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reato

(di Paola Romito)

L’imputazione soggettiva delle fattispecie penali è regolata, all’interno del codice penale, dall’art. 43 rubricato “elemento psicologico del reato”, collocato al capo I, titolo III, libro I, il quale fornisce la definizione del delitto doloso, preterintenzionale e, infine, colposo.

Nello specifico, la suddetta disposizione stabilisce che il delitto è “doloso”, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione; il delitto è “preterintenzionale”, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente; ed infine il delitto è “ colposo”, o contro l’intenzione, qualora l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Nella ricostruzione dell’elemento soggettivo nelle singole fattispecie penali si deve, poi, tener conto delle disposizioni codicistiche di parte speciale, quale ausilio e strumento imprescindibile per l’interprete.

Ai confini tra dolo e colpa si pone il dibattuto contrasto in ordine alla dicotomia tra dolo eventuale e colpa cosciente, oggetto peraltro di una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, in merito alla vicenda delle acciaierie Thyssenkrupp.

In una prima fase la categoria del dolo subiva una basilare scissione volta a distinguere il dolo diretto, raffigurabile ogniqualvolta l’evento fosse lo scopo dell’agente, da quello indiretto, ravvisabile nelle diverse ipotesi in cui il soggetto agente si fosse rappresentato la probabilità di verificazione dell’evento e ne avesse accettato l’eventuale realizzazione. Successivamente, la dottrina spinse per una qualificazione più rigorosa del dolo e propose una sorta di graduazione del coefficiente psicologico per eccellenza, dando vita ad una triplice distinzione del dolo sulla base del diverso grado di intensità della volontà. Si assisteva, quindi, a quella che ancora oggi vede distinguere il dolo intenzionale da quello diretto e da quello eventuale: dolo intenzionale sarebbe, in sostanza, la forma più grave di dolo in base al quale il soggetto si raffigura come certa la realizzazione dell’evento ed agisce proprio al fine di conseguirlo; dolo diretto sarebbe, invece, quello per il quale il soggetto si rappresenta come altamente probabile la conseguenza lesiva, a seguito della sua condotta ed agisce incurante del suo verificarsi; dolo eventuale sarebbe, infine, la forma più lieve di dolo, data dalla rappresentazione dell’evento illecito come meramente probabile.

Quest’ultima figura, come anticipato, ha suscitato notevoli problemi di ordine interpretativo ed applicativo con riferimento alla relativa natura e portata e, conseguentemente, alla distinzione con la figura della colpa cosciente (o con previsione) delineata dal combinato disposto di cui agli artt. 43 e 61 co.1 n.3 c.p.

La colpa cosciente, in particolare, raffigura un’ipotesi di circostanza aggravante comune riscontrabile quando nei delitti colposi si sia agito nonostante la previsione dell’evento.

Originariamente la distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente riposava sulla natura dell’attività che aveva costituito reato: tale distinzione rimarcava il principio del versari in re illicita per cui le attività c.d. autorizzate dall’ordinamento (quali la circolazione stradale, l’attività sportiva, l’attività medica, ecc.) venivano abitualmente ricondotte alla colpa con previsione, mentre le attività di per sé illecite erano punite a titolo di dolo eventuale e, quindi, più aspramente.   Si era, in tal modo, venuto a creare una sorta di tacito accordo tra dottrina e giurisprudenza imperniato sulla formula dell’accettazione del rischio: rischio base consentito e colpa cosciente, rischio illecito e dolo eventuale.

Tale apparente equilibrio venne, però, rotto dalla sopravvenienza di nuovi fattori che alterarono la prassi giurisprudenziale fino ad allora unanimemente seguita. In particolare, si assistette a un’estensione del rimprovero penale in settori inizialmente inquadrati nell’area del rischio consentito (in particolare la circolazione stradale e l’attività medica); all’emersione di fenomeni a c.d. rischio ancipite, che non consentiva più una netta separazione tra rischio illecito e rischio autorizzato (si pensi alla condotta del soggetto sieropositivo che intrattiene rapporti sessuali non protetti). In tale contesto comincia a farsi strada una visione diversa di dolo eventuale, come strumento di prevenzione generale volto ad accentuare la funzione general preventiva svolta dalla pena (si punisce ad esempio più gravemente l’automobilista particolarmente incosciente).

Questi cambiamenti da un lato ampliarono la responsabilità dolosa, dall’altro evidenziarono critiche precedentemente non manifestate e, solo in questo nuovo contesto, evidenziate.

Sorse, quindi, la necessità di operare un rigido bilanciamento tra gli interessi in gioco che, se per un verso portavano a estendere la responsabilità dolosa in un’ottica di prevenzione generale, per un altro propugnavano una restrizione della stessa favorendo, per converso, una maggiore estensione della responsabilità per colpa.

Alla luce di tali premesse di ordine metodologico è possibile, quindi, affrontare più nel dettaglio il dibattito inerente alla dicotomia dolo eventuale e colpa cosciente, dando contezza delle varie teorie susseguitesi nel tempo e tuttora conviventi.

Ricorrente nell’analisi di questa delicata problematica è il riferimento al settore degli incidenti stradali causati da scelte macroscopicamente azzardate del conducente. Si assiste, difatti, sempre più di frequente a episodi omicidiari o lesivi ingenerati dalla violazione di regole cautelari preposte a salvaguardia dell’incolumità della circolazione stradale e degli utenti della strada, tanto da aver sollevato un fervido interesse nella collettività, suffragato costantemente da fenomeni mediatici, volto all’introduzione nel codice penale di un reato autonomo in relazione all’omicidio stradale che assorba la disciplina attuale che lo prevede come mera aggravante di omicidio colposo ex art. 589 co. 2,3 c.p..

A livello sostanziale, la prima teoria a farsi strada tra i cultori del diritto in merito alla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente è quella dell’accettazione del rischio che sancisce la riconducibilità al dolo eventuale in tutte le ipotesi in cui il soggetto, sebbene non sicuro che l’evento si verificherà, agisce accettando il rischio di cagionarlo; diversamente dalle ipotesi di colpa cosciente identificabili ogniqualvolta il soggetto preveda la verificazione dell’evento ma agisce, facendo affidamento sulla convinzione che esso non si verificherà, superando in tal modo il dubbio iniziale. Questa distinzione, in sostanza, viene modellata sulla base della diversa natura della previsione: nel dolo il rischio di verificazione dell’evento è incerto ma concretamente possibile; nella colpa la previsione dell’evento ha natura astratta.

