Direttore Scientifico: Claudio Melillo - Direttore Responsabile: Serena Giglio - Coordinatore: Pierpaolo Grignani - Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi.”

Adam Smith, filosofo ed economista scozzese, è considerato il padre dell’economia moderna. Celebre fu la pubblicazione, nel 1776, del suo grande capolavoro “La ricchezza delle nazioni”. Adam Smith, inoltre, è il teorico del liberismo economico: secondo l’economista scozzese l’interesse privato produrrà, a livello sociale, benessere collettivo.
Celebre fu il concetto di “mano invisibile” a spiegare come, il sistema economico, possa raggiungere un equilibrio economico generale, se lasciato libero di determinarsi, grazie all’azione della domanda e dell’offerta.
Ogni agente economico, infatti, perseguirà egoisticamente il proprio interesse e, inconsapevolmente, produrrà benessere e prosperità all’interno della comunità.
I fautori del liberismo economico, dunque, rimarcano come lo Stato non debba intervenire nel sistema economico ma debba limitarsi a garantire, e tutelare, la giustizia, la difesa e l’istruzione,
Il liberismo economico pone, nella proprietà privata dei mezzi di produzione e nella concorrenza tra le imprese, i capisaldi del suo pensiero.
Tra i grandi economisti sostenitori del liberismo ricordiamo, oltre ad A. Smith, Hayek, Friedman e Becker.
Il sistema economico liberista è, tutt’oggi, ampiamente adottato nei Paesi anglosassoni: Stati Uniti e Gran Bretagna su tutti.
Il grande contributo del pensiero liberista è quello di porre l’individuo, anche definito agente economico, come fulcro della sua teoria.
Gli agenti economici sono, dunque, in grado di realizzarsi autonomamente e liberamente, perseguendo scelte e decisioni che possano condurlo alla felicità e alla sua piena emancipazione come uomo e cittadino.
Il liberismo, come teoria economica, confida nell’abilità del mercato di sapersi regolare, superando ed affrontando autonomamente ed abilmente, shock macroeconomici senza la necessità di un intervento esterno da parte dello Stato.
Le teorie economiche liberiste, però, subirono profonde critiche ed attacchi durante la Grande Depressione del 1929.
John Maynard Keynes, economista inglese di Cambridge, raggiunse l’apice del successo nel 1936 con la pubblicazione del suo capolavoro “Teoria generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta”.
Keynes critica fortemente le teorie economiche di Smith poiché ritiene come il mercato, nel lungo periodo, non sia in grado di autoregolarsi grazie alla mano invisibile ma necessiti, per raggiungere un equilibrio, dell’intervento dell’autorità pubblica.
Celebre fu la frase di Keynes nel 1923 con cui l’economista britannico criticò, aspramente e duramente, il liberismo smithiano:
Ma questo lungo periodo è una guida fallace per gli affari correnti. Nel lungo periodo siamo tutti morti”.

Le teorie economiche keynesiane vennero implementate da Franklin Delano Roosevelt, presidente che dovette affrontare, e gestire, la durissima crisi finanziaria che investì dapprima gli Stati Uniti, e successivamente l’intero globo, nel 1929.
Le teorie economiche di Keynes, a differenza delle teorie liberiste, non credevano nella capacità, da parte del mercato, di autoregolarsi e di raggiungere, spontaneamente, l’equilibrio tra domanda e offerta.
Roosevelt, per fronteggiare la crisi finanziaria, diede vita al New Deal, ovvero il piano economico di rilancio, e stimolo, all’economia americana implementando le teorie economiche keynesiane.
Le politiche economiche di Keynes prevedevano:
– Intervento dello Stato nell’economia con un forte sostegno alla domanda attraverso la spesa pubblica;
– Ricorso all’indebitamento, tramite incremento del debito pubblico, attraverso politiche economiche di deficit spending.
Tipicamente nei periodi di crisi economica, ricordiamo su tutti la crisi finanziaria globale del 1929 e la crisi economica del 2008, le autorità pubbliche intervengono, attraverso piani di intervento e spesa pubblica, nel sistema economico per assorbire gli shock economici esogeni.
I decisori politici, o policy makers per utilizzare la terminologia anglosassone, nel coordinare le politiche economiche del Paese dovrebbero, dunque, attuare modelli economici di stampo liberista e keynesiano, quest’ultimi indispensabili nel breve periodo per mitigare gli effetti della crisi finanziaria.
Nel lungo periodo, generalmente, l’economia tende a raggiungere un equilibrio di pieno impiego delle risorse produttive ma, nel breve periodo e a fronte di shock economici esogeni di difficile previsione iniziale, i decisori politici devono essere abili nel mitigare, e ridurre, gli effetti e le conseguenze della recessione.
Ciò che è importante, e cruciale, da sottolineare è che, affinché il sistema economico possa persistere e prosperare nel lungo periodo, è necessario che i costi, sociali oltre che economici, della crisi vengano affrontati tempestivamente e rapidamente.
E’ la durata, oltre agli effetti sociali e finanziari, della recessione a creare sospetti e preoccupazioni tra i decisori politici.
Qualora lo Stato, ovvero l’amministrazione pubblica, non intervenisse nel sistema economico per risanare gli effetti della crisi, l’economia potrebbe ritornare all’equilibrio dopo molto tempo e gli effetti, sul fronte occupazionale e del reddito, potrebbero essere devastanti.
Le politiche economiche keynesiane, dunque, vengono tipicamente varate nel breve periodo, con un forte intervento pubblico, sia sul fronte della riduzione dell’imposizione fiscale che sull’incremento della spesa pubblica, poiché nel lungo periodo la capacità del mercato, grazie ai meccanismi di domanda e offerta descritti dalle politiche economiche liberiste, sarà in grado di ricondurre il sistema all’equilibrio auspicato.
Oltre al New Deal, implementato da F.D. Roosevelt negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘20, ricordiamo anche il Quantitative Easing varato da Mario Draghi, allora presidente della Banca Centrale Europea, ad inizio novembre 2010 per sostenere l’economia europea in seguito alla crisi finanziaria dei mutui subprime e del debito sovrano tra il 2008-2012.
Le politiche economiche liberiste, confidando nella totale abilità del mercato di ricondurre il sistema all’equilibrio, oltre a confidare in una crescita economica duratura e stabile che generi ricchezza e prosperità, causano molto spesso crisi di sovrapproduzione e crollo dell’attività economica generale.
Il sistema economico, affinché possa operare in modo efficiente, necessita che le forze di libero mercato (pensiero liberista) si relazionino con le autorità pubbliche governative (pensiero keynesiano).
Il sistema economico, tipicamente adottato dalla stragrande maggioranza dei Paesi sviluppati, è quello ad economia mista: libera iniziativa privata del mercato ed intervento pubblico nel sistema economico per assorbire shock esogeni avversi.
La maggioranza degli economisti, inoltre, ritiene come il mercato, se lasciato libero di operare, raggiunga risultati, ed output, di gran lunga superiori rispetto al caso in cui, ad esempio, lo Stato partecipi, ed intervenga, attivamente nel sistema economico.
Uno Stato socialista, a differenza di un sistema economico liberista, limita fortemente la libertà decisionale degli individui, negando la proprietà privata e la libera iniziativa economica. Le teorie economiche socialiste presero piede verso la metà del XIX grazie al pensiero di Karl Marx che, nel 1848 con Friedrich Engels, pubblicò il celebre “Manifesto del Partito Comunista”.
Le teorie economiche comuniste, in economia, non hanno, però, portato ai risultati auspicati. Secondo Karl Marx il comunismo nasceva con l’intento di superare, e scardinare, il sistema economico capitalista, evidenziando le incongruenze, strozzature e inefficienze del sistema capitalistico, considerato dallo stesso Marx iniquo nella sua creazione, e distribuzione, della ricchezza prodotta.
Karl Marx aspirava ad una “dittatura del proletariato”, con una graduale, ma progressiva, abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e del capitale finanziario.
Le teorie economiche marxiste vennero adottate dapprima in Russia durante la celebre “Rivoluzione d’Ottobre” del 1917 quando lo Zar Nicola II Romanov dovette abdicare. Successivamente i bolscevichi, capeggiati da Vladimir Lenin, presero il potere trasformando la Russia in una potenza economica comunista, ma ciò portò ad una concentrazione del potere nelle mani di pochi uomini che, inevitabilmente, sfociò in regimi politici dittatoriali.
In politica economica, inoltre, è bene prestare attenzione alla differenza tra teoria positiva e teoria normativa:
– Teoria positiva: analizza e studia gli interventi di politica economica così come si manifestano;
– Teoria normativa: analizza gli interventi, e gli effetti delle misure di politica economica, come dovrebbero verificarsi nel sistema economico.
L’essere umano, tendenzialmente, come ripreso da Thomas Hobbes, filosofo inglese del Cinquecento, è tendenzialmente egoista ed individualista. I modelli economici comunisti, dunque, hanno sviluppato una teoria positiva del funzionamento del processo decisionale dell’essere umano decisamente fuorviante ed erronea, denotando come esso sia fortemente dotato di empatia, generosità ed amore per il prossimo.
Un sistema economico comunista, inoltre, riduce la creatività, l’immaginazione e la produttività dell’intero sistema economico, limitando notevolmente lo sviluppo e il progresso economico della comunità, creando inoltre stagnazione e depressione dell’attività economica.
Il liberismo economico, pensiero chiave e centrale della dottrina economica di stampo capitalistico, consente agli individui di determinarsi, e realizzarsi, socialmente ed economicamente nonostante, ovviamente, permangano frizioni e vincoli tra le differenti classi sociali che, una buona politica, dovrà cercare di ridurre senza compromettere il benessere sociale.
Come ribadito da Winston Churchill, primo ministro inglese:
“Il male del capitalismo è l’iniqua distribuzione della ricchezza, il bene del socialismo è l’equa distribuzione della miseria.
Compito di una buona, e lungimirante, classe politica e dirigenziale è quella di promuovere, e stimolare, la crescita e il progresso economico limando, e contenendo, le disuguaglianze sociali nella comunità”.

Dott.  Pastore Paolo

Sommario

Nel corso dell’ultimo decennio sono state stilate le regole tecniche che rappresentano un elemento fondamentale per la gestione e la conservazione sicura e corretta del documento informatico, l’ultimo tassello per la piena applicazione del Codice dell’Amministrazione digitale. Ora la pubblica amministrazione ha tutti gli elementi per lo switch off dal cartaceo al digitale. Con le medesime regole vengono definite le misure tecniche, organizzative e gestionali volte a garantire l’integrità, la disponibilità e la riservatezza delle informazioni contenute nel documento informatico.

Nel presente lavoro vengono focalizzati l’iter di formazione delle regole tecniche, la formazione di un documento informatico, l’uso della firma digitale e la conservazione del documento, nonché la sicurezza ed i protocolli ammessi dello stesso.

Open Government nella Pubblica Amministrazione

Introduciamo il concetto di “Open government” (amministrazione aperta) inteso come un modo di governo trasparente, partecipativo e responsabile nei confronti dei cittadini. Applicando tali principi si permette alla popolazione di comprendere l’attività di un’amministrazione, facilitando l’accesso alle sue informazioni, attuando misure di condivisione dati e di gestione degli archivi.

Quindi l’Open Government si fonda sui principi di trasparenza, partecipazione ed accountability. Attuando tali principi si giunge ad un’erogazione più efficace dei servizi pubblici ad ogni livello, oltre che un rafforzamento della fiducia dei cittadini e una riduzione della corruzione.

A livello internazionale, la Carta internazionale dei dati aperti (2015), adottata in occasione del Vertice mondiale dell’iniziativa “Open Government Partnership” si pone l’obiettivo di migliorare l’efficacia e la qualità della buona governance a tutti i livelli di governo, adottando regole comuni per la realizzazione di un’amministrazione aperta.

L’Open Government Partnership (OGP) consiste in un’iniziativa multilaterale dei Governi, nata nel 2011, che mira a promuovere politiche innovative al fine di rendere le istituzioni pubbliche più aperte e responsabili. In questo modo è possibile garantire la trasparenza della P.A, la lotta alla corruzione ed i principi della democrazia partecipata.

L’OGP attualmente è composta da 70 membri, tra cui l’Italia. La “Dichiarazione sull’open government” che gli Stati sottoscrivono tramite i rappresentanti dei rispettivi Governi esplicita gli obiettivi dell’OGP. In particolare, risulta fondamentale approvare un Piano d’azione, il cui contenuto è stabilito in modo partecipato con la società civile. L’Italia ha redatto il primo Piano d’azione nel 2012, indicando misure relative alla trasparenza, integrità, semplificazione e politiche di open data   in favore della collaborazione e partecipazione dei cittadini all’attuazione delle politiche pubbliche.

Il passaggio dal concetto di “Open government” a quello di “Open State”, sembra dunque rappresentare il fine ultimo cui mira l’intervento dell’OCSE, intendendosi con l’espressione “open State“, “la situazione in cui i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, le autorità amministrative indipendenti e tutti i livelli di governo – fatti salvi i rispettivi ruoli e prerogative e, più in generale, l’indipendenza loro riconosciuta dagli assetti giuridici e istituzionali vigenti – collaborano, sfruttano sinergie e condividono buone pratiche ed esperienze tra di loro e con gli stakeholder per promuovere trasparenza, integrità, responsabilità e partecipazione degli stakeholder, a sostegno della democrazia e della crescita inclusiva”.

Il principio di trasparenza

Nell’ambito del processo di riforma della pubblica amministrazione iniziato negli anni ’90, la trasparenza passa attraverso tre fasi fondamentali, collegate a tre fondamentali interventi legislativi: la L. n. 241 del 1990, il D. Lgs. n. 150 del 2009 e soprattutto il D. Lgs. n. 33 del 2013. A questi interventi si aggiunge la Legge 7 agosto 2015, n. 124 (c.d.  Legge Madia) e, in attuazione della delega in essa contenuta, con il D. Lgs. 97/2016 (cd. FOIA italiano), che introduce un’ulteriore misura per la trasparenza della macchina pubblica, finalizzata, oltre che a favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’ utilizzo delle risorse pubbliche, anche a promuovere la partecipazione al dibattito pubblico.

Con il D. Lgs. 150/2009 assistiamo all’affermarsi della trasparenza come accessibilità totale, finalizzata al controllo sull’operato delle pubbliche amministrazioni ed al rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità. Quindi, la riforma del 2009 è incentrata su due obiettivi prioritari: efficienza e responsabilizzazione delle pubbliche amministrazioni. Questi ultimi passano attraverso la valutazione della performance del dipendente pubblico, alla quale deve corrispondere un sistema di premialità e tutto nella logica del miglioramento dei servizi pubblici. Questa riforma va oltre quanto delinea la trasparenza che diventa uno strumento volto alla prevenzione della corruzione, sulla scia di quanto già affermato a livello internazionale con la Convenzione dell’ONU contro la corruzione (UNCAC) di Merida del 2003, sottoscritta dall’Italia nel 2003. Quindi i temi della trasparenza, dell’accountability e del controllo sono strettamente all’esigenza di prevenzione della corruzione.

L’Accountability

Il principio di accountability è presente nella Convenzione internazionale anticorruzione, oltre quello di trasparency. Si tratta del principio del “rendere conto”, ovvero dell’obbligo di dare conto del corretto utilizzo delle risorse pubbliche, cioè delle risorse che sono state assegnate per il raggiungimento delle finalità che l’amministrazione persegue.

Il termine, di origine anglosassone, si afferma negli anni 80 in cui si diffondono nuove tecniche di gestione manageriali che implicano l’esigenza di misurare e valutare le performance delle amministrazioni pubbliche per rendere conto delle azioni pubbliche nei confronti della cittadinanza. Si affermano, quindi, nuovi paradigmi organizzativi della PA, basati sulla responsabilizzazione dei manager sui risultati, sulla direzione per obiettivi e sulla valutazione delle performance e aventi come precondizione imprescindibile la separazione tra politica e amministrazione (New Public Management – NPM).

A partire dagli anni ’90 si assiste poi al passaggio dal government alla governance, basato principalmente sul coinvolgimento di tutti gli stakeholders sociopolitici (Public Governance). Questo nuovo modello non si sostituisce al NPM, ma si aggiunge ad esso, superandone alcune criticità. Esso è incentrato, oltre che sulla partecipazione ai processi decisionali di attori non istituzionali, anche sulla cooperazione tra diversi livelli di governo, finalizzata comunque alla costruzione di processi decisionali partecipativi ed aperti. Si tratta, quindi, di una multilevel governance, poiché si registra un’azione coordinata di governo tra attori di natura diversa ai vari livelli istituzionali.

È possibile distinguere diverse forme di accountability, tutte finalizzate a migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’agire pubblico:

  • Accountability politica: rendere conto ai partiti politici e da ultimo agli elettori;
  • Accountability legale: rendere conto agli organi dell’amministrazione giudiziaria;
  • Accountability amministrativa: render conto ad autorità amministrative indipendenti, come l’ANAC;
  • Accountability sociale: rendere conto agli stakeholders, intesi quali gruppi di interesse.

Dunque, la necessità di accedere all’informazione pubblica per valutare le performance delle amministrazioni pubbliche mette in correlazione i due principi di trasparenza e accountability. Maggiori sono i livelli di trasparenza, maggiore è la probabilità che molti aspetti dell’amministrazione possano essere misurati.

La possibilità di consentire ai cittadini di partecipare in modo attivo alla gestione della macchina pubblica determina un radicale cambiamento delle dinamiche di potere, anche e soprattutto al fine di prevenire fenomeni di corruzione. Quindi, trasparenza e accountability possono contribuire fortemente a migliorare i risultati dell’amministrazione, sia prevenendo fenomeni di cattiva amministrazione, sia imponendo una rendicontazione dell’azione pubblica nei confronti degli stakeholders, così come postulato nei nuovi paradigmi organizzativi della PA.

Bibliografia

a) Fonti dottrinarie

Filippo Patroni Griffi, La Trasparenza della pubblica amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in www.federalismi.it, (2013), n. 8, p. 2.

Luigi Reggi, Cosa è l’accountability, in Formez PA, (2017), p. 3.

Borgonovi, Fattore, Longo, Management delle Istituzioni Pubbliche, EGEA, Milano, 2009.

Ermanno Granelli, Trasparenza, accountability, controllo. I tre pilastri per la prevenzione della corruzione, in UN NUOVO MANAGEMENT PUBBLICO COME LEVA PER LO SVILUPPO Atti del seminario “Istituzioni norme risultato”, 2016.

Luigi Reggi, Normativa per la trasparenza e l’accountability, in Formez PA, (2017), p. 4-5.

Gianluca Gardini, La nuova trasparenza amministrativa: un bilancio a due anni dal “FOIA Italia”, in www.federalismi.it, (2018), n. 19, p. 7.

b) Sitografia

https://www.anticorruzione.it/portal/public/classic/Attivitadocumentazione/Trasparenza/AttiMateriaTrasparenza/AccessoCivico

https://www.camera.it/temiap/documentazione/temi/pdf/1104167.pdf

https://www.foia.gov.it/wp-content/uploads/2020/08/Monitoraggio-FOIA-2017-2019_Dfp-uid-luglio-2020-.pdf

https://rm.coe.int/trasparenza-e-open-government-commissione-per-la-governance-relatore-a/16808ee8b7

http://www.funzionepubblica.gov.it/attivita-internazionali/ogp

http://open.gov.it/wp-content/uploads/2017/06/addendum-istituzioni.pdf

Stefano Marci, Dall’open government all’open State: la nuova raccomandazione dell’OCSE, in Senato della Repubblica, Esperienze (2018), n.30, p.19

http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/dipartimento/30-03-2017/la-prima-edizione-del-premio-opengov-champion

http://open.gov.it/open-government-forum/

http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/dipartimento/30-03-2017/la-prima-edizione-del-premio-opengov-champion

L’articolo prende in analisi il tema del divorzio, in particolare la sua storia e di come sia cambiata l’idea nel tempo. Inoltre, esamina specialmente l’Italia e lo sviluppo della legge 1° dicembre 1970, n. 898, chiamata anche “legge Fortuna-Baslini”. Sottolinea come l’ottenimento di questa legge sia stato molto travagliato e duraturo, partendo dal 1878. Essa è stata causa di molti dibattiti, che coinvolsero tutti, dai partiti politici ai movimenti sociali. L’obiettivo è quello di mettere in rilievo quanto l’Italia sia stato un Paese lento dal punto di vista del progresso delle famiglie e quanto questa legge abbia modificato le forme di queste ultime.

Introduzione – Il divorzio nel tempo

Oggi i divorzi ci sembrano all’ordine del giorno, ma in Italia non erano legali fino al 1970, di preciso fino al primo dicembre 1970. Il divorzio è un istituto giuridico che decreta la fine di un matrimonio. Ormai lo scioglimento del matrimonio è legale in tutti i paesi, sono solo due che non lo posseggono nei loro ordinamenti civili: Filippine e Città del Vaticano.

Persino gli antichi romani accettavano l’idea di porre fine al matrimonio, pensando che “matrimonia debent essa libera”, vale a dire “i matrimoni dovrebbero essere liberi”, anche se con uno sfavoreggiamento per le donne che lo richiedevano. Un’idea particolarmente all’avanguardia, considerando che molti paesi europei hanno reso legale lo scioglimento del matrimonio solo recentemente. Dopo il X secolo il divorzio nei paesi cattolici era vietato. Sotto l’influenza della Chiesa Cattolica il tasso del numero dei divorzi diminuì drasticamente, considerando il matrimonio un’unione indissolubile. Sebbene non fosse accettato, era frequente il “divorzio a mensa et thoro” (“divorzio dal tavolo al letto”).  In questo caso marito e moglie sono separati, ma non legalmente. Secondo la Chiesa cattolica i due coniugi diventano “una sola persona giuridica”, sottolineando come l’esistenza giuridica della donna viene sospesa durante il matrimonio. Dopo la Riforma protestante in Europa il divorzio veniva accettato solo in caso in una delle due parti non avesse rispettato i sacrosanti voti fatti al coniuge. Per esempio, in caso di adulterio, l’abbandono e la “crudeltà estrema”. Il tutto seguito dai tribunali civili che si rifiutavano di concedere il divorzio se le prove rivelavano qualsiasi accenno di complicità tra marito e moglie nel divorzio, in quanto considerato contrario all’interesse pubblico. I puritani, nel periodo la guerra civile inglese, approvarono per un breve tempo una legge che manteneva il matrimonio solo come un contratto che poteva essere infranto, privandolo di ogni sacramento.

L’illuminismo ha rafforzato gli ideali di secolarizzazione e la liberalizzazione. Il re Federico di Prussia decretò nel Settecento una nuova legge sul divorzio, dichiarando che il matrimonio era una questione privata, consentendo il divorzio sulla base del mutuo accordo. Questo nuovo decreto influenzò l’Austria, la quale adotto la stessa per tutti coloro che non erano cattolici. Verso il XIX secolo ci fu una maggiore liberalizzazione, arrivando ad essere legale da tutti i tribunali civili in caso di adulterio, da parte della moglie nei confronti del marito. L’ultimo paese europeo ad istituire una legislazione per il divorzio è Malta, nel 2011.

In Italia

L’ottenimento del divorzio in Italia è stato un processo molto lento. Già nel 1878 venne proposta da Salvatore Morelli, senatore pugliese, per la prima volta una riforma del diritto civile, nella quale vi era incluso il diritto al divorzio. Dopo la bocciatura di quest’ultimo ci vollero altri quasi cento anni per arrivare a una legge completa, considerando che con i Patti Lateranensi del ventennio fascista per trent’anni non si parlò neanche di un’idea di legge sul divorzio.

Arrivati agli anni Cinquanta del Novecento, ripresero delle spinte divorziste con il deputato socialista Luigi Renato Sansone che propose il “piccolo divorzio”, vale a dire l’opportunità di dissolvere il legame coniugale in determinato casi specifici, però non venne accettata. Ultimo fallimento avvenne nel 1965 con la proposta di Loris Fontana, del partito Radicale e, seppure, come detto, non accettata, aprì le porte alla vittoria definita cinque anni più tardi.

Ci furono delle lunghe discussioni tra divorzisti e antidivorzisti, in quanto l’Italia è sempre stato un Paese fortemente influenzato dalla cultura cattolica. Al momento della votazione per l’approvazione della legge Democrazia Cristiana, Movimento Sociale Italiano e Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica votarono contro. In quanto dunque mancava l’unanimità, in particolare era contrario il partito di maggioranza relativa, si organizzò successivamente un movimento politico che promosse un referendum abrogativo, nell’intento di far abrogare la legge 1° dicembre 1970, n. 898: nel 1974, al referendum sul divorzio la maggioranza votò il mantenimento della riforma (con il 59.3% di sì e il 40.7% di no).

La legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Articolo 1), chiamata legge Fortuna-Baslini, afferma che “Il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio contratto a norma del Codice civile, quando, esperito inutilmente il tentativo di conciliazione di cui al successivo articolo 4, accerta che la comunione spirituale e materiale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste dall’articolo 3”. Venne aggiornata con la legge n. 74 del 6 marzo 1987, diminuendo il periodo di separazione coniugale prima di accedere al divorzio, da cinque a tre anni, per poi passare a un anno in caso di separazione giudiziale e sei mesi in caso di separazione consensuale, con la legge n. 55 del 6 maggio 2015.

Divorzio o no?

I divorzisti erano sostenuti da diversi movimenti sociali e politici, a partire dal Partito Radicale, uno dei più attivi promotori del divorzio in Italia. Inoltre, grandi fautori furono “Unione Donne Italiane” (UDI), un’organizzazione femminista stretto al Partito Comunista Italiano (PCI), la quale considerava il diritto al divorzio un grande passo per l’emancipazione femminile; il “Movimento di Liberazione della Donna” (MLD), un’altra organizzazione femminista impegnata nei diritti civili e l’autodeterminazione delle donne; il Partito Socialista Italiano (PSI); le “Leghe per l’Istituzione del Divorzio” (LID) istituite dallo stesso Fortuna per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Gli antidivorzisti erano anch’essi sostenuti da molteplici movimenti, il più importante è la Democrazia Cristiana (DC), partito di maggioranza in Italia del dopoguerra, in quanto molto legato ai valori cristiani e di una famiglia tradizionale. In aggiunta, come prevedibile, la Chiesa Cattolica e il Vaticano, i quali ritengono il matrimonio un voto sacro indissolubile; il Movimento Sociale Italiano (MSI), partito neofascista; i Movimenti Femminili Cattolici, i quali temevano che il divorzio lasciasse le donne senza sostegno economico.

Conclusioni

Dopo la promulgazione della legge Fortuna-Baslini si crearono nuove forme di famiglia, ognuna diversa a modo suo. Ad oggi esistono diversi tipi di famiglia, tant’è che è impossibile studiare tutte da quanto sono diversificate. Inoltre, questa riforma ha evidenziato quanto la religione non ha più controllo istituzionale e morale, cosa che ha portato alla diminuzione del numero dei matrimoni. Il calo del connubio tra coppie è dovuto, in aggiunta, all’instabilità coniugale, che di conseguenza fa aumentare i divorzi o le separazioni. Tutto ciò, dunque, rende più probabili la creazione di famiglie “estese” o “composite”.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Divorzio#:~:text=Dopo%20la%20sua%20approvazione%20in,casi%20di%20scioglimento%20del%20matrimonio%22).

Avvocato Raffaglio (https://www.avvocatoraffaglio.com/privati/divorzio/storia-del-divorzio-in-italia-dalla-sua-introduzione-ai-giorni-nostri)

Favaro B., Il coinvolgimento dei figli durante il processo di separazione e divorzio dei genitori, 2022 (tesi di laurea presso l’Università degli Studi di Padova).

Partendo dal concetto di “gradiente sociale di salute” l’articolo vuole analizzare la tematica delle disuguaglianze nell’ambito della salute, collegando sociologia ed economia. In particolare, approfondisce quanto la classe sociale, coinvolgendo fattori come condizioni lavorative e abitative, determini l’accesso alle cure. Dopo aver introdotto il Modello dei Determinanti Sociali della Salute usato dall’OMS per analizzare gli elementi che influenzano lo sviluppo delle malattie, viene proposta una riflessione sugli interventi di welfare adottati dagli stati per ridurre le disuguaglianze sanitarie.

Il gradiente sociale di salute

Il termine “gradiente sociale di salute” descrive la relazione statistica esistente tra lo stato di salute e la posizione socioeconomica degli individui appartenenti a una specifica comunità o territorio. Fattori quali reddito, istruzione, appartenenza a minoranze etniche, ma anche aspetti di natura macroeconomica e politica, determinano la formazione del gradiente sociale e vengono chiamati determinanti strutturali di salute.

Come il livello socio-economico influisce sulla salute

Richard Wilkinson e Michael Marmot, due studiosi di epidemiologia sociale, affermano che la salute migliora progressivamente all’aumentare della posizione sociale dell’individuo, implicando dunque che chi occupa posizioni sociali superiori, in media, gode di migliore salute rispetto a chi si trova nei livelli inferiori. Dal momento in cui lo stato socioeconomico si presenta come una condizione strettamente legata a fattori quali reddito, livello di istruzione, stato occupazionale dell’individuo, dalle quali dipendono a loro volta eventuali relazioni di prestigio e potere tra individui, appare plausibile che le persone con basso livello socioeconomico abbiano minore accesso a cure mediche di qualità, prevenzione e stili di vita salutari.

Questa forte eterogeneità si riferisce a tre diverse  condizioni: alle condizioni di salute in senso stretto, come ad esempio una maggiore esposizione a malattie cardiovascolari dovute ad un’alimentazione scorretta; alle possibilità di accesso alle prestazioni e ai servizi erogati, che fanno sì, ad esempio, che si instaurino numerose differenze fra un lavoratore precario senza copertura sanitaria ed uno che possiede un’assicurazione o vive in un paese che garantisce una sanità pubblica; alla salute percepita, grazie alla quale una medesima condizione medica può essere percepita come grave o maggiormente invalidante da un lavoratore precario con reddito basso rispetto che da un soggetto impiegato in una buona occupazione, con un buon livello di istruzione e un reddito alto.

Altrettanto rilevanti sono due ulteriori aspetti, che possono influenzare la salute fisica e mentale delle persone in maniera significativa: le condizioni lavorative e abitative. A sostegno di questa tesi è stato infatti dimostrato come l’esposizione a maggiore stress, infortuni e malattie professionali sia una diretta conseguenza di impieghi instabili o particolarmente usuranti, e come vivere in ambienti degradati e privi di servizi essenziali peggiori il benessere degli individui.

Le disuguaglianze sono un costo economico?

È possibile dunque affermare che le disuguaglianze nella salute rappresentano un vero e proprio costo economico per la collettività? La risposta, intuibilmente, è sì, e di seguito verrà spiegato in che modo esse gravano sull’economia complessiva.

Un primo aspetto fondamentale è l’impatto che questa problematica ha sulla produttività della società: logicamente, una popolazione meno sana risulta essere anche meno produttiva, portando ad inevitabili conseguenze come minore efficienza e maggiori assenze, i quali incidono sul PIL e sulla crescita economica.

L’impatto economico di queste disuguaglianze può essere suddiviso in due aspetti principali: i costi diretti e i costi indiretti.

I primi fanno riferimento al modo in cui trattamenti più costosi e a lungo termine, dovuti a diagnosi tardive dipendenti da questioni economico-lavorative, portino ad un aumento della spesa pubblica per sanità e assistenza. I secondi, invece, si manifestano attraverso elementi come minore produttività, aumento delle assenze dal lavoro, maggiori pensionamenti anticipati e così via, i quali da un lato portano ad un’inevitabile riduzione di forza lavoro attiva, dall’altro ad un maggiore carico economico per il sistema previdenziale e ad una minore crescita economica complessiva.

Si innesca così un vero e proprio circolo vizioso: la condizione di povertà incide negativamente sulla salute, la quale a sua volta impedisce di godere di buone opportunità lavorative, senza le quali risulterebbe difficile migliorare la propria condizione socioeconomica ed uscire dallo stato di povertà iniziale.

I determinanti sociali OMS 

Un approccio utile per evidenziare ancora di più quanto la salute sia influenzata da fattori sociali ed economici è quello del Modello dei Determinanti Sociali della Salute (solitamente rappresentato con un diagramma a cerchi concentrici o un grafico a livelli), utilizzato spesso dall’OMS per analizzare i fattori che in varia misura incidono sull’insorgenza e l’evoluzione delle malattie.

Questo modello è strutturato in cinque livelli: fattori individuali (età, sesso, fattori genetici); stili di vita personali (abitudini, alimentazione, attività fisica); reti sociali e comunità (supporto sociale, relazioni); condizioni di vita e lavoro (istruzione, occupazione, sanità, ambiente); condizioni socioeconomiche, culturali e ambientali (politiche pubbliche, economia, giustizia sociale).
 

Spesa sanitaria e welfare state 

Nonostante le cifre enormi investite dai governi per ridurre le disuguaglianze di salute, spesso le politiche di welfare non sono abbastanza efficienti nel contrastare il problema. Questa inadeguatezza strutturale può dipendere da diversi fattori, quali ad esempio sottofinanziamento dei servizi pubblici, inefficienza nella gestione delle risorse, disomogeneità nell’accesso ai servizi sanitari tra diverse fasce di popolazione.

Avendo discusso il ruolo dei governi nell’ambito della salute, è inevitabile menzionare un divario fondamentale, ovvero quello tra sanità pubblica e privata. La differenza fra questi due sistemi si presenta così: nei sistemi pubblici, in cui rientrano per esempio quelli europei, l’accesso alle cure è garantito a prescindere dal reddito; nei modelli a prevalenza privata, come quello degli Stati Uniti, il divario tra le diverse classi sociali può essere aggravato dalle maggiori difficoltà nell’ottenere cure adeguate subite dalle fasce più deboli.

Se per un verso i Paesi Scandinavi, noti per i loro programmi di prevenzione e assistenza sanitaria di base, rappresentano un esempio perfetto di politiche efficaci, dall’altro la configurazione del servizio sanitario in Italia risulta decisamente più complessa: il servizio nazionale del nostro paese è infatti la somma di tanti diversi sistemi regionali e la componente pubblica e privata si combinano in varie forme andando a creare una sorta di sistema ibrido.

Conclusione

Dal momento in cui il contesto globale in cui viviamo è caratterizzato da ingenti crisi sanitarie ed economiche, finanziare politiche sanitarie efficaci e inclusive risulta essere una delle migliori strategie di sviluppo sostenibile, nonché, a livello etico, un enorme passo avanti verso un sistema privo di discriminazioni e più equo.

Bibliografia

Sanità pubblica e privata, in Diritto on-line, Treccani. Disponibile su: https://www.treccani.it/enciclopedia/sanita-pubblica-e-privata_(Diritto-on-line)/

Agenzia Sanitaria e Sociale Regione Emilia-Romagna, Equità in salute: toolkit per azioni di contrasto alle disuguaglianze di salute. Scheda 7. Disponibile su: https://assr.regione.emilia-romagna.it/innovazione-sociale/equita/toolkit/toolkit-4/scheda7.pdf

Cancellieri, A. (2024). Materiali del corso “Povertà e Salute” [Slide del corso]. Università degli Studi di Milano-Bicocca.

L’articolo sviluppa come e perché alcuni reati vengono stigmatizzati più di altri e quali dinamiche influenzano la percezione del criminale nella società. Ha l’obiettivo di sottolineare come siano importanti l’opinione pubblica per determinare il vero “criminale” e lo status sociale di chi compie atti devianti o reati.

Introduzione

Il dizionario della Treccani definisce il termine “criminale” come “Colpevole di delitti gravi, delinquente”. Nella nostra società questa espressione viene usata anche per non “delitti gravi”, mentre in alcuni casi non viene nemmeno attribuita a chi ha commesso reati di maggiore impatto sociale. Qual è, dunque, il confine tra il criminale a livello penale, giuridico, e il criminale etichettato dalla società? E chi è davvero criminale?

Normalmente, si parla di criminalità quando si manifestano violazioni di regole o leggi, le quali portano all’intervento di autorità che prescrivono una pena. Esistono vari atti che possono essere sanzionati secondo il Codice penale, messi da parte dalla società, presi quasi alla leggera. Chi ruba del cibo in un supermercato e chi evade le tasse è criminale allo stesso modo? Eppure, il primo rischia maggiormente il carcere o sanzioni penali rispetto al secondo. Potremmo dire quindi che la percezione della criminalità non sempre è allineata con quella del Codice penale, in quanto, spesso, è influenzata da fattori socioeconomici e dal contesto culturale in cui ci si trova. Oltre a questo, perché alcune leggi del Codice penale non sono percepite come criminali dalla società, mentre altre creano un forte stigma?

Criminalità in base alla società

Se per il Codice penale si può definire in modo specifico e preciso qualcuno che compie un atto criminale, vale a dire contro la legge, per la percezione collettiva sociale è diverso. Questa è profondamente influenzata da fattori sociali, economici, culturali, e quindi anche valoriali di chi li compie e di chi li osserva da spettatore. Dipende anche dal tipo di società in cui ci si trova se conservatrice o liberale. Possiamo dire che le prime tendono a giudicare e a etichettare più velocemente i crimini considerati minori e a tralasciare i crimini dei “colletti bianchi”. Le seconde possono essere più flessibili su determinate violazioni di legge.

Però la differenza tra crimini “seri” e crimini “accettabili” può essere influenzata dalla società in cui si compiono. Per esempio, in Cina lo spaccio di droghe leggere può prevedere persino la pena di morte, in caso di grande spaccio. Anche la Russia detiene una legislazione restrittiva per il possesso di cannabis, dove più di sei grammi sono punibili a partire da quindici giorni di detenzione e nel caso maggior quantità si può arrivare anche all’incarcerazione. In Italia, invece, ​il possesso di marijuana per uso personale, regolato dal Decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, noto come “Testo Unico sulle Sostanze Stupefacenti”, è considerato un illecito amministrativo, vale a dire la violazione di una norma giuridica per cui viene prevista una sanzione amministrativa pecuniaria. Può avvenire quindi la sospensione della patente di guida, del passaporto e di permessi di soggiorno per motivi di turismo in caso di soggetti stranieri. Altri paesi, invece, come Canada e Malta, hanno legalizzato l’uso ricreativo della cannabis, rispettivamente, dal 2018 e dal 2021. Dagli esempi sopra riportati capiamo quanto i valori delle società siano differenti tra di loro. A livello sociale, per alcuni individui chi fa uso di cannabis è etichettato come tossicodipendente, per altri invece è solo un momento di svago che non nuoce a nessuno. Questo è frutto della socializzazione, o primaria o secondaria, di un individuo, al quale viene insegnato nel corso della sua vita, grazie a gruppi sociali o istituzioni, cosa viene accettato dalla società e cosa no.

Status sociale basso e etichette

L’importanza di un crimine viene determinato anche dallo status socioeconomico e da quanto in una

società sono presenti forti disuguaglianze economiche tra ceti sociali ben delineati. In questo caso i reati chiamati “di sopravvivenza”, quali furti e truffe minori, possono essere subito condannati come gravi crimini dalla società, portando alla stigmatizzazione di chi li ha commessi. Questi ultimi vengono etichettati per tutta la vita solo come “criminali”, senza conoscere né le motivazioni di alcune azioni e né la persona che le ha commesse.

Secondo la teoria dell’etichettamento di Becker, le etichette sociali influenzano l’identità e i comportamenti degli individui, portandoli a credere di essere solo la loro etichetta e, di conseguenza, a comportarsi come tali. Per esempio, chi ha commesso un furto in un supermercato, come è avvenuto ad Ancona il 21 marzo, dove un uomo di settantadue anni ha tentato un furto di centoventi euro per fame, viene denunciato e probabilmente verrà marchiato per il resto della sua vita come “ladro”. Questo reato viene disciplinato dall’articolo 624 del Codice penale, secondo il quale la pena è la reclusione da sei mesi a tre anni e una multa da €154 a €516. Facendo un confronto con un esempio di reato chiamato “dei colletti bianchi”, in quanto tipicamente compiuto da persone appartenenti ad alte classi sociali con grandi possibilità economiche, notiamo già la differenza nella legislazione. In caso di peculato d’uso, vale a dire indebita appropriazione momentanea di denaro o cose mobili altrui da parte di un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, l’articolo 314 bis del Codice penale prevede la reclusione da sei a tre anni. Possiamo notare come la pena sia praticamente la stessa di quella per un furto semplice, per la maggior parte delle volte commesso da qualcuno di davvero bisognoso. Nel secondo caso, inoltre, vi è l’aggiunta del pagamento della multa, cosa che non si presenta nel primo caso, in cui chi lo compie ha maggiori possibilità economiche.

Conclusioni

In conclusione, possiamo notare come vi sia disuguaglianza anche nella legislazione, dove chi ha maggior possibilità, se compie un reato, ha più probabilità di uscirne indenni, e chi appartiene a uno status sociale basso rimane marchiato a vita.

Rimarchiamo l’importanza dell’opinione pubblica per decretare chi è veramente criminale e chi no per la società, la quale, anche inconsciamente, è influenzato dal ceto sociale di appartenenza. Ancora oggi come si appare alla società e quante possibilità economiche si hanno conta, non solo per dividere la società in ceti diversi e ben differenziati, ma anche per determinare l’etichetta di un individuo.

