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insolvenza

(di Pietro Pavone)

La crisi dell’impresa impone un’analisi delle cause dell’insolvenza che potrebbe anche assumere le forme di una rivisitazione da parte del Giudice penale delle condotte tenute da amministratori, sindaci e revisori.

Spesso ci si attacca a dei formalismi e il curatore fallimentare, nel volgere indietro lo sguardo, si appella a dei tecnicismi che – onestamente – in assenza di una situazione di stato di crisi, difficilmente sarebbero attenzionati.

Nella maggioranza dei casi, quando si ipotizza una responsabilità penale dei sindaci o dei revisori a seguito di una crisi aziendale, le condotte ipotizzate come penalmente censurabili sono antecedenti al momento in cui si è manifestato lo stato di crisi.

Peraltro, negli ultimi anni, le esecuzioni di ordinanze di custodia cautelare per reati fallimentari sono cresciute considerevolmente, anche in considerazione dell’applicabilità delle norme penali della legge fallimentare oltre che in caso di sentenza dichiarativa di fallimento anche in situazioni di concordato preventivo ex art. 160 L.F. (principio affermatosi nel 2012).

La delicata attività che la Magistratura è chiamata a svolgere in sede di approfondimento di uno stato di insolvenza non è certamente resa agevole dai sistemi di corporate governance societari.

Autorevoli autori hanno messo in risalto che il mondo dei controlli delle società è più che altro un “reticolo di controllo” piuttosto che un sistema di controllo, atteso il sovrapporsi di competenze tra i vari organi, con la conseguenza che il Giudice penale ha il difficile compito di individuare e isolare i contributi realmente rilevanti.

In relazione a come in concreto tale compito viene svolto dalla Magistratura, è stato criticamente osservato che talvolta – specie in contesti societari complessi – ci si ostina a perseguire forme di ipotizzata responsabilità “collettiva”, senza un’approfondita analisi di ogni singola posizione e a tutto scapito del principio di personalità della responsabilità penale.

In particolare, nella prassi illustri giuristi, hanno rilevato che in alcuni casi “si rinviene una non approfondita analisi della sussistenza del nesso causale tra l’agire o meglio il non agire dell’organo di controllo ed il realizzarsi del delitto ipotizzato e soprattutto una carente analisi dell’aspetto soggettivo volitivo dei sindaci e dei revisori, equiparando la conoscibilità della condotta costituente reato posta in essere dagli amministratori con la effettiva conoscenza di tali condotte”.

In altri termini, ove non vi sia prova che il sindaco o il revisore abbiano la effettiva conoscenza di fatti che potrebbero portare alla commissione di un reato e il non agire è frutto di colpa o incuria, sussiste una responsabilità di natura civilistica, ma non di certo una responsabilità penale.

Accade, talvolta, che identiche censure vengano mosse a sindaci e revisori malgrado la diversità delle funzioni svolte: così, può essere contestato ai revisori come condotta dolosa il non aver espresso un giudizio negativo sui bilanci contenenti gravi falsificazioni (a titolo di esempio, l’iscrizione tra le immobilizzazioni immateriali del valore di un avviamento, avente in realtà secondo la prospettazione accusatoria, valore negativo; l’aver indicato come esigibili crediti in realtà inesigibili oppure il non aver contabilizzato la sussistenza di debiti tributari ecc.).

Partendo quindi dal presupposto che tali falsificazioni del bilancio potessero essere conosciute dai revisori o che vi fossero chiari segnali che potessero essere state poste in atto, la condotta omissiva penalmente rilevante ai sensi dell’art. 40, comma 2 C.P. e quindi del concorso del reato ai sensi dell’art. 110 C.P. dei revisori con gli amministratori viene individuata dall’organo dell’accusa nel “non aver espresso un giudizio negativo”, evidenziando nella relazione di revisione, le falsità sopra descritte.

Orbene, non è infrequente che, nell’ambito dello stesso procedimento, per quanto riguarda il collegio sindacale, venga contestato il doloso comportamento omissivo ai sensi dell’art. 40, comma 2 C.P. ipotizzando la conoscibilità delle medesime falsità di bilancio contestate ai revisori o la presenza di chiari segnali che avrebbero potuto fare ipotizzare tali falsità.

Accade, dunque, che la pubblica accusa non effettui alcuna distinzione tra finalità e modalità di controllo di sindaci e revisori e contesti come condotta dolosa il non aver accertato talune criticità in bilancio ad entrambi gli organi di controllo.

Quanto agli amministratori – più spesso coinvolti in procedimenti per bancarotta – pare potersi condividere la tesi secondo la quale l’amministratore di una società insolvente o in crisi non sia tenuto alla richiesta del fallimento in proprio, ben potendo invece valutare la maggior convenienza per i soggetti coinvolti (creditori in primis) di una diversa soluzione.