Utilizzando questo criterio, ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto sussistente il dolo eventuale in un celebre caso in materia di circolazione stradale (caso Beti). Nel dettaglio, la vicenda vedeva protagonista un automobilista alla guida di un SUV che, incurante delle più elementari norme in materia di circolazione stradale, aveva effettuato un’inversione in autostrada viaggiando, quindi, contromano e ad alta velocità, finendo per scontrarsi con un’auto che viaggiava in senso opposto e provocando la morte di quattro persone. La Suprema Corte, applicando il criterio dell’accettazione del rischio, evidenziava la persistenza nella condotta dell’agente e la correlativa assenza di qualsivoglia manovra di emergenza o tale da ridurre i rischi presumibilmente legati a tale condotta (per esempio segni di frenata), nonostante le molteplici segnalazioni da parte di altri automobilisti e le numerose collisioni sfiorate.

A questa teoria sono state mosse varie critiche, fondate principalmente sulla genericità caratterizzante la colpa con previsione, non autonomamente distinguibile da quella semplice. Si è del resto evidenziato come accettando questa distinzione si finirebbe per giungere ad un paradosso: nella colpa cosciente il soggetto esclude la possibilità di verificazione dell’evento ed agisce, per cui è come se l’evento non fosse mai stato previsto e ciò contrasterebbe con il dato normativo di cui all’art. 61 co.1 n.3 del quale “la previsione” costituisce elemento caratterizzante. La colpa così delineata sarebbe, infatti, colpa semplice perciò ascrivibile al dettato normativo di cui all’art. 43 c.p.

Le obiezioni predette hanno portato la dottrina all’elaborazione di varianti e correttivi, fra queste ha acquistato autonoma valenza quella relativa all’affidamento ragionevole sulla non verificazione dell’evento che distingue il dolo eventuale dalla colpa con previsione, a seconda che il soggetto agente riponga un affidamento irragionevole o ragionevole in ordine alla verificazione dell’evento. La colpa con previsione, cioè, viene ravvisata se il soggetto agisce confidando nella presenza di specifiche circostanze impeditive relative ad esempio alla propria abilità, all’adozione di contromisure, nonché all’intervento di fattori impeditivi esterni (anche dipendenti dalla condotta altrui) in base alle quali ritenga ragionevolmente di poter escludere la verificazione dell’evento; diversamente residuando il dolo eventuale. In questo contesto, cioè, oggetto del consenso non è il rischio ma l’offesa, la lesione al bene protetto, l’evento.

In tema di circolazione stradale, ad esempio, a un soggetto giovane alla guida di un’auto di grossa cilindrata che, superando i limiti di velocità collideva con un’auto investendo un pedone, la Corte di Cassazione riconosceva la sussistenza dell’elemento colposo perché, non essendo provata una volontà diversa, non era possibile ritenere che l’agente avesse voluto l’evento.

Autorevole dottrina, critica questa tesi che, ancorando la colpa con previsione alle ipotesi in cui il soggetto è persuaso sulla non verificazione dell’evento, la ritiene ai confini con un’interpretazione contra legem della norma che, invece, prevede l’aggravante proprio in virtù della previsione dell’evento. Ci si chiede, del resto, che sorte avrebbero quelle ipotesi in cui un soggetto per negligenza, leggerezza o disattenzione confidi genericamente nella non verificazione dell’evento senza però fare affidamento su specifici fattori impeditivi.

È stata poi prospettata un’ulteriore teoria che distingue le due ipotesi in base ad un bilanciamento di interessi, da alcuni infatti denominata teoria economicistica.

Tale teoria muove dall’analisi del dolo nel dettato di cui all’art. 43 c.p. quale sintesi di rappresentazione e volontà, e dalla considerazione che tale ultimo requisito manca nella colpa, laddove è riscontrabile al più, una previsione dell’evento. In base a tale riscontro è possibile concludere che nel dolo eventuale la condotta sarebbe sempre frutto di una deliberazione volitiva perché il soggetto subordina il sacrificio eventuale di un bene giuridico altrui al perseguimento di un proprio scopo egoistico mercé un bilanciamento di interessi (quelli altrui e quelli propri) che viene effettuato in anticipo. Nella colpa cosciente, invece, manca l’elemento volitivo perché il soggetto si determina ad agire, nonostante la previsione dell’evento, per imprudenza o negligenza. Questa teoria, quindi, pone su uno stesso identico piano rappresentativo il dolo e la colpa: il soggetto si rappresenta la possibilità di verificazione dell’evento ed agisce. Ciò che muta è, invece, la “componente di calcolo” implicita nella deliberazione ad agire perché nel dolo il soggetto sceglie volontariamente i propri interessi a scapito di quelli altrui. Tale teoria divergerebbe da quella sull’accettazione del rischio proprio per quest’ultima componente imprescindibile: il soggetto accetta il rischio ed accetta contestualmente la verificazione del danno come possibile prezzo.

Nel settore degli incidenti stradali generati da violazione macroscopiche di regole cautelari, la giurisprudenza è grossomodo orientata verso la riconduzione alla colpa con previsione. Questa rappresenta, infatti, una tipica fattispecie colposa, caratterizzata da una palese violazione delle regole cautelari, quali ad esempio mettersi alla guida in stato di ebbrezza, invadere goliardicamente la corsia di marcia opposta, superare i limiti di velocità, sfidare le proprie capacità e limiti.

in alcuni casi, però, si è in presenza di violazioni così gravi da comportare un significativo scostamento dalle regole di ordinaria prudenza che dovrebbero essere alla base della circolazione stradale, così da far presupporre l’accettazione concreta dell’evento che caratterizza il dolo eventuale. Una svolta decisiva da parte della giurisprudenza, volta al riconoscimento del dolo eventuale piuttosto che della colpa cosciente, è iniziata nel 2011 con la nota pronuncia Ignatiuc che fa uso della teoria del bilanciamento di interessi, da ultimo analizzata. Il caso pratico vedeva un conducente, alla guida di un veicolo rubato ed in fuga da un controllo di polizia, superare vari incroci nonostante il semaforo rosso nel pieno centro di Roma, cosicché andava a schiantarsi contro un’auto provocando la morte di una persona e due feriti gravi.

Applicando la teoria predetta al caso richiamato si evidenzia come l’accettazione del rischio di causare un incidente sia riscontrabile indifferentemente imputando all’autore il dolo eventuale o la colpa con previsione, ciò che li distingue è la sussistenza di un quid pluris ravvisabile nel dolo, relativo ad una deliberazione che l’autore ha adottato prima di agire, subordinando consapevolmente un determinato bene (la fuga) ad un altro (la possibilità di causare incidenti).

Anche questa teoria non è andata esente da critiche, perlopiù mosse con riguardo a difficoltà di ordine probatorio.

