pensiero relativi alla definizione del “corretto” prezzo di trasferimento. Il primo sostiene che il prezzo applicato alle transazioni intragruppo debba essere pari al costo marginale del fornitore del bene o servizio, anche se è quasi impossibile che le condizioni poste dalla teoria economica si verifichino nella realtà, i.e. concorrenza perfetta.

Il secondo indirizzo sostiene che il transfer price debba essere negoziato fra le parti. In particolare esso stabilisce che la base del prezzo sia il costo marginale, al quale deve essere aggiunto il costo-opportunità di effettuare la transazione. Il costo-opportunità è rappresentato dal fatto che se un bene viene trasferito dalla consociata A alla consociata B, la consociata A perde l’opportunità di acquisire il margine derivante dalla vendita diretta sul mercato. La capacità produttiva libera, che le consociate fornitrici hanno in in dato momento, determina il costo-opportunità e quindi definisce il prezzo di trasferimento utilizzato. Seguendo questa logica è necessario che le parti coinvolte negozino fra loro per determinare il prezzo intercompany.

Il terzo indirizzo, quello adottato dai regolamenti internazionali e dalle amministrazioni finanziarie, dice che il prezzo intragruppo deve essere arm’s length, comunemente inteso come “prezzo corrente di mercato”, anche se in effetti le due nozioni non coincidono. Ovviamente questa definizione è vaga, di prezzi di mercato ce ne sono tanti così come ci sono svariati casi di imprese soggette a rettifiche dell’imponibile senza aver avuto nessun intento evasivo, che sono convinte, benchmark alla mano, di aver applicato alle transazioni intercompany i prezzi correnti di mercato.

Nessuno di questi indirizzi prende in considerazione la funzione che assolve il prezzo di trasferimento: l’allocazione del margine fra le diverse consociate del gruppo. Inoltre, se chiediamo che questa allocazione sia “corretta” dobbiamo evitare gli effetti “distorsivi” che i prezzi, anche quelli di mercato, possono avere sul reddito. Se siamo d’accordo che la contabilità interna serva ad allocare correttamente i profitti fra le diverse consociate del gruppo è immediato verificare che i prezzi di trasferimento utilizzati dalla contabilità interna e quelli utilizzati a scopo fiscale devono essere gli stessi, un transfer price che alloca correttamente il margine della transazione non pone un conflitto d’interessi. Quindi cerchiamo una definizione di prezzo intragruppo che rispetti la funzione che tale prezzo deve svolgere, questo vuol dire slegarci dalla contingenza del livello del prezzo corrente di mercato, infatti per diverse ragioni un prezzo di mercato potrebbe essere un fattore distorsivo di quello che potremmo chiamare “profitto normale”. Un esempio di effetto distorsivo l’abbiamo vissuto quando nel 2008/2009 il mercato delle mortgage-backed securities si congelò, né si comprava né si vendeva, e la Banca Centrale americana dovette intervenire comprando ad un ipotetico prezzo di mercato quei titoli che un mercato non avevano più. Molte istituzioni finanziarie americane erano in fallimento tecnico in quel periodo. Un altro esempio, meno vistoso, è offerto dall’ossido di titanio, i cui prezzi crebbero esponenzialmente per carenza di disponibilità del prodotto ed esempi di questo tipo sono talmente numerosi che non possiamo certo parlare di situazioni straordinarie. In definitiva, ogni volta che si verifica uno shock, anche di modesta intensità, sulla domanda o sull’offerta di un bene o un servizio, si attiva un fattore distorsivo del margine che a sua volta produce una sopra/sottovalutazione del profitto.

Ma qual’è il prezzo maggiormente adatto ad una corretta allocazione dei profitti ? E’ il prezzo di equilibrio del mercato in condizioni reali, ovvero non in regime di perfetta concorrenza. Pur essendo un’astrazione, il prezzo di equilibrio, o meglio l’intervallo in cui può variare tale prezzo, offre un punto di riferimento relativamente stabile. Ragioniamo sulla dinamica di mercato nei due casi in cui i prezzi correnti siano sopra o sotto il punto di equilibrio: se siamo sopra vuol dire che l’offerta è maggiore della domanda e quindi il movimento dei prezzi è in discesa. In questo scenario i prezzi di mercato producono una sopravvalutazione del margine, sopravvalutazione che diminuisce man mano che il prezzo scende e si avvicina al punto di equilibrio; quando invece siamo sotto il punto di equilibrio la domanda è maggiore dell’offerta e il movimento dei prezzi è in salita. In questo scenario i prezzi producono una sottovalutazione del margine, che si riduce di entità man mano che i prezzi salgono verso il punto di equilibrio.