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

Dizionario italiano Treccani (https://www.treccani.it/vocabolario/criminale/)

Dizionario giuridico Brocardi (https://www.brocardi.it/dizionario/3241.html)

https://zitofra29.wordpress.com/leggi-e-regole-da-rispettare-in-cina/

In Prina, F. (2019), Devianza e criminalità. Concetti, metodi di ricerca, cause, politiche, Roma: Carocci

Dizionario giuridico Brocardi (https://www.brocardi.it/codice-penale/libro-secondo/titolo-xiii/capo-i/art624.html)

Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Peculato)

Per descrivere il rapporto che si instaura tra il conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalla Commissione Europea (i quali si concretizzano nelle oramai ben note dimensioni E.S.G) e il soddisfacimento dei differenti interessi degli stakeholders delle società – in particolare di quelle che ricorrono al mercato dei capitali – si potrebbe utilizzare la locuzione latina ‘in media fluit ius‘ ovverosia ‘il diritto scorre nel mezzo’: la funzione desiderata della regolamentazione, almeno nell’ambito del diritto societario, è quella di garantire un equilibrio tra posizioni apparentemente opposte, al fine di individuare un ‘punto medio‘ tra il conseguimento di utili e il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Questi ultimi non si limitano solo a quelli ambientali (Environmental), ma si estendono anche a quelli sociali (Social) e di Governance (G). Tuttavia, in questa sede è fondamentale sollevare due quesiti preliminari: il primo riguarda la possibilità di attribuire al termine ‘sostenibilità’ diverse interpretazioni; il secondo, se tali interpretazioni possano essere poste sul medesimo piano. Riguardo al primo quesito, la risposta pare essere affermativa. Il termine ‘sostenibilità’ assume nel diritto societario contemporaneo una doppia connotazione: la prima, di natura  più tradizionale, riguarda la creazione di valore nel lungo periodo, al fine di garantire la ‘continuità aziendale’ enunciata dall’art. 2086, comma 2, del codice civile. Ciò implica che l’organo di gestione debba garantire alla società una ‘sostenibilità temporale’ che si concretizza in un equilibrio economico – e auspicabilmente anche finanziario – da consentire alla società di perdurare nel lungo termine. La seconda connotazione di questo termine è più recente e si riferisce all’adozione dei fattori ESG da parte delle società. Per quanto riguarda il secondo quesito, ovverosia se queste due declinazioni possano essere messe sullo stesso piano, la risposta appare negativa. Se si delimita il perimetro d’analisi al solo ordinamento italiano, risulta che lo scopo della società altro non è che quello di lucro: in merito, l’art. 2247 del codice civile non ammette deroghe nello stabilire che «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Se non c’è lo scopo di lucro, non c’è la società. È fondamentale chiarire questo punto al fine di confutare l’interpretazione di una recente parte della dottrina la quale, sfruttando una crescente attenzione sul tema della sostenibilità ESG, considera quest’ultima un nuovo obiettivo per le società, ritenendolo equiparabile (o addirittura sostituibile) allo scopo di lucro. È indubbio che la sostenibilità ESG rappresenti un tema di primaria importanza e che il suo raggiungimento richieda l’imposizione di inediti obblighi agli enti. Tuttavia, la sostenibilità ESG si configura come un mezzo, non uno scopo. Ne consegue che le due accezioni del termine non possono essere poste nello stesso piano: la prima rappresenta lo scopo, la seconda altro non è che un mezzo per realizzarlo. [1]

Grazie alla pubblicazione nel 2019 della Comunicazione sull’European Green Deal, i fattori ESG hanno ottenuto una crescente attenzione nel diritto dell’Unione, mutando profondamente i diversi diritti societari degli Stati membri. Due – recenti – esempi significativi sono la Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Direttiva 2024/1760), che mira a migliorare le pratiche di governance, rendendo gli organi di gestione maggiormente responsabili verso l’ambiente e i diritti umani lungo tutta la catena di valore e la Corporate Sustainability Reporting Directive (Direttiva 2022/2464), che richiede alle aziende di fornire informazioni dettagliate su come il loro modello di business influisce sulla sostenibilità ESG. [2] Non vi è dubbio che il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità dipenda da un organo di gestione efficiente, sia nella fase di definizione delle strategie, sia in quella di esecuzione.  Tuttavia, vi sono alcune zone d’ombra che meritano di essere almeno menzionate: sebbene l’articolo 2387 del codice civile preveda solamente una possibilità di stabilire nello statuto requisiti per l’assunzione alla carica di amministratore nelle società di diritto comune, non esiste alcuna regolamentazione specifica riguardo ai sempre più diffusi ‘comitati di sostenibilità’ (noti anche come ‘comitati ESG’), in particolare per le società quotate. Tali comitati endoconsiliari non sono soggetti a una disciplina specifica, a differenza del ‘comitato remunerazioni’ e del ‘comitato nomine’, che sono regolati dal ‘Codice di Corporate Governance’ di Borsa Italiana. Analogamente, il ‘comitato parti correlate’ è disciplinato sia dal codice civile sia dal relativo Regolamento Consob. Ciò rappresenta un paradosso: i ‘comitati di sostenibilità’, che dovrebbero garantire un’azione societaria focalizzata su un tema così rilevante ed attuale come la sostenibilità ESG, non hanno una disciplina specifica. Una regolamentazione – apparentemente – insufficiente in tema di sostenibilità ESG la si riscontra anche nell’ambito di società di diritto speciale quali gli enti creditizi: come noto, l’art. 26 del Testo Unico Bancario (T.U.B, Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385) prevede l’obbligo per gli esponenti bancari di possedere requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza oltre che soddisfare criteri di competenza e correttezza: gli amministratori delle banche sono tenuti, quindi, ad essere dotati di requisiti individuali di idoneità soggettiva più stringenti rispetto a quelli richiesti per la medesima carica nelle società di diritto comune. [4]  Tuttavia, né il T.U.B, né la ‘Circolare n. 285 del 2013 della Banca d’Italia’ e tantomeno il ‘Decreto del M.E.F. 169/2020 sui requisiti degli esponenti aziendali di banche e intermediari finanziari’ stabiliscono requisiti e criteri specifici che i gestori delle banche devono possedere in materia di sostenibilità ESG. Ciò rappresenta una grave lacuna normativa, considerando il ruolo chiave assunto dalle banche nel processo di transizione, soprattutto grazie alla loro capacità di convogliare fondi verso specifici settori e di diventare i principali emittenti di strumenti finanziari sostenibili. Infine, occorre sottolineare che questo vuoto normativo, il quale riguarda sia le società di diritto comune sia le banche, non solo ostacola una gestione societaria efficiente in ambito di sostenibilità, ma si contrappone anche ai Principles of Corporate Governance dell’OCSE, i quali enfatizzano l’importanza di una regolamentazione chiara e precisa riguardo alle responsabilità e alle modalità di azione degli amministratori.

Bibliografia

[1] COSTI R., Sostenibilità e scopo della società (2023),  Banca Impresa Società, Rivista quadrimestrale, n.3, pp. 503-507.

[2] CAPELLI M., PENNAZIO R. (2023), Dalla Corporate sustainability reporting directive alla Corporate Responsibility Due Diligence: comunicazione di sostenibilità e impatto ambientale,  Il nuovo diritto delle società, n. 7, pp. 1161-1194.

[3] LENER R., LUCANTONI P., Sostenibilità ESG e attività bancaria (2023), Banca Borsa Titoli di Credito, n. 1, pp. 1-16.

La libertà di pensiero è la forza di dire quello che si pensa rispettando alcune condizioni quali la liceità, la chiarezza, l’equilibrio, la forma. Liceità significa che con il nostro dire non possiamo commettere un reato.

La libertà è sempre una libertà regolata. La chiarezza, o la proprietà di linguaggio, va coniugata con la necessità di rendere comprensibile ciò che viene detto a chi ha studiato di meno.

Equilibrio significa che il nostro dire non deve mirare a convincere, ma chi ascolta o discute con noi deve trarre dall’ascolto e dal confronto gli elementi per confermare o modificare da sé il proprio modo di intendere le cose. Una parola male intesa o sbagliata può apportare del male o un danno a chi è stato indotto in seguito a ciò che ha ascoltato a comportarsi in un certo modo. Questo vale soprattutto quando la manifestazione del pensiero è rivolta a persone che, per qualche ragione, fanno affidamento su quello che viene o meno loro detto.

Forma vuol dire che non c’è mai la necessità di essere volgare.

Non c’è la libertà personale senza la sicurezza di potere senza timore camminare di notte in una città; la sicurezza di potere viaggiare tranquillamente di notte in treno, in autobus, in metropolitana; la sicurezza di non essere aggrediti o rapinati per la strada o in casa; la sicurezza di non essere investiti da chi guida con un telefonino tra le mani o mentre è ubriaco o drogato.

Non c’è la libertà di impresa se non c’è la sicurezza di poterla esercitare senza subire estorsioni da parte della criminalità.

Non c’è la libertà di lavorare se manca l’osservanza delle norme poste a tutela della salute fisica del lavoratore sul luogo di lavoro, e di quelle volte ad ottenere la retribuzione ei contributi assicurativi stabiliti.

Non c’è la libertà di consumo se i prodotti che acquistiamo sono dannosi per la salute.

La soluzione alla mancanza di sicurezza che limita la libertà, nel senso sopra indicato, potrà derivare dall’impiego di grandi risorse pubbliche e private per l’educazione e l’istruzione il cui scopo è l’esercizio di una vita civile da parte del maggior numero. La scuola istruisce, ma solo attribuendo a chi insegna la dignità sociale necessaria il suo compito fondamentale verrà ritenuto tale da ognuno. I genitori hanno il dovere e il diritto, secondo la Costituzione, l’obbligo, secondo il codice civile, di istruire ed educare i figli. Sarà essenziale quindi investire grandi risorse pubbliche nel sostegno del ruolo della famiglia.

Condizione della libertà di ciascuno è il dovere di ciascun altro di agire in modo che il primo possa esercitarla.

Vi è la libertà di vivere in strada. Ma non si comprende che libertà è.

Le persone che per qualche ragione vivono per strada devono essere accolte in strutture dedicate per essere sollevate dalla loro condizione di bisogno materiale e di solitudine.

Altro significato ha la libertà che attiene alla sfera spirituale e che dipende anch’essa dall’educazione, dall’istruzione, dalla disciplina che sappiamo praticare per noi stessi, e dalle scelte.

Condizione della libertà e l’uguaglianza economia? No. Dunque c’è la libertà di arricchirsi, ma senza violare la legge. Tuttavia non c’è la libertà senza l’equità sociale. E non c’è l’equità sociale se, ad esempio, un arcinoto qualsivoglia personaggio televisivo guadagna più di un maestro elementare. Innanzi tutto poiché il compito del primo non è più importante di quello del secondo. Se non si ha un reddito adeguato, secondo la Costituzione, si ha sì la libertà, ma quella di un’esistenza grama.

Non rilasciare la fattura di una prestazione professionale o d’impresa o la ricevuta del canone di locazione di un immobile ad uso abitativo nuoce a chi non potrà detrarre la percentuale stabilita della somma pagata dalla propria imposta lorda e nuoce al bilancio statale e dunque alla collettività perché il non rilasciare la fattura o la ricevuta del canone di locazione dà luogo ad un atto di evasione fiscale. E accade che il soggetto che agisce violando la legge ha di fatto la medesima libertà di svolgere la propria attività o di contrattare del soggetto che agisce rispettando la legge.

Al cittadino che sa leggere e scrivere va attribuita la libertà di agire in giudizio senza l’assistenza di un avvocato? Sì, perché è il giudice che conosce la legge. L’esercizio di tale libertà accrescerebbe in ciascuno la volontà di istruirsi, di conoscere la legge e la pratica della sua osservanza.

Vi è la libertà di votare e di non votare. Le leggi che venissero approvate da un parlamento eletto da meno della metà dei cittadini che costituiscono il corpo elettorale sarebbero legittime? Sarebbe legittimo un governo che ottenesse la fiducia da un tale parlamento? Sarebbero legittime le istituzioni che un tale parlamento esprimesse, come il presidente della repubblica o un terzo dei giudici della corte costituzionale? Le domande hanno senso se si considera la norma costituzionale in base alla quale per abrogare una legge deve votare la metà più uno degli aventi diritto.

Tutte le professioni sono soggette alla legge per quanto attiene al loro esercizio.

La legge prevede che il libero professionista è libero di esercitare la sua attività fin quanto vuole.

Ci sono professioni che sono esercitate contemporaneamente con lo Stato e in forma privata. Così vi sono docenti che insegnano nella scuola o nell’università pubblica o in quelle private e che svolgono la libera professione. Devono scegliere? No.

Ci sono giornalisti o conduttori televisivi che lavorano sino all’età che vogliono, perché la legge consente loro di farlo.

La gran parte, invece, dei lavoratori sono posti in pensione quando sono maturati i requisiti di legge. Ma si dica qual è la ragione perché due lavoratori intellettuali l’uno deve andare in pensione e l’altro può continuare a svolgere il suo compito? Occorre stabilire flessibilità, ovvero lasciare a chi ritiene di potere ancora offrire il proprio contributo di lavoro la libertà di poterlo fare, e chi invece non ne vuole più sapere del suo lavoro, e dunque è inutile o dannoso nel posto che occupa, deve essere libero di lasciare il lavoro con la pensione che può ottenere in base ai contributi versati. Poiché non vi è libertà senza rispetto della persona.

Ci sono persone che iniziano a fare politica molto giovani e per tutta la vita non fanno altro. Vi è chi osserva che queste persone fanno politica tutta la vita o quasi perché hanno la libertà di candidarsi e sono liberamente elette. Non penso che vi siano persone nate per governare. La legge deve stabilire per quanto tempo una persona può svolgere il mandato rappresentativo, dopo di che non deve più poterlo esercitare e deve riprendere il lavoro che aveva, o cambiarlo, o iniziarne uno.

Se la libertà è il maggior bene comune, il maggior bene del maggior numero non il maggior bene di pochi è il bene comune.

La produttività, in economia, è definita come il rapporto tra output (produzione aggregata) e fattori di produzione impiegati nel processo produttivo ( input ).
La produttività, dunque, è un indicatore di efficienza e redditività, in quanto testimonia la capacità, da parte di un sistema economico, di produrre beni e servizi con minori costi sociali ed economici.
Utilizzando il linguaggio matematico possiamo definire la produttività nel modo seguente:
produttività = output/input.
La produttività, a livello economico, è un indicatore fondamentale per stabilire la salute, finanziaria e macroeconomica, di un paese, riflettendo la sua competitività rispetto agli altri partner commerciali.
L’Italia, purtroppo, soffre di grandi problemi di produttività da circa 30 anni, ovvero dai primi anni ’90 quando, non senza difficoltà, intraprese il percorso di integrazione, e convergenza finanziaria, per entrare nell’Unione economica e monetaria.
L’Italia, durante gli anni ’70 e ’80, sperimentò una grande crescita economica trainata, principalmente, dalle esportazioni di beni e servizi all’estero, rese possibili dalla svalutazione della lira (celebre fu la svalutazione nel 1992, in cui la lira perse il 30% del suo valore) che, nei mercati internazionali, rende i nostri prodotti più economici agli occhi dei consumatori esteri.
Un’economia, quindi, può crescere, e prosperare, perseguendo due strategie distinte:
1. Deprezzamento della valuta incentivando così le esportazioni di beni e servizi;
2. Innovando, sia a livello di prodotto che di processo, e riacquisendo competitività nei mercati.
La valutazione, infatti, permette ai beni prodotti da un’economia di essere competitivi nei mercati internazionali grazie, essenzialmente, alla riduzione del potere d’acquisto della valuta, il che facilita e stimola l’acquisto da parte di partner esteri.
La svalutazione, però, nonostante nel breve periodo possa incrementare il Pil di un paese, nel medio-lungo periodo comporterà, a causa del minor valore nominale della valuta, un incremento nel tasso d’inflazione, dal momento che i beni esteri importati costeranno in modo significativo di più.
Qualora, però, un paese, per limiti e vincoli di carattere economico e finanziario, non potesse ricorrere alla svalutazione, per incrementare il Pil e la sua ricchezza, dovrebbe necessariamente, per mantenere e tutelare la sua competitività, innovare ed incrementare la sua produttività totale .

Come possiamo, intuitivamente, osservare dal seguente grafico, la produttività oraria del lavoro, ovvero la variazione marginale nella produzione totale in seguito ad una variazione unitaria di lavoro, in Italia è stagnante, se non addirittura in declino, dagli anni 2000.
Il grafico riporta , lungo l’asse delle ascisse, l’anno di riferimento e lungo l’asse delle ordinate il valore, medio, della produttività del lavoro.
E’ interessante, poi, notare come il grafico riporta i valori della produttività del lavoro a partire dall’anno 2000, contestualmente all’ingresso, da parte delle principali economie europee, nell’unione monetaria a valuta unica (euro).
Osserviamo come le principali economie, tra cui Francia e Germania, abbiamo sperimentato livelli crescenti nella produttività oraria del lavoro, a discapito del bel paese.
La crescita economica italiana, tra gli anni ’70 e ’80, non era legata ad un andamento altrettanto positivo dell’economia reale, ma era il frutto della svalutazione finanziaria che aveva reso i nostri prodotti, all’estero, più economici e che vennero così domandati, stimolando le esportazioni e la crescita del reddito nazionale.
Con l’ingresso nell’Unione economica e monetaria, la svalutazione competitiva, non essendo più i singoli paesi titolari della politica monetaria, non era possibile e ciò evidenziava i grandi problemi strutturali di produttività, ed efficienza, che affliggevano il nostro paese.
Ancorati ad una valuta comune, come l’euro, un paese può riacquistare produttività e competitività incrementando la qualità dei suoi prodotti, ed innovando l’intero processo produttivo, ovvero producendo gli stessi risultati ( output ) a parità di fattori di produzione ( input ) , evitando così inefficienze e distorsioni nell’allocazione delle risorse.
Nel 2020, secondo un’indagine dell’Istat, in Italia vi erano ben 4.253.279 imprese, di cui il 95% era caratterizzato da micro imprese con meno di 10 dipendenti, e il restante 5% era costituito da 201.000 PMI.
Le micro imprese, secondo l’Istat, generano ben il 29% del prodotto interno lordo del paese.

Dal grafico, inoltre, se si evince come per le imprese, aventi più di 250 dipendenti, ed anche per quelle comprese tra i 50-249, la produttività del lavoro italiano sia superiore alla media europea.
Per le micro imprese, invece, ovvero imprese principalmente a conduzione familiare, costituite circa da 1-9 dipendenti, la produttività delle imprese italiane e spagnole è di gran lunga inferiore rispetto alla produttività media delle analoghe imprese europee.
Gli economisti concordano su come molte piccole e micro imprese italiane siano altamente inefficienti e poco produttive e, in qualsiasi sistema concorrenziale, dovrebbero lasciare il posto ad imprese più grandi che possano assorbire l’occupazione ed allocare, grazie all’implementazione di tecnologie più efficienti, in modo più produttivo, dinamico ed innovativo le risorse economiche.
Il processo di crescita e sviluppo economico, infatti, si fonda sulla logica economica del “ darwinismo di mercato ”, ovvero di come piccole e micro imprese inefficienti devono, progressivamente, essere sostituite e rimpiazzate da imprese medio-grandi efficienti, produttive e disposte ad investire , godendo dei vantaggi, e benefici, delle economie di scala.
Piccole e micro imprese inefficienti, per poter sopravvivere, sono molto spesso portate ad evadere ed eludere l’imposizione fiscale.
L’Istat, inoltre, dal 2014 al 2022 suggerisce come aggiunto il rapporto tra valore e ore lavorate sia aumentato, in Italia, solo dello 0.5% contro l’1.3% nella media dell’Unione europea.
Affinché l’Italia possa sviluppare la sua produttività è, dunque, necessario:
– Avviare un processo di digitalizzazione del paese, investendo in tecnologie efficienti;
– Investire nella qualità dell’istruzione (capitale umano) e nella formazione dei lavoratori;
– Riformare la giustizia;
– Snellire la burocrazia.
Riuscirà il paese ad intraprendere, dopo circa 30 anni di stagnazione e declino economico, un programma di riforme strutturali che gli permettano di consolidare, e rafforzare, la crescita e il progresso economico?

La curva di Laffer, in macroeconomia, permette di individuare la relazione vigente tra la pressione fiscale e il corrispondente gettito incassato dallo Stato.

Tale relazione venne elaborata da Arthur Laffer, celebre economista dell’amministrazione Reagan. Secondo la teoria di Laffer, infatti, ad un aumento dell’aliquota fiscale non corrisponde sempre un aumento automatico del gettito.

In termini matematici, dunque, il gettito fiscale riscosso dallo Stato è ben individuato, e rappresentato analiticamente, da una curva gaussiana.

Analizzando la curva di Laffer, inoltre, si nota come esista un livello di tassazione ottimale che permette, dunque, di massimizzare le entrate derivanti dai tributi.

E’ bene ribadire come il gettito fiscale sia nullo in due distinte circostanze:

  1. Aliquota fiscale pari allo 0% del reddito. Il reddito prodotto dall’economia, secondo questo scenario, non essendo sottoposto ad alcuna tassazione da parte dello Stato, sarà interamente a disposizione dell’economia privata e il gettito fiscale, riscosso dall’amministrazione pubblica, sarà dunque nullo;
  2. Aliquota fiscale pari al 100%. Qualora l’aliquota fiscale fosse pari al 100% del reddito prodotto, imprese e lavoratori non avrebbero incentivi, convenienza, nel produrre ed offrire lavoro; così facendo la produzione industriale nazionale rallenterebbe e la disoccupazione aumenterebbe in modo significativo.

Un regime fiscale pari al 100%, infatti, potrebbe condurre numerose imprese all’evasione ed elusione fiscale, ricorrendo anche a tentativi di corruzione che, inevitabilmente, porterebbero molte aziende alla cessazione dell’attività produttiva o alla sua delocalizzazione.

Un regime fiscale pari al 100% del reddito prodotto avrebbe anche forti ripercussioni nel mercato del lavoro: i lavoratori, sapendo che il loro stipendio sarà sottoposto ad una tassazione del 100%, non avranno alcuna convenienza nell’offrire lavoro, con ovvie conseguenze sul fronte occupazionale (incremento della disoccupazione) e sugli investimenti da parte delle imprese.

E’ bene però anche sottolineare, grazie ad un’ampia letteratura, come spesso un aumento delle aliquote, ovvero della pressione fiscale, induca le persone ad offrire maggior lavoro, al fine di compensare la perdita di reddito dovuta alla tassazione.

Inoltre una riduzione delle aliquote può indurre i lavoratori a ridurre l’offerta di lavoro, dal momento che viene meno l’esigenza di compensare, con maggior lavoro, l’effetto di un’imposta più elevata.

Gli economisti sono da sempre concordi sul fatto che l’effetto di una riduzione delle tasse, sull’offerta di lavoro, può essere positivo o negativo, a seconda che prevalga l’effetto sostituzione (conviene lavorare di più e disporre di minor tempo libero dati la maggiore remunerazione del lavoro) oppure l’effetto reddito (conviene lavorare di meno e disporre di più tempo libero proprio perché è aumentato il livello del reddito netto).

Gli effetti della tassazione possono essere molto diversi se si fa riferimento, ad esempio, all’imposta sulle imprese per il fatto che, a parità di altre circostanze, le imprese tendono a localizzare gli utili nelle giurisdizioni in cui le imposte sono più basse. Comprendere, dunque, quale sia il corretto livello di tassazione è fondamentale, oltre che cruciale, per garantire servizi pubblici e assistenze sociali consentendo, inoltre, un sostanziale equilibrio nel debito pubblico e nei saldi di finanza pubblica. Matematicamente, servendoci del teorema di Weierstrass, intuiamo come per una funzione continua, definita in un intervallo chiuso e limitato, esistano sia il punto di massimo che minimo assoluti. Analiticamente, dunque, il punto di massimo assoluto per la funzione sarà quello in cui la derivata prima della stessa, calcolata nel suddetto punto, risulterà essere nulla.

Algebricamente, infatti, sappiamo come lungo i tratti crescenti (decrescenti) della funzione, la derivata prima sarà positiva (negativa).

Affinché il ragionamento proposto da Laffer possa produrre risultati efficienti, bisognerà operare lungo il tratto decrescente della funzione. In quest’area, ad una depositata dell’imposizione fiscale, corrisponderà, per l’economia, un incremento del gettito fiscale. Sulla base della teoria di Arthur Laffer nacque la Reaganomics e il Thatcherismo , le politiche economiche neo-liberiste di Ronald Reagan e Margaret Thatcher che prevedevano, oltre ad una significativa riduzione della tassazione, anche il taglio della spesa pubblica e il rafforzamento dell’offerta monetaria per ridurre il prezzo.

Gli anni ’80, a livello economico, furono ottenute dalle politiche economiche liberiste di Reagan e Thatcher, volte a rafforzare il libero mercato a discapito dell’intervento pubblico in economia. Reagan e Thatcher, inoltre, furono sostenitori della trickle down economics , ovvero la politica economica della “ cascata, gocciolamento ” secondo cui una riduzione della tassazione, sui redditi medio-alti e per le imprese, avrebbe avuto un effetto espansivo per tutta l’economia .

La trickle down economics , dunque, appartiene alle teorie della supply side economics , ovvero dello sviluppo della crescita economica a partire dall’offerta e non dalla domanda.

Secondo questa teoria, infatti, risparmiatori, investitori e imprenditori saranno i veri motori della crescita, impiegando la liquidità derivante dagli sgravi fiscali, per accrescere ed espandere la loro attività produttiva.

Gli investitori, dunque, acquisteranno aziende ed azioni; le banche concederanno i prestiti e gli imprenditori aumenteranno, assumendo, l’occupazione totale del sistema economico.

I lavoratori, successivamente, spendendo i salari derivanti dal loro lavoro, stimoleranno la domanda e la crescita economica. Le politiche economiche “ trickle down ” si fondano, perciò, sul taglio dell’imposizione fiscale, sulla riduzione della burocrazia e sulla promozione della deregolamentazione finanziaria; la crescita economica, derivante da suddette politiche economiche, porterà, secondo i sostenitori di questa scuola di pensiero, ad un incremento aggiuntivo del gettito fiscale, data la maggiore base imponibile che, essenzialmente, ripagherà i tagli fiscali originari per le classi abbienti e le aziende , creando così un potente effetto moltiplicatore.

In macroeconomia il Pil, ovvero il prodotto interno lordo di un Paese, è dato dalla seguente equazione:
Y = C + I + G + X – M
In cui:
Y: Corrisponde alla produzione nazionale, ovvero al reddito complessivo generato in un’economia ;
C: Rappresenta i consumi effettuati dalle famiglie;
I: Indicano gli investimenti realizzati dalle imprese. Per investimenti si intende, a livello economico ed imprenditoriale, la variazione dello stock di capitale fisico (tipicamente macchinari e fattori di produzione);
G: Testimonianza la spesa pubblica effettuata dal Governo;
X: Rappresenta le esportazioni;
M: Rappresenta le importazioni;
Consumi, Investimenti, Spesa pubblica, incrementando la domanda interna, stimolano la produzione di beni e servizi, favorendo la crescita economica del Paese.

Concentriamoci adesso, brevemente, sul saldo della bilancia commerciale, ovvero la differenza tra le esportazioni e le importazioni (X – M).
Le espressioni rappresentano, a livello economico, una domanda esercitata da economia estera per beni e servizi prodotti localmente.
Stimolando la produzione interna, le esportazioni contribuiscono alla crescita e al progresso economico dell’economia.
Le importazioni, invece, riguardano una domanda interna per beni e servizi prodotti all’estero e, ovviamente, contribuiscono alla crescita economica delle economie estere.
Qualora XM > 0, l’economia sarebbe in una posizione di avanzo commerciale, mentre invece il saldo netto tra le esportazioni e le importazioni fosse negativo, l’economia registrerebbe un disavanzo commerciale.
E’ bene sottolineare come, nei rapporti economici tra nazioni, si adottino valute differenti le quali, per permettere e regolare adeguatamente gli scambi, si ancorano a differenti tassi di cambio.
Il tasso di cambio, economicamente parlando, rappresenta il prezzo al quale vengono scambiati due diverse valute.
Intuitivamente un’economia, per poter acquistare beni e servizi prodotti all’estero, necessiterà della valuta della suddetta economia poiché gli scambi, affinché vi sia trasparenza ed omogeneità, devono avvenire nella valuta dell’economia oggetto di interesse.
Dunque, per poter importare beni e servizi dall’estero, i produttori/consumatori nazionali dovranno vendere, nei mercati finanziari internazionali, valuta domestica per ottenere valuta estera e, contestualmente, lo stesso processo avverrà per le esportazioni.
I tassi di cambio, in macroeconomia, sono essenzialmente di due tipologie distinte e definite: tassi di cambio fissi o variabili.
Il tasso di cambio fisso, non essendo soggetto a mutamenti nel corso del tempo, mantiene un certo rapporto ancorato e stabile tra le due valute oggetto di interesse, il tasso di cambio variabile, invece, è legato alle tipiche fluttuazioni della domanda e dell’offerta nel mercato valutario.
Qualora due valute fossero legate da un tasso di cambio fisso, la Banca Centrale dei due Paesi dovrà attivamente impegnarsi, nella gestione della politica monetaria, per salvaguardare il tasso di cambio, garantendo così credibilità e fiducia alla valuta.
Il seguente esempio chiarirà meglio le argomentazioni appena esposte:
Immaginiamo che l’euro e il dollaro americano, le due valute più importanti e impiegate nei commerci a livello mondiale, fossero legati da un regime di tassi di cambio fisso.
Se l’economia europea fosse, ad esempio, in una spirale economica recessiva e depressiva, la BCE, ovvero la Banca Centrale Europea, per poter risollevare e sostenere l’economia potrebbe ridurre progressivamente i tassi d’interesse, ovvero il costo del denaro, al fine di stimolare gli investimenti e la domanda aggregata.
La Banca centrale, inoltre, potrebbe incrementare, attraverso una politica monetaria espansiva, la quantità di moneta all’interno del sistema economico; creando le condizioni affinché la fiducia possa riemergere tra gli agenti economici e l’economia possa tornare in salute e fertile.
Una maggiore liquidità nel sistema economico, condita da un taglio progressivo dei tassi d’interesse, contribuisce a deprezzare il valore economico della valuta del Paese poiché, per la semplice dinamica di mercato, l’offerta di moneta sarà superiore alla domanda e ciò finirà per gran parte crollare il valore economico reale della valuta.
Dato il regime di cambio fisso che regola i rapporti tra le valute delle due economie, la Federal Reserve, la Banca centrale degli Stati Uniti d’America, dovrebbe attuare specularmente una politica monetaria espansiva, garantendo così pieno rispetto ed armonia nella gestione del tasso di cambio.
Quando, perciò, le valute di due economie sono regolate da regimi di tassi di cambio fissi, le politiche economiche delle due nazioni, ovvero sia la politica fiscale che la politica monetaria, sono fortemente interconnesse e si influenzano reciprocamente.
In presenza, invece, di tassi di cambio variabili, le dinamiche valutarie sarebbero legate alla pressione e all’incidenza, sull’economia, dei mercati finanziari. Politica e istituzioni economiche, in questa circostanza, non dovrebbero l’obbligo di intervenire nel sistema economico per regolare il tasso di cambio.
Con l’espressione guerra valutaria, o svalutazione competitiva, si intende l’azione per cui un Paese cerchi di ottenere un tasso di cambio più basso, e dunque favorevole, per la propria valuta, allo scopo di rendere più competitivo il prezzo per le esportazioni , favorendo così una crescita economica.
La Banca Centrale di un Paese, ovvero l’istituto finanziario che ne gestisce la politica monetaria, qualora volesse deprezzare la valuta dell’economia, potrebbe attuare una politica monetaria espansiva in quanto, offrendo maggiore liquidità nel mercato, la valuta risulterebbe deprezzata e dal minor valore potere d’acquisto. Una moneta svalutata aiuta il Paese ad essere più competitivo sui mercati internazionali, poiché favorisce le esportazioni e, dunque, la crescita economica.
Nonostante questo fattore, sicuramente positivo, la valutazione, per un’economia, comporta anche un maggior costo per importare beni e servizi dall’estero e ciò, in termini economici, si tradurrà in una maggiore vendita, con una riduzione del potere d’acquisto di cittadini e imprese.
Se ogni Paese procedesse con queste politiche, generando una vera e propria guerra commerciale, l’effetto finale potrebbe essere addirittura un rallentamento del commercio internazionale.
Uno dei casi più eclatanti di ricorso alla svalutazione competitiva lo si ebbe negli anni Trenta, quando molti Paesi, per difendersi dalla grande depressione, tentarono di guadagnare quote di mercato deprezzando la loro valuta. Poiché la manovra è stata attuata da molti Paesi, il risultato è stato quasi nullo in termini di competitività, portando ad un crollo del commercio internazionale e ad un peggioramento della recessione.
Ricordiamo come, nella teoria economica, non esistano pasti gratis e per ogni azione vi deve sempre corrispondere una conseguenza ben specifica e definita.
Se un’economia importa più di quel che esporta, vi dovrà essere un’altra economia che compenserà il deficit commerciale, esportando perciò più di quel che effettivamente riuscirà ad importare.
Un Paese ad alto debito pubblico potrebbe aver convenienza nel disporre di un tasso di cambio favorevole, e dunque di una valuta deprezzata, in quanto la maggior vendita, che scaturirà dal maggior costo per importare beni e servizi esteri, abbatterà progressivamente, almeno nel breve periodo , il rapporto debito pubblico/Pil liberando così importanti risorse da poter destinare ad altri settori strategici dell’economia.
Nel lungo periodo, però, le aspettative di maggiore inflazione indurranno gli investitori, nazionali ma soprattutto esteri, a richiedere interessi crescenti sul debito pubblico, al fine di evitare, a causa della persistente e massiccia inflazione, rendimenti reali negativi. Tutto questo, inevitabilmente, comporterà un aumento del servizio del debito e del costo del finanziamento, che causerà un rapido incremento nel rapporto debito/Pil.
Un’economia che desideri mantenere un tasso di cambio variabile con le valute dei principali partner commerciali deve, inevitabilmente, anche essere pronta a fronteggiare le tensioni e le plausibili speculazioni sui mercati finanziari, con i rischi e i benefici ad esse associati.
La Banca Centrale di un Paese, in regime di cambi fissi e variabili, deve godere ed infondere nel sistema economico credibilità ed autorevolezza.
Le Banche Centrali dispongono di ampie riserve di valuta estera al fine di sostenere, in caso di attacco speculativo da parte dei mercati finanziari, la valuta domestica attraverso operazioni di acquisto e vendita di valute sui mercati.
Un regime di tassi di cambio fissi, ovviamente, inibisce l’azione della politica monetaria in quanto, la Banca Centrale, dovrà mantenere costantemente il controllo del tasso di cambio, rinunciando così a politiche monetarie, restrittive o espansive, al fine di controbilanciare la congiuntura economico.
Le riserve di valuta estera, dunque, sono fondamentali in quanto, attraverso esse, la Banca Centrale deve dimostrare la sua potenza e determinazione nel raggiungere gli obiettivi prefissati.
Un ammontare di riserve estere insufficiente potrebbe innescare, ai danni della valuta domestica, un attacco speculativo da parte dei mercati finanziari, come accadde in Italia nel 1992 in seguito all’attacco speculativo di George Soros.
Qualora una Banca centrale terminasse le riserve di valuta estera, non sarebbe più capace nel difendere la valuta domestica dagli attacchi speculativi dei mercati e la stessa sarebbe ridotta, tragicamente, a carta straccia con ovvie, e drammatiche, conseguenze economiche, politiche e sociali per l «L’economia in questione.
Una Banca Centrale, dunque, deve essere credibile e la politica monetaria, prima ancora di individuare gli strumenti finanziari da impiegare, deve essere volta alla pragmaticità e all’oralità.
Celebre fu il “ What it takes ” con cui Mario Draghi, allora governatore della BCE, pronunciò alla global investment conference nel luglio 2012, come risposta agli attacchi speculativi della finanza che scommetteva sul collasso dell’Unione economica monetaria, in seguito alla crisi dei debiti sovrani del 2011.
Anyway it takes ” ovvero, ribadendo le parole di Draghi, la BCE avrebbe fatto tutto il possibile, ea qualunque costo, pur di salvare l’euro e il sistema monetario europeo.
Queste brevi, ma incisive parole, furono ritenute credibili dai mercati finanziari, che comprendevano la determinazione e la fermezza della BCE nel voler contrastare le minacce speculative cui l’euro, e le economie europee, erano soggette.
Gli Stati Uniti è un’economia che importa molti più beni e servizi di quel che effettivamente esporta e, dunque, vive molto al di sopra delle sue possibilità, in termini piuttosto macroeconomici e finanziari.
La Cina, invece, secondo partner economico più importante al mondo dopo gli Stati Uniti, è un’economia che ha incentrato la sua crescita economica grazie, prevalentemente, a politiche mercantiliste, fondate sulle esportazioni di beni e servizi al resto del mondo.

Analizziamo, nuovamente, l’equazione di equilibrio macroeconomico che abbiamo definito all’inizio:
Y = C + I + G + X – M
Definiamo, adesso, C + I+ G = A. La somma di consumi, investimenti privati e pubblici e spesa pubblica, nel linguaggio economico, corrisponde all’assorbimento interno ovvero la quota di domanda aggregata, prodotta in un dato sistema economico, generata domesticamente.
Negli Stati Uniti, l’assorbimento interno della domanda aggregata (A) è superiore al reddito prodotto nell’economia (Y), ovvero il prodotto interno lordo.
Affinché la domanda aggregata sia uguale al prodotto interno lordo, ovvero la normale condizione di equilibrio macroeconomico presente sui mercati, gli Stati Uniti, ovvero i Paesi che sperimentano un assorbimento interno superiore alla produzione, dovranno inevitabilmente contrarre un disavanzo commerciale con le economie estere.
Servendoci della matematica otterremo il seguente risultato:
Y = C + I + G + X – M
C+ I+ G = A
• Se A > (<) Y : ( X – M) = Y – A
Riprendendo il saldo commerciale (X-M) possiamo facilmente concludere:
– (X-M) > 0 = Avanzo commerciale = afflusso di valuta estera nell’economia
– (X-M) <0 = Disavanzo commerciale = Deflusso di valuta domestica dall’economia

La Cina, invece, ha un assorbimento interno inferiore alla sua produzione nazionale e, per raggiungere l’equilibrio macroeconomico, dovrà impegnarsi nel raggiungere consistenti avanzi commerciali.
Gli Stati Uniti, infatti, pagheranno merci e beni cinesi utilizzando il dollaro americano, valuta cardine del sistema finanziario mondiale. I produttori e le imprese cinesi, necessitando di renmimbi per poter gestire i commerci, pagamenti di salari e stipendi, costi di gestione etc… cambieranno i dollari americani in cambio di renmimbi cinesi presso le banche commerciali.
Le banche commerciali, a loro volta, depositeranno i dollari presso la Banca Centrale Cinese che, così, si ritroverà a disporre di ingenti riserve di liquidità espresse in valuta estera.
Un commercio efficiente prevede che, affinché ambedue le economie coinvolte nello scambio possano godere di mutui vantaggi, i mercati finanziari debbano ricoprire un ruolo primario nell’allocazione e intermediazione dei fondi.
La Banca Centrale Cinese, tendenzialmente, acquista titoli di stato americani finanziando così il debito pubblico, e il disavanzo commerciale, favorendo al contempo il ritorno di dollari entro i confini dell’economia statunitense, al fine di rendere fluido il meccanismo di scambi e pagamenti appena descritto.
La Cina, inoltre, ultimamente, grazie alle copiose riserve di dollari frutto degli scambi con gli Stati Uniti, sta progressivamente intraprendendo politiche di colonizzazione ed espansione economica nel continente africano.
Il commercio internazionale è intrinsecamente interconnesso e le politiche economiche, varate a livello nazionale e mondiale, sono fondamentali per garantire e salvaguardare la tenuta dell’assetto economico-sociale a livello planetario.
Spesso si parla di dazi, politiche protezionistiche e limiti all’importazione, ovvero misure di politica economica volte a tutelare l’economia dalla concorrenza estera. Gli Stati Uniti, guidati dall’amministrazione Trump, hanno intrapreso una vera e propria guerra commerciale con la Cina introducendo, su molti beni e prodotti, dazi commerciali al fine di ridurre, progressivamente, il disavanzo commerciale con l’economia cinese che, secondo molti economisti, rappresenta una delle maggiori criticità e tensioni alla sostenibilità del debito pubblico americano.
E’ bene, però, ribadire come suddette politiche economiche, seppur guidate e spinte da interessi nazionalistici, conducano, se frutto di impulsi e isterie politiche, a una paralisi del commercio e a conseguenze potenzialmente devastanti per l’economia mondiale.
Tra i partner commerciali, dunque, la collaborazione e la cooperazione, sia in ambito politico e soprattutto economico, è fondamentale per mantenere relazioni commerciali sane, produttive che portino crescita e benessere diffuso.
Se non vi è collaborazione, ovvero si perseguono politiche incentrate sulla sconfitta dell’avversario, si può arrivare ad un gioco a somma zero potenzialmente dannoso, destabilizzante e spesso causa di tensioni, conflitti e guerre.

La Banca Centrale è l’istituto che regola la politica monetaria di un Paese, ovvero l’insieme di strumenti e tecniche che le consentano di gestire, accuratamente, la quantità di moneta all’interno di un sistema economico.
La Banca Centrale, dunque, ha come obiettivi prioritari il controllo del tasso d’inflazione, mantenendo e salvaguardando il potere d’acquisto della valuta, e il fornire credito, e liquidità, alle Banche commerciali.
Le Banche commerciali, attori fondamentali e cruciali del sistema economico moderno, hanno l’arduo, quanto delicato, compito di concedere credito all’economia.
Esse, elargendo prestiti e finanziamenti a famiglie ed imprese, creano cosi ulteriore credito all’interno del sistema economico. E’ bene rimarcare come le Banche commerciali non creino moneta ma esclusivamente credito, ovvero moneta ad alto potenziale, base monetaria utilizzando la terminologia economica.
I prestiti concessi a famiglie ed imprese rappresentano, per la banca, una passività, che troverà dunque spazio all’interno del passivo del bilancio, ma al contempo un’attività su cui matureranno interessi legati al pagamento delle rate, e alla restituzione del capitale.
Le Banche commerciali, inoltre, hanno l’obbligo, imposto direttamente dalla Banca Centrale, di detenere sotto forma di riserve obbligatorie presso di essa, una percentuale dei depositi raccolti da parte dei correntisti; questo per far fronte alle richieste di liquidità per prelievi e pagamenti da parte dei correntisti dell’istituto bancario.
Il coefficiente di riserva obbligatoria, dunque, rappresenta la quota dei depositi che le Banche non possono concedere come prestito ma che, per ragioni di gestione ed organizzazione interna, devono inevitabilmente accantonare e destinare a riserva.
E’ bene introdurre, adesso, la seguente equazione che permette di chiarire la relazione depositi-prestiti cui sono soggette le Banche commerciali:
Depositi = Θ ⋅ Prestiti
In cui:
Depositi = liquidità depositata dai correntisti presso il loro c/c bancario
Θ = Coefficiente di riserva obbligatoria
Prestiti = Credito elargito dalla Banca all’economia reale.