Anzi, potrebbe in teoria risultare fonte di responsabilità in capo all’amministratore l’aver optato per la richiesta di fallimento, sussistendo invece ragionevoli e concrete prospettive di risanamento mediante, ad esempio, un accordo di ristrutturazione dei debiti: in astratto, il curatore potrebbe ipotizzare un’azione di responsabilità addebitando all’amministratore il fallimento e le sue conseguenze economiche, dando prova del fatto che detto amministratore avrebbe potuto – usando la propria diligenza ex lege – comprendere l’opportunità di ricorrere ad altra soluzione. A

questo proposito, è stato affermato che “la condotta dell’imprenditore, che non richieda il proprio fallimento ma concluda una convenzione stragiudiziale volta a consentire agli stessi creditori un maggior rientro, non configura di per sé alcuna responsabilità. Pertanto, gli amministratori di imprese in crisi devono decidere secondo criteri imprenditoriali ovvero hanno il diritto/dovere di procedere a convenzioni di salvataggio ogniqualvolta vi siano condizioni economico-finanziarie che consentano il turnaround. Il tutto nell’interesse degli azionisti, ma anche dei creditori dell’impresa”.

Va peraltro ribadito che una simile responsabilità in capo all’amministratore trova una ferma mitigazione nella insindacabilità nel merito delle scelte gestorie (cd. “Business Judgment Rule”): le decisioni degli amministratori possono essere quindi fonte di responsabilità al termine di un giudizio di legalità (anche in termini di colpa o di mancata diligenza professionale) e non già di merito.

Di conseguenza non pare davvero possibile ritenere sindacabili il merito gestorio né gli errori di gestione che abbiano portato ad un cattivo risultato per la società, se non nella misura in cui si riscontri l’omissione di quelle cautele, verifiche ed informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel determinato tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità, secondo un criterio prognostico di prevedibilità delle conseguenze insoddisfacenti e pregiudizievoli, potenzialmente derivanti.

Perciò, l’esito infausto della gestione dell’impresa – e si può ritenere anche l’esito negativo di una determinata procedura di risanamento (ad esempio, il ricorso ad un piano attestato di risanamento anziché la richiesta di fallimento in proprio) –, non prova di per sé che gli amministratori siano venuti meno al dovere di operare con diligenza, ben potendo questi essere dipesi dallo sfavorevole andamento del mercato o a comportamenti riconducibili a soggetti terzi (ad esempio, un finanziatore che non adempia la propria promessa di erogazione di credito) ed in tal caso non potendo imputare i soci all’organo di non aver avuto fortuna.

Infatti, il risultato utile di gestione non è dedotto nell’obbligazione gravante sull’amministratore nei confronti della società, ma resta una propensione verso la quale deve essere indirizzata tutta l’attività gestoria, appartenendo alla categoria delle “obbligazioni di mezzi” e non “di risultato”.

Pertanto, come è stato ribadito dalla giurisprudenza, la valutazione delle decisioni assunte dagli amministratori, da compiersi nel giudizio di responsabilità, deve attenersi solo al momento prodromico dell’istruttoria che ha consentito di pervenirvi ricorrendo la responsabilità degli amministratori quando si riscontri la mancata adozione di quelle cautele o la non osservanza di quel dovere di diligenza.

Appare in ogni caso chiara l’importanza che viene ad assumere quella fase di dialettica fra sindaci e amministratori sulla quale spesso non si è soffermata abbastanza l’attenzione dei nostri giuristi. Si tratta di una fase propositiva in cui il collegio sindacale può e deve portare a conoscenza degli amministratori la propria valutazione, stimolando e suggerendo ai gestori le iniziative da assumere e quelle da evitare. Com’è facile intuire, si tratta anche di una fase, per così dire, cautelativa per gli stessi sindaci nella prospettiva di un insuccesso del piano studiato dagli amministratori, sicché sarà prudente che di tale attività resti sempre traccia documentale nel libro delle riunioni del collegio sindacale, nelle verbalizzazioni richieste ed eseguite in sede di consiglio di amministrazione e di comitato esecutivo e attraverso opportune ed eventuali comunicazioni scritte conseguenti alle delibere assunte dall’organo di controllo.

E’ frequente il caso, tuttavia, che gli amministratori possano non condividere l’opinione del collegio sull’irreparabilità della crisi e sui rimedi idonei a fronteggiarla.

Così come può accadere che tale condivisione manchi da parte dei soci, chiamati a eseguire interventi sul capitale o a profondere, comunque, nuove risorse (finanziamenti, prestazione di garanzie, ecc.) a favore della società. Sicché la fase del controllo che potremmo chiamare stimolativa o propositiva in un’ottica di moral suasion, se pur utile dal punto di vista delle responsabilità dei sindaci, può rivelarsi priva di effetti concreti.

In tale caso, tenuto presente che pesa sul collegio il dovere di porre in essere tutte le azioni possibili al fine di scongiurare o contenere il danno, la dimostrazione di una condotta ostativa di tipo meramente interno potrebbe non essere sufficiente, ragion per cui occorre verificare se il collegio disponga di altri e più penetranti poteri di reazione, la cui omessa attivazione possa essergli rimproverata e porsi quale concausa efficiente di un pregiudizio.

E’ noto come, nella visuale originaria del codice civile, tali strumenti fossero pressoché inesistenti e che proprio su questo versante si fossero appuntate le critiche di una cospicua parte della dottrina. Nel tempo, la fase reattiva del controllo interno è andata arricchendosi di nuove prerogative; ma, allo stato attuale della legislazione, non sembra che tali prerogative siano ancora idonee ad assicurare un’appropriata gestione della crisi d’impresa.

 

 

 

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