Ovviamente la tesi che ho proposto deve e può essere supportata da un ragionamento rigoroso e comunque offre diversi spazi di critica, ma il mio intento era quello di portare l’attenzione del lettore su una definizione di transfer price che risolva il conflitto d’interessi e che permetta di mitigare il rischio fiscale.

(di Marco Guenzi)

Si è iniziato a presentare nello scorso numero il sistema dell’arte, ovvero quella comunità di individui e istituzioni che, operando sul mercato e intessendo relazioni sociali, costituiscono un vero e proprio mondo a sé stante, in grado di influenzare non soltanto il livello delle quotazioni delle opere, ma anche gli artisti che sono rappresentati, il gusto del pubblico e la concezione stessa di arte.

In questo articolo si approfondiranno ulteriormente questi aspetti, andando ad analizzare altre figure del sistema dell’arte: dopo aver considerato artisti, collezionisti, accademie, mercanti d’arte e musei si vedranno (secondo una scala indicativamente cronologica) nell’ordine le case d’asta, le gallerie, i curatori, le riviste e i critici d’arte, rimandando al prossimo numero la trattazione di art broker e consulenti d’arte, delle biennali, di fiere, di premi, dei nuovi spazi espositivi fuori dal circuito tradizionale, degli Internet Art Hub, e, in conclusione della rassegna, del ruolo del pubblico.

Le case d’asta

Le case d’asta (auctioneer) sono istituzioni che si occupano della vendita di opere d’arte tramite meccanismo d’asta. Questo genere di istituzioni è nato nel XVIII secolo in Inghilterra. Originariamente gli auctioneer erano specializzati nella vendita di libri pregiati. Ben presto allargarono l’orizzonte della loro attività mettendosi a trattare anche dipinti. Nel secolo successivo notevole fu lo sviluppo delle case d’asta parigine (i cosiddetti commissaires priseurs), che dominarono il mercato fino alla metà del novecento[1]. Ai giorni d’oggi il mercato dell’arte battuta all’asta è di tipo oligopolistico, in cui le due case inglesi  Christie’s e Sotheby’s fanno la parte del leone (nel 2012 insieme hanno prodotto oltre il 70% del fatturato mondiale, escluse le transazioni in Cina)[2].

Le case d’asta operano esclusivamente sul mercato secondario[3], dove determinano le quotazioni degli artisti. Il fatto di avere una propria opera venduta all’asta è un primo punto di arrivo per l’artista, poiché le sue quotazioni da ufficiose (cioè stabilite e tenute riservate dalle gallerie) divengono pubbliche e quindi ufficiali. Al giorno d’oggi esistono diversi database (come artprice o artnet) che contengono in tempo reale tutte le ultime quotazioni degli artisti battuti nelle diverse aste mondiali, e divengono parametri per la valutazione delle opere nei segmenti più alti del mercato.

Le case d’asta ottengono i loro profitti grazie ad un onere sulle transazioni da loro intermediate, sia a carico del venditore che del compratore. A carico del compratore si applica un “premio” generalmente pubblico, mentre sul venditore si applica una “commissione”, in genere tenuta segreta. Sia i premi che le commissioni sono espressi in percentuale e variano in funzione dell’importo finale[4].

Le case d’asta, per evitare l’insorgere di conflitti di interesse in seno alla loro attività di intermediazione, sono dichiaratamente dalla parte del venditore[5], cui offrono tutta una serie di servizi accessori, ufficiali e non ufficiali, alla vendita. Oltre al trasporto, l’immagazzinamento, le perizie sull’autenticità e il valore delle opere, la realizzazione di cataloghi e il controllo della solvibilità dei potenziali acquirenti, esse sono in grado di assicurare che il prezzo bandito non risulti inferiore a una determinata soglia (prezzo minimo garantito), prestando al venditore una serie di garanzie, offerte da loro stesse direttamente o indirettamente (tramite una cordata di finanziatori che si impegnano a comprare l’opera in cambio di una commissione)[6]. Le opere di fatto rimaste invendute vengono poi talvolta rimesse sul mercato tramite il meccanismo della trattativa privata, facendo concorrenza alle gallerie usando le loro stesse armi[7].

