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sentenza corte costituzionale

In caso di licenziamento ingiustificato il Giudice determina l’indennità risarcitoria

(di Daniele Nicola Cocco ed Elisa Beccari)

Premessa

La Corte Costituzionale, con la sentenza nr. 194 dell’8 Novembre 2018, ha giudicato incostituzionale l’art. 3, comma 1, del D.Lgs. 4 Marzo 2015, n. 23, il quale prevede il criterio di determinazione dell’indennità spettante al lavoratore licenziato ingiustamente: in particolare il criterio basato sull’anzianità.

(di Ivana Colombo)

Il ritiro da un’organizzazione può essere l’inizio di una nuova carriera?

Il distacco improvviso dal mondo del lavoro può assumere caratteri traumatici, che si tratti di prepensionamento, o peggio, di perdita del lavoro in età matura con la necessità di maturare i requisiti necessari per raggiungere la condizione di pensionamento. Quando non si è più presi dall’ansia di costruire un futuro lavorativo, o impegnati nello sforzo di conservarselo, è possibile dare spazio ad ambizioni sacrificate, a un modo diverso di concepire il tempo del lavoro.

Il modo migliore di affrontare un cambiamento così importante è una preparazione programmata in anticipo (diverso è certamente il caso di doversi procurare assolutamente un altro lavoro). Coltivare nuovi interessi (1), riprendere un percorso di studi accantonato o interrotto precocemente perché non strettamente funzionale alla richiesta del mercato presenti a inizio carriera, può essere la chiave di volta di un passaggio complicato, un’occasione di crescita su entrambi i fronti, dei lavoratori e delle imprese.

Non è detto che non si possano riposizionare lavoratori esperti che possono unire saggezza ed esperienza a titoli di studio recenti, combinazione che mai finora si era presentata nel mercato del lavoro. In linea con quanto chiede l’Europa in termini di “invecchiamento attivo” (2), ovvero che i lavoratori più maturi vengano trattenuti quanto più a lungo possibile nel mondo del lavoro, sia per non disperdere competenze preziose, sia per contribuire al sostegno del welfare, che un po’ dovunque sta mostrando le corde.

1. La fine dei percorsi di carriera

La carriera così come è stata finora concepita, ingresso, addestramento, crescita, avanzamento è qualcosa che sta progressivamente scomparendo, certamente in termini di lunga permanenza all’interno di una stessa impresa. Si entra nel mondo del lavoro più tardi, si vive più a lungo e il posto fisso è sempre più una rarità ed è inesorabilmente destinato nel tempo a cambiare forma. E così per molti una condizione di negatività può trasformarsi in un’opportunità. Al di là dei tentativi utopici finora messi in atto, i settori che maggiormente hanno creato domanda sono stati finanza, vendite, salute, ingegnerizzazione, ICT,

2. La cultura dell’active ageing

In Italia non è altrettanto diffusa come in altri Paesi, soprattutto europei, dove già esiste una cultura del pensionamento programmato, necessaria pre-condizione del pensionamento attivo o procrastinazion dello stesso (active-ageing).

Il requisito fondamentale per mantenere appetibilità sul mercato del lavoro è aggiornare le competenze. Un refresh informatico o linguistico per coloro che ne avessero bisogno può rivelarsi vincente unitamente alle capacità trasversali quali attitudine al cliente, al coordinamento dipendenti e fornitori, abilità relazionali in genere, che sono oggi le più richieste, per mantenere competitività con le fasce più giovani, le quali al contrario devono ancora affinare e consolidare le loro competenze trasversali, in quanto al loro ingresso nel mondo del lavoro le possiedono solo sulla carta.

In Italia come sempre vige una certa lentezza nell’assimilare nuove tendenze, in diversi campi disciplinari, ma in particolar modo con riguardo al mercato del lavoro e della gestione del personale. Attività quest’ultima piuttosto recente e ancora guardata con un certo sospetto: non è raro che sia un’operazione più che altro di maquillage soltanto formale della precedente e burocratica concezione di Ufficio del personale, meramente amministrativa e assoggettata al potere gestionale dei manager, che sono restii ad allentare la presa di potere nel settore del reclutamento, anche quelli meno dediti a pratiche nepotistiche.

3. Ripensare i rapporti di lavoro

In un periodo nel quale le aziende non vogliono occuparsi di fare formazione, vuoi perché preferiscono procurarsi le competenze sul mercato della formazione, affidandosi al segnaling dei titoli di studio (3) vuoi perché lo ritengono troppo costoso è indubbio che attingere ai serbatoi di personale già formato possa costituire un vantaggio competitivo.

