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giurisprudenza

La prevalenza delle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto alla perizia stragiudiziale

La Corte Suprema di Cassazione – sezione tributaria – con ordinanza n. 31600 depositata il 4 dicembre 2019 ha chiarito che la perizia stragiudiziale non ha valore di prova, nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato, ma solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo Conseguentemente, la valutazione della stessa è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, che non è altresì obbligato a tenerne conto (Sul punto, si veda l’ Ordinanza n. 33503 del 27/12/2018, sez. 5, Rv. 651998 – 02).

Nella stessa ordinanza, gli Ermellini hanno peraltro evidenziato che alle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica fiscale debba essere attribuito il carattere di una confessione extragiudiziale. Conseguentemente, risultano maggiormente apprezzabili le dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto ad una perizia stragiudiziale, venendo comunque demandata la valutazione al giudice tributario.

Nella fattispecie concreta l’Amministrazione Finanziaria aveva quantificato le percentuali di incidenza dello sfrido basandosi sulle dichiarazione rilasciate nel corso del contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente. La Cassazione ha spiegato che l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico può essere apprezzata come confessione stragiudiziale risultante proprio dal processo verbale sottoscritto e, quindi, tale da legittimare l’accertamento dell’ufficio (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 5628/1990 e n. 1286/2004).

Infine, risulta opportuno evidenziare che ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, bensì diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 28316/2005, n. 9320/2003, e n. 7964/1999).

Costi non deducibili se l’evasore totale non dimostra la certezza o la determinabilità in modo obiettivo

(A cura del Dott. Marco Cardillo)

La Suprema Corte di Cassazione con Sentenza n. 230, depositata in data 8 gennaio 2020, ha chiarito che i dati comunicati dai clienti di un contribuente negli elenchi “Clienti-Fornitori” – ossia i dati comunicati ai sensi dell’art. 21, D.L. 78/2010 (poi modificato dall’art. 2, comma 6, D.L. 16/2012), il quale ha introdotto l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate le operazioni rilevanti ai fini Iva – non costituiscono mere annotazioni.

La Suprema Corte, nelle motivazioni della Sentenza, spiega infatti che “corrispondevano a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute o di beni acquistati dal soggetto emittente le corrispondenti fatture sulle quali il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta ed aventi perciò valore probatorio in ordine all’acquisto di beni.

Gli Ermellini riconoscono quindi corretto utilizzare i dati suindicati per la ricostruzione del volume di affari – corrispondente ai ricavi – del contribuente che ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi.

La Cassazione ha evidenziato che la riconducibilità delle fatture emesse dal contribuente “ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituisce alcuna presunzione, ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria che, avendo ricostruito sulla base di quanto figurante dall’elenco fornitori le cessioni di beni da costui effettuate, si sono limitati al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti per quantificarne il volume di affari dell’anno di imposta in contestazione”.

La stessa Corte ha voluto porre l’accento sul fatto che per la ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo come previsto dall’art. 109, comma 1, TUIR, non potendo essere puramente e semplicemente presunti.

I giudici hanno evidenziato che è onere del contribuente, evasore totale, provare l’esistenza dei costi correlati ai ricavi ricostruiti o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta, non essendo legittimo presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza.


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(di Matteo Montanari)

In tema di residenza fiscale delle persone fisiche, la Suprema Corte con la recente Ordinanza 25 giugno 2018 n. 16634 ribadisce la fondamentale rilevanza dell’art. 2, comma 2, D.P.R. n. 917/1986 (Tuir), il quale dispone che “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo di imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.”