Purtroppo il meccanismo del prezzo minimo garantito comporta che i prezzi battuti in asta non siano un indice realistico della domanda e del valore delle opere di un artista, in quanto sono spesso assoggettate ad operazioni speculative da parte di chi vende. Grandi collezionisti, dealer (e a volte gli artisti stessi) hanno tutto l’interesse nel mantenere alte le quotazioni perché su queste basi (uniche quotazioni ufficiali) poi viene calcolato il valore del loro intero portafoglio. Essi quindi decidono di intervenire (spesso in cordata) per sostenere artificiosamente un gioco al rilancio, condizionando i prezzi di vendita. Nel caso manchi la domanda per l’opera bandita, in accordo con la casa d’aste, finiscono essi stessi per ricomprarla, garantendo così un adeguato livello delle quotazioni[8].

Per quanto riguarda gli acquirenti, essi sono in gran parte collezionisti, mercanti d’arte e musei, che cercano di contendersi sul mercato i pezzi di un determinato artista, senza la certezza di avere altre occasioni per acquistarne uno. Ciò instaura spesso una spirale al rialzo, che le case d’asta cercano di favorire offrendo ai compratori prestiti e dilazioni nel pagamento, naturalmente a tassi non agevolati.

Nonostante queste contraddizioni il mercato delle opere vendute all’asta risulta essere comunque più trasparente ed efficiente rispetto a quello gestito da altri generi di intermediari. Questa osservazione risulta essere vera tanto più l’asta è pubblicizzata e vi partecipa una ampia rosa dei possibili acquirenti sul mercato. Per questo per le sessioni che riguardano le opere di maggior pregio le case d’asta operano una comunicazione a livello internazionale, rendendo di fatto il mercato globale.

Si può dire in generale che le case d’asta abbiano un conflitto di interessi di fondo con le gallerie (di cui si parlerà a breve). Innanzitutto queste istituzioni, sebbene impiegate in operazioni come la stampa del catalogo e la presentazione delle opere, non hanno interesse nella promozione culturale degli artisti: esse hanno come unico obiettivo la massimizzazione delle quotazioni dell’opera nell’immediato. Se mai ci fosse un interesse nel far conoscere un artista, ciò sarebbe per pure ragioni speculative, secondo un ottica di breve periodo (e non di lungo come per le gallerie)[9].

Un altro fattore di conflitto è che il meccanismo d’asta, oltre a rendere i prezzi ufficiali, permette al il venditore di accaparrarsi tutto il surplus presente sul mercato poiché mette in atto una discriminazione dei prezzi di primo grado. Ne risulta che i prezzi all’asta sono quindi naturalmente più alti di quelli praticati dalle gallerie, offrendo ai collezionisti e ai dealer la possibilità di manovre speculative e di arbitraggi sul mercato secondario.

Le gallerie

Le gallerie di arte contemporanea sono istituzioni guidate da imprenditori, appunto i galleristi, che svolgono una funzione di promozione degli artisti a 360 gradi, sia dal punto di vista commerciale che su un piano culturale.

L’origine di questa categoria risale alla seconda metà del XIX secolo a Parigi, allora centro mondiale dell’arte, dove accanto all’arte ufficiale accademica esposta nei Salon e all’Esposizione Universale del 1855 cominciarono a farsi strada gli artisti delle avanguardie, che esposero per la prima volta nel 1863 nel Salon des Réfusés. Questi artisti, esclusi dai circuiti ufficiali, cercarono di diffondere la propria arte attraverso canali alternativi, facendosi aiutare da figure di rifermento che organizzassero per loro gli eventi[10]. Nasce così la figura del gallerista moderno, che si differenzia da quella del mercante o del collezionista per il ruolo attivo nella promozione dell’artista. I galleristi in senso moderno avranno pieno sviluppo solo nel dopoguerra del XX secolo, con centro New York e le maggiori città europee, Londra in primis.