Va quindi certamente ripensato un rapporto di collaborazione, che, liberato dai meccanismi basati sull’incremento dei salari in base all’anzianità di servizio, caratteristici della retribuzione da lavoro dipendente e considerato troppo costoso, con una formula meglio strutturata: una forma contrattuale che riesca a consentire realmente la fruizione di professionalità preziose, in cambio di una collocazione dignitosa, destinata a lavoratori di ogni età, in un Paese dove certo non è mai mancato l’ingegno. Si tratta allora di essere capaci di immaginare, progettare e mettere in atto una diversa visuale dei rapporti di lavoro: una flessibilità tutelata e garantita, in grado di fornire professionalità specifiche ed efficaci in tutte le categorie di lavoratori, dall’operaio specializzato alle posizioni apicali, ai professionisti tecnici o delle professioni legate all’editoria, ai media, ai giornali, alle amministrazioni e quant’altro.

Note

[1] Aristotele, “Lo studio è la miglior previdenza per la vecchiaia”, Filosofo greco (Anno 384 A.C., 7 marzo 322 A.C.).

[2] Strategia per l’Europa 2020: l’anno 2012 è stato l’Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni e durante tutto il periodo si sono tenute numerose iniziative a favore dell’invecchiamento attivo per far sì che gli anziani rimangano più a lungo nel mercato del lavoro, conservino la loro salute e conducano una vita attiva il più a lungo possibile. In tale ambito, l’Ue ha lanciato la Strategia europea per invecchiare bene con le tecnologie, cogliendo in pieno la prospettiva verso cui sta andando l’assistenza agli anziani in Europa finanziando progetti di adeguamento delle abitazioni, telemedicina, comunicazione sociale, monitoraggio informatico del paziente e così via.

[3] Poiché è molto difficile per i datori di lavoro verificare le capacità di un candidato, si affidano al “segnale” indicato dall’aver conseguito un titolo di studio. In realtà non si diventa più produttivi perché si possiede un titolo di studio superiore, ma solo più ricettivi e disponibili a introiettare i processi produttivi. La produttività rimane però legata alla capacità del candidato di applicare concretamente quanto appreso, poiché il titolo di studio è un punto di partenza non di arrivo. Ciò non toglie che sia necessario comunque un addestramento on the job, ma, in mancanza di qualunque altra possibilità di valutazione, il titolo rassicura i datori di lavoro sulle capacità “potenziali” del candidato. Molto spesso negli ultimi anni i titoli erano sovradimensionati rispetto alle reali capacità richieste dalla posizione lavorativa, fatto che sta inducendo alcune grandi imprese a ridimensionare il fenomeno, poiché crea eccessive aspettative sia di carriera sia di stipendio nei nuovi assunti.

[4] Passerini W. – Marino I. (2014), La guerra del lavoro, Bur Rizzoli, Milano, “In un mercato del lavoro in cui il tasso di disoccupazione è in crescita, le aziende che hanno posizioni aperte vanno alla ricerca di professionalità dai 45-50 anni in su con competenze ed esperienze subito spendibili. Le imprese puntano di meno sui candidati con potenziale e si focalizzano invece su quelli dotati di competenze reali. I motivi vanno ricercati nell’incertezza economica, che tende a portare le imprese al raggiungimento di risultati immediati e di obiettivi di breve periodo. Questa inversione di tendenza è stata resa pubblica dall’Osservatorio di Micheal Page, società specializzata nel recruiting di middle e top manager. Mettendo a confronto il periodo gennaio 2007-agosto 2008, immediatamente prima della crisi nel mercato del lavoro, con il periodo più difficile e negativo compreso tra gennaio 2012 e agosto 2013, gli inserimenti lavorativi degli over 50 sono cresciuti del 152%, di cui il 66% per gli uomini e il 34% per le donne. I contratti di lavoro risultano essere per il 67% a tempo indeterminato e per il restante 33% a tempo determinato.”. I 50enni generalmente si rendono disponibili per maturare gli anni che mancano all’età pensionabile, mentre gli ultra 55enni e più per arrotondare la pensione, spesso con retribuzioni più contenute rispetto alla media. Il tutto mantenendo la questione in termini di necessità, senza in questa sede allargare il discorso a quello che è la soddisfazione che si ricava dal mantenersi in attività.

(di Pietro Pavone)

L’eterna lotta tra capitale e lavoro si combatte oggi su scala internazionale.