Il profilo probatorio, infatti, sul quale si incardina la successiva qualificazione in dolo eventuale e colpa cosciente, non è di agevole risoluzione: per poter accertare se il soggetto agente abbia agito con dolo eventuale o con colpa cosciente è, infatti, doveroso valutare tutte le circostanze comportamentali, psichiche ed effettuali ravvisabili nel caso concreto, operazione che risulta tutt’altro che semplice.

La differenza principale tra dolo eventuale e colpa con previsione si coglie, però, a pieno dal punto di vista processuale. In sede di formulazione dell’imputazione, infatti, con specifico riferimento ad esempio agli eventi letali determinati nel settore degli incidenti stradali, fermo restando l’applicazione delle norme previste dal d.lgs. n. 285/92 in tema di circolazione stradale, qualora il p.m. ravvisasse nella condotta del soggetto agente l’elemento psicologico del dolo eventuale ascriverebbe a questi il delitto di omicidio volontario, punibile ai sensi dell’art. 575 c.p. “con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”. Diversamente, nel caso in cui si ravvisasse la colpa con previsione, la formulazione dell’imputazione sarebbe incentrata sul delitto di cui all’art. 589, seppur aggravato dal co. 2 “se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale” con conseguente applicazione della pena della reclusione da due a sette anni, ovvero dal co. 3 “se il fatto è commesso con violazione delle norme della disciplina sulla circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope” con relativa applicazione della pena detentiva da tre a dieci anni, nonché dalla circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n.3 per aver agito nonostante la previsione dell’evento.

L’evidenziata netta differenza sanzionatoria, nonché il drammatico crescente numero delle c.d. “vittime della strada” sta spingendo negli ultimi anni verso la prospettazione di una figura unica cui ricondurre il c.d. omicidio stradale che preveda la certezza della pena per chi causi incidenti mortali sotto effetto di alcool o di droghe ed il cui iter sta volgendo al termine .

Allo stato attuale l’esame per l’introduzione del reato di omicidio stradale e di quello di lesioni personali stradali attende l’approvazione della Camera dopo “il passaggio del testimone” dello scorso giugno da parte del Senato, a seguito dell’approvazione del tanto agognato ddl.

Giova del resto dar conto di come l’attenzione verso una più “sicura sicurezza stradale” non si esaurisca qui, restando infatti in cantiere la legge delega di riforma del Codice della strada, ora all’esame del Senato, nonché una serie di ulteriori progetti, finalizzati a colmare diverse lacune dell’ordinamento attuale.

In attesa di un testo definitivo di riferimento ci si interroga su quali potranno essere gli esiti di questo travagliato iter normativo: di certo costituire un deterrente in più da considerare prima di mettersi alla guida, destinato a coinvolgere anche i meno coscienziosi, nonché un simbolico riconoscimento a favore di tutte le famiglie che hanno perso i propri cari a causa di incidenti stradali.

 

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(di Federico Tosone)

Con Legge 11 marzo 2014 n. 23 – entrata in vigore il successivo 27 marzo 2014 – il Parlamento ha conferito al Governo la delega ad adottare decreti legislativi recanti la riforma del sistema fiscale con particolare riferimento al contenzioso tributario, al sistema di riscossione ad opera degli enti locali, all’evasione fiscale, ed, infine, al sistema sanzionatorio penal/tributario.

Sotto quest’ultimo profilo, la delega parlamentare consente altresì al Governo di prevedere un incremento del trattamento sanzionatorio – purché resti contenuto fra un minimo di sei mesi ad un massimo di sei anni – per gli illeciti tributari realizzati mediante comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione di documentazione falsa.

Inoltre, viene delegato al Governo il potere di individuare i confini tra le fattispecie di elusione ed evasione fiscale, regolare l’efficacia attenuante o esimente dell’adesione alle forme di cooperazione con l’amministrazione finanziaria e – soprattutto – prevedere la revisione del regime del reato di dichiarazione infedele, oltre alla possibilità di ridurre il sistema sanzionatorio per le fattispecie meno gravi o applicare sanzioni amministrative, anziché penali, sulla base di adeguate soglie di punibilità.

Sicché, il 24 dicembre 2014 il Consiglio dei Ministri ha approvato uno Schema di Decreto Legislativo recante disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente.

Tra le principali novità proposte, vi è l’introduzione nella L. 212/2000 (c.d. Statuto dei diritti del contribuente) dell’art. 10-bis – disciplinante l’abuso del diritto o elusione fiscale -.

Ai sensi di quest’ultima norma, l’istituto dell’abuso del diritto sarebbe configurato in caso di operazioni prive di sostanza economica che, indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzino vantaggi di natura fiscale. Diversamente, e sempre secondo la proposta di riforma, non costituirebbero una condotta abusiva le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali – anche di ordine organizzativo o gestionale – volte al miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente.

Meritevole di un maggiore approfondimento è, invece, la revisione del sistema sanzionatorio penale/tributario che il Governo intende mettere in atto attraverso la riforma di diverse fattispecie delittuose già previste all’interno del D. Lvo 74/2000.

In particolare, il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D. Lvo 74/2000 rimarrebbe sostanzialmente invariato nella descrizione della condotta tipica, risultandone tuttavia mutata la disciplina della punibilità per effetto della previsione di un’unica soglia di rilevanza penale – fissata ad Euro 1.000 – calcolata sul valore degli elementi passivi indicati nella dichiarazione per effetto dell’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

Per ciò che concerne il diverso reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 D. Lvo 74/2000, il Governo ha inteso elevare la soglia di rilevanza penale del fatto/tipico fissando ad un 1.500.000 di Euro l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione per mezzo delle operazioni simulate ivi descritte – ferma restando l’alternativa applicabilità della diversa soglia del 5% computata sul rapporto tra i medesimi attivi sottratti all’imposizione e l’ammontare complessivo di quelli realmente indicati dal contribuente -.

Con riferimento al reato di cui all’art. 4 D. Lvo 74/2000 in materia di dichiarazione infedele la proposta di riforma è ancor più pregnante.

Infatti, la nuova formulazione del medesimo art. 4 D. Lvo 74/2000 prevedrebbe l’incremento da Euro 50.000 ad Euro 150.000 del valore dell’imposta evasa – ossia la soglia di punibilità prevista alla lettera a) del primo comma della norma – oltre all’aumento da 2 a 3 milioni di Euro della concorrente soglia di punibilità corrispondente all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione.