Al giorno d’oggi le gallerie, come appunto i musei, formano un sistema internazionale, costituito da una rete di relazioni interpersonali secondo una stretta struttura gerarchica[11]. In cima alla piramide vi stanno pochi galleristi di punta (gallerie di brand) che hanno come riferimento altre gallerie in diversi paesi per collaborazioni e alleanze (gallerie tradizionali). Poi vi sono gallerie che operano strettamente in un ambito locale, con artisti agli esordi e poche entrature nel sistema (gallerie commerciali). Infine vi sono delle pseudo-gallerie (gallerie negozio), assolutamente marginali, che offrono all’artista la possibilità di esporre in cambio di un corrispettivo. Questa struttura, come meglio si vedrà, oltre a costituire una rete di relazioni che regge l’intero sistema commerciale dell’arte, influisce direttamente sulla segmentazione del mercato[12].

Come si è accennato, la funzione di mediazione delle gallerie risulta essere articolata, venendo ad assumere una duplice finalità: da una parte quella di promozione culturale, attuata attraverso l’organizzazione di mostre, la redazione di cataloghi monografici, l’ottenimento di recensioni da parte di riviste e di critici; dall’altra quella di promozione commerciale, dove i lavori dell’artista vengono trattati alla stregua di prodotto da vendere seguendo le leggi del marketing aziendale. Sotto questo ultimo aspetto l’obbiettivo principale della galleria non risulta essere quello del profitto immediato, ma piuttosto del rafforzamento del proprio brand, che si configura nella capacità della galleria di presentare artisti di valore superiore rispetto al mercato. Le gallerie di brand sono infatti in grado di vendere le opere di un artista anche a tre volte il prezzo di una galleria commerciale poiché il solo fatto che un artista sia da esse rappresentato costituisce una garanzia per il collezionista[13].

E’ interessante  notare che il rapporto tra galleria e artista può assumere diverse nature. In genere esso si configura come un mandato a vendere, in cui il gallerista risulta essere il mandatario che agisce per conto dell’artista. In questo caso, spesso accade che il mandato sia senza rappresentanza, cioè il gallerista agisce in nome proprio, con la conseguenza che la vendita farà capo a lui stesso e che si preoccuperà poi di trasferirne gli effetti, tolta la dovuta provvigione, al mandante, cioè l’artista.

Non è raro tuttavia che i galleristi vogliano avere un rapporto più stretto con gli artisti (specie quelli emergenti), e offrano quindi a questi ultimi un compenso forfettario (che assume la forma di un vero e proprio stipendio) in cambio della produzione artistica di un determinato periodo, fissando un numero minimo di opere eseguite e dei limiti in termini di contenuti proposti e tecniche utilizzate. Questo genere di rapporto, benché rappresenti per l’artista una sicurezza economica e una garanzia dell’interesse della galleria a promuovere i suoi lavori, in realtà spesso ne riduce notevolmente la libertà espressiva e ne esaurisce la creatività, compromettendone a lungo andare anche lo sviluppo della carriera.

Eccezion fatta quindi per quest’ultimo caso, le gallerie d’arte contemporanea si distinguono dai mercanti d’arte in quanto non assumono su di sé il rischio della transazione, ma svolgono solo una funzione di intermediazione tra l’artista e il collezionista con l’intento di far concludere l’affare. Un’altra differenza fondamentale risulta essere che le gallerie operano prevalentemente sul mercato primario, occupandosi di vendere direttamente le opere d’arte realizzate dall’artista e tenendo in portafoglio artisti emergenti e non affermati, le cui quotazioni non sono pubbliche. In questo modo esse sono in grado di attuare politiche dei prezzi più flessibili e personalizzate per fidelizzare la propria clientela. I mercanti d’arte (come anche le case d’asta) invece operano principalmente sul mercato secondario, comprando e rivendendo le opere di artisti quotati e già in parte storicizzati secondo un’ottica puramente speculativa. Come già accennato, in realtà questa distinzione di ruoli è molto labile, perché molte gallerie svolgono in realtà entrambe le attività: l’attività speculativa serve allora a finanziare quella a più alto profilo di rischio nel lancio degli artisti d’avanguardia e l’attività sul mercato primario diviene funzionale all’acquisizione di nuovi clienti.