L’indiscussa globalizzazione dei mercati e la connessa libertà di movimento dei capitali hanno reso estremamente agevole trasferire ricchezza e spostare profitti, alla continua ricerca di maggiori margini o minori carichi fiscali.

Se sul versante della libera circolazione delle persone, che pure i processi di globalizzazione hanno significato, si è intervenuti a chiari intenti limitativi (arrivando perfino a concepire il reato di immigrazione clandestina), non altrettanto si è fatto quanto a limitazioni della libera circolazione dei capitali (come persuasi dalle parole magiche “concorrenza” e “competitività”).

La decisione di lasciare i detentori di capitali liberi di fuggire verso mete più felici vuol dire aver accettato il rischio – elevatissimo – di localizzazione delle ricchezze in paradisi fiscali; vuol dire aver rinunciato ad un attento monitoraggio preventivo privilegiando una difficile lotta all’evasione ex post.

Il dramma che si sta consumando è che quella eterna lotta tra capitale e lavoro, combattuta sul campo del “libero mercato”, sia sempre più per i lavoratori una guerra persa in partenza.

E’ il lavoro che inevitabilmente ne fa le spese perché concetto, per definizione, più facile da afferrare se contrapposto al capitale, sfuggente o forse irraggiungibile.

E’ sempre il lavoro a pagare il prezzo dell’incapacità di concepire una riforma strutturale del nostro sistema fiscale, accollandosi il peso di essere tassato in maniera sempre crescente per poter compensare la mancata tassazione del capitale “latitante” in qualche paradiso fiscale.

Come se non bastasse, di nuovo l’incontrollata libertà di movimento del capitale colpisce ancora il lavoro abbattendo la forza rivendicativa e sindacale di quegli ultimi scampoli di movimento operaio che ancora cercano di resistere nel nostro paese.

Sulla scorta di tale necessaria premessa, consapevoli del fatto che quello dell’evasione è problema prima di tutto politico che presuppone scelte in campo macroeconomico e considerazioni di ordine ideologico, è indubbia l’importanza delle indicazioni criminologiche e investigative per meglio comprendere questa particolare forma di devianza.

L’evoluzione dei sistemi economici e il mutamento della fisionomia dei mercati hanno, di fatto, avviato processi di ampliamento delle opportunità criminali.

Tuttavia, la globalizzazione del crimine, che ha dipinto di transnazionalità il fenomeno dell’erosione della base imponibile, non trova le premesse unicamente nell’ambiente esterno all’impresa.

E’ evidente che “gli uomini non sono creature passive alla mercé degli stimoli esterni; in gran parte essi creano il mondo nel quale vivono e agiscono”.[1]

Spesso se ne ha evidenza nella primissima fase di “contatto” del Fisco con il soggetto selezionato per il controllo fiscale: i primi sintomi di evasione è esperienza che possano registrarsi già in sede di accesso dei verificatori in azienda: le ricerche documentali eseguite consentono talora di acquisire pareri forniti da primari studi legali, dai quali emerge chiaramente la preoccupazione del management di fare il possibile per comprovare artificiosamente l’esistenza di motivi non fiscali alla base di una data scelta gestionale.

Insomma, una prima perversione morale dai risvolti fiscali certamente più facile da criminalizzare che da “smontare”: nel manifestarsi del fatto evasivo si rinviene un ruolo attivo o – meglio – riflessivo del soggetto agente: è l’uomo che costruisce attivamente il proprio agire evasivo.

E’ una tendenza che spesso guida le scelte fiscali di una società e che, se intercettata, può minare seriamente il cammino, apparentemente indisturbato, del fatto evasivo che avanza silenzioso.

A ben vedere, il percorso attraverso cui internazionalizzazione delle organizzazioni, pianificazione fiscale e criminalità si influenzano reciprocamente è l’espressione di un tratto congenito di ogni società: il profilo transnazionale delle realtà giuridico-economiche pone il quesito “pianificazione”, che – a sua volta – ben si presta a fare da spalla a comportamenti devianti. E’ fisiologico che imprese con funzioni localizzate in più stati cerchino di valorizzare quelle situate dove la fiscalità è più favorevole, speculando sull’arbitraggio fiscale.

Pertanto, più le realtà aziendali proiettano il proprio business a di là dei confini nazionali più aumenta il rischio che emerga la dicotomia tra tassazione territoriale e tassazione mondiale del reddito.