Inoltre – e sempre in materia di dichiarazione infedele – vengono introdotte una serie di disposizioni ulteriori (dal comma 1-bis al comma 1-quinquies) aventi ad oggetto la disciplina di alcune ipotesi esimenti speciali (commi 1-quater e 1-quinquies), nonché di un’autonoma figura delittuosa (comma 1-ter) la cui condotta tipica – punita con la reclusione da uno a tre anni – consisterebbe nell’indicazione nella dichiarazione annuale di sostituto di imposta di un ammontare di compensi, interessi ed altre somme inferiori a quelle effettive, qualora l’ammontare delle ritenute non versate sia superiore ad Euro 50.000.

Con riferimento al delitto di omessa dichiarazione ex art. 5 D. Lvo 74/2000, sono invece previsti cospicui aumenti di pena – ossia la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni anziché da uno a tre anni – oltre ad un incremento della soglia di punibilità attualmente fissata in Euro 30.000 sul valore dell’imposta evasa.

Ancora, in relazione al delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 8 D. Lvo 74/2000, la riforma prevede l’introduzione di una soglia di punibilità fissata ad Euro 1.000 per ciascun periodo di imposta – corrispondente all’importo complessivo non rispondente al vero indicato nei suddetti documenti.

Ne risulta inasprito – invece – il trattamento sanzionatorio in materia di occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 D. Lvo 74/2000) la cui cornice edittale viene portata ad un minimo di un anno e sei mesi ad un massimo di sei anni di reclusione.

Infine, per ciò che concerne i reati di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D. Lvo 74/2000) ed omesso versamento I.V.A. (art. 10-ter D. Lvo 74/2000) – viene innalzata la soglia di non punibilità dei rispettivi fatti/tipici da Euro 50.000 ad Euro 150.000 -.

Tuttavia, è la previsione di un nuovo art. 19-bis al D. Lvo 74/2000, rubricato come “Causa di esclusione di punibilità”, che ha scatenato polemiche per i presunti risvolti favorevoli nei confronti dell’On. Silvio Berlusconi – in relazione alla sentenza definitiva sui diritti Mediaset – tali da imporre al Governo di rinviare l’approvazione finale del provvedimento in esame a data da destinarsi – previa adunanza del Consiglio dei Ministri onde provvedere alle opportune modifiche al testo della medesima norma o alla sua possibile eliminazione.

Ciò detto, il testo dell’art. 19-bis – che verrà certamente modificatoprevede l’esclusione della punibilità della condotta per i tutti reati/fiscali allorquando l’importo delle imposte sui redditi evase non sia superiore al 3% del reddito imponibile dichiarato, ovvero, l’importo dell’I.V.A. evasa non sia superiore al 3% dell’I.V.A. dichiarata.

Tale norma ha scatenato ingenti polemiche mediatiche per la presunta finalità – o effetto indesiderato – di favorire Silvio Berlusconi nella suddetta vicenda giudiziaria in materia tributaria.

Quest’ultimo, invero, è stato condannato a quattro anni di reclusione e a due anni di interdizione dai pubblici uffici per una frode fiscale inferiore al suddetto limite del 3% rispetto all’accertato reddito imponibile.

In effetti, il tenore letterale della norma – così come formulata ab origine – consentirebbe a Silvio Berlusconi di ottenere la revoca della sentenza di condanna e – per l’effetto – l’esclusione degli effetti a proprio carico conseguenti all’applicabilità della celeberrima Legge Severino, con particolare riferimento alla sanzione dell’incandidabilità di natura politica.

Di talché, la formulazione della norma in questione ha imposto al Governo di bloccare la definitiva approvazione del decreto legislativo sulla certezza dei rapporti tra fisco e contribuente.

Sembrerebbe che il Governo – onde ovviare all’errore di natura politica – debba compiere la seguente ed ardua scelta: provvedere alla cancellazione della suddetta norma, che introduce una franchigia per la commissione dei reati tributari corrispondente al 3% dell’evasione d’imposta, o mantenerla ad esclusione dei reati di frode, o meglio, di dichiarazioni fraudolente mediante atti simulatori o attraverso l’emissione di documenti falsi per operazioni inesistenti.

A parere di chi scrive, i risvolti politici della vicenda hanno distolto l’attenzione dalla reale problematica dell’ordinamento tributario italiano, ossia, la carenza di certezza e trasparenza dei rapporti giuridici tra fisco e contribuente, oltre all’impellente esigenza legislativa di contemperare – secondo un generale principio di proporzionalità – la legittima pretesa sanzionatoria delle condotte illecite alla reale gravità delle stesse ed alla portata lesiva ai danni dell’Amministrazione finanziaria.

A tal proposito, si evidenzia che – sulla base della delega conferita con la L. 23/2014 – il Governo era altresì chiamato ad un atteso intervento sulla disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento fiscale in presenza della commissione di reati tributari ex D. Lvo 74/2000.

Sotto questo profilo, il Governo ha tuttavia perso una notevole occasione per regolare in modo più pregnante e certo la disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento tributario in ipotesi di violazioni fiscali contestualmente costituenti fatti/reato puniti dal D. Lvo 74/2000.

Infatti, nello schema di decreto legislativo di attuazione della legge delega viene disposta esclusivamente l’addizione agli artt. 43, III comma, D.P.R. 600/1973 e 57, III comma, D.P.R. 633/1972 – che prevedono il raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento fiscale in caso di violazioni fiscali che comportano l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 C.p.p. – della mera locuzione “il raddoppio opera a condizione che la denuncia sia presentata o trasmessa entro la scadenza ordinaria dei termini”.

E’ evidente che quest’ultimo intervento costituisce una riforma solo apparente e priva di un rilievo degno di nota – non assolvendo all’espressa finalità di rendere certi i rapporti tra Erario e contribuente anche mediante l’introduzione di una disciplina più rigorosa del complesso tema del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento tributario nelle ipotesi in commento -.

E’ dunque inequivocabile come una strutturale e ponderata riforma del sistema fiscale italiano, unita all’agognata riforma della giustizia, costituiscano gli elementi cardine per rendere il nostro Paese più credibile e soprattutto appetibile agli investitori italiani ed esteri.

Si auspica pertanto che il Consiglio dei Ministri – chiamato a revisionare lo schema di decreto legislativo da approvare in via definitiva – non si limiti a formulare una mera modifica della soglia generale di esclusione della punibilità del 3% di cui al novello art. 19 bis D. Lvo 74/2000 (rapporto tra imposta evasa ed imponibile).