Le gallerie ben si differenziano anche dalle case d’asta: esse infatti hanno tutto l’interesse che le quotazioni degli artisti da loro rappresentati salgano in maniera graduale e continuativa, in modo che si crei un costante interesse degli investitori nell’acquisto di lavori che si apprezzano costantemente. Risulta quindi evidente l’innato conflitto di interesse con gli auctioneer, le cui quotazioni sono generalmente più alte, i cui margini di intermediazione sono ben più bassi e il cui obiettivo è la massimizzazione delle quotazioni nel breve. Il problema che si pone è che si crea sul mercato la possibilità di speculare tramite arbitraggio sulle differenze di prezzi che vengono a crearsi nei due circuiti.

Le gallerie, sebbene partano svantaggiate nella competizione, hanno alcune frecce al loro arco. Se da una parte le case d’asta, come si è visto, sono essenzialmente alleate con i venditori, le gallerie tendono a fare gli interessi dei compratori, per la natura stessa della loro intermediazione. Innanzitutto i prezzi intermediati risultano essere più bassi rispetto a quelli banditi. Inoltre le transazioni all’asta rendono difficile mantenere l’anonimato, mentre ciò risulta molto più facile nelle trattative riservate. Poi la trattativa privata garantisce una minore volatilità e incertezza dei prezzi, oltre a permettere di reperire i fondi con tutto il tempo necessario e nelle condizioni ottimali. Ma il circuito delle gallerie può essere interessante anche per quei clienti che non ottengono condizioni favorevoli sulle garanzie di vendita da parte delle case d’aste: un’opera che rimane invenduta in una galleria non viene marchiata come non voluta da nessuno[14].

L’arma fondamentale che le gallerie posseggono per contrastare il dominio degli auctioneer è rappresentato dalle liste d’attesa. Le liste d’attesa sono un meccanismo attraverso cui esse “collocano” le opere in portafoglio secondo una loro preferenza, e non secondo il principio di matching temporale (first coming first served), che caratterizza i mercati più evoluti. Come meglio si vedrà attraverso tale meccanismo da una parte riescono a razionare l’offerta sul mercato, che risulta così essere di tipo oligopolistico o monopolistico, spuntando quindi prezzi più alti che in condizioni di concorrenza perfetta; dall’altra riescono ad attuare una moral suasion in grado di selezionare gli acquirenti (collezionisti e dealer) secondo una loro “propensione morale”[15], mettendo al bando i clienti speculatori. Il sistema delle liste d’attesa ha inoltre il pregio di fidelizzare la clientela, che sente di godere dell’opportunità di poter attingere alle opere dell’artista prima degli altri e a prezzi esclusivi[16]. Infine esso permette, secondo un meccanismo definito dai galleristi di “collocamento”, di piazzare le opere più significative degli artisti in collezioni (quelle dei musei e quelle private) dove esse abbiano una maggiore visibilità al pubblico e diano lustro all’artista stesso.

Oltre a quello dell’espansione delle case d’asta un altro fenomeno sta erodendo il potere delle gallerie. E’ quello delle fiere, frontiera obbligata dove essere presenti per vendere, dove le gallerie spesso, pur di partecipare, si trovano a dover sottoscrivere condizioni capestro. Ma di ciò si parlerà nel prossimo numero.

I curatori

I curatori sono professionisti indipendenti che offrono le loro competenze culturali e manageriali per l’organizzazione di mostre per conto di musei, gallerie, associazioni culturali e artisti. Questa professione si è sviluppata a partire dalla seconda metà dell’ottocento quando nacquero e cominciarono a farsi largo le prime avanguardie, facendo sì che prima spazi espositivi ad hoc, poi musei e gallerie, esponessero raccolte di lavori artistici sulla base di una tematica comune.