Viene, così, al pettine un primo nodo fondamentale: i comportamenti del contribuente e quelli del Fisco sono due facce della stessa medaglia: se per il primo la priorità è quella di individuare e minimizzare i rischi fiscali, per il secondo la priorità è quella di ricercare e massimizzare/valorizzare gli indizi di evasione: ciò che è curioso è che gli indizi – spesso– coincidono con i rischi.

Restando nel solco delle teorie che guardano al comportamento deviante quale esito di una scelta razionale, è evidente che un’impresa può evadere pur senza mutare le sue caratteristiche strutturali ma per il solo fatto di avviare rapporti con l’estero. Rapporti sopravvenuti – dunque – che rendono inadatta, dal punto di vista squisitamente fiscale, una configurazione strutturale in precedenza adeguata.

Nella partita che si gioca tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, l’imperativo comune ad entrambi è diventato quello di anticipare la diagnosi di pericolosità fiscale.

L’anticipazione del rischio fiscale caratterizza tanto i principi organizzativi delle società tanto le regole d’azione del Fisco.

L’Amministrazione Finanziaria, in effetti, necessita di compiere continuamente un’analisi comportamentale dei soggetti presenti sulla scena economica al fine di ravvisare una trama che saldi taluni fatti evasivi (o potenzialmente tali) così da evidenziare modelli devianti verso cui tendere con azioni mirate: modelli di spiegazione del crimine tributario capaci di indagare la genesi del fatto evasivo.

In quest’ottica, i sistemi di frode fiscale entrano nel laboratorio del Fisco per l’osservazione al microscopio, allo scopo di affinare l’azione accertativa in un divenire sempre perfezionabile.

Tra le maglie di queste dinamiche, anche il contribuente – lo si è detto – è chiamato ad uno sforzo di analisi preventiva.

Lungi dal prefigurarsi di raggiungere uno stato di immunizzazione da qualsivoglia rischio fiscale, il contribuente opera per ridurlo ai minimi termini.

In questo senso, la prima attività di mappatura dei rischi di carattere fiscale comprende una presa di coscienza circa le aree di vulnerabilità fiscale presenti e potenziali (cioè conseguenti a determinate scelte organizzative, o a eventuali mutamenti nella legislazione tributaria o, ancora – più semplicemente – a cambiamenti degli indirizzi strategici del Fisco).

In questa delicata attività di analisi, è bene che si vada oltre il concetto di evasione come categoria generale onnicomprensiva, essendo certamente più agevole ed efficace un’analisi per aree di fiscalità internazionale.

Ciò che si intende è che la residenza fiscale, ad esempio, gioca si un ruolo di assoluta importanza nell’agire dei soggetti economici rappresentando il fondamento principale della pretesa impositiva, ma non è il solo punto chiave: esiste una evasione da stabile organizzazione, una da transfer pricing, al di là della classica evasione fiscale da paradiso fiscale, tutti concetti che implicano considerazioni ulteriori.

Peraltro, la fiscalità d’impresa, essendo anche e in parte il frutto di un’attività di interpretazione delle norme, sfugge ad un pieno governo da parte dell’impresa. Al contribuente è, di fatto, richiesto di destreggiarsi tra norme , prassi e giurisprudenza con esiti comunque incerti.

Si è visto che potenziamento delle tecniche di accertamento e rafforzamento della prevenzione e della compliance culture partono da un punto comune: l’analisi della variabile fiscale che, a differenza del passato, non è più assorbita dal modello di gestione ma è portatrice di una forza dirompente capace di modificare il modello di business. La variabile fiscale crea le decisioni aziendali; non le subisce passivamente.

Date queste considerazioni, si ritiene di dover collocare la questione dell’evasione sotto l’osservazione di nuove lenti.

A ben vedere ci si è timidamente occupati dell’evasione fiscale degli individui, cercando spiegazioni di carattere utilitaristico, sociologico e psicologico, mentre rimangono molte le lacune per quanto riguarda l’analisi del settore delle imprese. Pur essendo due facce della stessa medaglia, infatti, i due fenomeni si configurano e si sviluppano in modo diverso, ed altrettanto differenti sono, per questo, i metodi di analisi”.[2]

I tempi sono quelli di uno sforzo in termini di ricerca criminologico – tributaria.

Ce lo chiedono i lavoratori.

Note

[1] T. SHIBUTANI, Society and Personality, An Interactionist Approach to Social Psychology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1961, p. 65.

[2] L. BARILE, L’evasione fiscale delle imprese: i recenti contributi della Teoria dei contratti; in Studi e Note di Economia N. 3/2005.