Da questa semplice, ed intuitiva, relazione possiamo ricavare facilmente dedurre come i prestiti, concessi dalla banca, siano direttamente proporzionali ai depositi effettuati dai correntisti.
Esprimendo i prestiti in funzione dei depositi otterremo la seguente relazione:

Prestiti = Depositi / Θ

Essendo ϑ, ovvero il coefficiente di riserva obbligatoria imposto dalla Banca Centrale, a denominatore, al suo diminuire, per ovvie ragioni matematiche, aumenteranno i prestiti ed il credito fornito dalle Banche al sistema economico.
Tendenzialmente, ovvero in presenza di condizioni macroeconomiche stabili ed ottimali, il coefficiente di riserva obbligatoria è pari a circa l’1%-2% dei depositi effettuati dai correntisti.
Proviamo, brevemente, a concretizzare il tutto servendoci di alcuni esempi pratici.
Depositi = 1000 €
Θ = 2%
A quanto ammonta il credito totale concesso dalla Banca?
Prestiti = 1000 € / 0.02 = 50.000
Ripetiamo, adesso, l’esercizio servendoci, però, di un coefficiente di riserva obbligatoria pari al 5%.
Cosa accadrà al credito nell’economia?
Prestiti = 1000 € / 0.05 = 20.000
Come possiamo intuire, all’aumentare del coefficiente di riserva obbligatoria, il credito totale erogato nell’economia diminuirà e viceversa qualora il coefficiente diminuisca.
Le Banche commerciali, dunque, non ricevono e prestano fondi, come molti erroneamente credono, ma creano letteralmente credito in proporzioni molto superiori rispetto alla moneta, cartacea e metallica, effettivamente depositata presso la Banca Centrale.
E’ il credito che traina l’economia e, ricordiamolo, ad ogni credito è sempre associato un debito di pari importo. Le Banche, infatti, creano liquidità su base fiduciaria poiché il loro ruolo è di moltiplicare il credito presente nell’economia.
Le Banche commerciali, inoltre, necessitano di liquidità per compiere e adeguatamente adempiere ai loro obblighi e doveri e, qualora fossero in situazioni di deficit, ricorrono al mercato interbancario per reperire liquidità da istituti bancari in eccesso di liquidità.
Il mercato interbancario è, sostanzialmente, un mercato telematico in cui i principali istituti bancari si scambiano liquidità tra loro attraverso operazioni overnight, ovvero prestiti dalla durata di un giorno, ad un certo tasso d’interesse, frutto delle logiche di domanda-offerta presenti su ogni mercato.
Molte Banche, in presenza di eccessi di liquidità, vorranno investire tale liquidità in eccesso in modo produttivo, godendo così di interessi crescenti.
Le Banche commerciali possono, poi, richiedere liquidità e fondi direttamente alla Banca Centrale.
La Banca Centrale, come istituto regolatore e fulcro inossidabile dell’intero sistema finanziario, può elargire finanziamenti alle Banche commerciali attraverso, essenzialmente, tre canali differenti:
– Operazioni di rifinanziamento principale
– Operazioni di rifinanziamento marginale
– Operazioni di “deposit facility
Il tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, dall’inglese “Main refinancing operations”, è il tasso d’interesse corrisposto dalle banche quando assumono prestiti dalla Banca Centrale per la durata di una settimana.
Affinchè una Banca commerciale possa ricevere credito dalla Banca Centrale, è bene che essa fornisca alla Banca Centrale una garanzia, anche definita collaterale, di norma titoli di Stato, per un valore pari all’importo concesso come finanziamento come garanzia, per la Banca Centrale, qualora l’istituto bancario non fosse in grado di rispettare ed onorare, nei tempi pattuiti, il debito contratto.
Le operazioni di rifinanziamento marginale, invece, sono operazioni di finanziamento, ovvero scambio di fondi, overnight, effettuati nella giornata di negoziazione con rientro nella giornata lavorativa successiva.
Tendenzialmente il tasso d’interesse associato a queste operazioni è superiore al tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali.
Infine, qualora le Banche commerciali decidano di depositare la loro liquidità in eccesso presso la Banca Centrale, esse godranno, o verseranno qualora fosse negativo, un certo tasso d’interesse definito, appunto, tasso sui depositi overnight.
E’ doveroso, adesso, analizzare brevemente il funzionamento e la struttura del bilancio di una Banca Centrale.
Nella sezione delle attività, ovvero degli impieghi di liquidità, vi saranno principalmente attività finanziarie quali, ad esempio, titoli di Stato, azioni, obbligazioni private, derivati, etc...
Al passivo, invece, vi sarebbero le riserve, ovvero la liquidità concessa alle Banche commerciali, e il circolante che, insieme, in aggregato costituiscono la base monetaria.
E’, dunque, profondamente errato affermare che la Banca Centrale crei denaro, e credito, dal nulla, in quanto dispone, come garanzia della liquidità offerta nel sistema economico, di attività finanziarie di analogo valore monetario.
Qualora la Banca Centrale volesse regolare la politica monetaria, per rispondere ad eventuali shock che hanno perturbato le condizioni e la salute macroeconomica del Paese, potrebbe adottare due strategie distinte:
– Operazioni di mercato aperto espansive e restrittive
– Aumento/Diminuzione dei principali tassi d’interesse di riferimento
– Controllo del coefficiente di riserva obbligatoria
Le operazioni di mercato aperto consistono in operazioni di acquisto (politica monetaria espansiva) e vendita (politica monetaria restrittiva) di attività finanziarie presenti sul mercato secondario, ovvero attività finanziarie già in circolazione sul mercato e non di prima emissione.
Attraverso un’operazione di mercato aperto espansiva, la Banca Centrale acquista titoli di Stato ed attività finanziarie, sottraendoli dal mercato, ed immettendo in esso nuova liquidità per sostenere, rilanciare i consumi e gli investimenti.
Qualora la Banca Centrale dovesse “raffreddare” l’economia, dato il rischio di crescenti tensioni inflazionistiche, agirebbe sui mercati finanziari attuando operazioni di mercato aperto restrittive. La Banca Centrale, infatti, venderebbe titoli di Stato ed attività finanziarie, in possesso nell’attivo del suo bilancio, immettendoli nel mercato e sottraendo da esso liquidità.
Un risultato, ed effetto, analogo lo si può facilmente ottenere qualora la Banca Centrale decidesse di apportare variazioni (aumenti e diminuzioni) ai principali tassi d’interesse di riferimento.
Un aumento (diminuzione) del tasso d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento principale e marginale avrà, come conseguenza, un incremento (diminuzione) del tasso d’interesse applicato dalle Banche commerciali ai finanziamenti concessi a famiglie ed imprese, con ripercussioni potenzialmente recessive (espansive) sull’economia reale.
I mutui, ad esempio, ed i prestiti concessi dalle banche commerciali ai cittadini ed imprese, prevedono una remunerazione legata all’andamento del tasso euribor. Il tasso euribor, sostanzialmente, rappresenta la media dei tassi d’interesse, vigenti sul mercato interbancario, cui i principali istituti finanziari europei si scambiano liquidità.
E’ bene ricordare come vi sia un forte legame, e relazione, tra l’andamento della politica monetaria della Banca Centrale e l’andamento del tasso euribor.
Durante la crisi dei mutui subprime, nel biennio 2007-2009, vi fu una vera e propria paralisi del mercato interbancario poiché le banche, timorose di prestarsi liquidità, dal momento che non riuscivano a valutare e comprendere quale fosse la reale stabilità e solidità dei bilanci bancari degli istituti, data la presenza nei loro attivi di titoli derivati dal valore monetario incerto, determinarono una paralisi del credito nell’economia.
I prestiti sul mercato overnight non prevedono garanzie (collaterali) come, invece, avviene per i prestiti concessi dalla Banca Centrale e, nonostante il tasso d’interesse applicato dalla BC ai finanziamenti fosse superiore al tasso d’interesse vigente sul mercato interbancario, le Banche commerciali, per motivi precauzionali, decisero, per reperire liquidità e fondi, di rivolgersi alla BC.
Celebre fu il programma varato dall’ex governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, che consisteva in programmi di acquisto massiccio di titoli di Stato dalle Banche commerciali, con una politica monetaria ultra espansiva, caratterizzata da un tasso sulle operazioni di rifinanziamento principali pari allo 0%.
L’obiettivo era quello di risollevare l’economia europea ormai sprofondata nella trappola della deflazione e, per portare inflazione nel sistema economico, si pensò di varare politiche monetarie espansive che inondassero il mercato di liquidità.
Le Banche commerciali, però, nonostante la liquidità ricevuta dalla Banca Centrale, non la impiegarono a scopi produttivi, al fine di rilanciare consumi ed investimenti, ma per timori legati all’andamento dell’economia reale e dei mercati finanziari, finirono per depositare e parcheggiare tali masse monetarie presso i depositi della BC che, per evitare che la liquidità uscisse dal sistema economico, dovette tagliare e portare in sentiero negativo il tasso d’interesse sui depositi.
Una celebre citazione dell’economista inglese John Maynard Keynes è che “puoi portare il cavallo alla fonte ma non puoi costringerlo a bere”. L’economia europea, infatti, era in piena crisi di fiducia e in una situazione che, utilizzando il lessico degli economisti, definiremmo “trappola della liquidità” ovvero quella condizione economica in cui, dal momento che i tassi d’interesse siano praticamente a zero e non si possa procedere ulteriormente a diminuirli, ogni ulteriore offerta di moneta nel sistema economico sarebbe stata compensata da un incremento del risparmio privato.
Le Banche, dunque, finirono per tesaurizzare la liquidità investendola principalmente in attività finanziare, inondando così i mercati finanziari di liquidità, finendo anche per creare bolle finanziarie, piuttosto che prestarla all’economia reale.
Si evince, dunque, come le Banche commerciali siano il vero cuore pulsante dell’economia moderna dal momento che esse, in stretta relazione con la BC, hanno l’arduo e delicato compito di incanalare la liquidità ottenuta dalla BC all’economia reale, in un processo moltiplicativo incentrato sulla fiducia e sul sostegno alla domanda.
Qualora la fiducia venga meno, l’intero sistema economico può andare incontro a gravi crisi con effetti, e conseguenze, potenzialmente devastanti.

In economia, il deficit pubblico (disavanzo di bilancio) è quella condizione macroeconomica per cui le entrate fiscali, ovvero il gettito fiscale incassato dallo Stato, risultano inferiori alla spesa pubblica, ovvero la spesa necessaria al funzionamento della pubblica amministrazione e dell’apparato statale.
Il Tesoro, per reperire le risorse necessarie a colmare lo squilibrio finanziario, può, essenzialmente, inasprire la pressione fiscale, con ovvie ripercussioni sul risparmio privato di cittadini e imprese, o incrementare l’indebitamento statale, emettendo titoli del debito pubblico che verranno sottoscritti da investitori e risparmiatori esteri e domestici.
Entrambe le misure hanno, a livello economico e finanziario, effetti depressivi e recessivi dal momento che deprimono la domanda aggregata interna, andando a sottrarre risorse al consumo e agli investimenti privati.
Il ricorso all’indebitamento è una misura che, ovviamente, ripaga particolarmente in termini elettorali, in quanto vi è l’erronea convinzione, da parte dei cittadini, di non doverne sostenere direttamente il costo e gli oneri finanziari associati, traslando e riversando gli effetti recessivi sulle generazioni future.
Un inasprimento fiscale, invece, comportando un esborso diretto di maggior liquidità, viene mal visto dai cittadini nonostante, in termini economici, l’onere sia lo stesso di un ricorso all’indebitamento.
Si parla di monetizzazione del debito pubblico quando il Governo, disponendo del controllo e di una piena influenza sull’operato della Banca Centrale del Paese, riesce ad indirizzarne la politica monetaria al fine di perseguire determinati obiettivi sociali e politici.
Il Governo, infatti, può imporre alla Banca Centrale di acquistare i titoli del debito pubblico, finanziando cosi il disavanzo di bilancio del Paese. In questo modo la Banca Centrale, in cambio dei titoli di Stato offerti, carica liquidità sul conto di tesoreria del Ministero dell’Economia acceso presso di essa.
L’emissione di moneta genera, per lo Stato, il cosiddetto “signoraggio” in quanto, la Banca Centrale, ha un costo pressoché nullo nell’emettere moneta e, grazie ad essa, acquista i titoli del debito pubblico che offrono rendimenti positivi.
Qualora lo Stato volesse finanziare il proprio disavanzo attraverso l’emissione di titoli di Stato sul mercato, dovrebbe corrispondere interessi crescenti agli investitori, rinnovando anche i prestiti giunti a scadenza.
La monetizzazione, o signoraggio del debito, invece, permette al Governo di finanziare la spesa pubblica senza dover elargire tassi d’interesse, dal momento che essi, una volta nelle casse della Banca Centrale, rientrano nelle disponibilità del Tesoro.
Tale operazione di politica economica, dunque, può essere particolarmente utile per Paesi caratterizzati da un elevato debito pubblico, e da un rischio concreto di non poter accedere al finanziamento dei mercati che iniziano a dubitare circa la sostenibilità del debito stesso.
Se un Paese non gode della fiducia dei mercati finanziari, affinché possa ottenere prestiti e finanziamenti dai mercati, dovrà corrispondere interessi nominali crescenti sui titoli di Stato e ciò, nel lungo periodo, comprometterà seriamente la stabilità e sostenibilità delle finanze pubbliche domestiche.
La monetizzazione del debito, però, può seriamente minare la stabilità e credibilità della valuta del Paese nei mercati internazionali, innescando tensioni inflazionistiche particolarmente pericolose.
L’aumento dell’offerta di moneta, da parte della Banca Centrale, per sostenere la spesa pubblica del Governo può, qualora l’offerta di liquidità nel sistema economico non rispettasse le esigenze dell’economia, creare inflazione.

Analizziamo, brevemente, la teoria quantitativa della moneta:
M V = P Y
In cui:
M = Quantità di moneta presente all’interno del sistema economico
V = Velocità di circolazione della moneta
P = Livello medio dei prezzi nell’economia (Inflazione)
Y = Ricchezza reale prodotta all’interno di un sistema economico (Pil)
Se M dovesse aumentare, in seguito a politiche monetarie espansive o politiche di monetizzazione del debito pubblico da parte della Banca Centrale, per poter garantire la suddetta uguaglianza, considerando V costante per semplificare il ragionamento, potrebbero verificarsi due distinti effetti:
– Incremento di P
– Incremento di Y
Nel caso in cui la ricchezza reale prodotta (Pil) rimanesse inalterata, la maggior offerta di moneta implicherebbe maggior inflazione.
Infatti, immaginando un sistema economico costituito da due beni A e B, con rispettivi prezzi pari a PA e PB, se la liquidità nel sistema aumentasse di una certa proporzione (x%) e la produzione reale rimanesse inalterata, i prezzi dei due beni (PA e PB) incrementerebbero di x%.
Per evitare, invece, un incremento del livello dei prezzi, in seguito ad una politica monetaria espansiva, la produzione reale dovrà aumentare della stessa proporzione della maggiore liquidità offerta. Infatti, a livello matematico, dovrà valere la seguente espressione:
M / Y = P
La maggior inflazione, inoltre, comporterà un ulteriore aumento della domanda aggregata poiché, a seguito del deprezzamento e della perdita di potere d’acquisto della valuta, i consumatori tenderanno ad anticipare i consumi onde evitare di acquistarli, in futuro, a prezzi crescenti.
Questo aumento della domanda aggregata, però, comporterà un ulteriore aumento dei prezzi, innescando una spirale potenzialmente inarrestabile che, nella storia economica, è stata causa di iperinflazioni che hanno, poi, portato alla comparsa di regimi politici dittatoriali.
Ricordiamo, ad esempio, la Germania della Repubblica di Weimar negli anni ‘30, in cui carriole di marchi tedeschi erano appesa sufficienti per acquistare del pane.
L’inflazione, inoltre, rappresenta una tassa occulta che il Governo impone ai cittadini, colpendo soprattutto le fasce più deboli e vulnerabili della popolazione.
L’elevata inflazione riduce anche il peso del debito, poiché erode il valore reale dei titoli di Stato in circolazione, e per lo Stato rappresenta un vantaggio economico preferibile alle politiche economiche improntate all’austerità, nonostante rappresenti un costo per coloro che hanno prestato liquidità, sottoscrivendo i titoli del debito pubblico, in quanto, in sede di rimborso, si ritroveranno con una valuta dal minor potere d’acquisto.
La leva della monetizzazione venne ampiamente utilizzata dai Governi italiani, tra gli anni ‘70 e ‘80, che, per stimolare la domanda aggregata interna e colmare il fabbisogno finanziario di deficit pubblici crescenti, soggiogarono la politica monetaria della Banca d’Italia alle decisioni politiche dell’esecutivo.
La monetizzazione, infatti, droga l’economia di un Paese, nascondendo inefficienze finanziarie nella gestione dell’economia, e rimandando nel tempo gli aggiustamenti necessari a garantire sostenibilità alla finanza pubblica.
L’Italia, infatti, ha vissuto “a debito” per molti anni, riversando il costo delle politiche economiche sulle generazioni future, disinteressandosi di garantire, e salvaguardare, il famoso “patto generazionale”, ovvero l’equilibrio economico in cui la generazione uscente tutela l’equilibrio finanziario per la nuova generazione, in modo che essa possa provvedere ai propri bisogni/necessità in modo sostenibile.
Attualmente l’Italia, e le nuove generazioni, stanno pagando l’onere finanziario di politiche economiche finanziate a debito i cui costi, non essendo stati saldati da chi ha effettivamente beneficiato di suddetti beni e servizi, rappresentano un vincolo serio alla crescita economica e al benessere delle generazioni correnti.
In Italia, la continua monetizzazione del debito pubblico da parte della Banca d’Italia, innescò tensioni inflazionistiche che sfociarono in tassi d’inflazione prossimi al 20% su base annua. Nel 1981 la Banca d’Italia, lanciando un messaggio al Tesoro circa l’urgente necessità di regolare ed equilibrare gli eccessivi disavanzi ed inefficienze strutturali della finanza pubblica, riacquistò l’indipendenza decisionale nelle azioni di politica monetaria, slegandosi dall’obbligatorietà, dettata dal Tesoro, di acquistare i titoli di Stato per finanziare il deficit pubblico.
Questa decisione implicò un consistente e repentino aumento del debito pubblico italiano, in quanto il deficit statale, finanziato in passato grazie alla politica monetaria accomodante della Banca d’Italia, andava adesso finanziato ricorrendo ai mercati finanziari internazionali e gli investitori, preoccupati circa la situazione macroeconomica italiana, per sottoscrivere suddetti titoli pretesero interessi nominali crescenti, per compensare l’inflazione crescente che erodeva il valore reale, ed il potere d’acquisto, della valuta italiana.
L’elevato debito pubblico italiano, dunque, è frutto delle politiche fiscali espansive e dei processi di monetizzazione del debito attuati, dagli esecutivi, tra il 1970 e il 1980 ed anche oggi, con l’Italia membro dell’Unione Economica e Monetaria, permangono le significative differenze, in termini finanziari e strutturali, con le altre economie europee.
E’ importante, affinché vi sia trasparenza finanziaria e buon controllo del tasso d’inflazione, che la Banca Centrale, come avviene per la BCE in Europa e per la FED negli Stati Uniti, oltre che in diverse altre economie del mondo, sia indipendente, nel suo operato, dal potere politico e agisca tutelando il potere d’acquisto della valuta , individuato in un tasso d’inflazione, generalmente, prossimo al 2% su base annua.

Lo spread, in economia, è un indicatore economico e finanziario fondamentale per valutare lo stato di salute di un’economia.

Il termine spread, tradotto dall’inglese, significa essenzialmente “allargamento” e “differenziale.

In ambito finanziario, lo spread indica la differenza di rendimento, o tasso d’interesse, vigente tra due o più strumenti finanziari di eguale durata e tipologia.

In riferimento all’economia italiana, con spread si intende la differenza vigente tra il tasso d’interesse, o di rendimento, dei titoli di Stato italiani a 10 anni (Btp) e l’analogo titolo tedesco di eguale durata (Bund).

La Germania, essendo un’economia virtuosa nella gestione delle finanze pubbliche e finanziariamente affidabile, viene percepita dai mercati finanziari come un benchmark, ovvero un punto di riferimento attraverso cui valutare il rischio e la solvibilità degli altri Paesi richiedenti credito e liquidità.

Lo spread Btp-Bund ci informa su quanti interessi in più lo Stato italiano debba corrispondere, rispetto alla Germania, ai suoi sottoscrittori dei titoli del debito pubblico.

Uno spread elevato, essenzialmente, comunica una mancanza di fiducia, da parte degli investitori, circa l’abilità del nostro Paese di ripagare i debiti contratti, con i relativi interessi. Non godere della fiducia da parte dei mercati finanziari, per un Paese, può avere conseguenze potenzialmente devastanti circa l’abilità, di una nazione, di ricevere liquidità per provvedere al corretto funzionamento dell’apparato pubblico.

In circostanze di crescenti tensioni finanziarie sui mercati, un Paese, affinché possa accedere al credito dovrà, inevitabilmente, conferire interessi crescenti agli investitori, compensandoli per il “maggior rischio” assunto in fase di sottoscrizione di attività finanziarie rischiose.

In finanza, infatti, è cruciale e fondamentale ricordare la relazione inversa tra prezzo e rendimento di un’attività finanziaria.

Vige, difatti, il detto che “solamente coloro che non hanno necessità di credito possono effettivamente prendere denaro in prestito”.

Paesi percepiti dai mercati come finanziariamente rischiosi e poco stabili economicamente, dovranno elargire interessi crescenti sui loro titoli del debito pubblico e ciò, ovviamente, finirà per impattare negativamente sulla crescita economica futura del Paese, data la maggior spesa per interessi da dover sostenere, sottraendo così risorse economiche che sarebbero state impiegate con finalità produttive.

I tassi d’interesse, applicati ai titoli del debito pubblico, dipendono da diversi fattori, su tutti è bene ricordare i seguenti:

  1. Fondamentali strutturali ed economici dei Paesi (credibilità, politiche economiche varate, ecc.);
  2. Politica monetaria varata dalla Banca Centrale.

Il primo punto, già ampiamente analizzato e discusso, trova conferma nella struttura fiscale e finanziaria del Paese. Un’economia virtuosa, in salute, con buoni fondamentali macroeconomici riuscirà a finanziarsi, sui mercati finanziari, a tassi d’interesse decrescenti.

E’ bene, inoltre, analizzare criticamente gli effetti e le conseguenze della politica monetaria delle Banche centrali.

Una politica monetaria espansiva, ad esempio, iniettando liquidità nel mercato, o tagliando i tassi d’interesse sulle operazioni di rifinanziamento principale e marginale, avrà ovvie ripercussioni positive sul calo dei tassi d’interesse, richiesti dai titoli di Stato, per reperire liquidità sul mercato, con un graduale calo dello spread.

Ma effettivamente, cosa comporta, per l’economia di un Paese, uno spread elevato?

Oltre, ovviamente, alle tensioni finanziarie crescenti sui titoli di Stato che, inevitabilmente, dovranno corrispondere interessi molto elevati per convincere gli investitori a prestare liquidità allo Stato, vi sono anche importanti conseguenze a livello bancario.

Le banche, infatti, detengono nell’attivo dei loro bilanci molte attività finanziarie tra cui, soprattutto, titoli del debito pubblico. Il rendimento dei titoli di Stato è inversamente proporzionale al prezzo degli stessi. Qualora, a causa di tensioni e speculazioni sui mercati finanziari, i titoli di Stato di un Paese perdano valore, ovvero gli interessi ad essi collegati aumenteranno sensibilmente, ciò comporterà una graduale tensione all’interno del settore bancario che si ritroverà in disequilibrio finanziario, con le passività che più che compenseranno le attività di bilancio.

Le banche, dunque, affinchè l’equilibrio economico-contabile nei loro bilanci venga salvaguardato, riverseranno i maggiori costi sostenuti, incrementando i tassi d’interesse sulle operazioni di finanziamento a famiglie e imprese.

Questa decisione, inoltre, potrebbe a sua volta generare un credit crunch nell’economia, ovvero una massiccia riduzione del credito nel sistema economico, a causa dei maggiori costi di finanziamento, con effetti recessivi per l’economia, a causa di una riduzione della domanda aggregata e, dunque, della produzione reale.

In Italia, in seguito alla crisi dei debiti sovrani del 2011/2012, lo spread raggiunse, sotto la guida del Governo Berlusconi, quota 600 punti base.

Se, ad esempio, un Btp decennale italiano rendeva annualmente l’8% e il Bund tedesco, a parità di scadenza, rendeva il 2%, lo spread sarebbe stato pari a 600 punti base, ovvero 6 punti percentuali.

Ciò causò, anche grazie alla pressione delle principali istituzioni finanziarie europee, la caduta del governo Berlusconi e la nascita del governo tecnico, di unità nazionale, capitanato da Mario Monti, economista, ex presidente dell’Università Bocconi di Milano, che aveva il compito di riportare fiducia nell’economia italiana, calmierando lo spread e le speculazioni, da parte dei mercati finanziari, sui titoli di Stato Italiani.

Il Governo Monti varò una serie di politiche economiche improntate all’austerità, con ampi tagli alla spesa sociale ed un incremento della pressione fiscale.

Celebre, poichè oggetto di ampie discussioni e critiche a livello politico e sociale, fu la riforma pensionistica “Monti-Fornero” promossa dal decreto “salva Italia“, che inasprì i requisiti minimi per ritirarsi dal mercato del lavoro e godere dei benefici pensionistici maturati.

Lo spread, perciò, sottolinea come un’allocazione e gestione efficiente delle risorse e dei conti pubblici sia fondamentale per garantire sostenibilità alle finanze pubbliche, evitando dunque tensioni e attacchi speculativi, da parte dei mercati, all’economia del Paese i cui effetti, come abbiamo ampiamente analizzato, possono essere devastanti sia da un punto di vista finanziario che sociale.

La scienza economica è stata definita dalle scienze pure (matematica, fisica e chimica) come la “ scienza triste ed inutile ” poiché non pone, come cuore della sua analisi, il metodo scientifico.

Scienze pure, come la matematica e la fisica, attenendosi e basandosi sulla scientificità ed oggettività del metodo scientifico, permettono, dopo ricerche e studi, di formulare, partendo da dati ipotesi e assiomi iniziali, conclusioni e teoremi finali.

La bontà, e validità, del metodo scientifico è legata al fatto di saper abilmente, partendo da determinate condizioni, riprodurre un dato risultato finale universalmente valido e verificato.

Il metodo scientifico, sostanzialmente, si fonda su postulati e dogmi accettati dalla comunità scientifica. Questo insieme di principi prende, tipicamente, il nome di paradigma. Un paradigma, dunque, è l’insieme di teorie, ipotesi, credenze che modellano e plasmano un certo ambito del sapere.

Qualora, per varie ed innumerevoli ragioni, la comunità scientifica dovesse riscontrare frizioni ed ostacoli nello spiegare un determinato fenomeno, servendosi dei vecchi paradigmi scientifici, ci ritroveremmo in presenza di una rivoluzione scientifica.

Una rivoluzione scientifica, come suggerisce il termine rivoluzione stessa, indica una sovversione e cambiamento radicale e drastico dell’ordine, e delle consuetudini scientifiche, precedentemente assunti ed accettati.

La ricerca economica, infatti, ponendo il suo centro di analisi sulle relazioni umane e sociali, e su come e da cosa esse avvengano e siano determinate, ha maturato, nel corso dei secoli, la necessità di creare modelli esemplificativi della realtà che tentassero, seppur con la presenza di un certo errore statistico distorsivo, di descrivere il funzionamento della società e delle relazioni tra i vari agenti economici.

La teoria economica, cercando di avvicinarsi alla purezza e bellezza delle scienze pure, necessitava di oggettività e pragmaticità.

La scienza economica, ufficiale, nacque nel XVIII grazie ad Adam Smith, un filosofo scozzese che pubblicò un libro dal titolo “ The Wealth of Nations ”, ovvero “ La ricchezza delle Nazioni ” in cui lui stesso, introducendo i concetti di liberismo economico, provò a descrivere il funzionamento del mercato e l’organizzazione economica di una società.

L’economia, particolarmente, era essenzialmente una materia filosofica, dal momento che prevedeva confronti, visioni e posizioni, anche diametralmente opposti, a seconda ovviamente della scuola di pensiero, su quali fossero gli interventi da compiere ed attuare per raggiungere determinati risultati di politica economica.

Affinché la scienza economica potesse acquisire la purezza, il fascino e il rigore, delle scienze pure necessitava di modelli matematici che provassero a razionalizzare, rendendo scientifico, il ragionamento filosofico sottostante.

Nella costruzione di un modello economico, ovvero un insieme di teorie, assiomi e leggi, che tenti di spiegare il funzionamento del sistema economico, è necessario definire ipotesi di partenza circa i componenti, ovvero gli attori, del sistema stesso.

L’essere umano, oggetto di studio della scienza economica nei suoi processi decisionali, non è omogeneo e sostituibile da un punto di vista cognitivo-intellettuale.

A differenza della chimica, ad esempio, che studiando la natura delle particelle subatomiche riesce a formulare conclusioni scientificamente ed universalmente valide, e riproducibili sotto le stesse condizioni, l’economia deve scontrarsi con l’eterogeneità del suo oggetto d’indagine: l’uomo .

Gli uomini, seppur identici, tralasciando ovviamente casistiche particolari di natura medico-genetica, da un punto di vista fisico-biologico, hanno strutture cognitive, ovvero strutture di pensiero ed elaborazione delle informazioni ed input provenienti dall’esterno, sensibilmente differenti.

Alcuni uomini possono soffrire di disturbi di personalità che, inevitabilmente, inficiano la qualità del loro processo decisionale e, inoltre, individui più colti e istruiti disporranno di informazioni, nozioni e conoscenze superiori rispetto a soggetti poco istruiti; tutto questo comporta una distorsione, bias utilizzando la letteratura economica, e inefficienza che colpisce gli uomini nei loro processi di scelta.

La politica è l’esempio lampante della diversa capacità, ed abilità, del sistema cognitivo e cerebrale umano di ricevere, valutare ed analizzare correttamente ed accuratamente le informazioni, e stimoli, provenienti dal mondo esterno.

Partiti politici differenti, sostanzialmente, riflettono ideali diversi e se gli uomini dispongono, tutti, delle stesse capacità cognitive e mentali, probabilmente, non parteciperemo a questa frammentazione politica, caratterizzata da una costante successione di partiti, ma prevarrebbe una visione politica univoca e dominante.

Il grande dilemma, dunque, della teoria economica risulta essere questa persistenza eterogeneità, insiste negli uomini, a livello cognitivo e cerebrale, che li porta a comportarsi, ea rispondere a certi stati del modo, in maniere anche molto diverse e discordanti tra loro.

Affinché si possa creare un modello economico, valido ed accettato, risulta perciò doveroso introdurre ipotesi ed assiomi che semplificano la complessità, e l’astrazione, della realtà.

Un’ipotesi chiave e ridondante in quasi tutti i modelli economici è la piena razionalità di tutti gli agenti economici. Così facendo, sostanzialmente, si tende a standardizzare gli uomini che diventano pedine omogenee, e perfettamente interscambiabili e sostituibili, all’interno del sistema economico.

La piena razionalità, ovvero l’assunzione forte che considera gli uomini dotati di uguali conoscenze, informazioni nel processo decisionale, permette di poter creare modelli economici che, nonostante molte frizioni e sensibilità, permette di avvicinare la disciplina alla severità e metodologia rigida logica delle scienze naturali .

In economia, nella creazione di un modello, si utilizza spesso la locuzione latina ceteris paribus , ovvero “ una parità di tutte le altre condizioni ”; in quanto la creazione di un modello economico, data la complessità della realtà, permette, servendosi di ipotesi stringenti, di semplificarla.

In matematica potresti dire che un modello economico cerca di “ approssimare ” la realtà.

In questo modo si riesce, nonostante le limitazioni insite nel modello, a conferire verità scientifica ed oggettiva all’economia poiché, in presenza di determinate circostanze, ovvero le ipotesi-assiomi di base del modello, a fronte di determinati shock , espressione utilizzata nella scienza economico per indicare deviazioni dalla condizione di equilibrio di un modello, si otterranno determinati risultati ( output ) finali.

La struttura del metodo scientifico, infatti, risponde alla logica Osservazione – Ipotesi – Tesi e deve fornire, servendosi delle assunzioni alla base del ragionamento, sempre gli stessi risultati.

Un ragionamento, o meglio un esperimento/ricerca, è scientifico se, per definizione, consente di replicare lo stesso fenomeno, in ogni contesto e luogo, servendosi delle assunzioni e dei postulati alla base.

Dalla scienza fisica, ad esempio, sappiamo che ogni corpo, indipendentemente dalla sua massa e dalle sue proprietà chimico-fisiche, risponde a determinate leggi, quali la legge di gravità, le leggi della dinamica, ecc.

In economia ciò non è possibile poiché ogni uomo, a differenza delle particelle atomiche, è profondamente diverso l’uno dall’altro e, ricordiamo, il tentativo di razionalizzare e standardizzare i comportamenti umani, altro non è che una “ forzatura metodologica ” per provare a creare modelli descrittivi di politica economica, utilizzati dai decisori politici, i cosiddetti policy makers.

I modelli economici, dunque, servono da guida ai decisori politici per conoscere e comprendere quali potrebbero essere le conseguenze, e gli effetti, di una certa misura di politica economica. Come abbiamo visto, infatti, i modelli economici permettono di descrivere il funzionamento di un certo sistema economico, o mercato, sotto condizioni stringenti e particolarmente vincolanti.

E’ dunque difficile, e sufficientemente ottimistico, pensare che i risultati elargiti dal modello siano universalmente validi ed accettati ma, ribadiamolo, è bene trattare il modello con la giusta umiltà, essendo esso uno strumento principalmente informativo, di indirizzo guida, e non un dogma inattaccabile.

Una branca in ascesa, ultimamente, della scienza economica è l’economia comportamentale, in inglese Behavioral Economics, che studia come le decisioni ei processi di scelta degli individui siano, sostanzialmente, frutto di processi emotivi che, spesso, conducono ad errori decisionali, deviando dallo status quo di razionalità.

L’uomo è, infatti, soggetto a numerosi bias, ovvero distorsioni ed errori decisionali, e conoscerli può essere importante per effettuare scelte più ponderate e meno irrazionali, frutto di pulsioni emotive e non dettate da alcuna logica.

Ad esempio, la ricerca ha dimostrato come, frutto di emotività, gli uomini tendono ad essere particolarmente propensi al rischio qualora abbiano registrato una perdita, per recuperare la cifra persa, ed avversità al rischio in circostanze normali. Si evince, dunque, come gli uomini, provino maggior dolore legato ad una data perdita, in termini economico-monetari, di quanto non provino gioia e felicità per una vincita di uguale importanza.

L’economia, dunque, non è una scienza pura, e dunque universalmente riproducibile e scientificamente oggettiva, poiché presenta al suo interno una componente filosofico-psicologica molto importante, ma fa ampio uso del rigore delle scienze naturali, e dunque ricorrendo alla statistica e alla modellizzazione matematica, per conferire credibilità scientifica ai risultati della ricerca.

Il debito pubblico, in macroeconomia, rappresenta l’ammontare totale di risorse finanziarie prese a prestito dalla pubblica amministrazione (Stato centrale, Regioni, Comuni, Province), per garantire il buon funzionamento dell’apparato statale.

Lo Stato centrale, come qualsiasi ente ed istituzione pubblica dotata di sovranità fiscale, incassa risorse attraverso l’imposizione fiscale, ovvero tassando, secondo certi criteri e percentuali, la ricchezza prodotta all’interno di una data area economica.

Il gettito fiscale, dunque, è fondamentale per poter, abilmente, garantire l’operatività di determinati servizi e beni pubblici quali, ad esempio, l’istruzione, la sanità, la difesa nazionale, ecc.

Qualora lo Stato, inteso come insieme delle istituzioni pubbliche territoriali, non riuscisse autonomamente, ovvero grazie alle risorse sottratte all’economia privata tramite la tassazione, nel far fronte ai suoi impegni di natura economica e finanziaria, affinché gli stessi siano garantiti deve, necessariamente, ricorrere a due distinte misure di politica economica:

  • Incremento della tassazione
  • Ricorso all’indebitamento

Per poter compensare il deficit di bilancio, ovvero la differenza negativa vigente tra il gettito fiscale e la spesa pubblica, lo Stato può inasprire la tassazione, sottraendo ulteriori risorse all’economia privata, o chiedere fondi a prestito, riversando dunque l’onere sulle generazioni future che, alla luce di servizi non usufruiti, dovranno compensare il debito creato in passato.

Entrambe le decisioni, molto intuitivamente, hanno conseguenze recessive per l’economia: una maggior tassazione, a causa del minor risparmio privato, comporterà una riduzione della domanda privata, con ripercussioni su consumi, investimenti delle imprese ed occupazione.

Qualora, però, gli agenti economici, sulla base del modello economico Barro-Ricardo, fossero razionali, riuscendo dunque a valutare e comprendere le conseguenze e gli effetti della suddetta decisione di politica economica, anche in presenza di un ricorso all’indebitamento deciderebbero di incrementare il risparmio privato, nel periodo corrente, per poter garantire e onorare il debito nel periodo successivo.

Entrambe le decisioni, sostanzialmente, se valutate razionalmente, comporterebbero una riduzione della domanda privata , con effetti recessivi per l’economia.

Il ricorso all’indebitamento, inoltre, prevede che l’economia debba essere in grado, nel periodo di tempo che intercorre tra l’assunzione e la restituzione del debito, di maturare e generare una ricchezza sufficiente ad estinguere il finanziamento e gli interessi ad esso associati altrimenti, e questo potrebbe compromettere seriamente la stabilità di un sistema economico, si dovrebbe incrementare ulteriormente il debito per estinguere il finanziamento passato, innescando così una spirale potenzialmente devastante.

Il risparmio privato, ovvero la quota di ricchezza in mano a privati (famiglie e imprese) dopo l’azione impositiva del settore pubblico, è una componente fondamentale nel valutare la salute, sostenibilità e solidità di un sistema economico.

Un sistema economico efficiente, affinché vi sia una corretta allocazione delle risorse economiche, deve prevedere una rete di intermediari finanziari, banche su tutti, che permettano al risparmio privato in eccesso di confluire verso quei soggetti in disavanzo finanziario, che necessitano di fondi e liquidità per garantirne il loro funzionamento.

L’Italia, ad esempio, ha un debito pubblico particolarmente elevato, prossimo a circa il 140% del Pil nel 2024, secondo le ultime stime dell’Istat, pari in valore assoluto a 2.870 miliardi di euro.

Nonostante il debito pubblico italiano, secondo gli economisti e gli analisti finanziari, rappresenti il tallone d’Achille del nostro Paese, ed un serio ostacolo alla crescita e al progresso economico, data anche l’ingente spesa per interessi passivi che grava su di esso, stimata essere pari a circa 60 miliardi di euro l’anno, è reso sostenibile dal risparmio privato interno.

E’ fondamentale, per garantire che vi sia equilibrio nelle finanze pubbliche, che il debito pubblico di un Paese sia detenuto, soprattutto, da residenti e investitori nazionali affinché, in fase di restituzione del capitale, la liquidità non fuoriesca dell’economia domestica.

Il Giappone è il Paese, a livello mondiale, con il più alto livello di debito pubblico, stimato essere attorno al 250% del Pil, senza che esso però rappresenti una minaccia incombente per l’economia nipponica.

Il Giappone, infatti, nonostante il debito pubblico elevato, ne garantisce la sostenibilità grazie al risparmio privato nazionale che finanzia, quasi interamente, il disavanzo di bilancio pubblico. I detentori del debito pubblico giapponese, analizzando la condizione macroeconomia dell’economia nipponica, si evince come siano caratterizzati, principalmente, da individui ed istituzioni finanziarie giapponesi.

Essi, infatti, non avranno tendenze alla speculazione finanziaria e, inoltre, saranno anche propensi a mantenere suddetti titoli in portafoglio fino a scadenza, anche alla luce di tensioni finanziarie e crisi economiche.

Il Giappone, poi, a differenza dell’Italia ha una pressione fiscale (rapporto tra gettito fiscale e Pil) molto inferiore a quella italiana e questo, sostanzialmente, gli consente, qualora volesse attuare politiche fiscali restrittive, di inasprire la pressione fiscale di pochi punti percentuali sul Pil, riducendo così il disavanzo di bilancio pubblico.

E’ perciò, cruciale, affinché l’economia possa crescere in modo prospero e rigoglioso, che i risparmiatori nazionali detengano quote crescenti dei titoli del debito pubblico in quanto, oltre a garantire sostenibilità e stabilità al debito pubblico, questo permetterebbe allo Stato di richiedere minori interessi in sede di indebitamento, rispetto alla circostanza in cui i sottoscrittori fossero istituzioni finanziarie e residenti esteri, meno interessati alla salute dell’economia e guidati da istinti monetari, fondati sulla ricerca del profitto, piuttosto che amore per la patria e il Paese.

E’ bene, per garantire pragmatismo ai discorsi sopra affrontati, introdurre la seguente identità economica:

(G-T) = (S-I) + (X-M)

In cui:

(G-T) = Avanzo (G-T >0), Disavanzo (G-T <0) di bilancio pubblico;

(S-I) = Risparmio (S-I >0), Indebitamento (S-I<0) privato di famiglie e imprese;

(X-M) = Avanzo commerciale (X-M>0), Disavanzo commerciale (X-M<0).