E’ invero opportuno che l’Esecutivo estenda i propositi di riforma – anche in una fase successiva con il coinvolgimento diretto del Parlamento – ad altri e ben più rilevanti profili tutt’ora oscuri, oltre che ingiustificatamente sbilanciati – del rapporto tra Fisco e Contribuente, quali, a titolo esemplificativo, la disciplina del raddoppio dei termini di decadenza dell’accertamento tributario, in uno alle fattispecie incriminatrici relative al mancato o parziale adempimento di obblighi fiscali a cagione del salvataggio dell’impresa in crisi o del mantenimento di adeguati livelli occupazionali.

(di Andrea Orabona)

Il discusso d.d.l. sul “rientro dei capitali” approda definitivamente alla Camera dei Deputati per il voto sul testo recentemente formulato dalla Commissione Finanze. Il pacchetto normativo prevede, ex plurimis, l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del reato di auto/riciclaggio – figura delittuosa che ha già generato dubbi e contrasti interpretativi nel panorama giudiziario per la portata astrattamente distorsiva dei principi cardine del diritto penale/sostanziale -.

Sulla scorta degli emendamenti apportati, la nuova figura delittuosa ex art. 648 ter1 C.p. prevede la pena della reclusione da due a otto anni, in uno alla multa da Euro 5.000,00 ad Euro 25.000,00, nei confronti di chiunque – avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo – sostituisce, trasferisce o impiega, in attività economiche o finanziarie, denaro, beni o altre utilità, provenienti dal medesimo delitto, con modalità tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Qualora il denaro, i beni o le altre utilità, provengano dalla commissione di un delitto non colposo, sanzionato con una pena inferiore nel massimo a cinque anni di reclusione, è contemplata una cornice edittale più lieve con la previsione di una sanzione detentiva da uno a quattro anni. È inoltre contemplato un aggravamento di pena per il colpevole che commetta il reato in commento nell’esercizio di un’attività bancaria – finanziaria o di natura tipicamente professionale -.

Infine, il legislatore ha inteso introdurre delle speciali cause di non punibilità per le ipotesi di destinazione dei proventi di natura delittuosa all’utilizzo o godimento personale del reo, ovvero, in caso di adesione da parte del colpevole al recente istituto della c.d. “voluntary disclosure”.

Ciò premesso, è opportuno rilevare come l’ipotesi di auto/riciclaggio – ossia l’immissione nell’economia legale di “danaro sporco” direttamente da parte chi ha commesso un precedente delitto non colposo – non sia prevista dall’attuale regime normativo quale specifica figura di reato.

Tuttavia, ed a parere di chi scrive, il fatto tipico di auto/riciclaggio, ovvero il reimpiego di proventi illeciti ad opera dell’autore o del concorrente in una determinata incriminazione/dolosa, risulterebbe ad oggi già punito nel nostro ordinamento giuridico – a ciò bastando l’irrogazione nei confronti del colpevole della sanzione predisposta per la commissione del delitto/presupposto da cui originano le utilità economiche oggetto di successiva immissione nel circuito finanziario -.

Gli innumerevoli interrogativi di legittimità costituzionale dell’art. 648 ter1 C.p. sorgono invero per l’eccessivo inasprimento del trattamento sanzionatorio a carico del reo, ovvero, per la duplicazione della risposta punitiva allestita per la commissione di un unico accadimento fattuale, ovvero, per la consumazione di un fatto delittuoso non colposo e per il connaturale impiego di un profitto scaturente dalla perpetrazione dello stesso illecito penale.

Senza sottacere le difficoltà applicative sottese all’accertamento giudiziale del delitto in commento – per l’indispensabile verifica della frapposizione da parte del soggetto agente di un concreto ostacolo all’identificazione della provenienza del denaro, beni o altre utilità, derivanti dalla commissione di precedenti illeciti penali – prevalentemente di natura vuoi tributaria vuoi finanziaria -.

Da qui, il paradosso di una disapplicazione della fattispecie di auto/riciclaggio – nell’ipotesi di mero deposito di somme di danaro presso il conto corrente dell’autore del delitto/presupposto, ovvero, di impiego del profitto da reato direttamente ricavabile dalle scritture contabili di una società veicolo di “fondi neri” realizzati in territorio estero -.

Ancora, e ad acuire le incertezze interpretative sottese alla formulazione dell’art. 648ter1 C.p., vi è la previsione della causa di non punibilità allestita dal legislatore per mandare esente da sanzione penale le condotte di utilizzo o mero godimento – a fini strettamente personali – del danaro, beni o altre utilità, provenienti dal delitto/presupposto non colposo.

A titolo esemplificativo, basti pensare se ricondurre o meno la nozione di godimento personale alle ipotesi di acquisto da parte del reo – mediante i proventi della precedente attività illecita – di beni di lusso, quali natanti o opere d’arte, tali da soddisfare le esigenze individuali del colpevole di un fatto già incriminato a titolo di frode fiscale o false fatturazioni per operazioni inesistenti ai sensi degli artt. 2 o 4 D. Lvo 2000/74.

In conclusione, il legittimo intento del legislatore di impedire l’ingresso nel sistema economico di contaminazioni da “liquidità illecita”, quale fenomeno altresì anti/concorrenziale, rischia di esporre il colpevole di un delitto doloso ad un trattamento sanzionatorio del tutto esorbitante rispetto alla violazione in concreto commessa – portando con sé evidenti profili di incostituzionalità del reato di auto/riciclaggio – quantomeno per violazione del celeberrimo e moderno divieto di “ne bis in idem” riconosciuto in casi analoghi dalla Suprema Corte costituzionale.

Con l’auspicio che, in futuro, gli interventi politico/repressivi in tema di evasione fiscale poggino su strumenti maggiormente dissuasivi rispetto alla mera introduzione di nuove fattispecie incriminatrici – tali da permettere l’emersione di “fondi neri” in beneficio delle casse erariali – vuoi attraverso il rafforzamento delle procedure di cooperazione giudiziaria con le Autorità straniere vuoi attraverso l’introduzione di correttivi alle recenti manovre economico/finanziarie varate nel nostro Paese.

(di Andrea Orabona)

Con sentenza n. 5825 del 28 aprile 2014, depositata in cancelleria il 27 maggio 2014, il Tribunale di Milano, sez. III penale, in composizione monocratica, ha mandato assolto il legale rappresentante pro tempore di una società di capitali dalla fattispecie incriminatrice di omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10 bis D. Lvo 2000/74 – per difetto dell’elemento soggettivo sotteso all’integrazione del medesimo illecito fiscale -.

La sentenza di proscioglimento che qui ci occupa – emessa con la formula ampiamente liberatoria del “perché il fatto non costituisce reato” – rileva il ruolo di assoluta centralità oggi attribuito dalla giurisprudenza di merito all’estremo del dolo generico nell’accertamento della responsabilità penale del contribuente, vuoi persona fisica vuoi organo apicale preposto all’amministrazione di un ente giuridico, per i reati puniti dagli artt. 10 bis e 10 ter D. Lvo 2000/74.