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I criteri enunciati dall’art. 2 Tuir, in particolar modo quello dell’iscrizione all’anagrafe italiana, sono stati nuovamente oggetto di vaglio applicativo da parte della Corte di Cassazione con la recente Ordinanza 25.6.2018 n. 16634 che consolida l’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo cui, in presenza di attività fiscalmente rilevanti svolte all’estero e/o nel Belpaese, è da ritenersi fondamentale un’eventuale cancellazione dall’anagrafe italiana per evitare di essere ritenuti soggetti fiscalmente residenti in Italia.
In particolare, gli ermellini hanno confermato il pacifico orientamento della stessa Corte che ritiene legittimo l’accertamento per l’omessa dichiarazione dei redditi in Italia nei confronti di un soggetto produttore di reddito all’estero (nel caso di specie, anche in Italia) nell’ipotesi in cui non vi sia stata la cancellazione dell’iscrizione all’anagrafe tributaria italiana.
Ricostruendo la vicenda dal punto di vista fattuale, in primo grado il contribuente ha visto accogliersi il ricorso tempestivamente proposto avverso avvisi di accertamento sintetico ed in secondo grado i giudici hanno confermato quanto già disposto dalla CTP.
Nello specifico, la CTR, al fine della verifica dell’integrazione della fattispecie di omessa dichiarazione in presenza di attività fiscalmente rilevante compiuta dal contribuente sul territorio italiano, ha ritenuto non influenti gli elementi della sussistenza della residenza fiscale in Italia del contribuente e la sua tardiva iscrizione all’AIRE, considerando invece prevalente a tale fine la dimostrazione (di carattere sostanziale) della residenza nel Regno Unito per gli anni oggetto di accertamento.
Al contrario, la Corte di Cassazione con la sentenza in commento, alla luce dei principi generali in materia di residenza fiscale delle persone fisiche enunciati dal TUIR, in particolare dagli artt. 2 e 3, e coerentemente con il recente orientamento della medesima Corte, ha disposto che “le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano, in applicazione del criterio formale dettato dall’art. 2 DPR 917/1986, in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia; con la conseguenza che, ai fini predetti, essendo l’iscrizione indicata preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’Estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano.”
Rilevante al fine della risoluzione del caso di specie è stato, quindi, il contenuto dell’art. 2 TUIR e i requisiti da esso previsti, da ritenersi alternativi, in presenza dei quali un soggetto risulta fiscalmente residente in Italia con tutte le conseguenze che ciò comporta (nel caso di specie, obbligatorietà di compilazione e trasmissione della dichiarazione dei redditi).
L’iscrizione all’AIRE, in quanto successiva al periodo accertato, non è stata ritenuta determinante ai fini dell’individuazione della residenza fiscale del contribuente.
Per tali motivazioni, con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso principale dell’Ufficio, cassando con rinvio la sentenza impugnata.

(a cura dell’avv. Francesco D’Alonzo)

ABUSO DEL DIRITTO

Abuso del diritto – Principio generale antielusivo – Conseguenze.

In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo e comporta che sono vietate ed inopponibili all’erario le operazioni che, pur non contrastando con alcuna specifica disposizione, siano idonee a procurare un vantaggio fiscale e non possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un “risparmio di imposta”, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili giustificatrici, la cui ricorrenza rientra nell’onere probatorio del contribuente; tale regola giuridica, già prima di trovare espresso e generale riconoscimento, definizione e disciplina di natura procedimentale nell’art. 10-bis della l. n. 211/2000 (statuto del contribuente), introdotto con d.l.vo n. 128/2015, è stata desunta dai superiori principi, posti dall’art. 53 Cost., di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (Cass., sez. trib., sent. 14.2.2018 n. 3533).

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO

Pretesa tributaria – Procedimento di formazione – Notificazione degli atti – Funzione – Omessa notifica dell’atto presupposto – Impugnativa giudiziale “limitata” al solo atto consequenziale notificato – Scelta del contribuente – Ammissibilità – Conseguenze.

In materia di riscossione delle imposte, nell’ipotesi di omessa notificazione di un atto presupposto, il contribuente ha la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.l.vo n. 546/1992, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli, facendo valere il vizio derivante dalla citata omissione, ovvero di impugnare cumulativamente anche quello presupposto non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria (Cass., sez. trib., ord. 18.1.2018 n. 1144).

APPELLO TRIBUTARIO

Appello tributario – Nuove eccezioni – Divieto – Contenuto.

Nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, di cui all’art. 57 del d.l.vo n. 546/1992, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle c.d. eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass., sez. trib., sent. 7.4.2017 n. 9080).

SELEZIONE DELLA MIGLIORE TESI DI ECONOMIA & DIRITTO – ANNO 2016

Nella prima edizione della Selezione della Migliore Tesi di Economia & Diritto il primo posto è stato assegnato al seguente lavoro:

AbstractAutore: Maria Grazia De Nigris

Università degli Studi del Sannio – Dipartimento di Giurisprudenza

Materia: Diritto e Letteratura

Relatore: Ch.mo Prof. Felice Casucci

Titolo Tesi:

(di Mariella Orlando)

Ad oggi non esiste ancora un orientamento  univoco sulla legittimità all’impugnazione dell’estratto di ruolo. In particolare una parte della giurisprudenza ritiene l’estratto di ruolo non impugnabile dal contribuente in quanto atto interno all’amministrazione finanziaria; differentemente l’altra parte qualifica l’estratto di ruolo come una parziale riproduzione del ruolo e conseguentemente basta la semplice ricezione della notizia dell’esistenza di una pretesa tributaria per far sorgere, in capo al contribuente, un interesse ad agire tendente a chiarire la sua posizione con il fisco.

Il presente lavoro vuole  mettere in luce  le diverse interpretazioni della giurisprudenza.