Da questa identità contabile, che per definizione deve sempre essere valida, si deduce come il Governo possa finanziare il disavanzo di bilancio in due modalità distinte:

  1. Tramite il risparmio privato
  2. Attraverso un surplus commerciale

I fondi e la liquidità, affinché il disavanzo di bilancio pubblico venga finanziato, possono provenire dalla ricchezza privata, tramite tassazione e sottoscrizione dei titoli del debito pubblico. In questo modo le risorse, in eccesso tra gli individui finanziariamente in surplus, convogliano nelle casse dello Stato, colmando e risanando il disavanzo di bilancio.

Contestualmente il disavanzo pubblico può essere finanziato grazie a risorse provenienti da economie estere, reso possibile grazie ad un avanzo commerciale, ovvero una condizione macroeconomica in cui l’economia esporta più risorse di quel che effettivamente importa.

Un avanzo commerciale, infatti, implica un afflusso netto, nell’economia domestica, di valuta estera necessaria per garantire trasparenza ed omogeneità nella transazione.

La maggiore valuta estera proveniente nell’economia domestica, data l’inefficacia per l’economia della stessa nello svolgere ed eseguire le transazioni, verrà convertita, tramite l’azione degli intermediari finanziari come gli istituti bancari, in valuta domestica locale che verrà impiegata nell’economia per sostenere gli investimenti privati, i consumi e il deficit pubblico statale.

In economia, dunque, non esistono pasti gratis ed ogni azione ha una conseguenza specifica con effetti chiari e ben delineati.

E’ importante garantire, da parte dei policy makers, l’equilibrio finanziario delle finanze pubbliche onde evitare squilibri macroeconomici che possano minare il tessuto economico, sociale, produttivo del Paese.

Abstract: I concetti economici di maggior diffusione non sono adeguatamente conosciuti; la loro considerazione ed il relativo utilizzo nelle pratiche economiche porta inevitabilmente a false pratiche ea ingannevoli controlli del sistema. La completezza delle informazioni non esiste e, qualora esistesse, non potrà essere utilizzata a causa dei ritardi accumulati per ottenerla. L’asimmetria informativa, da sempre alla base dell’economia ma anche dell’evoluzione dell’intera umanità, viene qui spiegata con esempi concreti che portano a considerare l’economia come scienza “impossibile”.

Concetti come la concorrenza perfetta, la produzione, il disavanzo pubblico o il tasso di disoccupazione, tanto utilizzati nei manuali di economia per spiegare i teoremi e permettere anche di dimostrarli, non esistono nel mondo reale. In questo mondo invece esiste il loro contrario, cioè l’asimmetria informativa. In particolare, le asimmetrie informative sono una funzione fondamentale nella storia dell’umanità e coloro che pretendono di comprendere tutto in dieci minuti, se da un lato li conforta perché credono con questo di non perdere tempo, dall’altro possono portare alla catastrofe perché esiste il rischio di non capire nulla o, peggio, di farsi l’idea sbagliata che è un problema in quanto dalle idee poi vengono prodotti i giudizi.

L’asimmetria informativa non sta solo alla base degli odierni mercati, ma anche del progresso dell’umanità.

È una condizione in cui l’informazione non viene condivisa integralmente o nello stesso tempo tra due o più parti di un processo. Se è così, per un piccolo lasso di tempo una parte dei soggetti interessati ha maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti e può ricavare un vantaggio da questo fatto. Tutti sanno che si tratta di un concetto utilizzato in maniera massiccia in economia e nei mercati finanziari e coloro che in vari modi hanno tentato di spiegarlo in teoria hanno preso il Nobel per l’Economia, come Akerlof e Stiglitz.

È per spiegare i diversi comportamenti dei soggetti che si suppone la presenza di asimmetrie informative. Dai tempi di Adamo ed Eva, se l’universo esiste da circa 13 miliardi di anni e la vita sulla terra da circa uno, questo non serve a nulla saperlo perché l’uomo in quanto tale allora non esisteva ancora. Basta infatti andare indietro di 20.000 anni e l’uomo certamente non parlava. Poi invece ha iniziato, e nessuno sa come, ma da quel momento, e forse anche da prima, egli sapeva che doveva sapere una cosa in più degli altri per sopravvivere e dopo, quando la pancia era piena ogni giorno e quindi iniziarono la civiltà e le arti, anche se poteva vivere bene solo sapendone una di più. Se io così come si usa il fuoco, che brucia ma se lo sai usare è una cosa buona e utile, le maggiori possibilità di salvezza non solo dagli animali che vogliono fare di me il loro pranzo, ma anche dagli altri miei simili che non lo sanno ancora; e mi impongo come loro capo. Naturalmente a capo di tutti stanno le donne che ne hanno sempre saputo una più del diavolo.

Arrivando all’oggi è evidente che, soprattutto nei mercati finanziari, sapere una cosa troppo presto rispetto agli altri costituisce un reato che si chiama insider trading , ma sapere una cosa una frazione di secondo prima degli altri consente – a chi la sa – di fare operazioni che lo porteranno in vantaggio. La presenza di asimmetrie informative spiega anche la nascita delle prime civiltà e della schiavitù; c’era chi diceva che le cose stavano in un certo modo e altri, meno informati, appunto, che gli davano ragione. Del resto, succede anche oggi. E così via per tutti i processi sociali e anche per le arti. Scorribandando nella storia dell’umanità vediamo che Michelangelo riteneva di sapere più cose dei suoi contemporanei, Papa Giulio II compreso, e portava avanti le sue idee sulla base di informazioni che solo lui aveva; e così Johann Sebastian Bach, tanto per restare tra i giganti. Qualche fisico molti anni più tardi scoprì che forse la struttura dell’universo era fatta in un certo modo e vorremmo possedere una penna più felice per descrivere ciò che deve aver provato quando si trovò alle tre del mattino in laboratorio a sapere una cosa che in quel momento nessun’altro sulla terra sapeva (Lederman).

Anche la politica funziona così: io so che tu non sai, e quindi ti spiego io come si fa; stessa cosa per le missioni e le spedizioni militari di pace, adatte a portare informazioni mediate dalle non informazioni che generano le nostre asimmetrie che alla fine portano la gente a non capirci più niente e, e questa è la vera tragedia, a morire per questo.

I risparmiatori – non gli investitori, che ne rappresentano la minima parte – pur di evitare di informarsi e di studiare, preferiscono ricorrere ai servizi di investimento offerti dalle banche pur immaginando quello che in seguito, in alcuni casi, è diventato notizia sui giornali nella sezione dei crimini finanziari. Le banche possiedono infatti informazioni migliori su un maggior numero di possibili investimenti e la minore conoscenza da parte del risparmiatore lo inducono quindi a ricorrere a operatori specializzati nella raccolta e nell’elaborazione delle informazioni circa i possibili modi di investire il denaro, pensando in cuor suo in buona fede sulla base di equazioni razionali, ben calcolate e calibrate della serie “ …che dio ce la mandi buona!

L’accesso differenziato alle informazioni è il problema etico dell’economia per eccellenza.

La storia di ogni scienza o disciplina, inclusa l’economia, ci insegna che premesse elementari sbagliate sono il focolaio degli errori e che premesse giuste aiutano la soluzione dei problemi; a parte il fatto che già il filosofo greco Platone si chiedeva chi fosse autorizzato a dettare le premesse, oggi è un argomento di semplice comprensione se si guarda ad esempio al mondo della programmazione per i computer, ambito in cui vale la sigla GIGA che significa “ Garbage-In-Garbage-Out ”, cioè: se si inseriscono dati approssimativi o anche errati, i risultati saranno approssimativi o anche errati. La domanda allora è quale sia la premessa elementare della infinita moltitudine dei fenomeni economici. Se l’economia è apparentemente lo studio delle dinamiche dei denari, lo studio del processo di coordinamento, lo studio degli effetti della scarsità, la scienza della scelta e lo studio del comportamento umano attraverso la ricchezza, una possibile conclusione da trarre da questa mancanza di accordo è che la definizione di economia non ha molta importanza. Il suo compito, invece, continua ad averne molta.

Il compito dell’economia è innanzitutto quello di creare una mappa mentale di tutto ciò che appartiene a questo mondo ma senza averne esperienza diretta. Nelle scienze sociali, al contrario che nelle scienze naturali, non possiamo vedere e osservare i nostri oggetti prima di pensarci perché gli oggetti delle scienze sociali sono costruzioni teoriche. (Popper, 1960) Se si deve passare dall’economia comune, che commercia in facili cose su piccola scala fino all’insieme estremamente astratto delle proposizioni fondative dell’economia nel suo complesso, guardando i fatti nel concreto, rivestiti di tutta la complessità con poiché la natura li ha dotati e tende ad ottenere una legge generale mediante un processo di induzione da un confronto di dettagli, è vano sperare che si possa arrivare alla verità; non vi è quindi un altro metodo se non quello a priori, o quello della speculazione astratta. L’insieme delle proposizioni di base deve ridurre quasi a nulla la grande complessità della cosa reale. Da questo quasi nulla, la complessità del mondo reale deve quindi essere ricostruita logicamente. Il primo compito è chiarire l’ambito dell’indagine che non è né ben definito né arbitrario. I domini scientifici sono caratterizzati da una serie di elementi di informazione ipotetici, compresi, forse, leggi e teorie accettate che vengono associati insieme come un corpo di informazioni. La chiarificazione dell’ambito in cui i concetti possono essere applicati implica una decisione provvisoria su cosa prendere e cosa scartare. Non si ha alcuna garanzia che questa astrazione da fenomeni apparentemente insignificanti funzionerà o si otterranno relazioni significative perché più complicato è il modello e maggiore è il numero delle variabili coinvolte, più esso si allontanerà dal nostro controllo mentale, che nelle scienze sociali è l’ unico controllo possibile, e ritorno ancora una volta alle scienze sociali perché non dimentichiamo che l’economia tre secoli fa era una branca della filosofia morale.

Critiche dall’interno?

Nessuna materia è stata criticata dai suoi stessi servitori in modo aperto e costante come l’economia. I motivi di insoddisfazione sono molti; il fatto che gli esseri umani appartengano al regno economico non implica automaticamente che appartengano al dominio dell’economia o che debbano occuparne la parte più grande. Nell’economia classica le questioni principali erano l’accumulazione, l’innovazione, la concorrenza, la produttività, la distribuzione del reddito e della ricchezza. Il fattore umano o personale rimane l’elemento irrazionale nella maggior parte o in tutte le teorie sociali istituzionali. L’idea astratta di ricchezza o valore di scambio deve essere attentamente distinta dalle idee accessorie di utilità, scarsità e adeguatezza ai bisogni e al godimento dell’umanità perché si tratta di idee variabili e per natura indeterminata e di conseguenza inadatte per la fondazione di una teoria scientifica. Si critica l’idea che l’economia sia una scienza del comportamento o che la scienza del comportamento sia fondamentale per l’economia.

I critici dell’approccio neoclassico hanno individuato correttamente che l’intero edificio poggia su un insieme di assiomi comportamentali. Tuttavia, con il tentativo di rendere la rappresentazione formale della scelta più realistica, i critici in realtà confermano la sua assunzione implicita che recita: per spiegare l’economia è necessario prima spiegare il comportamento umano. Se chiediamo qual è il modello di comportamento più adeguato all’economia assumiamo implicitamente che l’economia abbia effettivamente bisogno di un modello di comportamento; quindi, assumiamo già psicologismi, cioè precomprensioni, cioè pregiudizi e preconcetti, cioè il nostro cervello riempie i buchi che la nostra conoscenza gli lascia liberi. La massima ambizione che un economista possa avere è di costruire un modello semplice che mostri tutte le caratteristiche essenziali del processo economico per mezzo di un numero ragionevolmente ridotto di equazioni che collegano un ragionevolmente piccolo numero di variabili, anche se va detto che se il metodo matematico in quanto tale non è la causa della crisi economica in corso, la riduzione o sintesi del sistema economico è un’unica equazione che rende l’economia impossibile.

Nella teoria economica la produttività riveste un ruolo chiave e dominante, essendo al centro delle analisi e degli studi degli economisti. Per produttività si intende, essenzialmente, la capacità di un sistema economico di produrre risultati (output) impiegando minori quantità di fattori di produzione (input).

La produttività è una misura di redditività ed efficienza. Un sistema economico incrementa la sua produttività quando riesce ad innovare, producendo così eguali benefici a fronte però di minori costi sociali ed economici. Un sistema economico, ad esempio, può incrementare la produttività tramite un’innovazione tecnologica, ovvero una nuova tecnologia che consenta, rispetto alle tecnologie precedenti, di produrre più beni e servizi impiegando minori fattori di produzione. Tutto questo, ovviamente, giova positivamente alla crescita economica e sociale di un Paese.

Il debito, contestualmente, consente ad un’economia di ottenere fondi in prestito, tipicamente a scopi produttivi, al fine di effettuare investimenti strategici nel sistema economico o, semplicemente, coprire la carenza di liquidità risultante dalla tassazione e dagli introiti fiscali deficitari. Il debito pubblico, ovvero il livello di indebitamento legato all’apparato statale, è una variabile chiave in macroeconomia poiché consente di monitorare l’andamento delle finanze pubbliche e la loro stabilità. Tipicamente, questo per garantire maggior rigore e trasparenza nell’analisi dei conti pubblici, il debito pubblico di un Paese si paragona con il suo Pil, ovvero il prodotto interno lordo. Secondo i trattati europei, siglati a Maastricht nel 1992 per favorire l’adesione dei Paesi nell’Unione monetaria, il debito pubblico di un Paese deve essere inferiore al 60% del Pil, questo per garantire omogeneità, trasparenza e stabilità nei conti pubblici.

Debiti pubblici elevati, come avvenuto in Europa durante la crisi dei debiti sovrani del 2012, possono minare la stabilità finanziaria dell’intera Unione monetaria, con gravi ripercussioni sulla tenuta economica del continente. I mercati finanziari, tendenzialmente, in presenza di elevati debiti pubblici tendono a speculare e scommettere contro la stabilità macroeconomica di un Paese, con ovvie ripercussioni sugli spread e sulla reputazione finanziaria del Paese stesso.

Una legge della finanza recita che “solo chi non ha bisogno di finanziamenti può chiederne a prestito” a testimonianza di come, fondamentalmente, non sia particolarmente importante il livello assoluto del debito pubblico quanto la sua sostenibilità finanziaria. Un debito è sostenibile quando, alla luce della sua condizione macroeconomica, non viene compromessa la capacità, da parte delle generazioni future, di onorarlo abilmente. Il debito, infatti, prevede un certo tasso d’interesse, anche definito come onere del debito, che dovrà essere pagato dai debitori ai creditori in fase di restituzione. In economia, perciò, più un Paese sperimenta una produttività elevata, o analogamente un Pil elevato, maggiore sarà la sua abilità nell’onorare il debito. Incrementare il Pil, servendosi di investimenti pubblici-privati ed investimenti nell’istruzione che aumentino il capitale umano degli studenti, è fondamentale per garantire il servizio del debito e la sua sostenibilità nel lungo termine.

Un debito, secondo la teoria macroeconomica, si definisce buono e sostenibile quando, con i proventi derivanti dagli investimenti connessi all’indebitamento, si riesce, abilmente, a ripagare ed onorare il debito precedentemente contratto. E’ perciò fondamentale che, nel contrarre un debito, vi sia l’abilità, da parte del contraente, di disporre di mezzi e fattori che gli consentano di rendere tale indebitamento produttivo e tollerabile nel tempo. Un indebitamento è sostenibile se, grazie ad esso, il valore economico finale connesso all’investimento è superiore all’ammontare preso a prestito. In questo modo il debitore, oltre ad essere abile ad onorare il debito, avrà anche realizzato un profitto, dato dalla differenza tra il valore monetario dell’ammontare presto a prestito ed il valore economico finale realizzato.

Un investimento tipicamente efficiente e sostenibile è l’investimento in istruzione poiché, nel lungo periodo, con le competenze e conoscenze acquisite, si avrà una prospettiva di maggiori retribuzioni e guadagni. In questa circostanza, il costo legato all’indebitamento viene compensato dalla maggiore retribuzione attesa nel lungo periodo. Un investimento, invece, non è sostenibile quando non produce crescita economica per permettere, in futuro, di onorare abilmente il debito maturato. Se mi indebitassi per acquistare un bene che, a livello economico, non è in grado di produrre maggiore ricchezza futura, avrei un debito tipicamente insostenibile che può minare le mie finanze personali. In conclusione è bene ribadire come, affinché vi sia connubio tra sostenibilità e crescita economica, la produttività, ovvero il Pil, deve crescere per poter compensare, nei valori assoluti, il livello dell’indebitamento.

L’Italia nel 2024, secondo le stime dell’Istat, ha registrato un debito pubblico pari a circa il 140% del Pil. Il debito italiano, analizzandone il valore relativo al Pil, risulta essere insostenibile, rappresentando così un grave problema per la stabilità interna delle finanze pubbliche. La produttività italiana, inoltre, risulta essere in declino da più di 20 anni, aggravando una situazione già particolarmente precaria per i nostri conti pubblici.

Saremo abili nel rilanciare, anche alla luce degli ingenti finanziamenti previsti dal Pnrr, la nostra produttività permettendo così, in futuro, al nostro debito pubblico di essere sostenibile, procedendo lungo sentieri di decrescita?

La vita di un essere umano è un vero ed autentico miracolo da un punto di vista matematico e statistico.

Pensiamo brevemente, servendoci della ricerca biologica, a come la nostra esistenza dipenda incredibilmente dalla capacità di riproduzione di milioni di individui che ci hanno anticipato. Senza anche uno di loro tutto questo che oggi chiamiamo vita non sarebbe possibile, se anche ipoteticamente un nostro antenato non si fosse riprodotto noi oggi non esisteremmo. Un evento unico, incredibile e pressoché miracoloso.

Bergson, filosofo e naturalista francese vissuto nell’Ottocento, divise il tempo tra tempo fisico della scienza e tempo della coscienza. Il tempo fisico bergsoniano è assimilabile ad una collana di perle tutte uguali tra loro, separabili e disposte lungo una linea retta. Il tempo della vita, secondo Bergson, è come un gomitolo, poiché racchiude un flusso di coscienza continuo caratterizzato da esperienze passate e momenti unici. Il tempo della vita, secondo il filosofo, è un tempo caratterizzato da emozioni, sensazioni ed ecco spiegato perché, ad esempio, un’ora dal dentista non ha lo stesso peso temporale di un’ora trascorsa con la persona amata. Intuitivamente il tempo fisico, o tempo della scienza, è fondamentale per poter organizzare abilmente la nostra vita sociale ed economica. Senza alcuna organizzazione temporale della vita, sarebbe impossibile poter vivere in una comunità ed avere così relazioni sociali e personali.

Ogni essere umano, abbastanza sorprendentemente, non sceglie né di nascere né dove né, ovviamente, di morire. Siamo, tutti noi, letteralmente gettati nel mare del mondo e, in questo oceano chiamato vita, dobbiamo progressivamente imparare a nuotare, superando ostacoli, mareggiate e difficoltà.

Pascal, celebre filosofo, matematico e fisico francese del Seicento, introdusse il termine divertissment ovvero l’insieme di attività lavorative, ricreative e culturali ideate dall’uomo per potersi sottrarre al senso di inquietudine, nullità e vuoto derivante dalle domande esistenziali che, da sempre, lo affliggono. L’uomo, nonostante disponga di una incredibile intelligenza, non è riuscito a sconfiggere la morte, la malattia, la solitudine, così ha pensato che, per essere felici, la soluzione fosse quella di non pensarci. L’uomo, secondo Pascal, vive così rivolgendo i suoi pensieri sempre al passato e al futuro ma mai al presente ed, in questo modo, è travolto dagli eventi entropici della vita senza che riesca ad accompagnarla, godendo della bellezza dell’attimo e del momento.

Cogito ergo sum, ovvero penso dunque sono, ripeté Renato Cartesio ovvero “Penso, dunque sono, quindi esisto”. “Chi vuol essere lieto sia perché di domani non c’è certezza” argomentava Lorenzo de Medici.

Per Aristotele la felicità è eudaimonia ma anche katà métron. Eudaimonia è la buona riuscita del demone interiore, ovvero la nostra autocoscienza che ci guida nelle scelte della vita ma, allo stesso tempo, il nostro demone deve essere katà mètron, ovvero ci deve essere una corretta percezione del senso del limite.

Se desidero diventare un pittore bravo come Michelangelo ma non raggiungerò la sua caratura, allora non potrò mai essere felice. La felicità, perciò, ha una componente di autocoscienza legata inevitabilmente ad una percezione del limite.

Il capitalismo è un sistema economico che, incentrando il suo obiettivo primario sulla realizzazione del profitto e sul costante binomio necessità-desiderio, guida e stimola costantemente le pulsioni dell’uomo. Il sistema economico capitalista, fondato sull’accumulo di capitali e sulla sovrapproduzione, è un sistema economico che crea costanti pulsioni e desideri nell’animo umano. Tornando all’analisi effettuata in precedenza, ovvero l’assunto di Martin Heidegger circa il nostro essere gettati nel mondo, ogni uomo, vivendo come un soggetto protagonista la propria storia, inevitabilmente ricercherà il meglio per sé.

Questa è l’essenza umana che, studi di neuroscienze hanno dimostrato, risulta essere profondamente egoista.

Il capitalismo perciò, nonostante le profonde diseguaglianze e ingiustizie economiche che cela al suo interno, risulta essere il sistema economico che meglio si addice alla componente cognitiva umana, incentrata alla ricerca del successo, del potere e della piena autorealizzazione. Secondo la teoria economica, l’uomo dispone di risorse scarse nonostante voglia esaudire desideri illimitati. L’uomo, essendo animale pensante, pensa ed immagina grazie al suo intelletto, creando così una vera e propria dicotomia tra desideri e risorse disponibili.

Nella preistoria, l’uomo disponeva di semplici necessità quali, ad esempio, mangiare, dormire e ripararsi dal freddo e dalle intemperie.

Per far fronte a ciò, progressivamente, l’uomo ha dovuto fronteggiare una serie di bisogni: La necessità di mangiare trovava realizzazione nel bisogno di cacciare e, contestualmente, la necessità di dormire richiedeva un giaciglio sicuro.

Secondo Karl Marx, la storia è materiale ovvero procede secondo bisogni e necessità, le quali trovano realizzazione tramite il lavoro. E’ il lavoro, ampiamente discusso e oggetto di frequenti analisi e dibattiti nel confronto pubblico, che permette all’uomo di emanciparsi e di soddisfare i suoi bisogni. Il lavoro, per rispondere ai differenti bisogni e necessità, sarà soggetto ad inevitabili cambiamenti nel corso della storia. L’uomo preistorico viveva, infatti, grazie ad un’economia di sussistenza incentrata sul lavoro manuale e prettamente fisico.

La società moderna, figlia della globalizzazione economica e finanziaria, pone il fulcro sullo sviluppo delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, creando così un mondo che vive di efficienza, produttività e perennemente proiettato nella velocizzazione del tempo. L’uomo, oggi più che mai, ha bisogno di un nuovo Umanesimo, dovendo tornare al centro della ricerca e della vita sociale. La vera domanda è: saremo in grado di valutare anche la componente kata mètron in un mondo che, ormai, ha completamente perso il senso del limite?

Nella società della tecnica l’uomo ha ancora un valore umano e morale?

Il termine progresso deriva dal latino progressus ovvero andare avanti, avanzare. Seppur implicitamente nessuno di noi se ne renda conto, il progresso è la vera essenza del nostro vivere.
L’uomo, a differenza di tutte le altre specie viventi, ha sviluppato una capacità unica che, come ribadito da Giordano Bruno, tende a renderlo una creatura più divina che animale: il pensiero.
L’uomo, per definizione, è animale pensante. Celebre è il “ego cogito, ergo sum, sive existo”, ovvero io penso, dunque sono, ossia esisto di Renato Cartesio.

Il pensiero consente all’uomo di immaginare, ideare, riflettere. Secondo Bruno, la divinità umana è data dal vincente connubio intelletto-mano. L’uomo pensa grazie al suo intelletto ed agisce grazie alla potenza creatrice della mano; senza di essa l’intelletto non troverebbe realizzazione alcuna.
Martin Heidegger, filosofo esistenzialista tedesco del Novecento, sottolineò come “l’uomo fosse gettato nel mondo” ed in questo mare debba, progressivamente, imparare a nuotare.
Nessuno di noi, ovviamente, ha chiesto di venire al mondo e, sorprendentemente, nessuno di noi chiederà di andarsene quando sarà giunto il momento. In questo breve lasso di tempo, che null’altro è se non la vita, impariamo a conoscerci e impariamo a vivere.
Un famoso dipinto di Paul Gauguin dal titolo “Da dove veniamo, Chi siamo, Dove andiamo?” rappresenta la condizione esistenziale dell’umanità.
Possiamo dire che la vita dell’uomo sia un vero e proprio “trials and errors”, ovvero proceda per tentativi ed errori.
Ecco spiegato che il progresso, e la storia umana, altro non sono che una concatenazione di tentativi ed errori.
I primi ominidi, incuriositi dalla comparsa del fuoco, compresero, relazionandosi con esso, come avesse un potere calorifero tale da poter riscaldare il cibo e riparare dal freddo e dalle intemperie.
Il termine progresso è intrinsecamente legato al concetto di efficienza. Essere efficienti, in un’ottica meramente matematica, riguarda la capacità umana di realizzare output (prodotti finiti) impiegando minori quantità di input (fattori di produzione).
Uno dei primi concetti chiave affrontati dalla teoria economica è quello di crescita. La crescita economica, per esempio di un Paese, è una particolare condizione che si verifica quando un sistema economico, in un dato orizzonte temporale, produce beni e servizi in quantità superiori rispetto al passato, testimoniando così un certo grado di benessere raggiunto.
Un’economia, per poter crescere, deve necessariamente perseguire due differenti strategie:
1. Aumentare la produttività del sistema economico;
2. Ricorrere al credito bancario.

Incrementare la produttività del sistema economico, ovvero la produttività oraria per lavoratore, fa si che ogni agente economico produca più beni e servizi rispetto al passato, impattando positivamente sulla crescita economica del Paese.
Adam Smith, considerato il padre dell’economia classica, illustrò il celebre esempio della fabbrica di spilli per sottolineare come un incremento della produttività contribuisse alla crescita economica del sistema.
L’economista introdusse il concetto di divisione del lavoro. Secondo Smith, se gli operai si specializzassero ognuno in una particolare fase del processo di produzione, piuttosto che nell’intera produzione del bene, la produttività del lavoro e, contestualmente, la produzione complessiva aumenterebbero.
Per incrementare la produttività del sistema economico è doveroso investire in istruzione e rendere, progressivamente, il capitale fisico delle imprese (macchinari e mezzi di produzione) più efficiente.
Qualora un sistema economico non fosse produttivo, o se la sua produttività fosse stagnante, l’unico modo di incrementare la crescita economica sarebbe quello di ricorrere al credito bancario.
Il credito, infatti, consente di incrementare i consumi e gli investimenti rispetto alla produzione corrente, permettendoci di rimborsare il debito contratto nel futuro.
Il credito è il vero motore dell’economia: grazie ad esso le economie possono crescere a ritmi sostenuti anche in presenza di produttività stagnante.
Il credito, ad esempio, permette di effettuare determinati investimenti in un sistema economico, e con i flussi di cassa derivanti dall’investimento realizzato si potrà così ripagare il debito contratto.
In economia è bene sottolineare come il debito possa essere buono e sostenibile o pericoloso, andando così a compromettere e minare la solidità finanziaria di un Paese.
Un buon investimento è tipicamente dato dall’istruzione, dall’apertura di un’azienda e dalla realizzazione di infrastrutture poiché permettono, in futuro, di poter ripagare agevolmente gli oneri finanziari che ne hanno permesso la realizzazione.
Un debito non è sostenibile qualora non generi crescita economica e prospettive di introiti monetari futuri superiori alla spesa sostenuta. Un caso tipico è dato, per quanto concerne l’economia italiana, dalla spesa sostenuta dal Governo, tipicamente finanziata da un ricorso all’indebitamento, per pagare le pensioni, le prestazioni sociali e gli interessi passivi sul debito pubblico che, nonostante rappresentino una spesa necessaria e doverosa per sostenere il tessuto sociale del Paese, non generano flussi di cassa e reddito futuro.
Affinché vi sia progresso l’uomo deve disporre di un bene che, almeno negli ultimi anni, sta rivestendo un ruolo determinante: la conoscenza.
Conoscere per deliberare” replicava a gran voce Luigi Einaudi e credo che non esista frase migliore di questa per esprimere il valore della conoscenza. Ogni uomo, nella sua vita, apprende insegnamenti e valori etico-morali da figure genitoriali ed educative e, progressivamente, acquisisce conoscenza interagendo con il mondo attorno a sé.
Il progresso è, sostanzialmente, la somma di tutte le conoscenze accumulate in un dato campo del sapere ed è in continuo divenire e mutamento.
I pilastri su cui si fonda la meccanica del progresso sono 3, ovvero:
1. Apprendimento
2. Conoscenza
3. Insegnamento
Si apprende per conoscere e si conosce per poter divulgare, il tutto in un ciclo evolutivo continuo che, se duraturo, garantisce progresso e prosperità. Si ha, poi, una rivoluzione scientifica quando le conoscenze e i paradigmi passati non riescono a spiegare un certo nuovo fenomeno osservabile. L’umanità, da un punto di vista prettamente sociologico, procede per sentieri evolutivi grazie al tessuto di conoscenze acquisito che le consente, in caso di shock esogeni che mutano l’ordine e l’equilibrio sociale, di farvi fronte tempestivamente. Lo si è visto con la pandemia da Covid-19, o in presenza delle persistenti crisi economiche che, andando a minare il tessuto sociale e umano della collettività, richiedono interventi che riequilibrino lo status quo.
In molti, non solo economisti, si chiedono se il progresso sociale e culturale avrà un limite o procederà lungo sentieri di crescita duraturi. L’unica cosa che sappiamo è che finché la curiosità animerà l’animo umano, l’umanità potrà sicuramente progredire e il mondo in cui viviamo non potrà che giovarne.
Concludendo ritengo sia doveroso citare una frase del grande Albert Einstein:

L’immaginazione è più importante della conoscenza.
La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.

L’intelligenza artificiale, e lo sviluppo delle nuove tecnologie, stanno progressivamente delineando un sentiero economico nuovo in cui l’automazione e l’apprendimento automatico rivestiranno un ruolo chiave, se non dominante, per la società futura.
L’economia, o meglio lo sviluppo e la crescita economica, procede per sentieri di efficienza.
L’efficienza, in ambito prettamente economico e matematico, altro non è che un semplice rapporto tra ciò che gli economisti ci producono output, ovvero il prodotto finale realizzato, e gli input ovvero i fattori produttivi (umani e tecnologici) impiegati nel processo produttivo.
Essere efficienti vuol dire, essenzialmente, provare a limare e contenere le distorsioni e gli sprechi di risorse, cercando di ottenere gli stessi risultati socio-economici impiegando un ammontare inferiore di risorse.
Lionel Robbins, per definire la scienza economica, ha dato una definizione che ancora oggi è universalmente accettata a livello accademico.

Secondo Robbins:
L’economia è la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi.
Dalla suddetta definizione emerge, chiaramente, come il cuore dell’indagine della scienza economica sia la scarsità delle risorse.
L’uomo, al fine di soddisfare i propri bisogni, necessita di risorse, ovvero fattori produttivi primari, che trasformati consentono di realizzare determinati obiettivi precedentemente pianificati e stabiliti.
La chiave di tutto è dunque la scarsità. Se vivessimo in un mondo caratterizzato da risorse inesauribili, l’economia non esisterebbe ma la finitezza del pianeta Terra, nell’elargire risorse all’uomo, fa si che la scienza economica sia fondamentale, se non addirittura vitale, per la stessa sopravvivenza dell’uomo.
Karl Marx, nella sua opera capolavoro “Il Capitale”, ribadì come la storia dell’uomo fosse, da sempre, caratterizzata da bisogni e necessità che trovano, nel lavoro, un vero e proprio connubio. Il lavoro, in qualsiasi sistema economico, è il mezzo attravero il quale si realizza la trasformazione economica, ciò che in ambito accademico potremmo definire con la terminologia di funzione di produzione, da bisogni a necessità. I bisogni e le necessità, ovviamente, cambiano nel corso della storia e, contestualmente, il lavoro deve adeguarsi a questi cambiamenti.
L’uomo preistorico, ad esempio, aveva bisogni molto semplici, se confrontati ai nostri, in quanto per provvedere ai bisogni di protezione e sicurezza realizzava, impiegando il suo lavoro, capanne e palafitte.
Il sistema economico moderno, soprattutto nei paesi Occidentali economicamente sviluppati, ha ampiamente sopperito ai bisogni primari di protezione, sicurezza ed alimentazione. In un contesto simile, ovvero di sistemi economici ad alto reddito, l’attenzione si è dunque spostata verso un altro oggetto d’analisi: adesso che abbiamo salvaguardato le nostre necessità primarie, possiamo migliorare la qualità della nostra esistenza?
L’uomo primitivo, ovviamente, non aveva interesse nel migliorare la sua qualità di vita poichè l’attenzione primaria era finalizzata alla sussistenza e alla mera sopravvivenza.
Il voler progredire è una questione intrinsecamente legata al miglioramento delle condizioni di vita di una collettività ed è, necessariamente condizionato, all’abilità che la stessa ha nell’essere efficiente nella gestione e nell’organizzazione della sue risorse economiche e finanziarie.
L’intelligenza artificiale, nell’ottica di un’analisi meramente di efficienza, sta mostrando risultati sensazionali e senza precedenti, ed il tutto fa presagire a una nuova Rivoluzione economica di portata analoga a quella industriale di metà Ottocento.
Oltre ai benefici, evidenti, dell’intelligenza artificiale che permettono di replicare operazioni e procedure in modo sistematico, abbattendone costi operativi, gestionali e logistici legati al processo di produzione industriale, vi sono anche importanti rischi: quale sarà il futuro dell’umanità?
Molte professioni, già oggi, sono minacciate dall’intelligenza artificiale e, in futuro, molti impieghi verranno, irrimediabilmente, travolti dall’onda d’urto dell’automazione.
Assisteremo a ciò che Schumpeter definì, nelle sue teorie dell’economia dell’innovazione, a una distruzione creatrice? L’innovazione viene presentata da Schumpeter come forza economica e sociale che distrugge credenze, paradigmi passati innescando però una spinta creatrice verso un nuovo mondo che si basi su nuove fondamenta e certezze.
Innovare vuol dire cambiare, essendo abili, a fronte di determinati shock e situazioni avverse esogene, a trasmutare pelle mantenendo le stesse funzioni vitali. L’innovazione è alla base della crescita economica di un Paese e, potremmo dire, dell’agire umano.
Sarà importante mantenere un approccio cooperativo con le nuove tecnologie in cui le competenze e l’intelletto umano dovranno, inevitabilmente, sopperire all’apatia, freddezza ed impulsività dell’azione tecnica. In una visione di questo tipo, ovvero un sistema economico in cui le nuove tecnologie e la robotica coadiuveranno l’agire umano, bisognerà essere abili nel migliorare ed adeguare le competenze della forza lavoro alle nuove richieste derivanti dal mercato del lavoro.
Analizziamo, adesso, brevemente quali potrebbero essere le conseguenze e gli effetti derivanti dalla transizione digitale nel mercato del lavoro.
La teoria economica sottolinea come, la remunerazione dei lavoratori, sia legata alla produttività del loro lavoro. In termini matematici possiamo analiticamente affermare che vale la seguente relazione:

S = MPL

In cui:
S = Salario
MPL = Produttività marginale del lavoro

In economia, per produttività marginale si intende la variazione della produzione totale per unità di lavoro aggiuntiva. In termini semplicemente pragmatici potremmo dire che, la produttività marginale del lavoro, è pari al prodotto (output) aggiuntivo realizzato impiegando, nel processo produttivo, un’ora di lavoro aggiuntiva.
Nonostante la terminologia e il lessico matematico, il ragionamento sottostante è facilmente intuibile: Il mercato del lavoro, come tutti i mercati presenti in un’economia, è costituito da una domanda e da un’offerta.
Le imprese domandano lavoro poiché, per poter avviare il loro processo produttivo, necessitano di capitale fisico (tecnologie e impianti produttivi) e capitale umano (forza lavoro, conoscenze e competenze dei lavoratori).
I lavoratori, contrariamente, offriranno lavoro in cambio della corresponsione, da parte delle imprese, di un salario. Il mercato del lavoro, affinché raggiunga una condizione di equilibrio e stazionarietà, necessita che la domanda di lavoro, ovvero il numero di lavoratori che le imprese desiderano assumere, combaci con l’offerta di lavoro, ovvero i lavoratori che effettivamente sono disponibili ad entrare attivamente nel mercato del lavoro, cedendo ore di tempo libero in cambio di una remunerazione economica.
Le decisioni, riguardo l’assunzione di un lavoratore per le imprese o la scelta, nel caso del lavoratore, di voler offrire lavoro sono legate ad una valutazione di carattere matematico ed economico.

Proviamo a ragionare in termini logici e intuitivi:
Un’impresa sarà favorevole ad assumere un lavoratore solamente se, la produttività marginale oraria del lavoratore sarà superiore alla retribuzione offerta per la mansione svolta. I lavoratori, invece, saranno propensi ad offrire il loro lavoro per salari crescenti e superiori alla loro produttività oraria. Come ogni mercato, l’equilibrio ottimale si verificherà nel punto in cui i benefici ed i costi di ogni agente economico convergeranno sino ad eguagliarsi.
Si tratta, ovviamente, di un’analisi costi-benefici; qualora i benefici fossero superiori ai costi, una data decisione sarebbe economicamente vantaggiosa e profittevole ma, in presenza di una dualità di mercato, è inevitabile che i benefici ed i costi, sopportati da ognuno di essi, debbano compensarsi reciprocamente.
I lavoratori vorranno salari crescenti mentre le imprese, dal momento che le retribuzioni caratterizzano una voce importante delle passività e dei costi di gestione della stessa, vorranno contenerli il più possibile, pertanto l’unico equilibrio di mercato sarà quello in cui i salari si stabilizzeranno al valore della produttività oraria dei lavoratori.
Se la produttività oraria dei lavoratori fosse superiore al salario offerto dall’azienda, i lavoratori non avrebbero convenienza nell’offrire lavoro, e se l’impresa volesse assumere quei dati lavoratori, dovrà adeguatamente remunerare le loro competenze e capacità per poter essere competitiva sul mercato.
L’ardua e remota eventualità in cui la produttività oraria sia inferiore al salario proposto dalle aziende ha, intuitivamente, poca rilevanza logica. Nessuna impresa vorrebbe remunerare dei lavoratori compensandoli con salari e stipendi superiori alle loro effettive competenze.

Chiarito questo importante passaggio è bene, adesso, ribadire come l’intelligenza artificiale richiederà lavoratori ad alta formazione e valore aggiunto, il che comporterà per gli essi stipendi adeguati in virtù delle loro abilità.
Gli scenari, che in un futuro prossimo potrebbero verificarsi a causa dell’automazione, sono essenzialmente due:
– Riduzione della forza lavoro;
– Trasformazione sociale ed economica dell’intero sistema produttivo.

Nel primo scenario, altamente plausibile, l’automazione distruggerà inevitabilmente posti di lavoro, causando anche importanti cambiamenti sociali e culturali. Assisteremo sicuramente all’emergere di nuove figure professionali, altamente specializzate, formate, e inevitabilmente adeguatamente retribuite, che dovranno monitorare le operazioni e l’operato delle nuove tecnologie a fronte delle quali, le imprese, potrebbero decidere di ridurre intenzionalmente il personale assumendo esclusivamente lavoratori altamente formati e produttivi compensandoli con retribuzioni crescenti.
Allo stesso tempo molte professioni verranno rimpiazzate dalle nuove tecnologie e cosa ne sarà di quei lavoratori che, alla luce della nuova trasformazione economica e digitale, perderanno il loro impiego e così la loro fonte primaria di reddito?
La formazione, l’istruzione e un’adeguata competenza universitaria diventeranno fondamentali per gli studenti che si affacceranno in un mercato del lavoro caratterizzato da un’evoluzione e da un dinamismo impressionante e dirompente, senza tralasciare che le competenze e le conoscenze, in un mondo così fortemente energico, dovrà consolidarsi e rafforzarsi nel tempo.
Qualora l’automazione non venisse adeguatamente normata e regolata, queste nuove tecnologie potrebbero sensibilmente minare l’apparato economico e sociale di un Paese, dunque sarà bene imparare a cooperare con la tecnologia e impedisce che essa sostituisca l’agire e l’intelletto umano. Molti economisti sostengono che l’intelligenza artificiale, in un futuro prossimo, causerà un vero e proprio fenomeno di “disoccupazione di massa”, cui i governi dovranno far fronte con politiche fiscali di sostegno attivo al reddito, con strumenti anche definiti come “reddito universale di base”.
L’idea sottostante è che il progresso delle nuove tecnologie comporterà, da un lato, stipendi elevati per lavoratori occupati in settori ad alta tecnologia, ma anche molta povertà dovuta alla distruzione di milioni di posti di lavoro. Dinanzi a questa possibilità bisognerà agire o con una tassazione crescente sui redditi medio-alti per finanziare il reddito universale di base, altrimenti si dovrà ricorrere all’indebitamento pubblico, per non appesantire le tasche dei contribuenti. Quanto è realistica una simile strategia in un contesto, soprattutto per i Paesi europei, di elevati debiti pubblici ed azioni di manovra correttiva inevitabilmente ridotte?
Si dovrà ricorrere ad una mutualizzazione dei debiti pubblici come assistita durante la crisi pandemica da CoVid-19?
I rischi sono tanti, i benefici altrettanti: la sfida del XXI secolo è alle porte, saremo abili nel farci cogliere pronti?