Nel caso sottoposto al vaglio del Tribunale Meneghino era, invero, emersa la prova oggettiva del mancato versamento in termini di una parte delle ritenute d’acconto – indicate nella dichiarazione annuale “Mod. 770” della società debitrice d’imposta – per un ammontare superiore ad Euro 50.000,00, ovvero, all’importo stabilito per la punibilità del soggetto/responsabile dell’imputazione tributaria.

Ciononostante, il Giudice penale ha inteso attribuire un rilievo prioritario al profilo dell’involontarietà (rectius inconsapevolezza) dell’omissione di pagamento in capo al firmatario della dichiarazione fiscale di sostituto d’imposta dell’ente, identificato nel Presidente del Consiglio d’Amministrazione in pectore di un’impresa commerciale di medio/grandi dimensioni.

In particolare, la linea difensiva dell’imputato ruotava tutt’intorno alla valorizzazione delle seguenti circostanze di fatto – inerenti – i) le funzioni prettamente manageriali in concreto svolte dall’amministratore pro tempore della società; ii) la possibilità di utilizzo di crediti d’imposta in compensazione con l’importo dovuto a titolo di ritenute d’acconto certificate; iii) l’assenza di qualsivoglia contenzioso e/o pendenza fiscale con l’Amministrazione Tributaria da parte dell’ente debitore.

Senza sottacere il rilievo attribuito dal Giudice Penale alla predisposizione della dichiarazione di sostituto d’imposta ad opera di Studi professionali/esterni all’impresa commerciale – tale da munire di un ulteriore tassello probatorio il profilo di involontarietà del fatto di reato da parte dell’imputato – che – “quale legale rappresentante pro tempore della società aveva sottoscritto il modello 770/2009, ma non era certamente in grado di capire e verificare che i conti fossero corretti nelle singole voci che li componevano o di controllare i singoli versamenti”.

Da qui, l’esito assolutorio assunto dal Tribunale di Milano, che – nel solco di un trend (quasi) portato a termine dalla giurisprudenza/penale di merito – ha così inteso superare le considerazioni dietrologhe di alcuni studiosi sulla natura marcatamente oggettiva della responsabilità penale del contribuente per la commissione delle fattispecie “meramente sanzionatorie” dell’omesso versamento di ritenute certificate o dell’I.V.A. ai sensi degli artt. 10 bis e 10 ter D. Lvo 2000/74.

Con l’auspicio che gli sforzi interpretativi, profusi dai collegi difensivi nelle Aule di Giustizia, possano definitivamente condurre tutti i Giudici di Merito ad affrontare con maggior attenzione i processi chiamati in tema di reati tributari, e, vieppiù, con lo sguardo precipuamente rivolto all’accertamento dei profili soggettivi sottesi alla configurabilità dei delitti fiscali – anche in conformità al celeberrimo principio costituzionale di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost. -.

(di Federico Tosone)

La fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 184 T.U.F. (D. Lvo 24.2.1998 n. 58 “Testo unico dell’intermediazione finanziaria”), rubricata sotto il nome di abuso di informazioni privilegiate e meglio nota come “insider trading”,è stata oggetto della riforma relativamente recente introdotta con L. 18.02.2005 n. 62 che, recependo la Direttiva Comunitaria 2003/6/CE, ha radicalmente riformato la disciplina sanzionatoria apprestata dal legislatore in tema di abusi di mercato, così realizzando un impianto volto alla repressione delle condotte lesive del trasparente e corretto funzionamento degli scambi o traffici finanziari.

La disciplina degli abusi di mercato è stata inoltre oggetto dell’inasprimento sanzionatorio prodotto con l’entrata in vigore della L. 28.12.2005 n. 262 (disposizioni a tutela del risparmio) – che ha praticamente raddoppiato le sanzioni penali sottese alla disposizione di cui all’art. 184 del succitato Testo Unico -.

Tale fattispecie incriminatrice prevede la sanzione della reclusione da uno a sei anni e della multa da Euro 20.000,00 ad Euro 3.000.000,00 – per chiunque – essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi d’amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, ovvero, nell’esercizio di un’attività lavorativa, professionale o di una funzione, acquista, vende o compie altre operazioni, su strumenti finanziari – utilizzando dette notizie – ovvero comunica le medesime a terzi, ovvero raccomanda o induce altri al compimento delle medesime operazioni sulla scorta delle segnalazioni rilevanti.

Da un’attenta lettura della norma in commento emerge che la nozione di informazione privilegiata assume un ruolo chiave nel corretto inquadramento della fattispecie incriminatrice dell’insider trading.

L’art. 181 T.U.F. offre una definizione ad hoc del suddetto elemento normativo – prevedendo che si consideri privilegiata la sola informazione che abbia i caratteri della precisione (ossia riferita ad un quadro di circostanze esistenti o che possa ragionevolmente venire ad esistere nel breve futuro sulla base di in giudizio previsionale informato al criterio della ragionevole prevedibilità), della specificità (ossia che sia adeguatamente circostanziata e che si distingua dal semplice “rumor giornalistico”), della non pubblicità e dell’idoneità – se resa pubblica – ad incidere in misura notevole sul prezzo di un determinato strumento finanziario.

L’imprescindibile natura price sensitive dell’informazione privilegiata consente di estendere la categoria delle notizie rilevanti – non solo – a quelle di carattere squisitamente societario (c.d. corporate information) – ma bensì – alle segnalazioni afferenti il mercato finanziario in genere e tali da poter comunque incidere sul prezzo dello strumento di interesse (c.d. market information).

Sul punto – invero -, la giurisprudenza di merito è orientata a ritenere configurata la fattispecie penale in esame ogni qual volta le condotte in essa descritte abbiano ad oggetto anche informazioni privilegiate relative ad un emittente diverso da quello rispetto al quale i soggetti attivi – di cui si discuterà in seguito – ricoprono un posizione di collegamento istituzionale o funzionale in ragione della propria attività lavorativa e/o professionale.

Sul versante delle condotte tipiche previste dalla fattispecie criminosa, esse sono sussumibili in tre distinte categorie, precipuamente indicate nella norma: i) la vendita, l’acquisto ed ogni altra operazione, realizzata direttamente o indirettamente, per conto proprio o di terzi, su strumenti finanziari; ii) la comunicazione dell’informazione privilegiata ad altri soggetti al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio (c.d. tipping); iii) la raccomandazione o l’induzione al compimento ad opera di terzi di taluna delle operazioni di cui sopra (c.d. tuyautage).