Nel suo lavoro il curatore si trova ad assumere da un punto di vista relazionale un ruolo centrale nel sistema dell’arte, in quanto deve interfacciare con diverse tipologie di operatori, dai direttori dei musei (a volte i due ruoli tendono a coincidere) agli artisti, dai collezionisti e dai mercanti ai critici/giornalisti e al pubblico.

La figura del curatore oggi trova una notevole rilevanza anche dal punto di vista culturale, poiché si trova nella posizione di dover scegliere a quali opere e artisti dare visibilità, escludendo inevitabilmente dal panorama dell’arte la grande maggioranza della produzione artistica. Essa ha inoltre effetti diretti sul mercato poiché le mostre, come meglio si vedrà, rappresentano per il mercato delle selling out situation, cioè degli eventi che legittimano un aumento delle quotazioni degli artisti.

Non c’è quindi da stupirsi se al giorno d’oggi queste figure, che si proclamano indipendenti, siano invece a volte condizionate dalle logiche e dai poteri forti del sistema, determinando una politica culturale delle istituzioni non esule da condizionamenti e interessi di parte.

Le riviste e i critici d‘arte

Le riviste d’arte contemporanea sono periodici specialistici che parlano di quello che succede nel mondo dell’arte, trattando di tendenze, fatti, eventi, prezzi e recensioni di mostre, su cui scrivono giornalisti ed esperti della materia, i critici per l’appunto.

Le recensioni sull’arte contemporanea nascono nel XIX secolo all’interno di rubriche specializzate di periodici a più ampio raggio. Esse divengono vere e proprie pubblicazioni all’inizio del novecento, divenendo testimonial delle nascenti avanguardie. Le riviste d’arte contemporanea in senso moderno (sul modello Artforum), cioè periodici specializzati ad ampia diffusione in vendita nella catena distributiva della stampa, nascono e i sviluppano intorno agli anni ’60 e ’70 dell’ultimo secolo. Nell’ultimo decennio molto forte è stato lo sviluppo di testate d’arte on-line, che hanno preso in buona parte il posto della carta stampata.

Sebbene il compito delle riviste sia quello di informare il pubblico di ciò che è in atto nel mondo dell’arte, il loro obbiettivo è invece (naturalmente) di natura reddituale. Per questo esse concedono le loro pagine a inserti pubblicitari a pagamento, di cui usufruiscono gallerie e musei. Esse inoltre recensiscono eventi in corso o scrivono testi critici su artisti e movimenti, attività che in teoria dovrebbe essere giornalisticamente indipendente e non lucrativa, ma che di fatto spesso costituisce un’importante fonte di reddito (nonché una forma di pubblicità occulta).

Le riviste sono gestite da direttori (che spesso coincidono anche con la proprietà stessa) che ne curano i contenuti e le linee editoriali. I direttori risultano essere quindi influenti figure all’interno del sistema dell’arte in quanto custodi di una delle principali casse di risonanza, quella dei media, in grado di far breccia nel pubblico e risultano essere corteggiati da direttori di musei e galleristi in cerca di pubblicità.

Per quanto riguarda i critici d’arte essi costituiscono (oltre ai citati direttori delle riviste) un punto nodale nel circuito dei periodici, poiché dalla loro competenza e dalla loro fama spesso viene a dipendere direttamente il successo delle riviste stesse.

Se l’attività di critico d’arte ha origini antichissime (si pensi agli scritti di Plinio il vecchio sulla pittura e sulla scultura greca), il riconoscimento della sua figura è più recente e si fa risalire al XVIII secolo[17].  Solo alla fine del XIX secolo i critici tuttavia cominciano ad avere impatto sul mondo dell’arte, attraverso articoli su periodici e la pubblicazione di saggi monografici. Oggi il critico d’arte utilizza, oltre alla carta stampata, altri media per la comunicazione: dalle trasmissioni televisive e radiofoniche, alle conferenze, ai blog e ai social network su Internet. La sua attività inoltre si allarga attraverso collaborazioni dirette con gallerie private, musei e case d’asta, nonché tramite l’insegnamento nelle università e nelle accademie.