Introduzione

Prima della legge sugli ecoreati, la tutela dell’ambiente era assicurata in via mediata a fronte dell’impostazione antropocentrica, a seguito della quale a rilevare erano i beni della vita e dell’integrità personale comprensivo del diritto alla salute. La riforma ecocentrica avvenuta negli ultimi anni, dapprima con l’introduzione della legge 69 del 2015 e successivamente con la recente riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione che insieme delineano l’importanza di considerare l’ambiente come bene autonomo e di converso consentono l’applicazione di una tutela effettiva del medesimo, trae origine da due fattori: la spinta europeista e l’inadeguatezza degli strumenti giuridici interni in ordine ai disastri ambientali avvenuti nel corso del tempo.

1. La tutela dell’ambiente prima della legge 69 del 2015

Una delle conseguenze negative derivanti da tale impostazione era l’assenza di strumenti normativi adeguati, sia per far fronte al problema dell’inquinamento ambientale, sia per contrastare l’illecito ambientale. Non essendo prevista una fattispecie penale dedicata a punire tali condotte, la giurisprudenza si è trovata ad effettuare un lavoro di interpretazione delle fattispecie presenti che meglio ivi potevano adattarsi. Sul punto è da apprezzare il tentativo di garantire una forma di tutela ai fatti di inquinamento ambientale, di converso però, tali tentativi si sono spesso rivelati infruttuosi a causa dell’inadeguatezza tipologica, culminando quasi sempre con una pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto, benchè il fatto vi era, solo che non era tipizzato (si trattava di inquinamento e non di danneggiamento). I problemi di effettività della tutela non sono stati superati neanche con l’introduzione del testo unico ambientale (d. lgs. n. 152 del 2006) caratterizzato da fattispecie contravvenzionali e improntate sul tipo del reato di pericolo presunto/astratto. Anzi, si può ragionevolmente affermare che l’assenza di misure effettive e dissuasive si è maggiormente accentuata proprio a seguito della sua emanazione. Ci si riferisce all’impostazione stessa dell’intervento penalistico, concentrata su una tutela puramente formalistica incardinata sulla repressione delle violazioni del potere sanzionatorio della P.A. (per lo più indirizzate a punire i superamenti dei limiti delle emissioni) con ricadute negative sul principio di offensività in concreto. In tal modo, infatti, si conferma la natura dell’ambiente come bene tutelato in via mediana e indiretta. Con il testo unico ambientale però cominciano a delinearsi i tratti distintivi di una politica ambientale efficiente, in quanto, non solo vengono richiamati i principi europei di precauzione (art. 3 T.U.A), di prevenzione, di ripristino dei luoghi e della repressione del responsabile (chi inquina paga) ma, si recepisce la logica dell’economia circolare, improntata al concetto di riuso dei beni, espressivo dell’esigenza di ridurre a zero la produzione dei rifiuti come strumento più efficiente alla lotta contro l’inquinamento ambientale (la nozione di sottoprodotto è disciplinata dall’ art. 184 bis T.U.A.) prevedendo una vera e propria gerarchia dei rifiuti e un intervento programmatico, si pensi al procedimento della valutazione sull’impatto ambientale (art. 4 T.U.A.).
A fronte dell’inefficacia deterrente e dell’ineffettività della tutela conseguenti a tali impostazione sistemica, la giurisprudenza, dapprima nei casi più gravi e successivamente anche in riferimento ai c.d. micro-eventi come il caso del Petrolchimico di Porto Marghera (1), ha esteso l’applicazione dell’art. 434 c.p. sulla base della locuzione altri disastri (disastro innominato) presente al co. 3, diversi rispetto alle ipotesi tipizzate, riconducendovi i disastri ambientali. Anche questa operazione ermeneutica rappresenta un tentativo lodevole per ovviare all’assenza di una tutela penale diretta nei confronti del bene ambiente ma, allo stesso tempo, non priva di problematiche applicative fino a rasentare la violazione del principio di tipicità. Sull’applicazione di tale fattispecie, infatti, sono susseguiti contrasti ermeneutici culminati con questioni di legittimità costituzionale per contrasto al principio di legalità ex art. 25 Cost. per difetto di determinatezza e violazione del principio di tassatività. Risultava dubbio il significato stesso di altri disastri, la cui locuzione inquadra fatti simili ai disastri disciplinati espressamente nel codice penale (incendio, frana, valanga, crollo di costruzioni) e in tal senso si paventava il rischio di incorrere in operazione analogiche, vietate in malam partem. La storia ci insegna che tutte le questioni di legittimità sollevate sono state puntualmente respinte dalla Corte Costituzionale la quale, in particolare con la sentenza n. 327 del 2008 non solo chiarisce che la fattispecie non viola il principio di tassatività e che si può fare uso di clausole generali se le stesse vengano correttamente inquadrate in un contesto di significato certo, ma delinea i tratti distintivi del disastro: “si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi e gravi, complessi ed estesi” e l’evento deve provocare “un pericolo per la vita o per l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone (offesa alla pubblica incolumità)” senza che sia richiesta la verificazione dell’evento, sia esso rappresentato dalla morte o dalle lesioni gravi di un numero indeterminato di persone (visione unitaria).
Nonostante la tenuta penale-costituzionale della fattispecie, però, l’esito del processo sul caso Eternit condusse alla c.d. normazione di emergenza. Infatti, a fronte dello spirare del termine prescrizionale, il disastro Eternit rimase impunito provocando una reazione avversa sia dei cittadini che delle istituzioni europee sempre più orientate a politiche effettive e dissuasive contro i crimini ambientali.

2. La politica ambientale dell’Unione Europea, il ritardo normativo e la legge sugli ecoreati

Dalla normazione europea di principio e di dettaglio si evince l’obiettivo di voler armonizzare le politiche ambientali degli Stati membri in ordine al c.d. elevato livello di tutela raggiungibile sulla base di un intervento sistematico e polifunzionale incentrato in via prioritaria sulla tutela graduale e preventiva (principi di precauzione (2) e di prevenzione), seguita da strumenti repressivi e funzionali al rispristino dello stato delle cose (principio del ripristino dello stato dei luoghi e in via sussidiaria, principio del chi inquina paga). L’U.E. ha come obiettivi primari quello di ridurre sensibilmente l’inquinamento ambientale e affronta tale problematica richiedendo agli Stati sia misure effettive e dissuasive per combattere l’illecito penale, sia l’attuazione di politiche improntate alla sostenibilità del bene ambiente (artt. 3 T.U.E. e 191 T.F.U.E.) a vantaggio delle generazioni future. L’azione si indirizza in particolar modo a contrastare l’illecito commesso dalle imprese (3), essendo quest’ultime il principale fattore da monitorare in tal senso, prospettando politiche rivolte alla trasparenza dei processi produttivi, all’introduzione di modelli organizzativi adeguati (4), al controllo del rispetto dei limiti e delle soglie minime in termini di contenimento della produzione nociva nel range del rischio consentito (la Corte di giustizia U.E. con la pronuncia del 2021 n. 357 ha espressamente affermato che bisogna contrastare il c.d. greenwashing: aziende con politiche non ambientalmente virtuose che mascherano il proprio status).
Lo Stato italiano, in realtà, si è mostrato al quanto restio in tale materia, sia per ragioni strettamente organizzative ed economiche che per ragioni culturali. Il deficit di tutela, tra le tante conseguenze, ha provocato la sottoposizione dello stesso a più procedure di infrazione (5) da parte dell’Unione Europea, proprio a causa del mancato o ritardato recepimento delle direttive UE in materia ambientale (6). Si pensi che la Direttiva rifiuti del 1975, venne recepita solo 22 anni dopo con il c.d. Decreto Ronchi (7), il quale, ha introdotto sia la liberalizzazione dei servizi in materia di gestione dei rifiuti, avendo come obiettivo quello di abbattere le diseconomie di scala prodotte dalla mala gestio pubblica (attuazione del principio di concorrenza), in ordine alla riduzione degli sprechi e all’efficientamento della gestione, sia il concetto stesso di riuso dei materiali, individuato come soluzione alla riduzione della produzione dei rifiuti, considerata il grave problema che impedisce la sostenibilità ambientale a danno delle future generazioni.
Con il Decreto Ronchi e le successive modifiche, l’Italia ha attuato una politica ambientale orientata alla prevenzione, alla precauzione e all’autoresponsabilità (chi inquina paga).
In materia penale, il problema del deficit di tutela (8) può dirsi finalmente superato con la riforma del 2015 (d. lgs. n. 68) (9) che, come già anticipato, non a caso è intervenuta immediatamente dopo il clamore mediatico scatenato dal caso Eternit (10).
La legge di riforma del 2015 (11) ha riorganizzato, in ottica sistematica, le poche fattispecie penali presenti nel Testo unico ambientale, ha introdotto ex novo un apposito titolo (VI bis) all’interno del codice penale dedicato, appunto, agli ecoreati e ha inserito tali fattispecie nei reati presupposto per la responsabilità penale degli enti ex art. 25 undecies (si pensi che le attività degli enti sono quelle maggiormente prolifere di rischi legati alla commissione degli illeciti ambientali). La riforma penale si caratterizza per aver introdotto misure prettamente sanzionatorie (passaggio dal pericolo astratto, al modello dei reati di pericolo concreto e di danno) rivolte a punire gli autori degli illeciti (efficacia deterrente). Si pensi alle fattispecie dell’inquinamento ambientale ex art. 452 bis (12) e del disastro ambientale ex art. 452 quater punito anche a titolo di colpa, all’aggravante per il delitto associativo ex art. 452 octies (associazione per delinquere e di stampo mafioso) e a quella generica ex art.452 nonies (applicabile per tutte le fattispecie), all’applicazione della confisca, anche per equivalente (artt. 452 undecies e 452 quaterdecies). Misure finalizzate ad assicurare il recupero dei luoghi inquinati e la risocializzazione dell’autore dell’illecito, attraverso un sistema sanzione-premio. In quest’ottica, ci si riferisce alla valorizzazione delle condotte riparatorie (si pensi al ravvedimento operoso ex art. 452-decies per coloro che collaborano con le autorità prima della definizione del giudizio) e ripristinatorie (si pensi alla pena accessoria del ripristino dello stato dei luoghi ex art. 452 duodecies c.p.e. all’ulteriore sanzione per l’omessa bonifica). Misure di prevenzione (art. 301 T.U.A.) rivolte ad analizzare le aree di rischio e ad individuare un tempestivo intervento al fine di paralizzare il possibile inquinamento dei luoghi a queste riconnessi (13).

3. Conclusione

Non vi è alcun dubbio che della legge sugli ecoreati ce ne fosse realmente bisogno, forse, in questo senso, quella della normazione in materia ambientale è quella che meglio si coordina con i principi costitutivi penalistici, ci si riferisce in particolar modo al principio dell’offensività in concreto (rispettato perchè si passa da una tutela penale improntata sul modello del reato di pericolo astratto/presunto a un modello di reati di danno e di evento con l’offesa da accertare in concreto) e al principio del diritto penale minimo (anch’esso rispettato, perchè proprio l’inefficacia degli strumenti amministrativi e delle fattispecie contravvenzionali già presenti giustifica pienamente l’intervento repressivo) a fronte di una reale necessità (ampiamente dimostrata dai gravi eventi disastrosi che si sono verificati nel tempo e che non si sono potuti fronteggiare con misure idonee sia allo scopo preventivo che a quello puramente repressivo). Certo è che non ci si trovi in presenza di un sistema organico perfetto. Ci si riferisce ai problemi ermeneutici e applicativi legati alla formulazione di alcune fattispecie, su tutte l’inquinamento ambientale (con i concetti vaghi e di non facile interpretazione dell’abusività (14) della condotta e ai requisiti di significatività e misurabilità (15) degli effetti nocivi causati dalle altrettanto poco chiare condotte di compromissione e deterioramento (16), come elementi costitutivi della fattispecie (17)) e ai rapporti di non facile soluzione tra la fattispecie del disastro innominato e il co. 3 del delitto di disastro ambientale. Invero, a fronte dell’operatività della clausola di sussidiarietà, prevista in apertura dell’articolo, che rinvia all’applicazione della fattispecie dell’art. 434 c.p. e della lettera 3 del primo comma che richiama l’offesa alla pubblica incolumità, si sono susseguiti dei contrasti ermeneutici sull’operatività in astratto delle fattispecie. Sul punto bisogna premettere che le questioni intertemporali sono state giudicate facendo applicazione della disciplina desumibile dai commi 2 e 4 dell’art. 2 c.p. non essendosi verificatosi un’ipotesi di abolito criminis. Tale per cui, si è seguito il criterio dell’applicazione della disciplina in astratto più favorevole con il limite del giudicato. La clausola di sussidiarietà, invece, contrariamente alla normale applicazione della stessa che opera rinviando, solitamente, ad una fattispecie più grave che assorbe il disvalore di quella meno grave, consentirebbe l’applicazione del disastro innominato, punito in astratto meno gravemente rispetto al disastro ambientale (fatta salva l’applicazione della fattispecie attenuante del ravvedimento operoso ex art. 452 decies) ma, solo nel caso in cui non si verifichi un evento che vada ad offendere il bene ambiente, in tal caso, anche quando secondo la lettera n. 3 del co. 1 si verifichi oltre che l’offesa al bene ambiente anche il pericolo per la pubblica incolumità, si applica la disposizione sul disastro ambientale non in ragione dell’operare del principio di specialità, ma per l’espressa previsione legislativa che esclude l’applicazione del disastro innominato in tutti i casi in cui il pericolo alla pubblica incolumità pervenga come conseguenza dell’offesa arrecata al bene ambiente (18) (reato plurioffensivo).
Il punto dolente però, non risiede nelle dinamiche conflittuali di origine strutturale ma, nella scarsa efficacia funzionale degli stessi. In altri termini, a fronte dell’organicità della disciplina penale, non si è riusciti a raggiungere l’obiettivo della sensibile riduzione degli illeciti penali che, secondo il report Ecomafie stilato da legambiente inerente all’anno 2022 risultano in aumento (19), maggiormente distribuiti nei territori storicamente legati al fenomeno mafioso (Sicilia, Campania, Calabria che insieme totalizzano circa il 42% dei crimini ambientali totali commessi).
A fronte di tali dati ci si deve interrogare sulla possibilità di ricorrere anche a strumenti diversi. Ad avviso di chi scrive potrebbe rivelarsi utile, in tal senso, l’adozione del modello dell’economia circolare. La logica è quella di puntare ad azzerare la produzione dei rifiuti e ridurre i costi legati alle fasi di lavorazione e riuso.

Note

(1) La Corte di Cassazione in relazione alla pronuncia sul caso del Petrolchimico di Porto Marghera afferma che il disastro «può realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, senza che si verifichi un evento disastroso immediatamente percepibile e purché si verifichi quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori […] che consentono di affermare l’esistenza di una lesione della pubblica incolumità», superando in tal modo le problematiche legate alla natura istantanea del delitto in ordine ai danni lungo latenti in relazione al decorso del termine prescrizionale.

(2) Tale principio richiede l’intervento di tutela anche in ordine a rischi non ancora scientificamente accertati.

(3) Sul punto si richiama la proposta Bruxelles 2022 dove vengono richiesti alle imprese precisi doveri di diligenza dai fini della sostenibilità ambientale e della tutela dei diritti umani, non solo in relazione alle attività poste in essere direttamente ma, anche nei confronti delle catene del valore, dunque nei confronti delle società affiliate.

(4) Sul punto si prenda visione della sentenza della Cassazione del 2019 n.3157 incentrata proprio sul modello di prevenzione 231 in termini di efficacia dello stesso (minimizzazione del rischio di commissione del reato su cui si procede).

(5) Trovi il dato su https://www.openpolis.it/le-infrazioni-europee-allitalia-sullambiente/.

(6) Si ricordi che l’Unione Europea in materia ambientale ha competenza concorrente agli Stati e che proprio in tale ambito, si è delineato l’ampliamento dell’intervento unionale in materia di diritto penale (obblighi di tutela penale attraverso sanzioni deterrenti, dissuasive ed effettive).

(7) Con il d. lgs n. 22/1997 viene introdotto il metodo dell’economia circolare, individuato come principale strumento per ridurre lo spreco delle risorse ed apportare i criteri dell’efficienza e della razionalità alla gestione del servizio.

(8) Si pensi al problema del decorso della prescrizione. Sul punto si faccia riferimento alla nota pronuncia della Cassazione, sentenza del 19 novembre 2014, n. 7941, Schmidheiny, in C.E.D. Cassazione, sul caso Eternit proprio in ordine ai rapporti tra l’applicazione del disastro innominato ex art. 434 c.p. e al decorso del termine prescrizionale.

(9) F., PALAZZO, I nuovi reati ambientali. Tra responsabilità degli individui e responsabilità dell’ente, in Dir. Pen. Cont., n. 1/2018; C., RUGA RIVA, La disciplina dei rifiuti, in M. Pelissero (a cura di), Reati contro l’ambiente e il territorio, Torino, II ed. 2019, p. 167 ss.; L. SIRACUSA., La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”: una svolta “quasi” epocale per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. Pen. Cont., n. 2/2015; In senso contrario si vedano T. Padovani, Legge sugli ecoreati, un impianto inefficace che non aiuta l’ambiente, in Guida al dir., n. 32/2015, pp. 10 e P. PATRONO, I nuovi delitti contro l’ambiente: il tradimento di un’attesa riforma, 11 gennaio 2016, in www.lalegislazionepenale.eu.

(10) G.L., GATTA, Il diritto e la giustizia penale davanti al dramma dell’amianto: riflettendo sull’epilogo del caso Eternit, in Dir. Pen. Cont., n. 1/2015.

(11) Recepisce la direttiva U.E. 2008/99/CE del 19 novembre 2008, incentrata sulla protezione dell’ambiente mediante il ricorso al diritto penale. Sul punto, si ricorda che l’U.E. non dispone di competenza diretta in materia penale, eccetto per le materie transnazionali ma, può indirizzare gli Stati ad adottare una tutela penalistica effettiva e dissuasiva nelle materie in cui ha interessi.

(12) La Cassazione pen. con la sentenza del 2022 n. 32498 è intervenuta in merito alla struttura del delitto di inquinamento ambientale qualificandola come reato di danno posto a tutela dell’ambiente in quanto tale (superamento della visione antropocentrica).

(13) Si procederà alla valutazione scientifica del pericolo e della probabilità del suo verificarsi in un particolare contesto (c.d. risk assessment), per poi valutare quali siano i provvedimenti più idonei a ridurre il rischio ad un livello accettabile (c.d. risk management).

(14) Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione pen. con sentenza n. 28732 del 2018 con la quale ha chiarito che per abusività della condotta si deve intendere sia l’assenza di autorizzazione o autorizzazioni scadute o illegittime, sia l’operare in violazione di leggi statali e regionali ancorchè non strettamente connesse alla tutela ambientale (clausola di illiceità speciale)

(15) Le questioni di legittimità costituzionale per contrasto al principio di legalità ex art. 25 Cost. per difetto di chiarezza e precisione della norma sono state rigettate in quanto si ritiene possibile giungere ad un significato univoco dei termini attraverso l’interpretazione sostanzialistica, rivolta ad escludere tutti gli eventi che non compromettono il bene.

(16) Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione con sentenza del 2017 n. 52436 chiarendo che per deterioramento si deve intendere la diminuzione del valore o l’impedimento anche parziale dell’uso e per compromissione, lo squilibrio funzionale tra il bene e gli interessi/bisogni che intende soddisfare.

(17) Così come sancito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia sul caso Ilva.

(18) La Corte di Cassazione con la sent. 2990 del 2018 (III Sez. Pen.) è intervenuta circa il distinguo tra le due tipologie di reato, affermando che il collegamento con la fattispecie dell’art. 434 c.p. avviene solo nel caso in cui il reato  sia pluri-offensivo e diretto sia all’integrità dell’ambiente quanto alla pubblica incolumità.

(19) Tutti i dati si possono rinvenire su www.legambiente.it/comunicati-stampa/ecomafia-2022-presentati-i-dati-sui-reati-ambientali-in-italia/.

Bibliografia

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1.     Introduzione 

Con il presente lavoro, si vuole affrontare il rapporto tra neuroscienze e volontà al fine di evidenziarne i punti di contatto, per la prospettazione di un possibile connubio tra le prime e l’analisi della prova dichiarativa. A tal proposito, bisogna partire da queste considerazioni:

  • non ha senso parlare di libero arbitrio in senso assoluto e generalizzante;
  • non è razionale e logico analizzare il libero arbitrio fuori dal caso concreto;
  • l’ uomo è dotato di libero arbitrio;
  • la volontà umana è un fattore deterministico;
  • la volontà umana può essere determinata;
  • non vi è un rapporto di esclusione in astratto tra determinismo e libero

In un mondo relativistico, dove la conoscenza non è assoluta e la stessa scienza, così come il diritto, non forniscono verità assolute, ogni fattore può produrre effetti differenti in base ad un certo tempo e ad un certo contesto.

In astratto, le neuroscienze non hanno la capacità di determinare la volontà umana, ma non è tanto analizzare le neuroscienze in sè rileva analizzare, quanto come quest’ultime vengono impiegate e per quali fini. Tanto basta per guardare alle neuroscienze con fiducia. Se, infatti, il sistema penale funziona bene, ogni fattore esterno che possa entrare in contatto con lo stesso può essere valutato e questa è già una condizione sufficiente per prospettare il maggior impiego delle neuroscienze nel procedimento penale, anche in campi dove fino ad ora questo risulta impensabile, l’analisi della prova dichiarativa. Del resto, ci si è allontanati molto sia dalla fallacia propria delle tecniche para-scientifiche come il poligrafo, sia da un sistema penale inquisitorio disancorato dalla legalità e dalla giustizia.

Si è soliti pensare al libero arbitrio in opposizione ad ogni forma di determinismo. Il fatto stesso di prospettare il problema tra una scelta aut-aut ci conduce ad una primissima riflessione. Siamo noi in grado di capire l’assolutezza dei fenomeni (siano essi materiali o metafisici)?

Si può affermare che, il mondo sia conosciuto in modo relativistico e di conseguenza ogni teoria non può avere il pregio di escluderne una di senso opposto. Si pensi ad un diverbio tra due bambini sul colore di una macchina che hanno appena visto passare. Si può verificare una condizione in cui entrambi concordino sul tipo di colore, ad esempio il blu, ma si può verificare che uno di loro affermi che il colore sia blu ma, l’altro dica che sia azzurro. Esiste una verità oggettiva escludente il suo opposto, del tipo la macchina non è qualsiasi altro colore rispetto al blu o all’azzurro? Pur ammettendo che questa condizione venisse superata in segno positivo, è possibile affermare una verità oggettiva tra il colore blu o il colore azzurro? In un contesto dove operano solo quei due bambini e la macchina, gli agenti coinvolti sono due e l’oggetto di valutazione è la macchina. Per cui si dovrebbe avere la possibilità di osservare quella macchina e di conseguenza propendere o per il blu o per l’azzurro. Ma tale condizione non è sempre possibile e dunque il dilemma come dovrebbe risolversi? La macchina è tale per cui entrambi lo riconoscono, solo che è blu per uno dei due soggetti ed azzurra per l’altro. Dovremmo applicare il rapporto matematico della valenza del meno quanto si hanno segni opposti? Dovremmo considerare che l’una rappresentazione escluda l’altra, senza alcun riscontro obiettivo? Pare logico e intuitivo che vi siano due piani di valutazione, uno soggettivo ed uno oggettivo e che in tale contesto operino entrambi, il soggettivo per come è stato espresso e l’oggettivo per come è stato interpretato. Ne discende che in un mondo relativistico, perché potuto essere conosciuto come tale, lo sfondo su cui mantenere la discussione che seguirà, debba essere quello dell’interpretazione soggettiva e con essa quello della relatività dell’oggettivismo1.

2.     Libero arbitrio

L’uomo è libero o in quanto tale è non libero perché determinato sempre e comunque dalle leggi fisiche che lo governano? Tale è la concezione di quanti asseriscono alla tesi del libertarismo assoluto2 o se si preferisce a quella dell’indeterminismo assoluto. L’errore di tali costrutti teorici è insito nelle stesse presupposizioni di cui si forgiano. Infatti, se si vuole indagare l’esistenza della libertà in relazione all’uomo, postulare un mondo indeterminato in assoluto negherebbe in radice la libertà stessa, poiché nemmeno l’uomo sarebbe in grado di determinare alcunché e si sprofonderebbe nelle anomie del caos3.

Sin dalla sua formazione, l’uomo entra in stretto contatto con il concetto della libertà, la quale è affrontata in una prospettiva multidimensionale e diacronica, ora come necessità di sopravvivenza (uomo-cacciatore), ora come conquista sociale (affrancazione dalla schiavitù (4) ora come le libertà (5), ora come propulsore per i diritti fondamentali (6). In tale prospettiva, la libertà assume una connotazione dinamica perché si evolve con l’evolversi dell’uomo. E se così è, ecco che la libertà è sempre un concetto di relazione. L’uomo è libero non solo in quanto tale, ma è libero rispetto a qualcosa o a qualcuno, è libero da qualcosa o da qualcuno, è libero in un luogo o non in un altro, è libero relativamente. Allora si potrà affermare che l’uomo è sempre libero in astratto, ma può non esserlo in concreto. Si pensi alla condizione carceraria. Si può affermare che tutti i carcerati non siano liberi perché sottoposti ad un regime di coercizione fisica? Si deve rispondere in maniera negativa. E’ vero che un detenuto non è libero di fare molte cose (viaggiare per esempio!), ma è altrettanto vero che rimarrà libero di farne delle altre (pensare, dormire, scrivere, parlare ecc!). L’esempio del detenuto ci è utile per fare una nuova distinzione fondamentale sul piano concettuale, quella tra le libertà e la possibilità di esercitarle. Un uomo si può dire libero solo in relazione alla possibilità di esserlo in relazione a qualcosa o a qualcuno7. Per l’esempio che si è fatto poc’anzi, la prigionia è un fattore di coercizione che annichilisce la libertà di movimento, che affievolisce la libertà di comunicazione, ma non potrà mai annientarle in assoluto e la risposta è nella libertà personale stessa (articolo 13 Cost.). In ordine alla garanzia della libertà personale, non sono ammesse le così dette pene eterne (l’ergastolo è sottoposto al regime della libertà condizionale), non sono ammesse pene e trattamenti inumani e degradanti, sono previsti tempi e modi per comunicare con le persone care, è prevista la possibilità di dedicarsi ad attività varie come lo svolgimento del lavoro all’esterno.

Non è della libertà che ci si deve occupare allora. Ci si deve occupare dell’uomo capace di essere libero in relazione a ciò che si sta indagando nel caso specifico, in un certo tempo e in un certo contesto. Si pensi alla domanda: Sono libero di uccidere qualcuno? In via generale, poche persone risponderebbero a brucia pelo. Quella pausa di riflessione osta alla verità della risposta. Infatti, si tenderà a rispondere di no, perchè si avvertirà il senso morale interiore ed il senso sociale della sfera relazionale. Ma la verità precede quel frangente che si instaura tra il momento in cui la domanda viene completamente recepita e l’insorgere del pensiero controllato. In verità, la risposta non può che essere positiva. Tale libertà (che rappresenta sul piano valoriale la più forte) non è scalfita nella sua essenza, così come non lo sono tutte le libertà interiori. Per comprende il vero senso della libertà allora, bisogna cambiare la domanda, che diventa: abbiamo il diritto di uccidere qualcuno? In questo caso non ci si sarà alcuna pausa, perchè la risposta è imminente ed è negativa. Ma questo dato ci deve fare riflettere. Abbiamo la libertà di uccidere, ma non il diritto di uccidere (in tale ragionamento non si includono quei casi in cui è necessario uccidere per difendere la proprià o l’altrui incolumità perchè si tratterebbe appunto di esercizio del diritto di difendersi e non del diritto di uccidere)8 ed allora ci si deve chiedere il perchè si uccide e nello stesso tempo il perchè non lo si fa. La differenza tra le due condizioni appena esposte, la si rinviene nello stesso potere di scegliere e che implica la libertà di farlo e di non farlo. Non si può pensare che la sola minaccia di una pena detentiva severa (come l’ergastolo) sia in grado di agire come fattore determinante la non scelta di uccidere, nel caso contrario non si registrerebbe alcuno omicidio. Si può però affermare che in via generale non esiste un diritto di uccidere. Infatti, avere il diritto di uccidere vorrebbe dire ritornare allo stato di natura9 dove il mondo è sorretto solo dalle leggi naturali e non a quelle dell’uomo stesso (norme). Anche le leggi naturali operano dall’esterno, ma queste seguono i criteri della forza e non quelli della giustizia. In altre parole, nonostante il mondo agisca sulla basi di leggi deterministiche, l’uomo in relazione agli altri individui si troverebbe in una condizione di partenza basata sull’uguaglianza e da tale condizione egli è capace di effettuare delle scelte d’azione, che sono in grado di modificare il corso degli eventi che era stato determinato dalle leggi della fisica. In buona sostanza l’uomo è un fattore che determina, così come lo è la natura ed in tal senso in un corso di eventi, egli può essere in grado di determinare quale produrre. E’ in questo senso che si può affermare che l’uomo è dotato di libero arbitrio. La volontà umana non è un fattore che è avulso dalle leggi deterministiche, ma è essa stessa una delle leggi deterministiche10 e sarà in grado di fungere da causa escludente gli altri fattori, solo quando si troverà in una posizione di pari forza rispetto alle altre leggi11. E’ questo, ad avviso di chi scrive, il concetto centrale che si deve osservare quando si esamina il libero arbitrio. L’uomo è capace di libero arbitrio quando può autodeterminarsi e può autodeterminarsi quando la sua volontà è più forte dagli altri fattori determinanti12 che co-agiscono insieme a lui, nella determinazione dell’evento finale o nella realizzazione di una certa condotta, a prescindere dalla produzione o meno di un certo evento. Tale è il fondamento della teoria retribuzionistica di Carrara, secondo il quale la pena debba indirizzarsi solo nei confronti dei soggetti che hanno scelto di delinquere (adesione psicologica al fatto di reato e realizzazione dello stesso), proprio perchè l’uomo è in grado di compiere libere scelte di azione (uomo come essere dotato di libero arbitrio). Ne consegue che chi non è in grado di compiere libere scelte di azione, non può essere ritenuto punibile perchè non colpevole13. L’articolo 8514 del codice penale fissa tale condizione ed infatti stabilisce che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso non era imputabile” e specifica che “è imputabile chi ha la capacità di intendere (si deve precisare che con il termine intenzione si vuole indicare la capacità di comprensione che è cosa diversa dall’intenzionalità) e di volere”. L’imputabilità15, dunque, è la base di partenza che legittima l’indagine sull’elemento psicologico del reato, che poi proseguirà con la verifica della sussistenza dello stesso (dolo, colpa, preterintenzione). Da tale norma si può comprendere come l’autodeterminazione appartenga a tutti, ma solo chi è in grado di autodeterminarsi può esercitarla.

3.     Determinismi

Il problema del libero arbitrio emerse in tempi antichi a causa della correlazione tra la libertà dell’uomo ed il determinismo, inteso come determinismo fisico (naturale o biologico), determinismo psicologico (bio- psichico), determinismo teologico (commistione tra Dio e natura) e determinismo fatalista (derivante dal caso o dal caos). L’errore fondamentale che si cela all’interno di ogni forma di determinismo, è quello di pensarlo in maniera assoluta. Infatti, se si pensa al determinismo assoluto naturale, non vi è spazio alcuno per qualsiasi altra forma di determinismo, perchè tutto dipenderebbe dalle leggi naturali e così via. Se si ragiona in termini relativistici, invece, si riescono ad apprezzare tutte le forme deterministiche cui si è fatto cenno poc’anzi, poiché ognuna avrà causa propria e di conseguenza saranno tutte vere. Altro discorso è l’individuazione dell’essenza deterministica. Ci si riferisce al cosa sia il determinismo e se questo possa essere descritto come un fattore costrittivo. Si pensi ad una malattia neurale che renda un individuo incapace di ragionare. In tal caso, la malattia è un fattore costrittivo perchè azzera la capacità di ragionare di tale individuo. Adesso si pensi ad un uomo minacciato di fare o non fare qualcosa, da un altro uomo che utilizza una pistola contro di lui. In tale caso si può affermare che l’uomo minacciato sia privo di libero arbitrio?

Potenzialmente l’uomo minacciato potrebbe non acconsentire ad alcunchè e correre il rischio di essere ferito o ucciso o di subire qualche altro male ingiusto. Si ponga il caso in cui l’uomo minacciato scelga di non opporsi alla minaccia dell’uomo armato di pistola e riesca a colpirlo disarmandolo e mettendolo in fuga. In tale esempio si può affermare che l’uomo minacciato abbia esercitato la propria capacità di autodeterminarsi, perchè libero era il suo arbitrio. Si pensi sempre allo stesso esempio ma, questa volta con effetti diversi per l’uomo minacciato, il quale si oppone e rimane ferito o ucciso. Anche in questo esempio l’uomo ha esercitato la propria capacità di scelta. Da ultimo, si pensi che l’uomo minacciato acconsenta alle minacce e faccia o non faccia quella cosa, che l’uomo armato gli ha costretto di fare o di non fare. In tal caso si dovrebbe pensare che l’uomo minacciato non abbia il libero arbitrio? Sarebbe una conclusione errata, perchè la stessa sarebbe determinata solo dagli effetti diversi prodotti dalle condizioni che si sono verificate nell’ultimo esempio. In realtà, quell’uomo ha scelto considerando più fattori e probabilmente, affrontando nella sua mente ogni possibile conseguenza a cui si è fatto riferimento nei tre esempi riportati. In questo caso, è corretto pensare all’uomo che minaccia un altro uomo, con una pistola, come un fattore costrittivo? Se si pensa che un fattore costrittivo annienti il libero arbitrio, allora la risposta dovrà essere negativa. Se invece si pensa allo stesso come un fattore deterministico, allora la risposta sarà positiva, poiché il libero arbitrio non è stato annientato. Ne consegue che non ogni fattore costrittivo è in grado di annientare il libero arbitrio e che non ogni fattore costitutivo è in grado di determinare una scelta di azione e se questo è vero, non è vero che costrizione e libero arbitrio si annullino reciprocamente. Se, infatti, più fattori deterministici interagiscono nel medesimo tempo e nelle medesime circostanze, saranno tutti fattori causali, a meno che uno di questi non assuma una forza tale da superare la forza degli altri fattori concorrenti e risultare in tal modo la sola causa. Ne consegue che il libero arbitrio non è annichilito per il solo fatto di concorrere con altri fattori deterministici16. Allo stesso tempo, è vero pure che nel caso concreto il libero arbitrio possa ritrovarsi fortemente limitato o azzerato a causa della forza indomabile di un altro fattore. In definitiva, la volontà può essere così forte da domare tutti gli altri fattori deterministici, che concorrono con essa, in un certo tempo ed in un certo contesto, così come può essere determinata dai medesimi, quando questi ultimi assumano una carica dominante.

4.     Neuroimaging e valutazione della prova dichiarativa

Nello studio del fenomeno criminale, la ricerca della verità delle dichiarazioni rilasciate dall’autore di un reato, ricopre un ruolo di grande attenzione. Già in tempi molto lontani sono state studiate e sviluppate tecniche finalizzate all’identificazione della menzogna17. Erano assai diffuse tecniche legate a credenze popolari di origine mistica e/o fatalista che, in alcuni casi, assumevano i caratteri della tortura, anch’essa spesso utilizzata per costringere i sospettati a confessare18.

Sugli sviluppi degli esperimenti di Eristrato, nel 1581 Galileo Galilei inventò il Pulsilogium19 (una scoperta importante per la misurazione del battito cardiaco avente valenza scientifica). Confermando i risultati raggiunti dal medico greco, maggiore era l’emozione avvertita, maggiore era la frequenza del battito cardiaco. Nel corso del tempo, con lo sviluppo di tecniche sempre più sofisticate e calibrate sul funzionamento del corpo umano (misurazione delle funzioni psico-fisiologiche), si è giunti all’invenzione del poligrafo20 che, è stato applicato, sin dalla sua introduzione, per rilevare la menzogna. Il poligrafo ed in genere tutti i metodi per la ricerca scientifica della menzogna, si basano sull’idea di fondo che quando un soggetto mente, avverte una certa carica emotiva (più o meno intensa). Il coinvolgimento emotivo a cui è sottoposto un soggetto che risponde mentendo è dipeso dall’impegno, dalla concentrazione necessaria, dalla resistenza psico-fisica che lo stesso deve mettere in atto, per rendere credibile la sua versione e non essere quindi scoperto21. Il problema non è tanto che tali tipi di test funzionano secondo logiche statistiche e di conseguenza non sono infallibili22, poichè l’intera scienza è fallibile e si ragiona in termini probabilistici. Il problema è tosto, nella validità dei risultati in relazione ai presupposti di partenza. Infatti, sono molti gli studi psicologici che, già a partire dagli anni ’70, hanno dimostrato che è possibile controllare la propria sfera emotiva (falso negativo), a maggior ragione quando ci si allena in tal senso23. Di converso, le reazioni emotive non sarebbero idonee per essere generalizzate, perché strettamente connesse alla sfera individuale, tale per cui un soggetto potrebbe rispondere positivamente (falso positivo) a domande pertinenti, solo per l’alto livello di ansia o emotività che appartengono alla propria personalità e che nulla hanno a che vedere con l’implicazione o meno nel caso legale trattato24. In uno Stato come l’Italia, che fonda il proprio sistema penale sulla massima garanzia della libertà personale, così come stabilito dalla Costituzione, l’ingresso di strumenti para-scientifici come il poligrafo, crea non poche perplessità e resistenze. Si pensi all’importanza dell’autodeterminazione, posta a fondamento della responsabilità penale, che può essere inficiata e compromessa dall’impiego di tecniche come quella del poligrafo. Ma le neuroscienze sono altra cosa rispetto a tali tipi di strumenti. Infatti, allo stato attuale, non sorgono dubbi sulla validità scientifica delle neuroscienze e, tra queste, sulla validità del neuroimaging. Di conseguenza, non si discute sulla loro validità processuale, intesa in termini di oggettività del metodo. Cosa diversa, è il margine di valutazione che tali tecniche assumono in relazione al tipo di esame svolto e al tipo di attività legale a cui sono funzionali. Infatti, lo stesso dato scientifico può essere ritenuto valido o meno a seconda del dato processuale che si vuole verificare. Un conto è diagnosticare una lesione cerebrale, un altro è diagnosticare la presenza di un gene particolare che può assumere rilevanza in termini di cattiva formulazione del pensiero (volontà) e dell’azione che da questo scaturisce. Si ragiona in termini di peso in relazione al grado di oggettività di un certo risultato. Ciò che risulta sottovalutato, ad avviso di chi scrive, è il funzionamento del sistema processuale stesso e con esso la funzione svolta dal giudice. Infatti, a volte ci sfugge che il processo non è mai incentrato sulla verità assoluta, ma appunto segue la logica della verità processuale (25), che a sua volta si basa sul metodo dell’inferenza (26) e sul metodo dell’induzione (27). Quando si sente parlare, soprattutto in ambito penale, della c.d. prova regina (28) (si pensi alla confessione e alla testimonianza), si commette l’errore di pensare che quella prova, sia la sola a dimostrare un certo risultato processuale. La realtà ci dimostra che non è mai così, anzi la maggior parte delle volte i processi si scardinano intorno ad una serie di prove indiziarie (29) (indizi gravi, precisi e concordanti). Questo dato non ci deve sconvolgere e certamente non vi è alcuna violazione delle regole processuali che, anzi lo ammettono. La base è abbastanza intuibile. Tornare indietro non si può e raramente si dispone di un dato che possa ricostruire perfettamente la dinamica di un caso (video-riprese) e, quando lo si dispone, non vi è alcun automatismo perché, il processo si fonda sul contraddittorio tra le parti (possibilità di contrastare una risultanza probatoria) ed inoltre ogni prova deve comunque essere valutata dal giudice (30) (analisi del caso concreto attraverso il confronto probatorio calato nel contesto di riferimento) che è libero, secondo un metodo logico-razionale-legale, nel suo convincimento (di cui darà dimostrazione attraverso la motivazione della sentenza). Per capire tale dinamica, si può fare riferimento all’annoso dibattito sul nesso di causalità (dibattito mai sopito del tutto) che sembra aver trovato un risultato solido con la pronuncia Franzese. Ecco, in tale dibattito scientifico-penalistico, si è lavorato molto sull’analisi del grado probabilistico, in relazione alla rilevanza di un certo dato nella dinamica causale di un certo evento avente rilevanza giuridica. Sul punto, vi era chi propendeva per una certezza probabilistica tendente al 100% (31) (Federico Stella su tutti) e chi, invece, avvedutosi della mancata possibilità di un simile risultato (in particolare Marcello Gallo (32)), calava il giudizio sull’analisi del caso concreto applicando i criteri razionali e logici propri della valutazione processuale che è chiamato a svolgere il giudice (credibilità logica). Per ciò che ci riguarda rilevano due dati:

– la struttura stessa del processo segue un metodo probabilistico;

– non esiste una prova che possa avere un’evidenza assoluta in generale, ma solo un’evidenza calata nel caso concreto.

Ne consegue che un certo dato o una certa tecnica o un certo sapere ,non può essere escluso a priori dal circuito processuale solo perchè non vi è una certezza oggettiva generale e quasi assoluta, perché il processo questo non lo richiede. Gli stessi criteri Daubert, ripresi dalla sentenza Cozzini, non si riferiscono al raggiungimento di un risultato assoluto, si parla di accettazione scientifica generale, ma tale dato non è rilevante se preso singolarmente, risulta valido se posto in relazione ad una particolare tecnica o scoperta, risultando avvalorati anche gli altri criteri che puntano più sul dato concreto. Ad esempio, l’analisi dei casi giudiziari legati al processo causale, in relazione a sostanze tossiche come l’amianto e l’insorgenza di malattie polmonari mortali, esprimono quanto fino ad ora esposto. Nel panorama scientifico non vi è ancora una scoperta certa sulla causa dei tumori (33), vi sono però dati statistici i quali devono essere correlati all’analisi del caso specifico nella sua interezza. Ragionando in termini di evidenza scientifica, tutti i processi legati a tale nesso, non dovrebbero nemmeno cominciare. Ma non è così. Infatti, sia la struttura che il funzionamento di tali tecniche, rispondono ai parametri propriamente scientifici, sia in termini di oggettività del metodo e sia in termini di attendibilità dei risultati. La questione, allora, si sposta sul tipo di dato che si sottopone all’analisi neuroscientifica, in relazione alle regole propriamente penali-processuali. In sostanza, bisogna capire se è vero che tali tecniche possano compromettere il libero arbitrio dell’individuo che vi è sottoposto. E’ qui che rileva il rapporto tra neuroscienze e libertà morale. Sul punto, si devono analizzare due condizioni:

-le neuroscienze operano come fattore costrittivo;

– le neuroscienze operano come fattore descrittivo.