È tuttavia la corretta identificazione dei soggetti attivi del reato di insider trading a destare le maggiori perplessità – soprattutto in riferimento a tutte quelle persone fisiche che possono aver avuto accesso all’informazione privilegiata in maniera indiretta, ovvero, de auditu -.

Prescindendo da coloro che assumono l’informazione privilegiata in ragione della qualità di membri di organi d’amministrazione dell’emittente (c.d. corporate insider) o che l’acquisiscono in esecuzione di attività delittuose (c.d. criminal insider) – maggiori dubbi interpretativi sono sorti attorno a quelle figure che apprendono la notizia rilevante a causa dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione, di un ufficio e/o di una funzione (c.d. temporary insider). –

Benché nella giurisprudenza penale di legittimità la riconducibilità a quest’ultima categoria dei ragionieri/commercialisti, avvocati e consulenti finanziari non sembra in discussione, non è altrettanto agevole attribuire un connotato concreto alla locuzione “nell’esercizio[…]di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio”.

Infatti, si è affermato espressamente che soggetto attivo del reato di abuso di informazioni privilegiate possa essere non solo chi abbia un ruolo all’interno della società emittente dei titoli – cui le informazioni si riferiscono – ma che debba considerarsi “ufficio privato” anche la carica di amministratore di una società controparte contrattuale dell’emittente stesso nell’ambito di un’operazione economica non ancora nota al pubblico, la cui conoscenza deve ritenersi riservata e price sensitive (Cass. Pen, Sez. V, 31.7.2006, n. 26943, in questo caso la Cassazione ha confermato la decisione dei Giudici di merito che avevano condannato ai sensi dell’art. 184 T.U.F., il soggetto che – nella sua qualità di amministratore delle società acquirenti nell’ambito dell’operazione di trasferimento di ramo d’azienda da parte di un noto gruppo industriale – aveva utilizzato l’informazione privilegiata circa l’imminente trasferimento del ramo di azienda per agevolare attività speculative di parenti ed amici sui titoli del gruppo alienante il ramo).

Di talchè, ai fini dell’applicabilità della norma in esame rileva anche la distinzione tra insider primari, ovvero, i soggetti contemplati dall’art. 184, comma primo, T.U.F., ed insider secondari, ovvero, coloro i quali apprendono la notizia in modo interposto e/o mediato, rileva tacitamente ai fini della configurabilità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 184 T.U.F., in quanto solo per gli insider primari il legislatore ne ha previsto l’applicazione – sanzionando diversamente le condotte abusive degli insider secondari con il solo illecito amministrativo previsto dell’art. 187-bis Testo Unico dell’intermediazione finanziaria -.

Senza sottacere in proposito che – addirittura – per l’identificazione dei soggetti riconducibili all’una e/o all’altra categoria non si è ritenuto decisivo neanche operare un rinvio alla diposizione dell’art. 115bis T.U.F. – che prevede in capo agli emittenti quotati, ed ai soggetti in rapporto di controllo con essi, l’obbligo di istituzione di un registro delle persone/fisiche che in ragione dell’attività lavorativa, della professione o delle funzioni in concreto assunte, hanno l’occasione di accedere alle informazioni privilegiate dettagliatamente disciplinate dall’art. 114 del medesimo Testo Unico.

Emerge dunque l’estrema difficoltà del legislatore nazionale nell’addivenire ad una regolamentazione – maggiormente comprensibile e determinata – nella repressione dei complessi fenomeni di market abuse nell’ambito dei mercati finanziari.

La già fisiologica precarietà di quest’ultimi avrà influito sulla descrizione normativa della fattispecie incriminatrice di abuso di informazioni privilegiate ex art. 184 T.U.F., avendo il legislatore optato per un tecnica legislativa lontana dalla tradizione giuridica codicistica continentale – ossia volta alla produzione di norme generali ed astratte – ma che mira a descrivere in modo analitico e specifico tutte le possibili condotte tipiche, conferendo così maggiore certezza al contenuto precettivo della norma ma pregiudicandone al contempo la propria capacità di adattarsi – per mezzo del sindacato giudiziale – alla mutevole realtà dei mercati finanziari.

(di Federico Tosone)

In data 17 settembre 2011 è entrato in vigore il D.L. 138/2011 (convertito in legge n. 148/2011) che ha abbassato la soglia di punibilità ad Euro 50.000,00 per il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 D. L.gs. 74/2000, ed ad Euro 30.000,00 per il reato di omessa dichiarazione di cui all’art 5 D. Lgs. 74/2000.

Prima della suddetta novella legislativa, la precedente versione delle citate norme (per l’omessa e infedele dichiarazione) escludeva la punibilità se l’imposta evasa non fosse stata superiore ad Euro 77.468,53 per ciò che concerne l’omessa dichiarazione (art.5) e ad Euro 103.291,38 con riferimento alla dichiarazione infedele (art. 4).

Pertanto, con l’entrata in vigore del decreto legge 138/2011, il legislatore ha introdotto un trattamento sanzionatorio più pregnante per le omesse o infedeli dichiarazioni fiscali avendo abbassato le soglie di punibilità sopra descritte.

Da ciò ne consegue che per i reati tributari commessi prima delle entrata in vigore del suddetto decreto legge – 17 settembre 2011 – i contribuenti che si sono resi agenti delle menzionate ipotesi delittuose (omessa o infedele dichiarazione) potranno beneficiare del trattamento sanzionatorio più mite previsto dalla precedente versione degli artt. 4-5 D. Lgs. 74/2000, in osservanza del principio dell’irretroattività della legge penale sfavorevole di cui all’art. 25, II comma, Cost.

Ciò premesso, la lettura comparata dell’art. 10-ter D. Lgs. 74/2000 (omesso versamento I.V.A.) con la precedente versione degli artt. 4-5 D. Lgs. 74/2000 – relativamente a fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.L. 138/2011, ovvero, 17 settembre 2011 – ha fatto sorgere dubbi di legittimità costituzionale sollevati in diversi procedimenti penali.

Infatti, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 26 febbraio 2013, il Tribunale di Bologna con Ordinanza del 13 giugno 2013 ha dichiarato la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale per l’asserita violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. con riferimento all’art. 10-ter D.lgs. 74/2000, nella parte in cui quest’ultimo punisce l’omesso versamento I.V.A. per importi – regolarmente dichiarati – superiori, per ciascun periodo di imposta, ad Euro 50.000,00 ma inferiori ad Euro 77.468,53 soglia di punibilità prevista per il diverso reato di omessa dichiarazione, di cui all’art. 5 D. Lgs. 74/2000.