(di Sonia Cecchini)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1946 ha sostenuto che “La salute non è la semplice assenza di malattia ma lo stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale”[1].

Come poter intervenire sullo stress lavorativo avvalendosi degli strumenti della psicologia positiva? Una possibilità è agendo sulla resilienza, ovvero la capacità di far fronte in maniera positiva alle difficoltà coltivando le risorse che sono dentro di noi.

La letteratura in materia di stress in ambito lavorativo costituisce uno dei filoni di indagine più consistenti ed articolati della psicologia della salute nei contesti di lavoro.

Essa comprende l’indagine relativa al potenziale nocivo degli stimoli ambientali e psicosociali, ai processi di coping mediante i quali le persone fanno fronte agli stressors, e alla vasta gamma di sintomatologie che occorrono quando i processi di coping falliscono.

Nonostante la presenza di un solido impianto teorico di riferimento e il consistente impegno profuso ormai da molti anni dalle organizzazioni nazionali ed internazionali nel tentativo di debellare o quantomeno di contenere il danno da stress in ambito lavorativo, il fenomeno continua infatti a mantenersi su livelli di emergenza. In base alla più recente indagine sulle condizioni di lavoro nell’UE, promossa dalla Fondazione Europea per il Miglioramento delle Condizioni di Vita e di Lavoro, lo stress lavorativo risulta essere la condizione maggiormente percepita in associazione con il deterioramento della salute dal 30% dei lavoratori).

Resistere allo stress è difficile; ancor più arduo pare riuscire a dominare il fenomeno nella pratica degli interventi di salvaguardia della salute dei lavoratori, prova ne è la recente pubblicazione del Documento di Consenso prodotto dalla SIMLII sulla “Valutazione, prevenzione e correzione degli effetti dello stress da lavoro”.

L’indagine ha come obiettivo generale la validazione di strumenti teorici e operativi nell’ambito della realtà delle organizzazioni di lavoro italiane.

Le indagini sono state sviluppate con l’intento di verificare da un lato la valenza protettiva del costrutto nei confronti dello sviluppo di sintomi stress-correlati e, dall’altro, di verificare la valenza più squisitamente promozionale di alcuni indici di benessere lavorativo e psicologico.

I dati sono stati raccolti in contesti naturali e coinvolgono due categorie di partecipanti: lavoratori attivi, coinvolti in indagini di clima organizzativo o in interventi di formazione, lavoratori in malattia, nella prevalenza a seguito di patologie del sistema cardio-vascolare, coinvolti in percorsi di riabilitazione o in attesa di una valutazione ai fini del reinserimento lavorativo. In totale circa 1660 lavoratori.

I principali modelli di riferimento sullo stress lavorativo ripropongono le due facce dello stress. Uno tra tutti, il modello Domanda-Controllo, specularmente alla direttrice dello ‘strain’, prevede la direttrice del ‘learning’,dell’apprendimento.

Il potenziale nocivo insito nel fenomeno stress ha di fatto catalizzato l’attenzione della ricerca orientando di conseguenza lo sviluppo di modelli di intervento in materia di gestione dello stress e di prevenzione del rischio.

Il modello di riferimento in assoluto più diffuso in questo ambito,tanto a livello teorico quanto nella pratica della medicina del lavoro, è il modello Domanda-Controllo,originariamente formulato daKarasek poi successivamente sviluppato insieme a Theorell . Nella sua valenza applicativa il modello propone interventi di job-design,finalizzati a ridurre la domanda – il carico psicologico e fisico del lavoro – e ad aumentare il controllo del lavoratore. Si tratta di interventi complessi da realizzare, che richiedono una struttura organizzativa capace di implementarli e di sostenerne i relativi costi.

Le caratteristiche dell’ambiente di vita e la qualità delle relazioni sociali sono un punto di riferimento fondamentale in questo ambito di indagine. Il costrutto principale in questo ambito di indagine è quello di supporto sociale. Complessivamente, il supporto sociale, risulta essere positivamente correlato con la resistenza allo stress, con un miglior adattamento psicologico ma anche con diversi parametri di natura fisiologica. Diversi studi hanno evidenziato in modo particolare il ruolo protettivo della dimensione di supporto sociale nei confronti del rischio cardiovascolare, verificato anche in studi epidemiologici con follow up. In letteratura è ormai reperibile molta documentazione circa la valenza salutogenica del costrutto.