La soluzione è presto detta. Le tecniche neuroscientifiche si pongono su un piano diverso rispetto a quello in cui opera la volontà. Infatti, le stesse possono operare in una fase che precede la formazione della volontà in ottica predittiva (dati alcuni fattori esterni e date alcune reazioni fisio-psicologiche, si possono prevedere certi risultati) (34) o in una fase concomitante/susseguente in ottica descrittiva (dati certi rilevamenti si registrano certi risultati). Ne consegue, che non ci possa essere alcuna interferenza tra tecniche neuroscientifiche e libero arbitrio (inteso come volontà).

Diverso è il ragionamento, se si pongono in relazione le tecniche neuroscientifiche con la loro capacità di influenzare la volontà umana. Tale condizione risulta certamente vera e non per questo se ne può ricavare un giudizio negativo in merito alla validità delle neuroscienze. Infatti, è la stessa interazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda a fornire la certezza che l’uomo sia continuamente sottoposto ad influenze esterne. Non è tanto il mezzo impiegato che influisce su quest’ultima, ma il modo in cui tale mezzo viene impiegato. Si pensi ad una confessione che venga rilasciata dopo un’incalzante ed estenuante interrogatorio (famoso è il caso di Amanda Knox (35)). In tale caso ed in ogni altro caso, anche la confessione deve superare il vaglio dell’attendibilità e dunque soggiace alla valutazione del giudice.

4. Conclusione

Le neuroscienze non sono in grado in astratto di poter determinare la volontà umana, possono esserlo nel caso concreto, in un certo tempo ed in un certo contesto, così come ogni altro fattore dotato di tale capacità. Questo dato, a fronte dei risultati ottenuti e dei contributi già forniti, non è più sufficiente per continuare a negare alle neuroscienze l’ingresso nel procedimento penale. Ogni fattore che si inserisce in quest’ultimo, infatti, è posto in relazione e non assurge mai ad unico parametro di valutazione.

Non è dunque scorretto prospettare un sempre maggiore impiego delle neuroscienze nel campo penale e, a fronte di quanto affrontato, tale risultato è auspicabile perchè ogni tipo di progresso scientifico che abbia gli elementi per essere definito, appunto, scientifico, può solo fornire un contributo apprezzabile. Non vi è dubbio che le tecniche neuroscientifiche possano esercitare una certa pressione nel soggetto che vi è sottoposto, ma ragionando in termini di tale effetto, ogni fattore può essere in grado di produrlo. Per tale ragione, non ha molto senso logico continuare a sviluppare giudizi aprioristici sulle neuroscienze, anzi è del tutto incoerente con la ratio stessa della funzione penalistica. Il perchè è insito nella loro funzione. Infatti, le neuroscienze possono essere impiegate per prevedere il compimento di un certo comportamento o una certa azione e/o possono rivelare la causa di un certo comportamento o una certa azione già commessa. Sul punto è bene ricordare, che si procede sempre in termini di probabilità e che non si è in grado ancora di pervenire ad una certezza assoluta e non si sa se mai la si otterrà e tale dato non è un difetto delle neuroscienze, ma è una condizione che insita nella conoscenza umana, sia essa puramente scientifica, che giuridica. Tanto basta a non differenziare i risultati raggiunti da tali tecniche, rispetto a quelli ottenibili dall’impiego di mezzi scientifici classici.

Note

1 Rothacker E., Uomo tra dogma e storia. Non è tutto relativo, pag. 105, Armando Editore, 2009 (sull’incapacità assolutistica dell’oggettivismo scientifico.

2 Sono tesi per lo più basate sull’idealismo puro. L’uomo è libero in assoluto perché lo è lo spirito di cui esso è formato e che trascende il corpo (la meccanica). Mondin B., Vol. 96, No. 1, L’incontro con Dio: Gli ostacoli odierni: materialismo ed edonismo, Edizioni Studio Domenicano, 1993, pp. 155-169; Cfr. Principe S., Fichte. La condizionalità estetica della filosofia trascendentale, Diogene Edizioni, 10.10.2013, pag.102 ss; Granata G., Fichte, Schelling, Hegel, Alpha Test, 2005.

3 Monzani M., Benatti F., Criminologia, psicologia investigativa e psicopedagogia forense, pag.48, libreriauniversitaria.it, 2015, sul concetto di anomia.

4 Berdjaev N., Schiavitù e libertà dell’uomo, Bompiani, 2010

5 Della Casa A., L’equilibrio liberale storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin, Guida, 2014; Della Casa A., Isaiah Berlin, Rubbettino Editore, 10.04.2018;

Maimone V., La società incerta, liberalismo, individui e istituzioni nell’era del pluralismo, Rubbettino, 2002

6 Bobbio N., L’età dei diritti, Einaudi, 14.01.2014; Politi F., Libertà costituzionali e diritti fondamentali, Giappichelli, 2016; Redazioni S., La convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Edizioni Giuridiche Simone, 2009.

7 Rum A. L., Per la Corte Costituzionale, la misura della quarantena obbligatoria è istituto che limita la libertà di circolazione e non la libertà personale, riv. Il diritto amministrativo, n. 3, 09.2023, www.ildirittoamministrativo.it, consultato in data 19.03.2023.

8 Art. 52 c.p. Legittima difesa, art.54 c.p., Stato di necessità, tutte su www.brocardi.it

9 Schiavi M. Ciobanu V., Stato e società nella crisi del moderno. Una riflessione sui classici della teoria politica da Thomas Hobbes a Hannah Arendt, Centro Studi Campostrini, 2007

10 Sciascia P., La dottrina della volontà nella psicologia inglese, dall’Hobbes fino ai tempi nostri studio storico-critico, Tip. dir. da G. Spinato, dig. 15.01.2009, pubb. 1895, sulla contrapposizione tra volontà deterministica e determinismo puro, pag. 73

11 Concezione sviluppata dall’autore di questo libro.

12 De Caro M., Lavazza A., Sartori G., Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il libero arbitrio, Codice edizioni, Torino, 2010. La gran parte degli autori che partecipano oggi al dibattito, tuttavia, concorda nel ritenere che il libero arbitrio presupponga    due condizioni: che all’agente si prospettino diversi corsi d’azione alternativi e che la scelta tra tali corsi non avvenga casualmente (non sia cioè il prodotto di fattori fuori dal controllo dell’agente), ma dipenda da una sua autonoma e razionale determinazione.

13 Lusa V., Pecora B., Dissertazioni criminologiche nell’Italia pre e post unitaria, Aspetti teorici e pratici e loro valenza nel processo penale, Key Editore, 2005, sullo sviluppo della criminologia come scienza, il pensiero illuminista e la pena come retribuzione secondo la scuola classica, sul fondamento del libero arbitrio.

14 www.brocardi.it, Rubricato capacità di intendere e di volere.

15 D’Agostino F., Autodeterminazione. Un diritto di spessore costituzionale? Atti del Convegno nazionale dell’U.C.C.I. (Pavia, 5-7 dicembre 2009), Giuffrè, 2012.

16 Merzagora Betsos I., De Servo arbitrio, ovvero: le neuroscienze ci libereranno dal pesante fardello della libertà?, Rassegna Italiana di Criminologia – 1/2011.

17 Palma A.,U., Le “prove di verità” e la libertà morale del dichiarante, in Archivio Penale, 2020, n.1, pp.9 ss., sulle tecniche impiegate per rilevare la menzogna, https://archiviopenale.it/File/D, consultato in data 17.04.2023.

18 Bianchi A., Gulotta G., Sartori G., Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, 2009, pp. 235 ss., sull’utilizzo della tortura come strumento investigativo e come pena; Cassese A., I diritti umani oggi, Editori Laterza, 1.09.2015; Luparia L., Marchetti P., Selvaggi N., Confessione, liturgie della verità e macchine sanzionatorie. Scritti raccolti in occasione del Seminario di studio sulle ‘Lezioni di Lovanio’ di Michel Foucault, Giappichelli, 21.05.2015; Scott G.R., Storia della tortura, Mondadori, 25.07.2017.

19 Righini Bonelli M.L., Vita di Galileo, Nardini: centro internazionale del libro, 1974, pag. 42.

20 Andreoli A., Identità alla prova la controversa storia del test del DNA tra crimini, misteri e battaglie legali, Sironi, 2009, pag. 39; De Ceglia F.P., Dibattista L., Il bello della scienza, intersezioni tra storia, scienza e arte, Franco Angeli, 2013, pag. 48.

21 Profeti M.G., La menzogna, Alinea, 2008, pp. 512 ss. Sulle attività cognitive poste in essere nell’azione del mentire.

22 Garofano L., Pensieri M.G., La falsa giustizia, La genesi degli errori giudiziari e come prevenirli, Infinito Edizioni, 18.06.2019, sugli errori nelle tecniche di indagine e durante le interviste.

23 Caso L., Vrij A., L’interrogatorio giudiziario e l’intervista investigativa. Metodi e tecniche di conduzione, Il Mulino, 2009, sull’intervista giudiziaria in genere; De Cataldo Neuburger L., Gullotta G., Trattato della menzogna e dell’inganno, Giuffrè, 1996, pp.244 ss.; Pais S., Perrotta G., L’Indagine Investigativa. Manuale Teorico-Pratico, Primiceri Editore, 2015, pag. 348, sull’intervista in sede di interrogatorio.

24 Rivista di diritto processuale penale, Vol.n.3, A. Giuffrè, 1956, pp. 205 ss. Sulle problematiche in ordine all’attendibilità di tali tipi di test in relazione alla sfera emotiva del soggetto esaminato.

25 Incampo A., Garofoli V., Verità e processo penale, Giuffrè, 2012; Parpaglia P.P., Verità processuale, Edizioni La Zattera, 2015; Tuzet G., Filosofia della prova giuridica, Giappichelli, 2016.

26 Conte M., Gemelli M., Licata F., Le prove penali, Giuffrè, 2011, pag. 354; Ferrua P., La prova nel processo penale.Volume 1, G. Giappichelli, 2015, pag. 78; Pascali V., Causalità ed inferenza nel diritto e nella prassi giuridica, Giuffrè, 2011.

27 Fallone A., Il processo aperto, il principio di falsificazione oltre ogni ragionevole dubbio nel processo penale · Numero 60, Giuffrè, 2012, pag. 22; Traversi A., La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, Giuffrè, 2009, pag. 80.

28 Angeletti R., Le invalidità nel processo penale, G. Giappichelli editore, 2017, pag. 319; Carlizzi G., Tuzet G., La prova scientifica nel processo penale, Giappichelli, 11.12.2018, pag. 65; De Cataldo Neuburger L., La prova scientifica nel processo penale, CEDAM, 2017, pag. 35.

29 Belloni E., La prova indiziaria nel processo penale italiano, C. dell’Avo, pubb.1902, dig. 22.02.2008; Naimoli C., Principio di falsificazione tra prova indiziaria e prova scientifica riflessioni sul caso Garlasco e M. Kercher, Pacini Giuridica, 2017; Riziero A., Il processo indiziario, Giappichelli, 4.03. 2021; Russo V., Abet A., La prova indiziaria e il «giusto processo». L’art. 192 c.p.p. e la legge 63/2001, Jovene, 2001.

30 Carcaterra G., Presupposti e strumenti della scienza giuridica, Giappichelli, 2012, pp. 245ss.; Daniele M., Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, G. Giappichelli, 2009; Deganello M., I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, Giappichelli, 2005.

31 Canzio G., Donati L.L., Prova scientifica e processo penale, Cedam, 17.05.2022; Gianti D., Monateri P. G., Balestrieri M., Causazione e giustificazione del danno, Giappichelli, 2016, pp. 98ss., sulla teoria di Federico Stella inerente al grado di probabilità accettabile per provare il nesso causale; Guerrieri T., Studi monografici di diritto penale. Percorsi ragionati sulle problematiche di maggiore attualità, Halley, 2007, pp.85 ss.

32 Bartoli R., Il problema della causalità penale, dai modelli unitari al modello differenziato, Giappichelli, 2010, sul confronto delle teorie probalistiche; Gallo I.M., Diritto penale italiano. Appunti di parte generale. Volume primo, Giappichelli, 2014.

33 Sui casi giudiziari che hanno comportato il confronto tra l’incertezza scientifica e la necessità di addivenire ad una decisione razionale e giusta in ambito processuale, in particolare, l’esposizione a sostanze tossiche, morte e nesso di causalità in relazione alla responsabilità penale, Bettin G., Dianese M., Petrolkiller, Feltrinelli, 2002 e Casson F., La fabbrica dei veleni, Sperling & Kupfer, 2007.

34 Libet B., et al., «Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (Readiness-Potential). The unconscious initiation of a freely voluntary act», in Brain, 106, 1983, pp. 623-642. Sono celebri le ricerche condotte da Benjamin Libet, lo scienziato che per primo applicò metodi di indagine neurofisiologica per studiare la relazione tra l’attività cerebrale e l’intenzione cosciente di eseguire un determinato movimento volontario. Nei suoi esperimenti, Libet invitava i partecipanti a muovere, quando avessero voluto, il polso della mano destra e, contemporaneamente, a riferire il momento preciso in cui avevano avuto l’impressione di aver deciso di avviare il movimento: l’obiettivo era infatti quello di indagare il rapporto tra la consapevolezza dell’inizio di un atto e la dinamica neurofisiologica sottostante. Cit. De Caro M., in www.incircolorivistafilosofica.it/wp-content/uploads/2017/12/Sulla-presunta-illusorietà-del-libero- arbitrio-De-Caro.pdf.

35 Bruzzone R., Magrin V., Delitti allo specchio. I casi di Perugia e Garlasco a confronto oltre ogni ragionevole dubbio, StreetLib, 31.08.2017.

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1. Introduzione

La surrogazione di maternità è una pratica procreativa in virtù della quale una donna si impegna a portare avanti una gestazione per conto di una coppia committente e a consegnare, dopo il parto, il bambino a tale coppia. Può essere realizzata sia con l’interazione dei gameti femminili e/o maschili della coppia committente, poi impiantati nell’utero della gestante, sia con il ricorso alla donazione dei gameti da parte di soggetti terzi (maternità surrogata totale), sia con l’apporto dei gameti da parte della stessa gestante. La molteplicità fattuale, appena evidenziata, comporta sul piano giuridico diverse problematiche legate alla rilevanza dei legami genetici e sociali tra i soggetti che prendono parte attiva alla stessa, anche in relazione alla tutela  del nascituro. Sul punto, assume un ruolo centrale il bilanciamento tra il favor veritatis e la situazione giuridica sostanziale, il c.d. rapporto di fatto. In sostanza, ci si chiede se debba prevalere la situazione di fatto instauratesi e con essa i legami concreti o il legame biologico.

Partendo dal presupposto che, ad oggi, la verità biologica non è intesa in senso assoluto e preponderante, tanto che si preferisce parlare di più verità, conformemente alle diverse situazioni giuridiche sostanziali che si possono concretizzare, l’elemento discriminante non può più essere rintracciato sul piano astratto/normativo, anche in considerazione del divieto e forse soprattutto per questo. Infatti, la causa delle incertezze interpretative è legata, maggiormente, all’assenza di una normativa che vada a regolare direttamente gli effetti prodotti dal ricorso alla maternità surrogata, proprio perchè il divieto della pratica non ne è improduttivo. Sul piano civilistico, si potrebbe parlare di nullità per contrarietà alla legge o all’ordine pubblico, nullità dell’oggetto perchè illecito e contrario all’ordine pubblico, ma tali categorie non risultano idonee considerati i valori e gli interessi che interagiscono. Proprio la valenza dei diritti fondamentali costituisce la ratio per la quale la contrarietà della pratica all’ordine pubblico non può determinare la nullità degli effetti ex tunc, perchè non si può ripristinare alcunchè. La classica struttura contrattuale, e con essa i suoi rimedi, non possono essere applicati nella regolamentazione dei rapporti derivanti da maternità surrogata. Ne consegue che si parte da quanto costituito in atto estero e ci si ferma alla situazione di fatto generatesi sul piano interno ed è da quest’ultima che bisogna ricavarne la tutela.

Nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea la maternità surrogata risulta vietata (Italia, Francia, Germania e Spagna) o non vi è alcuna norma che la regoli (Paesi Bassi, Irlanda, Belgio). Il Regno Unito e il Portogallo sono parzialmente aperti alla medesima, il primo riconoscendola lecita solo per i cittadini britannici e solo a titolo gratuito, mentre il secondo riconoscendola alle sole coppie eterosessuali con esigenze mediche e solo a titolo gratuito.

Risulta consentita anche, a pagamento, in Russia e in Ucraina[1].

Il divieto di ricorrere alla maternità surrogata si giustifica, in primo luogo, in ordine alla tutela della dignità della donna ma, dietro a tale principio, forse, si celano altri orpigli. In particolare, ci si chiede se il fatto che in tutti i Paesi in cui la maternità surrogata è vietata, sia preponderante la professione della religione cattolica, mentre i Paesi che aprono parzialmente alla stessa e quelli in cui la pratica sia del tutto lecita, siano caratterizzati dalla diffusione di altre fedi religiose, sia solo una strana coincidenza o se tale fattore sia invece determinante in ordine alle scelte politiche effettuate su questa tematica.

Che il diritto sia il riflesso dei valori sociali generalmente condivisi è un fatto noto e connaturato allo stesso ma, quando l’etica plasma la coscienza giuridica, si crea una pericolosa distonia tra la natura e la funzione dell’ordinamento giuridico. In altre parole, sebbene il diritto sia caratterizzato anche da valori etici, la sua funzione, invece, dovrebbe realizzarsi in modo neutrale al fine di garantire l’oggettività, posta a tutela dell’imparzialità della giustizia nel caso concreto. Se poi ci si riferisce al sistema penale, tale discorso si amplifica e si complica. La tutela della libertà personale, infatti, non ammette giudizi di valore, tanto meno se risultano eticamente caratterizzati, perchè qualsiasi giudizio, orientato in tal senso, finirebbe per violare non solo la funzione del diritto penale ma anche la sua stessa natura.

L’impronta etica del divieto di maternità surrogata la si può rilevare proprio dal divieto penale. Infatti, dall’analisi sistematica della fattispecie penale, in combinato all’applicazione pratica della medesima, si evince un gap che solo eticamente può essere giustificato. Ci si riferisce al principio di offensività in concreto, in combinato al diritto fondamentale dell’autodeterminazione, interpretati considerando il dato storico-sociale e al difetto di determinatezza della fattispecie, indice della scarsa, se non assente, applicazione in concreto della medesima.

Da una parte, vi è il dato storico-sociale delle coppie che scelgono di andare all’estero per ricorrere alla maternità surrogata, dall’altra, vi sono le problematiche normo-strutturali poc’anzi evidenziate. Nonostante questi fattori, le forze politiche sembrano non prendere in considerazione alcun tipo di apertura nei confronti della pratica. Al contrario, il contemporaneo dibattito politico è incentrato sulla riforma in peius, al fine si di ridurre l’incertezza applicativa, ma pur sempre orientata a rafforzarne il divieto. Tale avversione, come anticipato, si basa sulla tutela della dignità della donna, così come affermato dalle Corti più autorevoli. La maternità surrogata violerebbe la dignità della donna perchè quest’ultima sarebbe un oggetto alla mercè dei desideri altrui. Una simile conclusione è comprensibile se è il frutto di scelte normative basate sulla tradizione culturale interna. Giacchè le Corti non possono stabilire giudizi di valore, questi appartengono necessariamente al legislatore, il quale dovrebbe rappresentare l’acquis popolare. Sul punto sorgono però molti problemi, alcuni di natura valoriale, altri strettamente giuridici. Sul piano dei valori vengono in gioco scelte che incidono sulla sfera intima e familiare degli individui e tanto basta per porre dei limiti al potere legislativo. Lo Stato, infatti, non svolge più una funzione paternalistica, anzi è chiamato a garantire la realizzazione dell’espressione personale senza alcuna distinzione (artt. 2 e 3 Cost.). La risposta a tale appunto è stata fornita dalla giurisprudenza, quando ha indicato l’adozione in casi particolari come un’alternativa. Quando si parla di valori, infatti, non è la maternità surrogata che funge da parametro, ma il diritto alla genitorialità, intesa sia come diritto dei genitori che come diritto dei figli. Essendo la genitorialità ormai sganciata dalla sua radice terminologica (gene-trasmissione genetica), il mezzo per realizzarla non assume alcuna rilevanza in astratto. Ma tale modo di ragionare, come recentemente messo in luce dalla Corte Costituzionale, costituisce una scelta a rime obbligate, in ottica di assicurare la tutela del minore e dunque è un modo per trovare la migliore soluzione disponibile nel caso concreto. Niente di tutto questo ha a che vedere con la problematica della maternità surrogata. Risulta, infatti, considerando il contesto sociale attuale troppo lassista il giudizio ancorato alla semplice formula, è vietata perchè mina la dignità della donna, in quanto la rende una merce di scambio. Un giudizio altamente formalistico e moralizzante, se non accompagnato dalla realtà fattuale. In altri termini, tale contributo aspira anche a verificare quanta realtà concreta vi sia nel divieto e quanta propaganda moralizzante, invece, vi si celi.

2. Il divieto di maternità surrogata e la dignità della gestante

In Italia, come noto, la maternità surrogata[2] (gestazione per altri) è espressamente vietata[3] e punita penalmente dall’art. 12, comma 6, ex l.n. 40/2004 (lo stesso articolo, al comma 1 prevede anche l’applicazione di una sanzione amministrativa per l’utilizzazione di gameti estranei alla coppia, che a seguito della pronuncia della Corte Cost. 162/2014, ad oggi si riferisce alla sola pratica della maternità surrogata). Il divieto penale, trova la sua ratio nella tutela della dignità della donna[4], “la maternità surrogata offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”, costituendo, in tal senso, espressione del principio di ordine pubblico[5] (Corte Cost[6]. sent. 162/2014, Cass. sent. n.12962/ 2016[7], Cass. sent. n.12193 del 2019[8], Corte Costituzionale n. 272 del 2017[9], nonché l’ordinanza interlocutoria della Cassazione Civile, n.8325 del 29 aprile 2020[10]).

La dignità della donna, tutelata dagli artt.1 Carta di Nizza, 2 Cost. e 5 c.c., viene intesa in senso oggettivo, per cui lo Stato si erge a garante della sua tutela, non assumendo la sfera dell’autonomia individuale, di fatto, alcuna rilevanza. Come noto, l’art. 5 c.c. stabilisce che non sono ammessi atti di disposizione del corpo quando questi siano lesivi, in modo permanente, dell’integrità psicofisica personale o contrari alla legge, al buon costume e all’ordine pubblico. La disposizione dell’art. 12 della legge 40/2004, sancendo il divieto di tale pratica dal momento che secondo l’id plerumque accidit non ne derivano lesioni psico-fisiche, si allinea sia al riferimento della contrarietà alla legge, che alla violazione del principio di ordine pubblico. Ne consegue che, nell’ordinamento interno il divieto di maternità surrogata è legittimato dalla disposizione legislativa sopra richiamata, mentre nei rapporti extra-statali, applicando le norme di diritto internazionale privato, si giustifica per la violazione del principio di ordine pubblico[11]. Infatti, come già accennato, tale pratica è a questo contraria in quanto mina la dignità della donna e le relazioni personali, perchè si ritiene che il corpo della donna venga mercificato a discapito della reale volontà della medesima che, sarebbe determinata[12], in tal senso, da prospettive di guadagno. Inoltre, si ritiene che la maternità surrogata offenda la ratio dell’istituto dell’adozione internazionale eludendone, di fatto, la funzione. Invero, le possibilità che si verifichino, in concreto, simili condizioni non sono remote. Si pensi al problema della tratta degli esseri umani e alla vendita degli organi, maggiormente diffusi nei Paesi sotto-sviluppati. A tal proposito, però, ci si deve chiedere se il pericolo che dalla pratica della maternità surrogata possano generarsi attività di sfruttamento e mercificazione delle donne, a fronte del bilanciamento con il principio di autodeterminazione delle medesime, non possa, in realtà, essere risolto dall’introduzione di misure diverse (preventive e di controllo) e da previsioni normative che vadano a regolare tale pratica non in astratto sic et simpliciter, ma graduando la tutela nel caso concreto. Inoltre, ci si deve interrogare se il divieto di ordine pubblico sia realmente coerente con la tutela alla dignità personale o se quest’ultima, appartenendo alla sfera individuale, non abbia, invece, significati diversi. Ci si riferisce al principio personalistico, al principio/diritto dell’autodeterminazione e alla possibilità, recentemente in auge in dottrina, di differenziare tali pratiche, in base alla gratuità o meno delle medesime[13], pur nella consapevolezza che nell’ordinamento interno, come più volte enunciato dalla Corte Costituzionale, non  vi sia alcuna apertura sul punto, dal momento che il divieto penale si fonda sull’offesa alla dignità della donna tout court, prescindendo dalla gratuità o meno della pratica. Invero, sul punto si potrebbe riprendere la disposizione stessa del comma 6 dell’art. 12 l. 40/2004, nella parte precettiva: “Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di  embrioni  o  la  surrogazione  di maternità…” effettuando un’operazione ermeneutica rivolta ad applicare il principio del favor rei, valorizzando la finalità della commercializzazione che, può essere ricondotta anche alla maternità surrogata. Infatti, la fattispecie potrebbe essere interpretata seguendo proprio la lettera della legge, la quale, punisce chiunque realizza, organizza o pubblicizza, non la donazione, il trattamento, lo scambio dei gameti/embrioni o la surrogazione di maternità tout court, ma la commercializzazione degli stessi, compresa la maternità surrogata. Tale interpretazione, ad avviso di chi scrive, appare suffragata dalla volontà, expressis verbis, di non perseguire penalmente l’utilizzazione, a fini procreativi, di gameti/embrioni estranei alla coppia, prevedendo, infatti, al comma 1 della stessa disposizione l’applicazione di una sanzione amministrativa. A fronte della pronuncia della Corte Cost. n. 162/2014, tale comma è stato ritenuto incostituzionale solo in riferimento alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, permanendo invece in relazione alla maternità surrogata. Proprio la vigenza di tale disposizione, ci consente di avvalorare l’interpretazione favorevole sopra richiamata. Infatti, prevedere l’applicazione sia della sanzione amministrativa, sia della sanzione penale per lo stesso fatto comporterebbe, non solo un eccesso di tutela in violazione del principio di proporzionalità della pena, ma anche la manipolazione della ratio legis, rivolta a graduare l’intervento punitivo sulla base del grado di offensività della condotta. La stessa ratio è stata recentemente seguita dalla Corte Costituzionale, sentenza n. 149, depositata il 16 giugno 2022, in materia di doppia punibilità, amministrativa e penale, stabilendo che la sanzione amministrativa blocca, per gli stessi fatti, l’applicazione della sanzione penale. E’ pur vero, come già espresso, che la stessa Corte Costituzionale considera il divieto della pratica in senso assoluto, ma non per questo (stante la non vincolatività del precedente) non si può, invece, avvalorare l’interpretazione più favorevole che aggancia il divieto alla sola onerosità della stessa.

Ancora, si deve riflettere sull’incoerenza normativa perchè a fronte del divieto penale non si riscontra una disciplina conforme in materia civile, proprio perchè vi è la generale consapevolezza che una volta che si è violato il divieto, comunque si instaurano dei rapporti che assumono rilevanza e non potrebbe essere diversamente, dal momento che si è in materia di diritti personalissimi. Non da ultimo, il divieto penale appare in distonia con l’animus del corpo sociale il quale, anzi sembra andare nella direzione opposta, a riprova dell’effetto moralizzante che contraddistingue tale fattispecie e che si pone in contrasto con la neutralità che, invece, dovrebbe caratterizzarlo.

Le dinamiche appena evidenziate non si presentano come elementi di novità nel sistema ordinamentale. Si pensi alla tematica della prostituzione, ritenuta reato fino all’introduzione della legge Merlin (n.75/1958), considerata  lesiva della dignità della donna anche quando quest’ultima non avesse subito alcun tipo di sfruttamento. Nell’impostazione precedente alla legge citata poc’anzi, la tutela penale era orientata in senso pubblicistico[14], non assumendo l’autodeterminazione della donna alcuna rilevanza. L’abrogazione del reato di prostituzione trova la sua ratio proprio su una diversa interpretazione del principio di dignità, il quale assume carattere individualistico, venendo interpretato alla luce della libera capacità della donna di autodeterminarsi. Ciò che resta penalmente punito è, infatti, il favoreggiamento o lo sfruttamento della prostituzione perchè rileva la condotta di un terzo che trae profitto dall’attività sessuale praticata dalla donna, che solo in simili casi è privata della propria capacità di autodeterminarsi. Ancora, si prenda come riferimento la pratica dell’aborto, un tempo vietata in modo assoluto perchè si riconosceva rilevanza alla tutela dell’embrione e non alla libera volontà della madre di determinarsi in merito alla scelta di condurre o meno la gravidanza[15]. Di fatto, a fronte del divieto, si sono registrati molti casi di aborti clandenstini[16] che, in quanto tali, ponevano in serio pericolo la vita della donna che vi si sottoponeva. Tale dato, letto in relazione ad un’interpretazione orientata a dare rilievo all’autodeterminazione della donna, anche in ordine alla sua tutela psico-fisica (art. 32 Cost.), ha condotto all’introduzione della legge n.194/1978, incentrata sul bilanciamento tra il diritto di nascere del figlio trascorsi tre mesi dalla gestazione (comunque recessivo rispetto al diritto alla salute della donna) e il diritto della donna di scegliere se condurre o meno la gravidanza esercitabile liberamente entro 90 giorni dall’inizio della gestazione (non può essere una mera coincidenza, che a fronte della legalizzazione dell’aborto, il numero degli aborti praticati sia diminuito).

Come una specie di deja vu, il divieto di maternità surrogata sta facendo registrare dati e problematiche simili ai casi sopra menzionati. Infatti, a fronte del notevole ricorso a tale pratica nei Paesi esteri dove questa è ammessa (turismo procreativo), emerge di fatto e come sollevato recentemente dalla Corte Costituzionale un assetto normativo poco coerente con il mutato contesto sociale. Sul punto, bisogna precisare che ci si riferisce, in particolar modo, alla tutela del figlio nato attraverso tali pratiche vietate e non alle pratiche in se, in relazione alle problematiche socio-giuridiche che possono derivare dal ricorso alle stesse. Si pensi ai casi di scambio di embrioni[17], alla possibilità che la donna gestante (anche in assenza di legame biologico con il nato) muti opinione e decida di crescere il bambino che ha generato, alla possibilità che i genitori committenti, una volta rientrati in Italia vengano sottoposti a procedimento penale e alle conseguenze sanzionatorie a questo connesse (sebbene, per motivi che saranno sviluppati successivamente, ad oggi non risultano procedimenti penale che abbiano fatto applicazione della fattispecie ex art.12 c. 6 legge 40/2004). Nella possibilità che si verifichino tali problematiche, in assenza di una normativa specifica sul punto, come ci si deve orientare? Quali interessi prevalgono? A fronte del divieto di maternità surrogata, è possibile procedere al riconoscimento dello stato di figlio acquisito all’estero? E’ possibile riconoscere rilevanza giuridica al rapporto genitoriale instauratosi in concreto? E se la gestante, contrariamente all’impegno preso, volesse anch’essa far parte del nucleo familiare[18]?

Fino a questo momento, per risolvere le problematiche legate al riconoscimento dello status filiationis da gestazione per altri (praticate all’estero), si è fatto ricorso al bilanciamento tra il principio di ordine pubblico e l’interesse del minore a non subire le conseguenze negative di scelte effettuate dai genitori e, dunque, il suo diritto a conservare lo status acquisito in relazione al rapporto familiare instaurato e al fascio dei diritti che ne discendono (responsabilità genitoriale, rapporti parentali, diritti successori)[19]. Un lavoro interpretativo giurisprudenziale finalizzato alla tutela del minore, senza alcuna apertura, dato il divieto espresso per legge nei confronti della su detta pratica. In merito alle altre problematiche evidenziate regna l’incertezza interpretativa.

Si è consapevoli che un intervento del legislatore diretto a legalizzare la maternità surrogata, soprattutto in tale periodo storico (recentemente è stata approvata dalla Camera, la proposta di punire penalmente anche i genitori committenti, cittadini italiani, che si rivolgono a strutture estere per accedere alla pratica della maternità surrogata) può sembrare utopico[20]. Ma che attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata del principio di dignità[21], non si possa recuperare anche il senso solidaristico di una donna che liberamente scelga di aiutare un’altra donna, contribuendo a realizzare il suo progetto familiare?

E da tale interpretazione sistematica, giungere, in via giurisprudenziale, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale del divieto tout court per contrarietà al diritto di autodeterminazione della donna ex artt. 2, 3,e 117 (violazione art. 8 CEDU) Cost., ad una parziale apertura sul punto[22]?

Del resto, il diritto è l’espressione dell’animus sociale e perciò soggetto al cambiamento, così come l’interpretazione delle norme (si pensi al revirement della Corte Costituzionale sull’istituto dell’adozione in casi particolari, sulla procreazione eterologa anche praticata da due donne). Senza tralasciare il dato storico, il quale riflette la non estraneità di tale pratica nella coscienza individuale e sociale. La maternità surrogata, infatti, in passato, veniva liberamente e ampiamente praticata a scopi solidaristici, soprattutto all’interno dello stesso nucleo parentale. Un dato che pone in evidenza l’adesione popolare ideologica e valoriale nei confronti della stessa.

3. Interesse del minore, strumenti di tutela

L’interesse del minore a conservare lo status di figlio acquisito alla nascita, come più volte enunciato, sia dalla Cassazione, che dalla Corte Costituzionale, sulla scia delle pronunce della Corte Edu (su tutti Mennesson e Labassee)[23] è prevalente rispetto alla tutela del principio di ordine pubblico, ma non è assoluto dovendosi procedere, in ogni caso, alla valutazione della situazione giuridica in concreto. E’ contestuale alla scrittura di questo testo, la pronuncia della Corte EDU[24] che ha condannato l’Italia per non aver riconosciuto il rapporto genitoriale tra il padre biologico e una bambina nata nel 2019 a seguito di maternità surrogata, proprio in ottica della tutela di quest’ultima, praticamente costretta a vivere senza un’identità. La violazione della vita privata e familiare subita dalla bambina viene riconosciuta dalla Corte EDU in riferimento al solo rapporto tra quest’ultima e il padre biologico, non pronunciandosi, in tal senso, nei confronti del genitore intenzionale, sul presupposto che avrebbe potuto agire tramite il ricorso all’adozione in casi particolari.

Anche a seguito delle numerose pronunce della Corte EDU, è cosa certa che il bilanciamento tra il principio di ordine pubblico e la tutela del nato da maternità surrogata, non può concretizzarsi in una soluzione che non assicuri la piena tutela di quest’ultimo[25]. Proprio in relazione alla piena tutela del minore, che nel diritto interno ha trovato parziale soluzione tramite il ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari (ex art 44 c.1-non legittimante), è intervenuta di recente la Corte Costituzionale, la quale, ne ha, invece, dichiarato l’inidoneità sul presupposto logico-giuridico che, non prevedendo lo stato di abbandono, è subordinata al consenso del genitore biologico, il quale potrebbe venire a  mancare. In tal modo, si vanificherebbe la possibilità per il genitore di intenzione di riconoscere il proprio rapporto genitoriale. L’instabilità e l’incertezza generata dall’adozione in casi particolari, quindi, determina la non idoneità della stessa ad assicurare la miglior tutela del minore, in relazione alla certezza del diritto e al suo interesse a conservare lo status acquisito e, con esso, il fascio dei diritti che ne derivano: responsabilità genitoriale, rapporti di parentela, diritti successori.

Per quanto espresso, la Corte Costituzionale ha prima lanciato un monito al legislatore al fine di intervenire per apportare misure normative risolutive sul punto e poi, a seguito dell’inerzia legislativa, si è pronunciata nuovamente sulla questione, dichiarando l’illegittimità dell’ art. 55 della legge 4 maggio 1983, n.184, nella parte in cui non consente di creare rapporti civili tra adottato e parenti dell’adottante[26].

L’intervento del legislatore, a ben vedere, non è auspicato solo in relazione alla tutela del nato, ma lo si richiede anche per regolamentare in maniera organica e risolutiva l’intera materia. A fronte della realizzazione della pratica all’estero, di fatto e normativamente, il divieto interno viene eluso e questo fattore rileva non tanto per quanto realizzato, quanto tosto per gli effetti che ne discendono. Infatti, a fronte della liceità della pratica realizzata all’estero, ne deriva la formazione di un nucleo familiare e l’interazione tra i soggetti coinvolti. Come già affermato in precedenza, le difficoltà sono di natura interpretativa, dipese proprio dal divieto e dalla contestuale non regolamentazione della materia sul piano degli effetti civili, a fronte della situazione giuridica fattuale che, invece, si crea. Si pensi al caso in cui la gestante, contrariamente all’accordo preso, muti opinione e voglia tenere con se il bambino che ha generato, nella duplice condizione in cui ha partecipato anche con l’apporto dei propri gameti o al contrario quando non ha trasmesso gli stessi. La soluzione più facile sarebbe quella di basarsi sull’irrevocabilità dell’accordo raggiunto, al fine di cristallizzare gli effetti a tutela della certezza del diritto e della stabilità dei rapporti. La nota dolente è che, in teoria, quanto realizzato all’estero non potrebbe spiegare effetto in Italia proprio a causa del divieto di ordine pubblico. Non avendo efficacia l’accordo, in una simile condizione come ci si dovrebbe regolare? Prevale il legame biologico o il progetto genitoriale? Prevale la volontà della gestante in quanto partoriente o la volontà dei committenti? Prevale il legame biologico o il rapporto di fatto?

Fino a quando le scelte si formano sul piano consensuale rispettando il decisum non sorgono problematiche rilevanti. Sono i possibili contrasti tra i soggetti coinvolti a palesare un bisogno di regolamentazione, al fine di assicurare la miglior tutela della situazione giuridica verificatesi.

In attesa di un intervento del legislatore che vada a riorganizzare la normativa in materia, in dottrina, nell’ottica di superare il deficit di tutela e avendo come scopo la tutela del nato, in relazione al rapporto genitoriale instauratosi, si sono sviluppate alcune tesi, tutte basate sull’interpretazione estensiva favorevole delle norme presenti. Ad esempio, c’è chi ritiene che ci si debba basare sull’istituto della responsabilità genitoriale, traendo dal fascio dei diritti e doveri a questa riconnessi, la legittimazione giuridica a rivendicare il riconoscimento del rapporto genitoriale[27].

Chi, invece, rinviene uno strumento di tutela nella disposizione dell’art. 279 c.c. che disciplina l’azione per l’esercizio della responsabilità per il mantenimento e l’educazione, la quale può essere esercitata in relazione a tutti i figli nati fuori dal matrimonio (e dunque anche ai c.d. figli irriconoscibili), ex artt. 30 Cost. e 315 c.c. (principio dell’unicità dello status filiationis[28]) e non prevede il consenso del genitore biologico (è prevista l’autorizzazione del giudice volta a vagliare l’interesse del minore). In tal modo, si supererebbe l’impasse generato dall’applicazione della disposizione sull’adozione in casi particolari e si potrebbe ottenere, in via incidentale, l’accertamento del rapporto di genitorialità di fatto instaurato, eludendo le problematiche riconnesse al riconoscimento formale dello status filiationis[29]. Da ultimo, c’è chi continua a non ritenere possibile la via del riconoscimento, prospettando come unico strumento l’istituto dell’adozione in casi particolari (soluzione avallata dalla già richiamata sentenza della Cassazione del 2022).