1.L’impugnabilità dell’estratto di ruolo

Di recente la Corte di Cassazione (Cass. civ, ord 6 luglio 2010 n. 15946) ha ammesso nell’ambito del processo tributario il gravame avverso il c.d. estratto di ruolo, ovvero di quella certificazione rilasciata dall’agente di riscossione al contribuente a seguito di una sua richiesta allo sportello informativo.

La pronuncia in questione appare condivisibile nella misura in cui aumenta la possibilità di tutela giudiziale nei confronti di  un atto potenzialmente lesivo per il contribuente. Emerge però un contrato di questo orientamento giurisprudenziale di legittimità rispetto alle ultime novità legislative, tese ad assicurare una sempre maggiore speditezza alla riscossione delle imposte, prevedendo in alcune ipotesi la soppressione dell’iscrizione a ruolo, in favore dell’inserimento diretto, nell’atto di accertamento, dell’exquatur proprio del ruolo esattoriale.

Ammettere l’impugnabilità dell’estratto di ruolo si pone in contrasto con la politica perseguita dal legislatore producendo l’effetto avverso, ossia rallentare, potenzialmente, la procedura di riscossione, esponendola a liti pretestuose con finalità soltanto dilatorie.

Per altro se appare inconfutabile che le regole della riscossione definiscono il ruolo come atto interno dell’amministrazione , che assume fisionomia giuridica di provvedimento amministrativo soltanto attraverso la notifica della cartella di pagamento (che diviene definitiva trascorsi sessanta giorni dalla sua notifica, in assenza di ricorso nei termini indicati dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992), a maggior ragione deve essere inteso come improduttivo di effetti giuridici il suo estratto, ossia la semplice certificazione dei risultati scaturenti dalla interrogazione del sistema informatico dell’agente di riscossione.

In termini generali, l’intendo della Cassazione di adeguare il complesso di garanzie e delle tutela accordate al contribuente, proprio in questa fase storica nella quale la produzione normativa è impegnata a potenziare l’attività di riscossione, non controbilanciando tale maggiore forza coattiva con la previsione di adeguati mezzi di tutela per il cittadino pe evitare inevitabilmente effetti distorsivi del sistema.

In questo senso devono essere interpretate le regole che lo stesso Legislatore ha imposto al concessionario con le nuove disposizioni previste dal Decreto n. 70/2011.

Nella recente pronuncia della Cassazione n. 2248 del 2014, i giudici – nel confermare quanto detto pocanzi-  hanno ritenuto che nonostante il ruolo rappresenti un atto interno dell’amministrazione, costituisce comunque uno strumento fondamentale della riscossione poiché contiene l’indicazione del periodo d’imposta, cui l’iscrizione si riferisce, dell’imponibile, dei versamenti e dell’imposta effettivamente dovuta, oltre che degli interessi e delle sanzioni pecuniarie eventualmente irrogabili al contribuente: tale iscrizione costituisce, il valido e legittimo titolo per la riscossione del tributo, mentre la cartella esattoriale costituisce lo strumento mediante il quale la pretesa esattoriale viene portata a conoscenza del debitore d’imposta. Ne deriva che il momento determinante per l’instaurazione del rapporto giuridico di riscossione è quello della formazione del ruolo e non già quello della notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

In pratica, l’estratto di ruolo consegnato dal concessionario della riscossione al contribuente è impugnabile se questi è venuto a conoscenza della cartella esattoriale per la prima volta grazie a tale atto. Infatti- come ripreso nelle sentenze della Cassazione n. 724 del 2010 e n. 27385 del 2008 –  si riconosce “ la possibilità di ricorrere alla tutela del Giudice Tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore senza necessità di attendere che la stessa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili”.

D’Altronde, si può facilmente comprendere il forte interesse all’impugnabilità delle cartelle attraverso gli estratti di ruolo, in quanto basti pensare che nel caso in cui il contribuente avesse ricevuto un atto esecutivo da parte di Equitalia per quelle pretese tributari – si pensi al pignoramento sul conto corrente bancario o ad un pignoramento mobiliare – sarebbe stato totalmente privo di tutela e non avrebbe avuto la possibilità di opporsi. Infatti, ai sensi dell’art. 57 del DPR 602/73 per i debiti tributari “non sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 cpc”.

In pratica, per legge e solo per i debiti tributari se il contribuente riceve uno degli strumenti esecutivi sopra citati non ha più la possibilità di contestare il debito (attraverso una normale opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc) poiché ciò è escluso dallo stesso legislatore.

Il contribuente, dunque, nel caso di specie si sarebbe trovato nella situazione paradossale di venire a conoscenza del debito tributario solo a seguito del ricevimento di un pignoramento ma non di poter contestare la mancata notifica delle precedenti cartelle esattoriali. Ovviamente una situazione del genere sarebbe palesemente incostituzionale e per questo motivo si ritiene saggia la scelta di ritenere impugnabili gli estratti di ruolo.