Da alcuni anni, nell’ambito dell’attività di ricerca e intervento collegata all’Ambulatorio per la Valutazione e il Controllo dello Stress Lavorativo, stanno conducendo un’attività di ricerca orientata all’indagine dei fattori di resilienza. L’indagine ha come obiettivo generale la validazione di strumenti teorici e operativi nell’ambito della realtà delle organizzazioni di lavoro italiane. Le indagini sono state sviluppate con l’intento di verificare da un lato la valenza protettiva del costrutto nei confronti dello sviluppo di sintomi stress-correlati e, dall’altro,di verificare la valenza più squisitamente promozionale di alcuni indici di benessere lavorativo e psicologico.I contesti organizzativi e i contenuti del lavoro considerati sono molteplici: aziende pubbliche e private, professioni d’aiuto e impiegatizie, ad alto e basso rischio stress.

Per la rilevazione della variabile di senso è stato prevalentemente utilizzato il Sense of Coherence Questionnaire (SOC-13/29 items), nell’adattamento italiano dell’originale questionario costruito ad hoc per la rilevazione del costrutto. Nella maggior parte dei casi è stato somministrato il General Health Questionnaire (GHQ-12 items) una misura di autopercezione del distress psicologicominore,di cui è disponibile la validazione sulla popolazione italiana. In altri casi sono stati invece considerati i punteggi di elevazione delle scale dello MMPI-2. Ad oggi lo strumento più utilizzato è il questionario di misura di Psychological Well-Being (PWB-18 items) una delle misure più accreditate a livello internazionale per la rilevazione del funzionamento psicologico ‘ottimale’.

I dati raccolti, nel loro insieme, confermano la duplice valenza protettiva e promozionale della dimensione di senso. In un’indagine condotta sulla popolazione di impiegati (N=210) di un comune dell’hinterland milanese, i dati hanno rilevato il valore esclusivo del SOC (β .58) come predittore dei livelli di PWB (R2 .34). In altre indagini i valori di PWB rilevati vengono invece spiegati dall’effetto congiunto del SOC con altri indicatori di resilienza considerati, tra i quali si è rivelato particolarmente efficace il Self-Empowerment, un costrutto in precedenza non menzionato in quanto ancora poco diffuso nella letteratura internazionale.

I modelli di intervento, in primo luogo, fanno ancora ampiamente riferimento alla tradizione dello ‘stress management intervention’, prioritariamente focalizzati sulla riduzione della tensione percepita o della richiesta effettiva, piuttosto che sul potenziamento delle risorse disponibili. Non mancano però contributi di apertura verso modelli più squisitamente promozionali,con specifico riferimento all’intervento nelle organizzazioni di lavoro. Le maggiori carenze riguardano forse gli strumenti operativi. Con riferimento alle pratiche di valutazione delle condizioni di salute, gli strumenti di misura citati in precedenza sono stati in prevalenza generati con finalità di ricerca speculativa e non sempre quindi presentano un format idoneo all’applicazione in contesti d’intervento. Sul versante delle indagini dirette alla valutazione del rischio, la messa a punto di nuovi modelli di rilevazione è forse più rallentata. Gheno introduce la categoria delle ‘survey di benessere in azienda’ che in questo caso allarga il paradigma tradizionale della valutazione del rischio dalla rilevazione della presenza di predittori di malessere alla rilevazione dell’assenza di predittori di benessere. Occorre comunque incentivare un maggior raccordo tra le esperienze pratiche e quelle di ricerca al fine di procedere più speditamente nella validazione di strumenti e modelli di intervento. D’altro canto l’attività lavorativa costituisce in qualche misura il paradigma della vita, sempre impegnata nel processo di crescita e di riproduzione.

Note

[1] http://www.igorvitale.org/2013/12/25/resilienza-gestione-stress-contesti-lavoro/

di Ivana Colombo

La flessibilità oggi è un criterio sul quale lavorare e le carriere delle donne offrono una straordinaria occasione per fare esercizio. Le differenze e le diseguaglianze non si mettono a posto da sole, occorrono azioni positive che diano il via al cambiamento del pensiero dominante.

L’Italia ha brillato fin da subito per la parità formale, (anche salariale) meno per la parità sostanziale o più in

di Sonia Cecchini

La direttiva [1]89/391 CEE stabilisce che il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti connessi al lavoro, sulla base dei principi generali di prevenzione che sono: evitare i rischi, valutare i rischi che non possono essere evitati, combattere i rischi alla fonte, adeguare il lavoro all’uomo, non solo in riferimento alle attrezzature utilizzate ma anche ai metodi di produzione e programmazione.

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