A parer di chi scrive, tali ipotesi, sebbene abbiano il pregio di offrire alternative logiche e normativamente centrate, peccano tutte del requisito dell’effettività della tutela. Tralasciando il riferimento all’adozione in casi particolari, in quanto si condivide l’analisi e la conclusione elaborata dalla Corte Costituzionale, il ricorso all’istituto della responsabilità genitoriale e all’azione per l’esercizio della responsabilità per il mantenimento e l’educazione dipendendo dall’interpretazione giurisprudenziale, non offrono la garanzia che al minore venga assicurata quella tutela effettiva che, invece, si richiede, in considerazione alle problematiche che in tal senso si intendono evitare: l’incertezza e l’instabilità. Infatti, il riconoscimento della responsabilità genitoriale esercitata di fatto sicuramente si presta ad essere un rimedio valido per l’accertamento e il riconoscimento del rapporto genitoriale instauratosi tra il genitore di intenzione e il figlio, soprattutto a vantaggio del primo, ma non riesce ad offrire la medesima garanzia di tutela se ci si riferisce al figlio, perchè non è in grado di produrre alcun effetto nei confronti del genitore di intenzione che non volesse assumere alcun dovere nei confronti di quest’ultimo e perchè dipenderebbe dall’interpretazione del caso concreto effettuata dal giudice. Venendo meno il requisito di fatto, costituito dal rapporto concreto, non vi è, infatti, alcun modo per assicurare al figlio l’adempimento dei doveri che discendono dal progetto genitoriale a cui ha partecipato il genitore intenzionale. Fino ad ora, si è ragionato molto nella prospettiva di assicurare l’uguaglianza tra il genitore biologico e il genitore intenzionale orientando l’interpretazione in favore di quest’ultimo. Non risulta, invece, che si sia proceduto nel senso di analizzare tale situazione nell’ottica della tutela si, del minore, ma anche del genitore biologico, il quale può, di fatto, ritrovarsi solo nella gestione e nella cura del rapporto genitoriale. Le medesime problematiche le si ritrovano considerando la possibile applicazione dell’istituto ex art. 279 c.c. sopra richiamato. Ne consegue che, qualsiasi sforzo interpretativo, allo stato attuale, non è in grado di realizzare una tutela piena ed effettiva, perchè si è costretti ad intervenire indirettamente e parzialmente, mentre si necessita di organicità e di esaustività. Per le ragioni già esposte, non si ritiene che si possano applicare per analogia, le norme che disciplinano il contratto in generale e quelle sulla donazione nella specie. Pur essendovi una similitudine tra lo schema della donazione e la realizzazione della pratica, entrambe basate sullo spirito di liberalità, sulla volontà libera e consapevole, sull’intento di donare per la realizzazione di un interesse non patrimoniale e per spirito di solidarietà, non contrastante con il divieto di fare uso delle parti del corpo ex art. 5 c.c. e pur essendo la donazione irrevocabile, il che potrebbe eliminare l’incertezza interpretativa nel caso che si verificassero pretese da parte della gestante, comunque sono schemi normativi calibrati sulla circolazione dei beni, il che collide con il valore della persona, centrale nello schema della maternità surrogata. Invero, l’azzardo analogico lo si potrebbe pure realizzare proiettando dal fatto una figura di donazione sui generis, dove la gestante si potrebbe trovare nella situazione di donare in modo definitivo i propri gameti e in modo temporaneo il proprio corpo. Un simile azzardo, però, può rimanere solo negli intenti, perchè vige il divieto e questo gambizza ogni tentativo di soluzione altra, rispetto al ricorso all’adozione in casi particolari. Invero, la risposta potrebbe pervenire direttamente dalla legge 40/2004 attraverso l’applicazione analogica delle norme che regolano la procreazione medicalmente assistita eterologa, il cui discrimine consiste nella gestazione condotta da un terzo.  Allo stato attuale però, si potrebbe consentire il riconoscimento solo se si escludesse la realizzazione della pratica in maniera gratuita dalla fattispecie del reato per i motivi già esposti e solo valorizzando la situazione di fatto, a fronte del divieto in generale che comunque consente di applicare la sanzione amministrativa a chiunque, a qualsiasi titolo utilizzi gameti estranei alla coppia, rimanendo illesi dal divieto, solo chi utilizzi i propri gameti e realizzi la pratica in maniera gratuita. Non da ultimo, almeno in relazione ai rapporti instaurati all’estero, si potrebbe fare applicazione del principio di ordine pubblico internazionale ed eludere in tal modo il divieto penale stesso. Ma sempre di elusione si parla e considerato il valore dei diritti che si trovano al centro del problema, una simile soluzione non può dirsi soddisfacente.

Conclusione

Dato quanto affermato, pur volendo considerare la dignità come un valore che appartiene si alla persona, ma che si riferisce ad essa in ottica generale e astratta (la donna in senso generale), tanto da assumere valenza super-individuale, il rispetto del principio di legalità (prevedibilità e determinatezza) e dell’oggettività, impongono coerenza e certezza normativa. Si è consapevoli che i concetti ampi si prestano ad interpretazioni diverse, in relazione alla fattispecie concreta posta in essere, ma tale diversità si realizza, appunto, sul piano fenomenico e non sul piano astratto e valoriale. Quando accade questo, il pericolo di una manipolazione dei valori per fini puramente politici è elevato e un simile rischio non può essere tollerato in materia di diritto penale.

Un divieto assoluto postulato sulla base di un principio valvola come la dignità, in materia penale, necessita di essere concretizzato, non solo perchè si riferisce alla sfera personale dell’individuo intaccando proprio la sua dignità, nell’accezione della propria determinazione e dello sviluppo della propria sfera psico-emotiva, ma anche nei confronti dei principi fondamentali che lo regolano e che sono proiettati al garantismo e non al giustizialismo. L’incoerenza assiologica è, ad oggi, più di un sospetto e ci fa propendere per un’incapacità preventiva e di controllo da parte dell’apparato statale, mitigando la stessa sotto l’ombrello della dignità. La necessità di garantire una tutela ampia per l’emergenza del pericolo della mercificazione della donna, infatti, non può tradursi in una soluzione punitiva tout court. Anzi, proprio il divieto interno, spingendo verso altri Paesi, molti dei quali meno sviluppati con problematiche di governo del territorio ampiamente maggiori, conduce alla concretizzazione stessa del pericolo. Uno stato democratico impronta il proprio diritto penale alla necessarietà, dovendo assicurare il controllo sociale con tutti i mezzi che ha a disposizione e solo ove questo non sia possibile o funzionale si può ricorrere a quest’ultimo. In altre parole, la politica criminale non può saggiare il suo intervento a causa dell’incapacità organizzativa dello Stato apparato, nè tanto meno può fregiarsi di etica e morale.

Se è vera la condizione che la norma nasce dal fatto per regolarlo, allora si deve ritenere vera anche la condizione in cui la norma non più idonea e coerente al fatto vada riformata. Si è dato atto delle situazioni fattuali generate dall’espresso divieto di ricorrere alla maternità surrogata e dell’incapacità sistemica di assicurare una tutela organica e coerente sia in relazione al principio personalistico, sia in rapporto alle problematiche riscontrate concretamente.

Il divieto di maternità surrogata, a parer di scrive, è distonico sia nei confronti delle scelte fattuali, sia con il principio stesso della dignità che si prefigge, in apparenza, di voler tutelare. Al contrario, proprio l’effetto del turismo procreativo contribuisce, sensibilmente, ad aumentare il rischio che si verifichino condizioni reali di sfruttamento della donna, a causa dell’incapacità sistemica ed organizzativa della maggior parte degli Stati esteri, in cui è facile ricorrere a tale pratica. Invero, l’unica forma di maternità surrogata che potrebbe generare un aumento del rischio dello sfruttamento della donna è quella economica. Infatti, a fronte del principio personalistico e solidaristico che permea il nostro sistema ordinamentale, non si vede come tale pratica possa essere considerata lesiva della dignità della donna, a maggior ragione quando il giudizio è svolto a priori, in astratto, senza nessuna valutazione e considerazione del fatto concreto e soprattutto, senza attribuire alcuna rilevanza all’autodeterminazione dei soggetti coinvolti. Autodeterminazione che rappresenta la massina espressione del principio di dignità. E’ la visione distorta del principio di dignità che, infatti, giustifica sul piano normativo il divieto.

Per tutte le ragioni esposte, si ritiene che il divieto di maternità surrogata tout court si ponga in contrasto con il valore della dignità personale per quello che essa rappresenta realmente e non per il concetto pubblicistico idealizzato. Si auspica, dunque, il recupero della funzione personalistica della dignità e di converso una riforma del divieto della pratica che vada a graduare la tutela nel caso concreto attraverso una regolamentazione specifica, differenziata, improntata al rafforzamento della prevenzione con strumenti di controllo effettivi, calibrati sulla reale esigenza del caso concreto. Proprio la regolamentazione graduale si presta ad essere la miglior soluzione per risolvere i contrasti valoriali ed ermeneutici legati alla realizzazione della pratica. Proprio l’abolizione del divieto tout court permette di bilanciare realmente gli interessi contrapposti nel caso concreto, che troverebbero una soluzione certa grazie alla regolamentazione espressa. Attraverso la regolamentazione, infatti, si recupera la garanzia della certezza del diritto e la funzione personalistica del sistema normativo. Entrambi punti cardine del nostro diritto interno, ma continuamente frustrati dalle scelte politiche estremiste illiberali e antidemocratiche.

Note

[1] Per visualizzare la distribuzione terrritoriale completa cfr https://it.euronews.com/2018/09/13/maternita-surrogata-dove-e-legale-in-europa#:~:text=Italia%2C%20Spagna%2C%20Francia%20e%20Germania,ogni%20forma%20di%20maternit%C3%A0%20surrogata.

[2]    Zatti P., Maternità e surrogazione, in La nuova giurisprudenza civile commentata, n. 3/2000, pp. 197 ss

[3]    Bozzi L., Maternità surrogata, le ragioni del divieto e le proposte di regolamentazione: un cerchio che non si chiude, Actualidad Jurídica Iberoamericana nº 16 bis, 6/2022, su https://www.revista-aji.com/wp-content/uploads/2022/06/126.-Lucia-Bozzi-pp.-3318-3341.pdf; Gatta G.L.,, Surrogazione di maternità come “reato universale”? A proposito di tre proposte di legge all’esame del Parlamento, in Riv. SistemaPenale, 2 maggio 2023; Liberali B., Il divieto di maternità surrogata e le conseguenze della sua violazione: quali prospettive per un eventuale giudizio costituzionale?,in AIC, Osservatorio costituzionale, Fasc. 5/2019, ottobre 2019, su https://www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/2019_5_13_Liberali.pdf;

Pulitanò D., Surrogazione di maternità all’estero. Problemi penalistici; ivi, p. 2746 ss., con nota di Chibelli A., La maternità surrogata e il diritto penale: l’intervento della Corte di cassazione, in Dir. pen. proc., 2017, p. 896 ss; Venuti M.C., Coppie sterili o infertili e coppie «same-sex». La genitorialità negata come problema giuridico in Rivista critica di diritto privato, 2015, pp. 280 ss.

[4]    Balistreri M., Considerazioni bioetiche sulla riproduzione assistita e sulla maternità surrogata, una critica della prospettiva conservatrice, Etica & Politica / Ethics & Politics, XXIV, 2022, 1, pp. 265-286; Gattuso M., Dignità della donna, qualità delle relazioni familiari e identità personale del bambino, in riv. Questione Giustizia, 2/2019, su https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/621/qg_2019-2_09.pdf

[5]    Pezzini B., Riconoscere responsabilità e valore femminile: il “principio del nome della madre” nella gravidanza per altri, in S. Niccolai e E. Olivito (a cura di), Maternità, filiazione, genitorialità. I nodi della maternità surrogata in una prospettiva costituzionale, Jovene,  Napoli, 2017, pp. 91 ss. Per quanto riguarda l’evoluzione del principio di ordine pubblico a tutela dei diritti fondamentali si veda Fuscaldo F., In nome dell’ordine pubblico, Parte I. Un tuffo nel passato, il caso Taricco e i controlimiti, riv. Economia & Diritto, in corso di pubblicazione su www.economiaediritto.it

[6]    Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, su cui vds. Baldini A.,Cade il divieto di pma eterologa: prime riflessioni sulle principali questioni, in Vita notarile, 2014, pp. 617 ss.; Ferrando G., Autonomia delle persone e intervento pubblico nella riproduzione assistita. Illegittimo il divieto di fecondazione eterologa, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2014, II, pp. 393 ss.; Basile M., I donatori di gameti, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2015, II, pp. 223 ss.; Ruggeri A., La sentenza sulla fecondazione «eterologa»: la Consulta chiude al «dialogo» con la Corte Edu, in Quaderni costituzionali, 2014, pp. 659 ss.; D’Amico G., La Corte e il peccato di Ulisse nella sentenza n. 162 del 2014, ibid., pp. 663 ss.

[7]    Cass., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19599 (pres. S. De Palma, est. A. P. Lamorgese), in Articolo 29, con nota di Schillaci A., Le vie dell’amore sono infinite. La Corte di cassazione e la trascrizione dell’atto di nascita straniero con due genitori dello stesso sesso, 3 ottobre 2016 (www.articolo29.it/2016/le-vie-dellamore-sono-infinite-la-corte-di-cassazione-e-la-trascrizione-dellatto-di-nascita-straniero-con-due-genitori-dello-stesso-sesso); Palmeri G., Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same sex, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2017, p. 362

[8]    Nel 2019 la Cassazione a S.U. ha suscitato, con la pronuncia n.12193, grande interesse in dottrina e in giurisprudenza, tanto da essere citata in numerose pronunce successive. Con la sentenza della Cassazione n. 12193/2019 si pone in evidenza in modo innovativo un profilo della valutazione di compatibilità con i principi di ordine pubblico, forse rimasti all’ombra delle precedenti decisioni. Tale pratica, ribadisce la Cassazione, rimasta pertanto invariata al vaglio della giurisprudenza dell’ultimo quinquennio, comporterebbe una mercificazione del corpo della gestante, la quale rinuncerebbe alla propria maternità a favore dei committenti e per questo motivo lesiva della sua dignità.

[9]    Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272 (pres.P. Grossi, est. G. Amato), in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 cc; sulla sentenza, vds.Schillaci A., La Corte costituzionale e la conservazione dello status fliliationis acquisito all’esterno: (molte) luci e (poche) ombre, tra verità biologica e interesse del minore, in Diritti comparati, 18 gennaio 2018; Sassi A., Gestazione per altri e ruolo delle azioni di stato, in Rivista diritto e processo, 2017, pp. 272-301. (www.rivistadirittoeprocesso.eu/upload/Riviste/Rivista%202017.pdf).

[10]  Luccioli G., La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso, in riv. Minori e Famiglia, 28.10.2022, su https://www.giustiziainsieme.it/en/news/74-main/129-minori-e-famiglia/2508-la-maternita-surrogata-di-nuovo-all-esame-delle-sezioni-unite-le-ragioni-del-dissenso; Rossi F., Ordinanza interlocutoria della Cassazione n. 8325/2020: giusto far prevalere l’interesse del minore o dell’ordine pubblico?, in riv. Famiglia, 20.05.2020, su http://www.salvisjuribus.it/ordinanza-interlocutoria-della-cassazione-n-8325-2020-giusto-far-prevalere-linteresse-del-minore-o-dellordine-pubblico/.

[11]  Sul punto vi sono due filoni interpretativi giurisprudenziali opposti. Il primo si allinea a tale conclusione richiamando il principio di ordine pubblico interno che erge a parametro anche la legge. Il secondo, invece, ritiene che vada applicato il concetto di ordine pubblico internazionale che riflette la tutela dei diitti fondamentali generalmente riconosciuti e per tale ragione esclude che il divieto di maternità surrogata possa fungere quale parametro del su detto principio, in quanto espressione della discrezionalità del legislatore e perciò soggetto alle dinamiche politiche.

[12]  Sul concetto di determinismo in contrapposizione al libero arbitrio, si veda Fuscaldo F.  E’ possibile determinare scientificamente la volontà?,Youcanprint, 2023.

[13]  Sono molti i Paesi che hanno proceduto all’adeguamento normativo in materia di maternità surrogata in relazione al mutato contesto sociale. In particolare, è molto diffusa la ricezione della pratica gratuita.

[14]  Acquaviva M., Perchè la prostituzione non è reato?, riv. La legge per tutti, 18.09.2019, su https://www.laleggepertutti.it/299421_perche-la-prostituzione-non-e-reato#google_vignette.

[15]  Scirè G., L’aborto in Italia:storia di una legge, Mondadori Bruno, 2011.

[16]  Pastorino M., Controllo all’italiana. Le interruzioni di maternità, Bologna, Edizioni Avanti!, 1964.

[17]  Scalera A., E’ madre chi porta a termine la gravidanza: l’ordinanza del Tribunale di Roma sullo scambio degli embrioni, riv. Altalex, 3.9.2014, su https://www.altalex.com/documents/2014/09/03/e-madre-chi-porta-a-termine-la-gravidanza-l-ordinanza-del-tribunale-di-roma-sullo-scambio-di-embrioni.

[18]  Sul punto, vi è chi propone l’esercizio del diritto di visita e chi invece propende per il riconoscimento del rapporto di fatto instauratosi.

[19]  Mirzia R.B., Le Sezioni Unite e i figli nati da maternità surrogata: una decisione di sistema. Ancora qualche riflessione sul principio di effettività nel diritto di famiglia, riv. Giutizia insieme, 6.02.2023, su https://www.giustiziainsieme.it/en/minori-e-famiglia/2645-le-sezioni-unite-e-i-figli-nati-da-maternita-surrogata-una-decisione-di-sistema-ancora-qualche.

[20]  Concas A.,Maternità surrogata reato universale: ok dalla camera, riv. Diritto.it, 28.07.2023, disponibile su https://www.diritto.it/maternita-surrogata-cedu-contro-la-trascrizione/

[21]  Si rammenti, che la dignità umana (art. 1) è associata al diritto all’integrità personale, della quale il «divieto di fare del corpo umano […] una fonte di lucro» (art. 3, comma 2) è una delle manifestazioni. È la dignità della persona, che la Corte costituzionale ha ritenuto offesa in modo “intollerabile” dalla maternità surrogata, giacché “mina nel profondo le relazioni umane” a prescindere dalla natura commerciale o altruistica dell’accordo. In entrambi i casi, infatti, tale pratica cancella il rapporto tra la donna e il figlio che porta in grembo, assimilando la prima a supporto materiale e lo stato filiale del nato a oggetto di scambio.

[22]  Liberali B., Il divieto di maternità e le conseguenze della sua violazione: quali prospettive per un eventuale giudizio costituzionale?, in Osservatorio costituzionale, 2019, fasc. 5  pag. 197 – 219; Niccolai S., Alcune note intorno all’estensione, alla fonte e alla “ratio” del divieto di maternità surrogata in italia , in GenIUS, 2017, fasc. 2  pag. 49 – 59.

[23]  Danisi C., Superiore interesse del fanciullo, vita familiare o diritto all’identità personale per il figlio nato da una gestazione per altri all’estero? L’arte del compromesso a Strasburgo, articolo29, 2014; Tomasi M., Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Mennesson e Labassee v. Francia: diritto dei figli nati da maternità surrogata ad ottenere il riconoscimento del rapporto di filiazione da parte delle autorità statali, biodiritto.org, 2014; Tonolo S., Identità personale, maternità surrogata e superiore interesse del minore nella più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, core.ac.uk.

[24]  Corte EDU 31 agosto 2023, causa C. contro Italia (condanna per non aver riconosciuto il legame tra la bambina nata da maternità surrogata nel 2019 e il padre biologico).

[25]  La Corte europea dei diritti dell’uomo, con un parere consultivo del 15 aprile 2019, pur avendo affermato che il diritto del minore nato da pratiche di maternità surrogata al rispetto della vita privata (ex art. 8 CEDU) richiede che la legislazione nazionale preveda la possibilità di riconoscere una relazione del minore con il cosiddetto genitore intenzionale, ha anche statuito che tale riconoscimento non deve necessariamente avvenire consentendo la trascrizione del certificato di  nascita nei registri dello Stato, potendosi delineare anche delle soluzioni diverse  rispettose del superiore interesse del minore (margine di apprezzamento).

[26]  La Corte si è pronunciata sulla questione di legittimità dell’art. 55 della legge 184/1983 nella parte in cui, con rinvio all’articolo 300 cod. civ., stabilisce che l’adozione in casi particolare non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti  dell’adottante. La Corte ha rilevato questa preclusione in contrasto con il principio di parità di trattamento di tutti i figli, nati all’interno o fuori dal matrimonio e adottivi, che trova la sua fonte costituzionale negli artt. 3 e 31 Cost. ed è stato inverato dalla riforma sulla filiazione (l. 219/2012) e dal rinnovato art. 74 cc che ha reso unico senza distinzioni, il vincolo di parentela che scaturisce dagli status filiali con la sola eccezione dell’adozione del maggiorenne. Corte Cost. sentenza n. 79 del 28 marzo 2022.

[27]  Scarcella A., Maternità surrogata: va tutelato il diritto al riconoscimento del rapporto genitore-figlio, Altalex.com, dicembre 2022.

[28]  Legge n.219 del 2012, così come attuata dal d. lgs 154 del 2013.

[29]  Cfr Chiappetta G., Le sentenze della Corte Costituzonale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c, in Minori e Famiglia, riv. Giustizia insieme, 6 giugno 2021.

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Schillaci A., Le vie dell’amore sono infinite. La Corte di cassazione e la trascrizione dell’atto di nascita straniero con due genitori dello stesso sesso, 3 ottobre 2016 (www.articolo29.it/2016/le-vie-dellamore-sono-infinite-la-corte-di-cassazione-e-la-trascrizione-dellatto-di-nascita-straniero-con-due-genitori-dello-stesso-sesso).

1. La redazione della Carta Costituzionale e la negazione del concetto di ordine pubblico

La mancanza dell’espressione “ ordine pubblico ” all’interno della Carta costituzionale, è un fattore da analizzare da diverse prospettive. Da una prima analisi dei lavori preparatori alla redazione della Costituzione, da parte dell’assemblea costituente, emerge il forte timore, provocato dal retaggio storico-culturale dell’ormai demolito Stato fascista, della visione ideale funzionalistica dell’ordine pubblico come principio ideale ed omnicomprensivo rivolto al sostegno dell’immagine e della tutela dello Stato apparato autoritario, a discapito delle libertà dei consociati. L’esclusione di ogni riferimento al concetto di ordine pubblico riflette, quindi, la riluttanza dell’assemblea costituente nei confronti degli effetti prodotti da una simile impostazione, al fine di proteggere i diritti e le libertà dei consociati (1). L’approccio al concetto di ordine pubblico, da parte dell’assemblea costituente, può definirsi timoroso in senso condiviso e ambivalente perché tra i redattori della “ Carta ” c’era chi si opponeva al concetto in maniera drastica, tra i quali Togliatti e Lucifero e chi invece assumeva una posizione intermedia tra l’ammettere l’inserimento del concetto tra i principi costituzionali ed operare allo stesso tempo una restrizione del significato dello stesso onde evitare tentativi manipolatori in fase esecutiva ed attuativa, tra cui emerge la figura di Moro. In particolare, sia Togliatti che Lucifero negano in maniera assoluta ogni riferimento del testo Costituzionale al concetto di ordine per timore di una sua manipolazione pubblica (così come avvenne nel periodo fascista) ordinata a limitare fortemente le libertà ei diritti dei consociati. Ad esempio, in relazione alla redazione dell’articolo dedicato alla libertà di circolazione, entrambi condividonoro il pensiero di imporre dei limiti alla stessa libertà solo in casi eccezionali, quali guerre, epidemie, calamità naturali, con lo scopo di evitare l’imposizione limitativa arbitraria da parte del potere esecutivo.
Di tutt’altro senso, era la posizione di Moro (2), il quale invece credeva che l’ordine pubblico fosse necessario al mantenimento della tranquillità pubblica ed a garantire il regolare svolgimento della vita sociale, perché il potere di polizia è reputato dallo stesso , indispensabile a garantire la sicurezza dei concittadini, con il monitoraggio però di non esercitare tale potere per scopi diversi e tanto meno per fini politici.
Continuando ad analizzare la visione dell’assemblea Costituente in ordine all’integrazione del concetto di ordine pubblico nella Costituzione, è utile riferirsi al richiamo effettuato dal relatore Basso, nella discussione dedicata all’elaborazione dell’articolo relativo alla libertà di associazione, al parere del Consiglio di Stato in merito all’elaborazione della legge sulla pubblica sicurezza, mai venuta alla luce, con riferimento al diritto di associazione, perché tramite quest’ultimo si palesa la generale ostilità nei confronti del concetto, ritenuto fallibile in ottica esecutiva e labile in ottica di significato e di interpretazione (3). Il Consiglio di Stato, infatti, in quel parere affermò di ritenere pericoloso ogni riferimento all’ordine pubblico in relazione al diritto di associazione, a causa della vaghezza del concetto (di natura elastica), che avrebbe potuto comportare un ampio potere di valutazione discrezionale da parte delle autorità statali (4) ledendo il diritto stesso che si intendeva tutelare. Sulla stessa scia si colloca l’approccio dell’assemblea Costituente al concetto di ordine pubblico in relazione alla libertà di culto. Nel progetto originario del testo relativo all’articolo 14 (poi divenuto articolo 19), dedicato alla libertà di religione (culto), si considerò il concetto di ordine pubblico idoneo a fungere da limite all’esercizio della libertà stessa. Tra i contrari all’inserimento del concetto, spicca l’argomentazione di Binni, il quale propone di inserire nel testo dell’articolo il riferimento al rispetto dell’ordinamento giuridico, in sostituzione al concetto di ordine pubblico, a causa della labilità concettuale di quest «ultima, una labilità che venne considerata pericolosa non solo per l’esercizio della libertà di religione, ma anche per il più ampio genus costituito dalla libertà di opinione, una labilità che sarebbe potuta essere sfruttata per la realizzazione di scopi diversi (5).
La medesima decisione di correzione e sostituzione del termine ordine pubblico, si ebbe in relazione alla libertà di riunione. Nella Relazione all’assemblea costituente, la sottocommissione per i problemi costituzionali considera opportuno che “ sia assicurato il diritto di riunione senza preavviso in luogo privato e con preavviso alle autorità in luogo pubblico, con facoltà di divieto solo per comprovate ragioni di ordine pubblico e con la sanzione della responsabilità per i funzionari che neghino il diritto per ragioni sostanzialmente inesistenti ”. Successivamente si modificò l’espressione “ comprovate ragioni di ordine pubblico” in “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica (6)”. L’assenza dell’ordine pubblico nella redazione della Carta Costituzionale, quindi, si traduce, alla luce dell’analisi dell’interpretazione dell’Assemblea Costituente relativa al concetto, in un generale senso di pericolosità del significato dello stesso, a causa della mancanza di una sua definizione e risultante, in tal modo, troppo soggetto ad attività manipolatoria e/o arbitraria e per tali ragioni viene considerato contrario all’animus stesso della Costituzione, improntata a tutelare le libertà ed i diritti dei consociati. Tuttavia, tra gli interpretati della dottrina post -costituzionale, c’è chi rinviene il concetto di ordine pubblico nel testo Costituzionale, pur non essendo lo stesso ancora esplicitato, si precisa che ci si sta riferendo ad un periodo storico che precede la riforma del titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001, la quale ha comportato la formulazione innovativa anche dell’articolo 117 dove alla lettera h si fa espresso riferimento al concetto. L’ordine pubblico, secondo questa impostazione, viene scomposto nei suoi elementi fondamentali, quali ad esempio l’incolumità, la sicurezza od il buon costume, che diventano limiti delle singole libertà, cancellando la concezione dell’ordinamento fascista che leggeva l’ordine pubblico come limite immanente ad ogni libertà civile e conseguentemente, riducendo il potere di polizia a fronte delle riserve di legge e di giurisdizione, che costituiscono i principi cardine dell’azione legale e giuridica. Si pensi, in proposito, alla sicurezza come limite alla libertà di circolazione (art. 16) ed alla libertà di riunione (art. 17); alla incolumità pubblica come limite alla libertà domiciliare (art. 14); alla sanità come limite alla libertà domiciliare (art. 14) ed alla libertà di circolazione (art. 16); al buon costume come limite alla libertà di culto (art. 19) ed alla libertà di manifestazione del pensiero (art. 21). Di conseguenza, l’ordine pubblico non fungerebbe da limite immanente per ciascuna libertà civile, ma la regola si sosterrebbe nella previsione di un criterio più analitico, che differenzia e considera la disciplina di ciascuna libertà in relazione agli specifici interessi di volta in volta considerati. Inteso in questo senso, l’ordine pubblico viene qualificato come materiale-amministrativo che è proprio dello Stato persona e si mostra nei compiti di polizia e sicurezza pubblica, individuando “ lo svolgersi regolare e pacifico delle attività umane nella comunità statale ”, tutelato per mezzo , soprattutto, di norme di pubblica sicurezza (7) e di diritto penale.
A dimostrazione di tale impostazione teorica, come si è poc’anzi detto, nel 2001 è stato poi modificato il titolo V della Costituzione ed inserito il concetto di ordine pubblico, fino a quel momento assente nella Carta Costituzionale, presso la lettera h dell’articolo 117, circoscrivendone il ruolo e l’appartenenza al settore amministrativo e definendo quindi la sua natura materiale.
Di tutt’altro sentore è pervasa la Corte Costituzionale che, contrariamente all’orientamento negatorio dell’assemblea costituente nei confronti dell’ordine pubblico ideale, ne disanima l’essenza e la snatura dallo stampo fascista per ricondurla in una visione costituzionalmente orientata.

2. L’evoluzione dell’ordine pubblico verso la tutela della persona nel lavoro interpretativo della Corte Costituzionale

Nel lungo e laborioso iter evolutivo rispetto all’elaborazione del concetto di ordine pubblico, la Corte Costituzionale giunge all’affermazione finale, sebbene in merito all’ordine pubblico sia giuridicamente e sostanzialmente scorretto parlare in termine di arrivo, che l’ordine pubblico è un bene costituzionale da tutelare tramite la creazione di limiti. Nella sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 1956 (8) (prima sentenza in assoluto che si occupa della questione ordine pubblico) non si affronta direttamente il concetto dell’ordine pubblico, ma si introducono elementi ripresi dalla giurisprudenza circa i limiti delle libertà costituzionali, quali l’ordine pubblico. In questa sede si definisce che l’incostituzionalità di una legge può derivare dalla non osservazione di norme programmatiche e si introducevano, per quanto concerne le libertà, due limiti diversi rivolti ad operare su due corrispondenti momenti diversi: un primo limite legislativo in contrapposizione alla garanzia della libertà costituzionali sul piano formale ed un secondo limite correlato all’esercizio della libertà costituzionali. Nella sentenza n. 2 del 1956 (9), la Corte dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, comma 3, Tulps, fondando il suo giudizio sulla costituzionalità dell’interpretazione, che riporta ai motivi di sanità e di sicurezza, quelli di ordine, sicurezza pubblica e pubblica moralità.
Con tale pronuncia, la Corte Costituzionale elabora la nozione di ordine pubblico materiale. Da queste prime pronunce embrionali, la Consulta giungerà nel giro di qualche anno ad elaborare la concezione ideale dell’ordine pubblico. Infatti, nella sentenza nr. 19 del 1962 (10), relativa all’estensione del limite dell’ordine pubblico alla libertà di manifestazione di pensiero, è una sentenza emblematica, in quanto la Corte innova il concetto di ordine pubblico allargandone la portata anche al significato ideale ed affermandone la natura di limite nell’ordinamento democratico. Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 656 cp, la Corte allarga la nozione di ordine pubblico evidenziandone anche la portata ideale o normativa e ne afferma la legittimità come limite alla luce dei principi democratici. La Corte intende l’ordine pubblico come l’ordine legale su cui si regge la convivenza sociale ed, in tal senso, il concetto diviene dunque bene collettivo: “ l’esigenza dell’ordine pubblico, per quanto altrimenti ispirata rispetto agli ordinamenti autoritari, non è affatto estranea agli ordinamenti democratici e legalitari, né è incompatibile con essi ”. “In particolare, al regime democratico e legalitario, consacrato dalla Costituzione vigente e basato sull’appartenenza della sovranità al popolo, sull’uguaglianza dei cittadini e sull’impero della legge, è connaturale un sistema giuridico, in cui gli obiettivi consentiti ai consociati e alle formazioni sociali non possono essere realizzate se non con gli strumenti e attraverso i procedimenti previsti dalla legge. Tale sistema rappresenta l’ordine istituzionale del regime vigente; e appunto in esso va identificato l’ordine pubblico del regime stesso ”.
La Corte, dunque, afferma che per quanto riguarda la legittimità costituzionale dell’art. 656 cp, il limite è insito proprio nell’esigenza legale di prevenire o riparare in modo tale da interrompere ogni azione che possa recare danno all’ordine pubblico. Attraverso quest’impostazione, è evidente come la Corte Costituzionale abbia tracciato un concetto di ordine pubblico in senso normativo, il quale deve giuridicamente e necessariamente coincidere con l’ordine pubblico costituzionale e quindi basato su tutti i principi costituzionali. Ciò che l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale mostra, fino al momento storico analizzato, è che dalla derivazione dei limiti di ordine pubblico necessari a garantire l’unitarietà e la legalità dell’ordinamento giuridico, è passata al lavoro estrapolante da quegli stessi limiti previsti dalle leggi precedenti la Costituzione (basti riflettere sulle norme del codice civile), fino ad arrivare all’affermazione dell’ordine pubblico come bene giuridico costituzionale, da tutelare attraverso l’imposizione di limiti. In poche parole, per quanto riguarda il concetto normativo-ideale, l’ordine pubblico da limite, così come previsto nella normativa pre-costituzionale e così come derivato dalla normativa civile francese, compie un salto di qualità sostanziale, perché diviene esso stesso un centro di interessi meritevoli di tutela costituzionale. Le sentenze successive emanate dalla Consulta continueranno a seguire l’ iter tracciato dalla sentenza del 1962, legittimando la tutela dell’ordine pubblico, ancorando la stessa nel rango delle garanzie riservate ai beni costituzionali. Infatti, nei casi concreti esaminati nelle frasi nr. 199 del 1972 e n. 210 del 1976 (11), si afferma che attraverso la tutela dell’ordine pubblico si realizza necessariamente la tutela dell’ordine democratico, quindi del fondamento stesso che risiede alla base dell’ordinamento in generale e della Costituzione.
Tale passaggio può essere capito meglio se si affronta in breve racconto pronuncia della Corte che ne rivela il senso. Ad esempio, nella precedente sentenza nr. 84 del 1969 (12) la tutela dell’ordine pubblico diventa funzionale alla tutela del diritto al lavoro, del diritto all’organizzazione sindacale e del diritto all’iniziativa economica. Nelle successive frasi n. 16 del 1973 e n. 71 del 1978 (13), la garanzia dell’ordine pubblico coincide con il dovere di difesa nazionale, mentre nella sentenza nr. 126 del 1985 (14), si afferma che, tutelando l’ordine pubblico, si tutela la pubblica economia.
La Corte considera il limite dell’ordine pubblico come un concetto che va ad incardinarsi ad altri concetti e fondato su distinti valori costituzionali dei quali ne rappresenta una forma di garanzia e, allo stesso tempo, un concetto cardine fondato sui principi di democrazia e di ordinata governo delle maggioranze, posto cioè a base dell’ordinamento giuridico. Sebbene il lavoro svolto dalla Consulta fino a questo preciso momento storico sia notevole e di qualità, tuttavia, la stessa non riesce a tracciare una linea sicura e definitaria che possa distinguere la nozione di ordine pubblico ideale-normativa da quella di ordine pubblico materiale, al contrario, le due nozioni spesso si sovrappongono sia sul piano formale e di conseguenza nel momento applicativo-esecutorio. Ciò che appare chiaro è che i due concetti, nella giurisprudenza della Corte, si sono diffusi quello ideale a creare un valore costituzionale da salvaguardare, mentre quello materiale rileva nelle singole fattispecie. Infatti, riprendendo la sentenza nr. 168/71 (15) e altre ad essa analoghe, dove cioè la Corte richiama esempi che identificano l’ordine pubblico come materiale, perché lo stesso è analizzato in relazione a beni costituzionali specifici, successivamente si afferma come l’ordine pubblico sia da intendere come ordine costituzionale. Tale passaggio, consente di associare in modo diretto, la tutela dell’ordine pubblico, alla tutela garantista del godimento effettivo dei diritti inviolabili dell’uomo. Ma è proprio questo salto di qualità, nel lavoro interpretativo della Corte, ad aver aumentato gli aspetti di ambiguità e di incertezza legati al concetto e tali risultanze hanno causato la conseguente ed inevitabile confusione tra i limiti propri della tutela penale ed il disposto costituzionale. A seguito di queste difficoltà normo-applicative, la giurisprudenza della Corte ha trovato pochi sostenitori nella dottrina, la quale ha continuato a negare la possibilità di ritrovare il concetto di ordine pubblico ideale nella Costituzione, perché sostanzialmente, il concetto, a causa della vaghezza significativa e dell’utilizzo per cui è stato adoperato nel periodo storico fascista, è rimasto ancorato al volto negativo di limite “ praeter legem” e di conseguenza, anticostituzionale. E’ del tutto evidente, che una similitudine ancoraggio a limite negativo, non risulta coerente con la Costituzione e per garantire tale coerenza sistemica-legale, è necessario affrontare l’evoluzione interpretativa del concetto, come ordine pubblico costituzionalmente orientato, inteso dalla Corte Costituzionale come “sistema di valori e di principi inderogabili che informano storicamente l’ordinamento generale della comunità statale” e, di conseguenza, abbandonare il significato di limite ulteriore rispetto alle libertà costituzionali, che sul piano sostanziale significherebbe estendere i poteri di polizia, un’impostazione sistemica propria di uno Stato autoritario.
E’ chiaro che, a questo punto, è necessario prospettare come viene raggiunto l’equilibrio tra il concetto di ordine pubblico ideale delineato dalla Corte Costituzionale e la Costituzione. Se è vero che l’ordine pubblico nasce e rimane limite, in relazione al dettato costituzionale, diviene limite non per l’esercizio delle libertà fondamentali, ma esclusivamente rispetto alle fonti giuridiche diverse dalla Costituzione stessa. Si consideri, come punto di riferimento, il caso della libertà di manifestazione del pensiero, relativo alla già citata sentenza della Corte Costituzionale n. 19/62, riguardo al limite dell’ordine pubblico, in cui quest’ultima ha rigottato l’eccezione di incostituzionalità per contrasto con l’art. 21 Costo. della disposizione dell’art. 656 cp che punisce la pubblicazione e la diffusione di notizie, false esagerate e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico. La Corte Costituzionale, in tale sede, accentua il rilievo dell’ordine pubblico con un’interpretazione restrittiva della nozione di manifestazione di pensiero, che non accetta forma di comunicazione che si realizzino attraverso forme d’azione. L’attenzione è rivolta sui modi di esercizio delle libertà e, in specifico, riguarda il contestuale esercizio della stessa libertà da parte di più persone, che perciò potrebbero ledere l’esercizio stesso del diritto. In questo punto, l’ordine pubblico diviene “ ordine legale sul quale poggia tutta la convivenza, ordine regolativo della coesistenza di più esercenti il ​​diritto o come situazione in cui più persone esercitano contemporaneamente il diritto”. Continuando nella sua evoluzione, la Corte Costituzionale ha elaborato il criterio del bilanciamento tra le libertà costituzionali ed i valori inerenti l’ordine pubblico. Il bilanciamento fonda il suo presupposto nell’inesistenza di ogni sorta di gerarchia inerente ai valori o ai principi costituzionali. Attraverso la tecnica del bilanciamento, si devono valutare le situazioni giuridiche con un parametro di giudizio che investe l’adeguatezza della norma restrittiva della libertà, rispetto all’interesse contrapposto che si vuole tutelare. In tal modo, l’ordine pubblico si comporta come un importante centro nevralgico del sistema, in grado di affermare la sua portata in tutte quelle situazioni che possono in qualche modo recare danno ad interessi e valori fondanti l’ordinamento e allo stesso tempo è in grado di arretrare, di fronte alla necessità di garantire l’esercizio dei diritti fondamentali. Il focus dell’apporto della Corte Costituzionale è l’aver sentito il bisogno di qualificare l’ordine pubblico in senso democratico, specificandone la portata in un ordinamento costituzionale, in modo tale da legalizzare il concetto sul piano normativo. Sin dalle sue prime pronunce, la Corte indicando la natura dell’ordine pubblico come limite implicito ad ogni libertà, lo considera come corrispondente ad esigenze degli ordinamenti democratici. Invero, la Corte considera come, in ogni sistema democratico, ci sia il bisogno di un sistema giuridico basato sulle leggi e non sulle forme di coazione o di violenza ed è proprio in questo che si identifica l’ordine pubblico.
Un altro momento importante per comprendere la portata della lettura democratica del concetto ordine pubblico, è quello in cui la Corte giunge alla dichiarazione di incostituzionalità dell’incriminazione del reclamo collettivo introdotta dal cppm, attraverso una ricostruzione della volontà del legislatore fascista. L’incriminazione del reclamo collettivo si basava sulla lettura autoritaria dell’intero ordinamento che considerava la protesta collettiva fenomeno contagioso e pericoloso. La Corte sottolinea come ogni incriminazione sia legata al particolare momento storico in cui ha avuto origine e, nel caso specifico, riconosce come l’introduzione della disciplina militare sia sintomatica della penalizzazione di situazioni di pericolo presunto, marcando il sentimento di repulsione nei confronti di una somiglianza. Il concetto di ordine pubblico viene così interpretato alla luce della democrazia del sistema. In particolare, si fa riferimento al concetto di democrazia così come esposto nella Carta costituzionale: per esempio, per il diritto di associazione in partiti, l’unico limite è il metodo democratico, che diviene così regola dei rapporti interpersonali e non contenuto ideale per il singolo partito; stessa considerazione vale per tutte le altre forme di associazioni che trovano il loro limite nel divieto di decisiva fini vietati dalla legge, potendo avere struttura non democratica o potendo praticare idee non democratiche; il divieto della ricostruzione del disciolto partito fascista conferma che non si elimina un’ideologia, ma si elimina solo l’organizzazione sul presupposto della possibile ricostruzione del partito. Tutto ciò si sposa con la disciplina insita nelle libertà civili, basandosi su tutte la considerazione positiva dell’individuo e delle sue potenzialità.

Considerazioni conclusive

La Costituzione italiana, e così anche la produzione giuridica extra-statale, di matrice europea ed internazionale, si concentra sul valore della persona umana, intesa come un unicum  formata da aspetto fisiologico e da essenza mentale-spirituale. Quasi tutte le disposizioni costituzionali, fatta eccezione per quelle specifiche predisposte al funzionamento dello Stato, apparato si occupa di delineare la tutela di un determinato ambito sociale, economico, politico, un ambito esistenziale in cui la persona può esprimere se stessa e svilupparsi. Ed è proprio questa impostazione costituzionale ad personam  che funge da spirale direzionale del concetto di ordine pubblico ideale, rievocato in chiave costituzionale attraverso il lavoro della Corte Costituzionale.
L’impostazione personalistica del sistema muta il significato delle norme non palesemente in contrasto con la Costituzione, per convogliare in quest’ultima le medesime e garantire, in questo modo, la coerenza e la legalità dell’ordinamento giuridico ante e post -costituzionale.

Note

[1] “ Condividendo la posizione di Togliatti, Lucifero propone di circoscrivere i limiti alla libertà di circolazione ai soli casi di guerra, epidemia, pubbliche calamità…al fine di inibire ogni possibilità di limite ulteriore ed arbitrario del potere esecutivo ” cit F. Angelini , Ordine pubblico ed integrazione costituzionale europea, Cedam, 2007.