A chi sostiene che il ruolo non abbia un vero e proprio contenuto impositivo, la Corte risponde che, comunque, è compito del giudice valutare il contenuto sostanziale impositivo, inteso quale attitudine a rappresentare e rendere conoscibile la pretesa tributaria negli elementi essenziali e sufficienti per adire la tutela amministrativa o giudiziale. Di contro è  evidente poi che la ricorribilità dell’estratto di ruolo consentirebbe a chiunque di predeterminare a proprio piacimento i termini a quo di proposizione del gravame, ovvero di eludere quelli riguardanti la cartella esattoriale.

Non si ravvisa assenza di tutela per il contribuente per la quale è necessario l’intervento interpretativo fornito dalla Corte di Cassazione. Infatti anche nella circostanza di accertata nullità della notifica della cartella esattoriale, il rimedio processuale per accertarne la sua inesistenza o contestarne l’iscrizione a ruolo è garantito dalla diretta impugnabilità dei successivi atti esecutivi, come l’avviso di mora, il pignoramento o gli altri strumenti cautelari quali il fermo amministrativo e l’ipoteca. Il loro eventuale accoglimento determinerebbe la nullità anche della procedente cartella di pagamento, non notificata correttamente.

Pertanto in tale ipotesi, la giurisprudenza prevalente constata la nullità del precedente atto impositivo riconosce la possibilità, attraverso l’atto successivo ritualmente notificato e impugnato, di contestare le ragioni del credito evidenziate nell’atto precedente, dal momento che manca la regolare notifica del provvedimento impositivo autonomo (Cass. Se. Un. Sent. 25 luglio 2007 n. 16412)[1].

2. L’estratto di ruolo come un atto interno dell’amministrazione e pertanto non impugnabile.

In aperta antitesi si pongono altre pronunce giurisprudenziali, le quali ritengono l’estratto di ruolo non impugnabile dal contribuente perché  atto interno all’amministrazione finanziaria[2].  Nello specifico l’estratto di ruolo non può essere oggetto di autonoma impugnazione davanti al giudice tributario, e questo perché senza la notifica di un atto impositivo non c’è alcun interesse concreto e attuale ex art. 100 c.p.c. a radicare una lite tributaria[3]; l’estratto di ruolo, quindi, può essere impugnato soltanto unitamente alla cartella di pagamento che sia stata notificata e ciò è altresì confermato dalla struttura oppositiva del processo tributario, che non ammette preventive azioni di accertamento negativo del tributo[4].

La recente sentenza della Cassazione n. 6395 del 2014 ha chiarito che l’estratto di ruolo – essendo un atto interno dell’amministrazione – non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato sempre insieme alla cartella (nella quale il ruolo viene trasfuso). Altrimenti, il ricorso contro il ruolo non è possibile, per mancanza di interesse concreto ed attuale del contribuente ad istaurare una lite tributaria: il ruolo, infatti, non costituisce una vera e propria pretesa tributaria, ossia una intimazione o un avviso a pagare (questi ultimi , invece, sono contenuti tipici solo della cartella ed è contro quest’ultima che, invece, il contribuente deve ricorrere davanti al giudice).

Ciò significa che l’estratto di ruolo può essere impugnato soltanto unitamente alla cartella  che sia stata notificata. Ciò  che è altresì confermato dalla struttura oppositiva del processo tributario, che non ammette preventive azioni di accertamento negative del tributo.

 

 


[1] La decisione della Suprema Corte risulta conforme all’univoco orientamento interpretativo che ritiene impugnabile “tutti quegli atti con cui l’amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definitiva (Cass., sen 15 ottobre 2010 n. 14373).

[2] Cass. sent. n. 6395 del 19.03.2014

[3] Cass. sent n. 6610 del 15 marzo 2013.

[4] Sentenza n. 89/02/07 la Commissione Tributaria Provinciale di Siracusa.

di Irene Marostegan

La legge n. 604 del 6 agosto 1954, recante “Modificazioni alle norme relative alle agevolazioni tributarie a favore della piccola proprietà contadina”, ha disposto particolari agevolazioni in materia fiscale[1] per gli atti inerenti alla formazione o all’arrotondamento della c.d. piccola proprietà contadina, in presenza delle condizioni e dei requisiti fissati dal legislatore.

di Debora Mirarchi

Con la formula “abuso del diritto” si intende l’uso distorto di schemi giuridici apparentemente legittimi, finalizzato a porre in essere operazioni che, prive di qualsivoglia spessore economico, hanno quale unico obiettivo un indebito risparmio di imposta. L’illegittimità non è, quindi, intrinseca agli strumenti giuridici ma deriva da una valutazione complessiva degli stessi che, singolarmente considerati, appaiono, invece, perfettamente legittimi.

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