Sebbene nel sistema dell’arte la distinzione tra le diverse figure risulta essere al giorno d’oggi sempre più lieve, i critici occupano un ruolo distinto rispetto ad altri esperti come gli storici dell’arte, i curatori e i consulenti d’arte. Rispetto agli storici dell’arte i critici non hanno l’imperativo di assumere un occhio imparziale: il loro compito infatti non è quello di riportare come si siano evolute le forme artistiche nel corso dei secoli, ma piuttosto (pur mantenendo una visione storicistica) di influenzare con le proprie idee il pubblico e gli operatori del sistema, prestando sostegno a quelle che si ritengono le sperimentazioni più interessanti e rilevanti presenti nel mondo dell’arte contemporanea.

Come la storia insegna, tuttavia, i vari critici del momento non sempre sono stati capaci di vedere le tendenze in atto (più tardi raccolte invece dagli storici dell’arte: si veda il caso degli impressionisti). Ciò evidenzia la necessità di una netta distinzione tra le figure del critico e dello storico dell’arte. Purtroppo al giorno d’oggi va delineandosi una commistione di ruoli, per cui spesso i critici, seppur parte in causa, tendono ad voler assumere (di comune accordo con i direttori dei musei, che sempre più spesso si assurgono al ruolo stesso di critici) una funzione di storicizzazione delle tendenze in atto, proclamandosi come arbitri imparziali della partita che si gioca tra gli artisti emergenti, quando in realtà la figura che meglio rappresenta il loro compito è quella dell’allenatore.

Sebbene non possa per definizione essere imparziale, il critico dovrebbe comunque essere indipendente, cioè avere un pensiero libero e sincero, non condizionato da interessi di parte. Questa indipendenza risulta ahimè nella realtà dei fatti molto rara e difficile, poiché spessissimo i critici  traggono profitto e dipendono economicamente dall’attività prestata a riviste e gallerie private, con l’invitabile conseguenza che difficilmente possono esimersi dal mettere la propria voce (e la propria faccia) alla mercé degli interessi sottostanti.

I critici si distinguono anche dai curatori, il cui ruolo, come si è visto, è quello di offrire un servizio culturale più che una speculazione intellettuale, e dai consulenti d’arte, che non si occupano di analizzare i processi culturali e creativi degli artisti ma di valutare le opere d’arte da un punto di vista prettamente economico. Proprio da questi ultimi si riprenderà il discorso nel prossimo numero.

                                                                                                        (continua nel prossimo numero)



[1] De Marchi N. – Van Miegroet H.J. (2008), in Handbook of the Economics of Arts and Culture, Vol. I , pp. 69-122., Elsevier, Amsterdam.

[2] Cfr. www.artprice.com

[3] C’è un solo recente caso di una vendita all’asta di opere direttamente da parte dell’artista: Damien Hirst ha organizzato nel settembre 2008 un’asta per vendere direttamente al pubblico le sue opere, riuscendo a piazzare (a detta dell’artista) 223 lavori per un controvalore di 111 milioni di sterline inglesi. Lewis B. (2009), The Great Contemporary Art Bubble, BBC (DVD), Londra.

[4] Per un riferimento sui premi e sulle commissioni d’asta cfr. Horovitz N. (2011), Art of the Deal, Contemporary Art in a Global Financial Market, pp. 172-173, Princeton, Princeton University Press.

[5] I venditori sono generalmente collezionisti (o mercanti d’arte) che vendono per eventi eccezionali (4 d’s): divorzio (divorce), morte ( death), morosità (debt) o ristrutturazione del portafoglio (discretionality). Thomson D.  (2009), Lo squalo da 12 milioni di dollari: la bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, Mondadori, Milano.

[6] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[7] Si veda il paragrafo successivo.

[8] Cfr. Lewis B. (2009), Op. Cit..

[9] Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.

[10] F. Poli (2011), Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Bari

[11] Poli F. (2011), Op. Cit..

[12] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[13] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[14] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[15] Velthuis (2008), Op. Cit..

[16] I meccanismi di determinazione dei prezzi sul mercato dell’arte contemporanea saranno approfonditi in futuro in un apposito articolo sull’argomento.

[17] Il primo riferimento alla critica d’arte come disciplina è del pittore Jonathan Richardson nel 1719. Cfr. James E. (1996), “Art Criticism”, in Turner J. (1996), Grove Dictionary of Art, Oxford University Press, Oxford.

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