Alla medesima conclusione di non manifesta infondatezza sono giunti i giudici del Tribunale di Bergamo, i quali con Ordinanza del 17 settembre 2013 hanno sottolineato i dubbi di incostituzionalità dell’art. 10-ter D. Lgs. 74/2000, nel caso in cui l’importo non versato avesse superato Euro 103.291,00, ossia la soglia di punibilità precedentemente prevista per la dichiarazione infedele ai sensi dell’art. 4 D. Lgs. 74/2000 per la presunta violazione dell’art. 3 Cost.

Di talché, l’applicazione di soglie di punibilità più elevate per l’omessa o infedele dichiarazione (nella precedente versione e rispettivamente di Euro 77.468,53 ed Euro 103.291,38) rispetto al reato di omesso versamento I.V.A. (la cui soglia è pari ad Euro 50.000) è l’oggetto della questione di legittimità costituzionale per l’asserita violazione dell’art. 3 Cost. sollevata nei procedimenti penali pendenti avanti i Tribunali di Bergamo e Bologna e ritenuta da quest’ultimi non manifestamente infondata.

Infatti, al centro del dubbio interpretativo di rilevanza costituzionale vi è la presunta disparità di trattamento tra il contribuente che, con riferimento ai fatti commessi fino al 17 settembre 2011, pur essendo tenuto a dichiarare e versare un I.V.A. per un importo superiore ad Euro 50.000 ma inferiore a 77.468,53, non abbia presentato la relativa dichiarazione annuale, ed il contribuente che, pur non versando l’imposta indiretta in esame per un importo parimenti compreso tra le due soglie di cui sopra, abbia invece regolarmente presentato la relativa dichiarazione annuale.

Sicchè, limitatamente ai fatti commessi entro il 17 settembre 2011, le ipotesi suddette porterebbero all’irragionevole corollario per cui, il primo caso sarebbe irrilevante sotto il profilo penale posto il mancato superamento della soglia di punibilità (Euro 77.4689,53), mentre la seconda ipotesi sarebbe punibile, con l’irragionevole effetto di premiare il contribuente che, relativamente ad un’imposta rientrante nella forbice delle differenti soglie di punibilità, non dichiari e conseguentemente non versi l’imposta dovuta. Mentre il contribuente che dichiari per poi omettere il versamento della relativa imposta, sarebbe punibile ai sensi dell’art. 10-ter D. Lgs. 74/2000.

Ciò detto, nulla quaestio sull’evidente disparità di trattamento derivante dal precedente assetto normativo, si pongono tuttavia dei dubbi sull’effettiva violazione del principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. che ha concesso ai giudici costituzionali di eliminare dall’ordinamento norme ingiustificatamente discriminatorie che prevedevano un trattamento diverso per situazioni uguali o omogenee e – per converso – situazioni differenti sottoposte ad una disciplina uniforme

La Corte tuttavia, pur avendo fatto larga applicazione del principio sino ad estendere il proprio sindacato all’intrinseca ragionevolezza delle scelte legislative anche indipendentemente dalla comparazione di singole norme, ha ribadito in molteplici occasioni che nel giudizio di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 3 Cost. non può essere sindacata la disciplina generale ma quella ingiustificatamente derogatoria, in quanto la funzione della Corte è diretta al riequilibrio del sistema normativo mediante una disciplina eguale per tutti perseguibile mediante la caducazione ex-post di deroghe non supportate da una ragionevole esigenza di politica legislativa.

Alla luce di quanto sopra esposto, è lecito dubitare che la disparità di trattamento sopra descritta violi effettivamente il principio di uguaglianza, secondo i parametri esegetici forniti dalla Corte medesima, o se, per converso, sia un altro esempio di una scelta legislativa che, pur miope, rientri pacificamente nella discrezionalità politica del legislatore non sindacabile in sede di giudizio costituzionale.

Ne discende uno concreto spunto di riflessione sul generale atteggiamento refrattario del legislatore ad una tecnica di produzione legislativa che si adegui alle esigenze puntuali e contingenti di una realtà socio-economica e civile globale ed iper-dinamica, ma senza compromettere le esigenze sistematiche che faciliterebbero non solo i giuristi ma soprattutto i destinatari, nella fattispecie i contribuenti, con maggiori possibilità di deterrenza all’evasione/elusione fiscale realizzando così il principio di uguaglianza ai sensi dell’art. 3 Cost. e quello della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.  Basti, a tal riguardo, rimembrare le varie questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 10-ter D. Lgs. 74/2000 al momento della sue entrata in vigore con il D.L. 223/2006 per la presunta violazione degli artt. 3 e 25, II comma, Cost. .

(a cura della Redazione)

illecitiLa scarsa attenzione riguardo al tema della criminologia tributaria è dovuta ad una serie di note specializzanti che differenziano inevitabilmente gli illeciti penali in materia tributaria dal resto dei reati previsti dall’ordinamento.

Diversa è la scena del delitto: reo e vittima del reato, nel contesto criminologico tributario, appaiono come invisibili, sfuggenti. Si tratta di un settore in cui incerto è il confine tra legalità e illegalità e, nell’ambito del quale, le condotte non sono omogeneamente codificate nei vari sistemi giudiziari.

Inoltre, spesso, come nel caso dell’evasione fiscale, si è dinanzi a comportamenti talmente diffusi che se ne

di Andrea Orabona

Degne di interesse – per gli interpreti del diritto penale/tributario – appaiono le motivazioni sottese alla recente sentenza R.G. n. 11210/13 del 14 ottobre 2013, depositata in cancelleria il 7 novembre 2013, con cui la II sezione penale del Tribunale di Milano, in composizione monocratica, ha mandato assolto il Presidente del Consiglio di Amministrazione di una società a responsabilità limitata dal reato di omesso versamento dell’I.V.A. – dovuta dalla persona/giuridica in base agli elementi rappresentati nella dichiarazione annuale d’imposta sul valore aggiunto ex art. 10 ter D. Lvo 74/2000.

di Andrea Orabona

Si segnala ai lettori che la L. n. 119 del 2013 ha soppresso l’intero testo dell’art. 9, comma secondo, del recente Decreto Legge sul c.d. “femminicidio” – ove l’Esecutivo aveva introdotto, nell’alveo dei reati/presupposto in tema di responsabilità amministrativo/penale degli enti, le ipotesi delittuose di “Trattamento illecito di dati”, “Falsità nelle dichiarazioni e notificazioni al Garante” ed “Inosservanza di provvedimenti del Garante” (artt. 167, 168 e 170, del T.U. in materia di privacy ex D. Lvo n. 196 del 2003).

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