[2] “ … per Moro, invece, era la tutela della libertà dei cittadini a necessitare la previsione di un potere di polizia finalizzato a restituire al loro domicilio e ivi fissare le persone pericolose alla sicurezza pubblica ”. Cit. F. Angelini, Ordine pubblico ed integrazione costituzionale europea, Cedam, 2007.

[3] Seduta del 25 Settembre 1946, Prima Sottocommissione, lettura di una parte del parere reso dal Consiglio di Stato in sede di preparazione della nuova legge di pubblica sicurezza, in seguito mai approvata, sull’articolo 237 relativo al diritto di associazione.

[4] Cit. F. Angelini, Ordine pubblico ed integrazione costituzionale europea , Cedam, 2007.

[5] Così si espresse l’on. Binni in merito “ Quanto poi al punto dell’ordine pubblico, questa formula mi pare ancora più pericolosa, più rischiosa. È una di quelle formule che, pur essendo consuetudinarie in alcune Costituzioni — per quanto non si trovano nelle Costituzioni dei più grandi paesi democratici — appare estremamente pericolosa e direi ricca di tentazioni per chi ha il potere e può servirsene per i suoi scopi particolari. Con la formula dell’articolo 14 si può impedire una manifestazione di libertà di pensiero, di libertà di religione e perciò io credo che questi pericoli ci siano veramente e che noi potremmo dare prova di generosità e di coraggio moderno, escludendo dalla nostra Costituzione quelle dovute limitazioni ”.

[6] V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, La costituzione della Repubblica italiana , Milano, 1991, pag. 78; Nascita Costituzione.it, Binni sull’ordine pubblico nell’articolo 14, (lavori preparatori); Sulla costruzione giuridica dello Stato Costituzionale, dopo la caduta del regime fascista, Dogliani Mario, Costituente e identità nazionale , (Relazione al convegno sul tema: “Culture e Costituente”, Teramo, novembre 1997), in Diritto Pubblico, 2001, fasc. 1 pag. 57 – 69; Sullo stesso punto, Pallante Francesco, L’istituzione della costituzione italiana del 1947 , (Intervento al seminario organizzato dalla rivista “Filosofia e Teologia”, Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Torino, 27 aprile 2012), in Rivista AIC, 2012 , fasc. 4 pag. 8; Sulla definizione di ordine pubblico in relazione alla Costituzione, A. Cerri, Ordine pubblico, Enc.giur.Treccani, XXII, 1990 e Fiandaca-Musco,2012, 474; Maimone, Ordine pubblico e Costituzione, Orizzonte 48, 2017.

[7] G. Landi, voce Pubblica sicurezza, in Enc. dir., XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988, p. 923 ss. e Foà, voce Sicurezza pubblica, in Dig. discoteca. ed., XIV, Utet, Torino, 1995, p. 127 ss.; Sul concetto di sicurezza pubblica: Grandi Marco, Manifestazioni pubbliche e gestione della sicurezza: linee guida del ministero , (Commento a circ. min. Interno 18 luglio 2018), in ISL – Igiene e Sicurezza del Lavoro, 2018, fasc. 11 pag. 565 – 569; Cardilli Marco,” Safety” e “security”: due diverse declinazioni della sicurezza pubblica , (Relazione al Convegno “Safety e security nelle manifestazioni pubbliche”, Roma, 12 giugno 2018), in Amministrativ@mente, 2018, fasc. 7-8 pag. 9; Pugliese Vincenzo, Ordine pubblico, sicurezza e costituzione , in La Giustizia Penale, 2017, fasc. 12 pag. 330 – 352.

[8] C. Costituzionale, sentenza n. 1/1956, in Consulta on line, giurcost.org.

[9] C. Costituzionale, sentenza n. 2/1956, in Consulta on line, giurcost.org.

[10] C.Cost., n. 19 del 16 marzo 1962, GiC, 1962, pag. 190; CERRI, Ordine pubblico (dir. Costituzionale), in Enc. Giur., vol. XII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990, pag. 8.

[12] Sentenza Corte Cost. N. 199 del 1972 e n. 210 del 1976, in Consulta on line, gurcost.org.

[13] Sentenza Corte Cost. N. 84 del 1969, in Consulta on line,giurcost.org.

[14] Sentenza Corte Cost. N. 16 del 1973 e n. 71 del 1978, in Consulta on line,giurcost.org.

[15] Sentenza Corte Cost. N. 126 del 1985, in Consulta on line, giurcost.org.

Bibliografia

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Cardilli M., “Safety” e “security”: due diverse declinazioni della sicurezza pubblica , (Relazione al Convegno “Safety e security nelle manifestazioni pubbliche” , Roma, 12 giugno 2018), in Amministrativ@mente, 2018;
Falzone V., Palermo F., Cosentino F., La costituzione della Repubblica italiana , Milano, 1991;
Maimone F., Ordine pubblico e Costituzione , Orizzonte 48, 2017.

Partendo dall’analisi dell’origine del concetto di ordine pubblico, ci si deve necessariamente confrontare con il problema della mancanza di una definizione strutturale e funzionale dello stesso. Infatti, ciò che si rinviene dal dato legale-testuale delle principali fonti normative di cui si compone l’ordinamento giuridico italiano nel periodo pre-costituzionale e più correttamente, ante l’interpretazione della Corte Costituzionale delle norme contenute nel codice civile del 1942 nell’ottica finalistica di dare un senso giuridico-legale al concetto di ordine pubblico, è un mero richiamo del concetto nel dispositivo normativo ad esso ricollegato. Ad onore di correttezza, in tale momento storico, si può rinvenire un certo modo di intendere il concetto di ordine pubblico, un senso che viene tratto per derivazione.
Le disposizioni normative del codice civile del 1942 che richiamano il concetto di ordine pubblico, infatti, ereditano la propria sostanza normativa dal codice civile francese, il quale converge l’applicazione del primo, nel senso di rispetto e superiorità della legge “tout court (1)”.
L’influenza normativa francese su quella italiana, almeno nella materia civilistica, è resa manifesta e diretta dall’impianto normativo stesso del codice civile italiano del 1865, su cui poi si baserà la redazione del codice del 1942, di cui l’articolo 12 delle preleggi come norma di diritto privato internazionale e l’articolo 1343 sull’illiceità della causa, rappresentano la riproduzione fedele dei corrispettivi articoli 6 e 1133 del Codice civile Napoleonico del 1804, ricalcandone perfettamente i principi strutturali e funzionali (2).
L’ordine pubblico, quindi, in tale contesto derivativo, assume la veste di norme inderogabili dai privati (richiamo al diritto pubblico) la cui autonomia, sebbene riconosciuta, non può certamente valicare o peggio ancora, contrastare la macrostruttura dello Stato-Nazione.
L’esame delle fattispecie del codice civile, che fanno espresso richiamo al concetto di ordine pubblico, ci fornisce una prima fondamentale informazione, l’area giuridico-materiale, che corrisponde al contratto e alle manifestazioni della volontà dei singoli, diverse da quest’ultimo. Infatti, l’art. 25 c.c. richiama l’ordine pubblico quale limite alle deliberazioni delle fondazioni; l’art. 634, come limite alla volontà testamentaria; l’art. 1229, lo definisce punto non invalicabile delle limitazioni alla responsabilità del debitore; l’art. 1343 rende la violazione dell’ordine pubblico, motivo di illiceità della causa del contratto; l’art. 1354 determina la nullità della condizione apposta al contratto quando la stessa è contraria all’ordine pubblico; l’art. 2031 lo richiama nella disciplina del negozio di gestione affari altrui e lo pone anch’esso come limite; l’articolo 2035 sancisce l’irripetibilità della prestazione quando questa viene eseguita per uno scopo contrario al buon costume; gli articoli 839 ed 840 del codice civile, che si occupano di definire i reati collegati ai beni di interesse storico ed artistico ed alla proprietà, non richiamano il concetto direttamente, ma la dottrina maggioritaria ne ha rinvenuto un collegamento indiretto in ordine alla funzione svolta dal concetto di ordine pubblico, fino a quel momento storico e nell’ambito del diritto civile e l’affinità dell’oggetto materiale a cui si riferiscono quest’ultime disposizioni menzionate e le restanti disposizioni civilistiche richiamate poc’anzi.
La correlazione tra l’impianto normativo civilistico italiano e quello francese, quindi, si traduce nell’applicazione del concetto di ordine pubblico come strumento di tutela dei valori fondanti l’ordine sociale dello Stato e quindi funzionale a limitare l’attività contrattuale dei singoli in relazione al rispetto di quest’ultimi, al fine di garantire l’autonomia privata da una parte ed il rispetto della legge e allo stesso tempo, la superiorità di quest’ultima rispetto alla prima. In tal senso, in sostanza, l’ordine pubblico, diviene limite all’agire negoziale, esprimendo, più specificatamente, l’esigenza legale che i privati, con le loro convenzioni, non sovvertano quei valori fondamentali su cui si fonda l’ordine sociale (3), ma che realizzino i loro rapporti nel rispetto dei valori fondanti il sistema giuridico e l’organizzazione sociale in generale.
Se questa può essere considerata la prima faccia dell’ordine pubblico, così come interpretato, alla luce del momento storico che precede la Costituzione e delle disposizioni civilistiche pertinenti in materia, ci si deve però confrontare con la realtà normo-politica e sociale del tempo e rilevare quanto e come quella realtà sia penetrata nell’assetto normo-valoriale dell’ordinamento giuridico italiano. Infatti, se da una parte il codice civile del 1942, subisce l’influenza giuridica e politica dell’“ancien regime” recependone i principi fondanti, dall’altra, la fine della Grande Guerra e con essa la radicalizzazione del regime fascista, hanno contribuito a rimodellare l’ordinamento giuridico e di questo, per ciò che a noi interessa, l’ordine pubblico in ottica servente alla supremazia dello stesso. La vaghezza del significato in se e la mancanza di una definizione chiarificatrice del concetto di ordine pubblico, ha facilitato l’opera di manipolazione dello stesso al fine di realizzare, concretamente, l’ideale totalitario ed assolutista del regime fascista, cioè al fine di giustificare sul versante legale i poteri impliciti (4) come assetto di autorità e potere al di fuori del principio stesso della legalità. Quello che emerge dall’analisi strutturale e funzionale della normazione del tempo, concentrando la stessa sul concetto di ordine pubblico, è l’utilizzo di quest’ultimo come strumento per affrancare legalmente l’ascesa totalitarista dello Stato fascista.
A mero titolo esemplificativo, si può fare riferimento al discorso tenuto dal Guardasigilli Dino Grandi del 31 gennaio 1940 (5), durante il quale nel rapporto di Mussolini alle commissioni per la riforma dei codici si indicava, attraverso il recupero e la reinterpretazione del diritto romano classico giustinianeo in chiave servente al nuovo potere politico, l’opportunità di portare all’approvazione del Gran Consiglio i principii generali dell’ordinamento fascista, letti come il fondamento dell’esigenza dell’autorità dello Stato che si esprime in un nuovo e più ampio concetto di ordine pubblico. Si tentava, quindi, di dare positivizzazione, anche formale, al nuovo ordine pubblico dell’ordinamento fascista per garantire unitarietà, compattezza e solidità al nuovo ordinamento giuridico.
La tutela dell’ordine giuridico, così individuata, portò negli anni della dittatura fascista ad un proliferare di interventi normativi che, in ossequio all’ordine pubblico, producevano norme altamente limitative della libertà: il concetto è stato quindi applicato sostanzialmente attraverso un generalizzato ed indisturbato potere di polizia, rivolto a mantenere l’ordine fascista sul piano ideale. L’evoluzione del concetto di ordine pubblico, in senso palesemente antidemocratico e “praeter legem”, era funzionale alla lettura fascista dell’ordine pubblico stesso, come valore ideale ed autonomo. Questa interpretazione dell’ordine pubblico è stata trasdotta, inevitabilmente, nei lavori preparatori del codice civile del 1942 ed ha trovato indicazione anche nell’articolo 12, disp. prel., allorquando si fa riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, facendo coincidere il concetto di Stato con l’ organizzazione politica della società nazionale e interprete della coscienza sociale, confermando il ruolo assunto dall’ordine pubblico nel significato poc’anzi esposto.
La necessità di tutelare l’ordine fascista, quindi, porta alla strutturazione di un impianto normativo servente allo Stato, definendone i tratti tipici di uno Stato di polizia, volto al mantenimento dell’ordine, inteso non tanto come difesa della cittadinanza, ma come difesa del sovrano da eventuali moti di ribellione. L’impostazione ideologica-strutturale ordinamentale, si traduce nell’effettività dei rapporti e quindi nella sostanza dei fatti giuridico-sociali, con una repressione ideologica ed una catena impeditiva delle libertà positive delle persone. Si trattava di un concetto interpretato in senso assoluto e “ideale”, alla luce del quale ogni espressione di dissenso poteva esser letta come l’avvisaglia di una guerra civile (6). Emblematico, nell’intento di analizzare l’applicazione del concetto di ordine pubblico, rimane il giudizio del grande criminalista tedesco Karl Binding (riportato da INSOLERA, 2016, 294), il quale nel 1922, a fronte dell’analogo titolo previsto nel codice germanico del 1871, non esitava a definire la categoria dei delitti contro l’ordine pubblico come “il ripostiglio (Rumpelkammer) di concetti in cui collocare quanto risulta difficile sistemare altrove”.
Il codice civile del 1942, dunque, è un sostrato di reminiscenze del vecchio codice civile, fedele all’assetto ideologico e valoriale del codice civile Napoleonico e delle forze ideologiche fasciste poste al dominio non solo dello Stato, inteso come apparato, ma di tutta la collettività ancora lontana dal ruolo di sovrano, anzi, in questo periodo ridotta a sudditanza.
Nell’ideologia fascista, infatti, lo Stato esprime direttamente la volontà e gli interessi del popolo, onde i diritti dei singoli esistono in funzione dell’interesse collettivo, che serve a garantire l’esistenza e la libertà dei singoli e della Nazione, appunto perché l’individuo non è il fine, ma il mezzo dell’organizzazione sociale. Quanto fino ad ora affermato può rinvenirsi attraverso l’analisi dell’evoluzione interpretativa dell’articolo 5 del codice civile, che costituisce la più discussa disposizione civilistica, tra le poche redatte, espressiva dei diritti della persona. L’articolo 5 recita: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Tale disposizione, sebbene costituisce una novità sul piano normativo in relazione all’oggetto normativo, la persona, in sostanza ne svilisce l’importanza nell’efficacia del contenuto e nell’effettività della tutela. Infatti, nell’atto di disporre del proprio corpo, la persona si ritrova ad essere fortemente limitata e di conseguenza la tutela accordata alla vita ed in specifico all’integrità fisica della persona, sono relegati ai soli atti circoscritti a parti staccate dal corpo, perché quest’ultime vengono oggettivate sul piano giuridico divenendo cose e, per lo stesso motivo, la tutela si rivela come tutela di beni autonomi e separati dalla persona alla quale appartengono, circoscrivendo in tal modo il limite della normazione del tempo che si sostanzia nella spersonalizzazione, cioè nell’assenza della persona in tanto tale e di conseguenza nell’assenza del potere e del diritto di autodeterminarsi in tutte le situazioni giuridiche che le fanno capo. Ma non è tutto: da tale impostazione di principio, la disposizione del corpo intesa nel senso appena descritto deve avvenire esclusivamente per ragioni di pubblica utilità, non in funzione solidaristica, ma in funzione servente. Infatti, se viene concesso un diritto di disporre sul proprio corpo, esso deve essere indirizzato al perseguimento degli obiettivi generale senza che possano travalicarsi i limiti imposti dallo Stato, poiché lo scopo per ogni consociato deve essere quello di adempiere ai propri doveri sociali in ogni ruolo assunto dal medesimo nella società.
L’ordine pubblico, quale strumento di potere per la realizzazione e la giustificazione ideologica dei poteri impliciti (7), per tali motivazioni funzionali, influenza la stessa nozione di diritto soggettivo. A causa delle ragioni ideologiche appena descritte, l’unica via per disporre effettivamente del proprio corpo era rappresentata dal ricorso al combinato disposto di tale norma specifica, l’articolo 5 del codice civile con l’articolo 50 del codice penale, che disciplina il consenso dell’avente diritto, ritenendo che la disponibilità del corpo umano si esaurisse nell’ambito di applicazione di tale ultima disposizione; siffatta correlazione fu, peraltro, suggerita tanto dalla Relazione ministeriale del progetto definitivo al codice penale, quanto dai lavori preparatori dello stesso codice civile, i quali richiamavano espressamente l’art. 50 c.p. A tal proposito è utile richiamare brevemente un caso storico di disposizione del corpo, in relazione proprio all’articolo 50 del c.p. Qui di seguito viene esplicitato il fatto in questione: “Un giovane studente napoletano, ricoverato all’Ospedale degli Incurabili di Napoli per un’infezione intestinale, acconsente alla cessione di un proprio testicolo a favore di un facoltoso brasiliano, dietro un compenso di £ 10.000; nonostante l’esito positivo dell’operazione, venne promossa un’azione penale a carico dei medici e del giovane ricevente per il reato di lesioni personali. In tutti e tre i gradi di giudizio, seppur con argomentazioni diverse e in parte contraddittorie, viene esclusa l’illiceità penale del fatto, poiché ritenuta operante la scriminante dell’art. 50 c.p.. In particolare, la Corte di Cassazione attribuì rilievo centrale alla volontà dello studente, perché, pur ritenendo il bene integrità fisica indisponibile, evidenziò che nel caso di specie il pregiudizio derivante al disponente non fosse particolarmente grave, posto che non avrebbe impedito l’adempimento dei suoi “doveri in rapporto alla famiglia e allo Stato”; dall’altro lato, il ricevente aveva ottenuto un beneficio dall’operazione, in quanto ne risultavano ampliate la vigorìa sessuale e le potenzialità generative, a tutto vantaggio della Nazione e della sua politica demografica. La pattuizione del compenso venne, altresì, considerato un fattore irrilevante, in quanto non in contrasto con la morale sociale corrente (8)”.
In buona sostanza, il consenso dell’individuo (capace) ha la funzione di giustificare, rendendolo non punibile il comportamento di chi compia atti lesivi nei suoi confronti, solo se questi ultimi siano astrattamente consentiti al titolare del potere di disposizione e tale consenso normativo legittimante si valuta sulla base del parametro funzionale, già esplicitato, e relativo all’interesse collettivo, quindi funzionale allo Stato, perché sostanzialmente, in tale momento storico, non esiste la persona in quanto tale e quindi titolare del diritto di autodeterminarsi, ma esiste la persona in quanto funzionale agli scopi pubblici.
In tale fetta della normativa civilistica l’ordine pubblico indica, quindi, i principi basilari del nostro ordinamento sociale (9) avente la funzione di criterio valutativo della meritevolezza dell’agire negoziale, sia esso riferito allo strumento contrattualistico, che ad atti di disposizione del corpo, nell’ottica finalistica a vantaggio dello Stato. Il passaggio cruciale e progressista, che segna la svolta nel sistema dei diritti, avverrà dalla fine del regime fascista e dall’accentramento della tutela nella persona con la nascita della Costituzione. E’ proprio con la Costituzione, infatti, che si verifica l’evoluzione del sistema normativo, che dal servire lo Stato passa a servire la persona ed attribuisce a quest’ultimo il compito di tutelarla, non solo da se stessa e dagli altri, ma anche e soprattutto dallo Stato stesso. Con il cambiamento dell’assetto valoriale e dei principi posti alla base della convivenza sociale, muta anche il ruolo e la funzione svolta dall’ordine pubblico, che con la Costituzione, o meglio attraverso i principi in essa espressi, si avvia a divenire ciò che attualmente sembra essere una forma di tutela in funzione personalistica.

Note

(1) Sulla nozione di ordine pubblico nel codice civile si v. G.B. FERRI, voce Ordine pubblico (dir. priv..), in Enc. dir., XXX, Giuffè, Milano, 1980, p. 1043 ss.; G. Panza, voce Ordine pubblico (teoria generale), in Enc. giur. Trec., XII, Istit. Enc. It., Roma, 1991, p. 1 ss.; A. Guarnieri, voce Ordine pubblico, in Dig. disc. priv., XIII, Utet, Torino, 1995, p. 156 ss . Il Codice Napoleonico si limitava ad affermare, all’art. 6, che “le leggi che interessano l’ordine pubblico o il buon costume non possono essere derogate dalle convenzioni particolari”. In buona sostanza, l’ordine pubblico veniva inteso come sinonimo del carattere inderogabile della legge: dall’esame dei lavori preparatori si evince infatti che lo scopo dei compilatori del codice francese era quello di recepire nell’art. 6 la regola di Papiniano, secondo cui “Ius publicum privatorum pactis mutari non potest”, nonché la regola di Ulpiano, in virtù della quale “Privatorum conventio iuri publico non derogat”, entrambe, interpretate alla luce di un principio elaborato da Bartolo, vale a dire che “Contra tenorem legis privatam utilitatem continentis pacisci licet”.

(2) MALAURIE, L’ordre public et le contrat, Matot-Braine, Reims, 1953, p. 3; G. Passagnoli, Note sull'”ordre public” dopo la riforma del “code civil”, in Persona e Mercato, 2017, fasc. 4, pag. 7.

(3) L’ordine pubblico nel sistema giuridico francese, diviene sinonimo di ordine sociale sul piano empirico, derivante a sua volta, dall’Ancien règime e si fonda in sostanza, sull’abolizione della distinzione sociale sul piano ideologico e sul pieno riconoscimento della proprietà e dell’autonomia economica, sul piano concreto e normativo. Si tratta di una formula affermatasi nel momento in cui gli ideali rivoluzionari vengono cristallizzati in un corpo normativo organico, quale la codificazione napoleonica. Dopo i disordini del periodo giacobino, infatti, occorreva sostituire allo spirito della Rivoluzione, un quadro giuridico normativo, in grado di restituire il senso di dignità che la prima aveva, per certi versi, deluso. Nasce così un codice civile che si presenta sostanzialmente come “code du citoyen”, conforme al pensiero liberale radicato sul riconoscimento dei due tradizionali diritti fondamentali: “proprietà” e “libertà”, da intendersi come libertà economica, perché è proprio la ricchezza e come essa viene amministrata, a fungere da nucleo centrale ordinamentale. L’affermazione di quei principii fondanti la rivoluzione francese e la successiva normazione, può trovare effettività, solo attraverso l’equa distribuzione delle ricchezze e l’ordinato svolgersi dei rapporti negoziali e contrattuali.

(4) Sui poteri avocati da Mussolini durante il regime fascista, si prenda visione di Trifone Gianpaolo, Dallo Stato di diritto al diritto dello Stato, e-Book, p. 65, G. Giappichelli,2019; D’Addio Mario, “La crisi dello stato liberale e l’avvento dello stato fascista”, Il Politico, vol. 64, no. 4 (191), 1999, pp. 501–561.JSTOR, www.jstor.org/stable/43101905. Accessed 14 Oct. 2020.

(5) In I lavori preparatori dei codici italiani, una bibliografia, ministero della giustizia dipartimento per gli affari di giustizia biblioteca centrale giuridica, 2013, giustizia.it.

(6) Cit. Alessandra Pellegrini De Luca, La persistenza della cultura fascista si manifesta nel comportamento delle forze dell’Ordine, articolo pubblicato in The Vision il 3 Gennaio del 2020.

(7) FIANDACA-MUSCO, 2012, 474, secondo la cui valutazione in sostanza l’ordine pubblico così inteso sarebbe sinonimo di ordine legale costituito.

(8) Il caso si trova citato e descritto da S. RODOTÀ, ult. op. cit., p. 84, Cit. di I. Rapisarda, Il corpo umano come oggetto di diritto nell’era biotecnologica, Tesi di Dottorato, 2016; R. ROMBOLI, Sub. Art. 5, in Commentario del c.c. Scialoja Branca, a cura di Galgano, Delle persone fisiche, Bologna- Roma, 1988, 225 e ss; P. D’ADDINO SERRAVALLE, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, p. 21; e ss; A. SANTOSUOSSO, op. cit., p 139 e ss..

(9) G. CORSO, voce Ordine pubblico (dir. pubbl.), cit., p. 1058, (nel codice civile l’ordine pubblico era – ed è – da intendere come limite di efficacia alle manifestazioni di autonomia negoziale dei privati).

Bibliografia

A. Pellegrini De Luca, La persistenza della cultura fascista si manifesta nel comportamento delle forze dell’Ordine, articolo pubblicato in The Vision il 3 Gennaio del 2020.
D’Addino Serravalle, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983.
D’Addio, Mario. “La crisi dello stato liberale e l’avvento dello stato fascista”, Il Politico, vol. 64, no. 4 (191), 1999, pp. 501–561, JSTOR, www.jstor.org/stable/43101905.
Malaurie, L’ordre public et le contrat, Matot-Braine, Reims, 1953.
G. Passagnoli, Note sull'”ordre public” dopo la riforma del “code civil”, in Persona e Mercato, 2017, fasc. 4.
Trifone Gianpaolo, Dallo Stato di diritto al diritto dello Stato, e-Book, G. Giappichelli, 2019.

Abstract: La finanza neurale è una delle più recenti discipline afferenti alle neuroscienze; fino a trent’anni fa, ciò che oggi è realtà sperimentalmente provata all’epoca era ipotesi. La finanza comportamentale studia gli errori e le conseguenze economiche delle forze sia cognitive che emozionali che influenzano la mente umana nelle sue decisioni; spiega gli errori usando la psicologia, e ne analizza le implicazioni su scelte di investimento e mercati. La finanza neurale non offre una soluzione ai problemi che identifica. Le forze psicologiche agiscono in maniera spontanea. Sono quindi difficili da correggere, e causano errori di giudizio in tutti, inclusi gli esperti ei governi. Fornisce però utili indicazioni su come contenere i nostri errori, perché ci aiuta a capire quando il nostro giudizio è più fallibile.

La finanza neurale è una delle più recenti discipline afferenti alle neuroscienze; in particolare, se ripercorriamo lo sviluppo di questa branca della biologia almeno fino a trent’anni fa, ciò che oggi è realtà sperimentalmente provata all’epoca era ipotesi. Oggi i metodi radiologici più comuni per l’indagine morfologica sono la TAC e la RM (Risonanza magnetica); la PET ( Tomografia a emissione di positroni ) e la FMRI ( Risonanza magnetica funzionale ) sono due altri metodi radiologici di neuroimaging funzionale, che consentono di studiare la localizzazione cerebrale delle funzioni cognitive e motorie superiori. Soprattutto queste ultime due tecniche sono molto impiegate in finanza neurale.

Le reti neuronali
Le reti neuronali del cervello umano – cioè le cellule nervose deputate alla ricezione e alla comunicazione dei vari impulsi e non le cellule di sostegno – sembrano essere la sede della nostra capacità di comprendere l’ambiente ei suoi mutamenti e di fornire quindi risposte adattivo calibra sulle esigenze che si presentano. Un singolo neurone può ricevere simultaneamente segnali da diverse sinapsi (collegamenti), misurare il potenziale elettrico di tali segnali in modo globale e pubblicizzare quindi se è stata raggiunta la soglia di attivazione per generare alla sua volta un impulso nervoso. Tale proprietà è implementabile. In riferimento al nostro tema, oggi si mettono le persone sotto risonanza magnetica funzionale e poi si fa fare loro delle scelte di portafoglio guardando quali regioni del loro cervello si attivano.

Razionalità e scelte finanziarie
Le persone non si comportano sempre in modo razionale e spesso non essere razionali possono davvero fare la differenza. Giudicare la dimensione assoluta di qualcosa è incredibilmente difficile e il cervello utilizza costantemente altre prerogative per ricavare informazioni dall’ambiente e si adatta costantemente agli errori che il cervello fa perché cerca costantemente di riempire le carenze di informazione e noi gli crediamo. Il cervello fa supposizioni sul mondo che ci circonda e ha ragione in queste ipotesi, ma una volta ogni tanto queste ipotesi sono sbagliate e portano a errori nella percezione e conseguentemente nei giudizi.
Gli esseri umani sono da sempre una specie esposta al rischio dell’integrità economica nei comportamenti, ma una cosa è il rischio reale e un’altra la percezione che se questo rischio ha il soggetto. La percezione del rischio – non il rischio in sé – influenza le decisioni e le azioni a queste conseguenti, come ad esempio, l’adozione di un comportamento di protezione di fronte ad un evento ritenuto e percepito come rischioso o pericoloso. La mente spesso fa brutti scherzi; in particolare, la questione è relativa ai pregiudizi cognitivi che influenzano la percezione dei dati finanziari e all’elaborazione di questi dati nelle varie fasi del processo decisionale di investimento. Se l’investitore ha un orizzonte a lungo termine e se i rendimenti non sono distribuiti in modo indipendente nel tempo, allora l’investitore potrebbe volersi proteggere dalle variazioni dei rendimenti azionari, dei rendimenti obbligazionari e dalle variazioni dei tassi di cambio. Poi c’è il problema di come affrontare il rischio di stima. Quando prendiamo una decisione finanziaria ci sono tre fasi principali. Prima di tutto, c’è un passo importante nella definizione dell’universo di investimento. Che tipo di dati, a che tipo di risorse hai intenzione di rivolgerti per allocare la tua ricchezza? La seconda fase è l’elaborazione delle informazioni prima e la costruzione della strategia di investimento ottimale dopo, basata su queste informazioni elaborate. La terza fase è legata al fatto che, anche se ad un certo punto nel tempo abbiamo creato una strategia ottimale basata sulle informazioni disponibili, è molto probabile che in futuro dovremo adeguarci per riequilibrare il nostro portafoglio. Ciò determinerà l’acquisto e la vendita di decisioni relative al portafoglio e in questa terza fase potrebbero anche essere ingannati dalla nostra mente e nelle nostre decisioni potrebbero essere di fronte a qualche pregiudizio.

Pregiudizi, euristiche e “ bias ” nelle scelte e nell’economia
La finanza neurale è di fatto comportamentale; è nata circa trent’anni fa dalle critiche mosse al modello razionale dagli psicologi Daniel Kahnemann (premio Nobel per l’Economia nel 2002 e poi cofondatore di un fondo speculativo che ha avuto esiti disastrosi) ed Amos Tversky, si è sviluppata grazie ai lavori tra gli altri di Robert J. Shiller (Nobel 2013) e Richard Thaler (Nobel 2017).
La finanza comportamentale studia gli errori e le conseguenze economiche delle forze sia cognitive che emozionali che influenzano la mente umana nelle sue decisioni. Spiega gli errori usando la psicologia, e ne analizza le implicazioni su scelte di investimento e mercati, ma non offre una soluzione salvifica ai problemi che identifica. Le forze psicologiche agiscono in maniera spontanea. Sono quindi difficili da correggere, e causano errori di giudizio in tutti, inclusi gli esperti ei governi. Fornisce però utili indicazioni su come contenere i nostri errori, perché ci aiuta a capire quando il nostro giudizio è più fallibile.
Questo approccio ha migliorato la nostra comprensione di importanti fenomeni quali l’instabilità finanziaria, la possibilità di prevedere i prezzi dei titoli e gli errori che spesso commettiamo nei nostri investimenti.
La contemporanea crescita delle neuroscienze e lo sviluppo su basi diverse dagli anni ’80 dell’intelligenza artificiale nutre la tendenza verso la democratizzazione delle scelte, con molti domini che passano dal controllo degli esperti a quello diretto degli individui, dove le decisioni individuali hanno sempre più influenza sull’allocazione del capitale.
Euristiche e bias sono definibili rispettivamente come scorciatoie ed errori sistematici del pensiero. Il modo in cui le decisioni vengono prese è oggi descritto da procedure decisionali molto semplificate, spesso intuitive e su base utilitaristica (la pseudo-logica del “ mi conviene o no ?”), non governate quindi da nessun criterio logico-matematico; è una semplificazione operativa che consente all’individuo di risparmiare risorse cognitive. Si tratta di strategie di risoluzione dei problemi chiamate “ euristiche del pensiero ”, cioè vere e proprie scorciatoie prodotte dall’intuizione che permette all’individuo di gestire un problema complesso compatibilmente con le caratteristiche dei suoi sistemi di immagazzinamento e di elaborazione delle informazioni, per giungere a conclusioni soddisfacenti ma non sempre corrette. L’essere umano tende ad applicare queste procedure di tipo euristico spesso tralasciando le informazioni statistiche rilevanti e disponibili. Secondo Kahneman e Tversky il pensiero logico e le decisioni razionali dell’uomo non sono tanto influenzati dalle emozioni, bensì dagli errori sistematici del pensiero ( bias): le incoerenze e le distorsioni di giudizio sono perciò direttamente imputabili al sistema cognitivo umano.

Distorsioni cognitive nella percezione dell’economia reale
Le scelte sbagliate in economia sono l’esito di un processo cognitivo semplificato e illogico. La cosa non è trascurabile perché, in estrema sintesi, se delle questioni dell’economia ho una percezione semplificata a tal punto da essere errata, questa mia azione mina alle basi la società perché poi opererò delle scelte sulla base di questa percezione errata; la considerazione può essere estremizzata fino al punto di inficiare lo svolgimento del processo democratico perché con in mente queste cose sbagliate sull’economia giudicherò anche le azioni del governo e andrò anche a votare. Purtroppo, chi pensa che l’economia sia una serie di espressioni numeriche che portano – o sono supposte portare – ad una sintesi più ordinata delle cose del mondo, si sbaglia, ma non nel senso che questo non sia vero, ma nel senso che prima bisognerebbe capire da dove nascono certi modi di pensare che ormai ci appartengono in tal modo da fare unità con il nostro essere di tutti i giorni. Le nostre istituzioni politiche e sociali, i politici ei media tendono a riflettere su idee sbagliate anziché correggerle. E non è una questione teorica che interessa solo gli economisti perché qui la cosa interessa tutti coloro che si preoccupano della qualità della nostra democrazia. È sorprendente che ancora oggi esista una conoscenza diffusa dell’economia basata su vari fraintendimenti del vero ed essenziale significato dei processi economici, quando non su vere e proprie sciocchezze. Precomprensioni e idiozie varie in economia vengono spesso vestite da immancabili e non trascurabili logiche falsità cui però si tende a credere se non vogliamo che cada l’intera impalcatura concettuale che in genere spiega certi fenomeni delle nostre società, come ad esempio, e senza andare a disturbare astruse concettosità matematiche, la circolazione della moneta o il meccanismo di concessione del credito. Conoscere male e quindi interpretare peggio i concetti economici significa in ultima istanza minare alle basi il processo democratico perché chi sa le cose male pensa male e poi va a votare o giudicare i governi e le azioni politiche sulla base di niente. In certe situazioni storiche l’umanità è minacciata dall’errore cognitivo di intendere in modo improprio e scorretto quello che succede nel mondo e questa battaglia tra conoscenza e ignoranza viene vissuta in termini che simbolizzano alcune delle più acute contraddizioni dell’economia di mercato. Leiser e Kril dicono addirittura che la mente umana ” non è particolarmente equipaggiata per pensare all’economia“, portando acqua al mulino della tesi di coloro che ormai irrimediabilmente pensano all’esistenza dell’economia dei fraintendimenti o, peggio, che l’intera economia sia inutile. Di fronte a questo le persone ricorrono alle metafore, come ad esempio quando dicono che i governi dovrebbero gestire le finanze pubbliche come si fa con le finanze di una famiglia. La scarsa comprensione pubblica dell’economia è una questione che alla lunga conduce ad assumere atteggiamenti anti-mercato che sono altamente distruttivi e destabilizzanti perché il mercato sconta tutto, nel senso che comprende tutto, e chi va contro il mercato non trova mai soddisfazione ma rovina I teorici di tutto il mondo sono diventati consapevoli del fatto che qualsiasi cosa in economia basata su modelli matematici improbabili trascura alcuni aspetti cruciali del mondo, il cui riconoscimento è. necessario; l’applicazione del mondo reale all’apice dell’economia matematica e al nucleo dell’economia standard è una prova del potere del malinteso. A tal proposito Joseph Stiglitz nel 2011 ha affermato che il fatto che l’economia teorica esistente venga talvolta presa sul serio dai politici, dai banchieri centrali, dagli uomini d’affari e dagli stessi economisti non è una prova della sua validità, ma piuttosto delle lacune diffuse nelle loro conoscenze.

Crisi economica come risultato di una distorsione cognitiva?
Il fatto semplice è che se c’è una crisi economica significa che la metodologia teorica applicata ai modelli economici in vigore fino a quel momento è sbagliata. Nel caso dell’economia la metodologia riguarda la demarcazione tra scienza e non-scienza (Popper, 1980) perché l’economia, se la scienza è identificabile con ciò che è ripetibile, non è una scienza bensì una disciplina che deve continuamente essere verificata e corretto.

Alcuni disordini concettuali
Il punto chiave è che le leggi universali sono prese come premesse. Il segno distintivo dell’economia sono le leggi deterministiche mentre la matematica è puramente deduttiva. È noto che un matematico è uno scienziato che non conosce né di cosa sta parlando, né se ciò di cui sta parlando esiste o no. Il semplice fatto che i prodotti del puro ragionamento deduttivo corrispondono in molti casi esattamente agli oggetti e ai processi della realtà ha lasciato perplessi fisici, filosofici e matematici stessi dai tempi degli antichi greci. Oggi il giudizio, l’informazione, ma, viste le nostre ultime considerazioni sugli errori cognitivi, anche la fede, la speranza e la carità, esercitano la loro dovuta influenza sulla natura del pensiero economico. L’essenza dell’intera questione è, piuttosto, l’indicazione di un fallimento della ragione.

Coerenze ed incoerenze della mente che generano fraintendimenti cognitivi pericolosi da un punto di vista sociale
La storia ci insegna che le premesse elementari sbagliate sono il focolaio degli errori che contano di più. L’economia si basa per i suoi assunti e ragionamenti, più o meno condivisibili, sull’osservazione più o meno corretta della realtà passata, ma considerare la realtà una semplice elaborazione di dati provenienti dal mondo reale è un errore logico e metodologico. Intanto l’economia non è una scienza: ci vuole poco per sapere che la sua più grave mancanza metodologica è la totale impossibilità di fare esperimenti. Negli anni Cinquanta del secolo scorso il presidente americano Harry Truman aveva chiesto di avere tra i suoi consulenti solo economisti ” con un braccio solo” per non sentire ” da una parte ” seguito da ” dall’altra parte “. Nel bene e nel male, tuttavia, l’economia e le politiche che ispira hanno un impatto in ogni angolo del globo. Ecco alcuni fraintendimenti tra i più pericolosi che hanno seguito gli economisti da Adam Smith in poi ei loro esiti perniciosi.

Fraintendimento 1 – Il debito pubblico non ha nessuna importanza . Questo modo di vedere le cose porta alle affermazioni, sentite da ogni parte politica, di non preoccuparsi se il debito pubblico vendita perché i risparmi delle famiglie lo superano in quantità depositate in banca di almeno quattro o cinque volte. Il che significa che io stasera vengo a mangiare a casa vostra dicendo che è mia solo perché abitiamo nello stesso paese.

Fraintendimento 2 – I governi possono salvarci . In molti casi, le soluzioni governative ai problemi economici possono trasformarsi in schemi di debito contro debito per ridistribuire la ricchezza in aree che acquisteranno sostegno politico.

Fraintendimento 3 – Il palloncino è inevitabile. La vendita è un prodotto di macchine da stampa e, peggio ancora, è come se fosse una tassa aggiuntiva sui guadagni delle persone. L’ aiutare solo il governo, a lungo termine, costringendolo a destinare sempre più fondi per ottenere le stesse cose, riducendo però allo stesso tempo il valore reale dei suoi debiti. Non è un caso che il principale beneficiario del pacchetto, unico proprietario del rotativo, abbia grandi difficoltà a controllarla.

Fraintendimento 4 – Libero mercato significa nessun regolamento . I gruppi di interesse dei consumatori e gli standard industriali autoimposti sono due poteri che gli economisti del libero mercato sostengono potrebbero sostituire la maggior parte delle normative governative, risparmiando allo stesso tempo denaro dei contribuenti e spreco di burocrazia.

Fraintendimento 5 – Le tasse non influenzano la produzione di servizi . L’economia di Smith, von Hayek e Friedman è semplice e diretta e suggerisce un mondo ideale di tasse basse, autoregolamentazione e denaro vero, cioè denaro con un forte potere di acquisto. I desideri dei governi mondiali che gestiscono macchine da stampa per soldi sono contrari a questo modello di economia. Quindi, abbiamo una richiesta di teorie concorrenti che, contrariamente all’esperienza, richiedono deficit, stimoli governativi, obiettivi inflazionistici e massicce spese pubbliche. Mentre è bello esporre le proprie critiche, è difficile essere entusiasti della possibilità di cambiamento. Non importa se ci siano economisti intelligenti o no, perché governano solo ciò che vogliono e lamentarsi fa sempre comodo e risulta essere più semplice che rimboccarsi le maniche.

Fraintendimento 6 – L’inflazione è causata da ” troppa domanda . Il vero rischio associato alla creazione di troppi soldi è che ciò porta a un calo del suo valore di mercato, facendo aumentare i prezzi in termini monetari. La teoria dei rapporti del livello dei prezzi valutare che il livello dei prezzi è una misura relativa del valore del paniere di beni in termini di valore del denaro. A breve termine, è discutibile se nell’equazione sia il numeratore o il denominatore quello che conta di più Se facciamo un passo indietro e considerare a cosa spinge i prezzi più in alto per lunghi periodi di tempo, è molto difficile immaginare come ” troppa domanda ” possa essere la forza trainante. Dopo tutto, la teoria microeconomica di base ci dice che troppa domanda oggi sarà generalmente soddisfatta da un aumento dell’offerta ad un certo punto nel prossimo futuro. Pertanto, qualsiasi aumento del valore del paniere di beni, misurato in termini assoluti, è probabile che sia di natura temporanea Il motore principale dell’aumento per lunghi periodi di tempo è la troppa domanda ma piuttosto un calo del valore del denaro. Se le banche centrali aumentano la base monetaria ad un tasso superiore alla crescita del prodotto reale, allora il valore del denaro diminuirà ei prezzi, come espressi in termini monetari, aumenteranno.

Fraintendimento 7 – La vendita è causata da troppi soldi in circolazione . Per brevi periodi di tempo, la vendita non è causata da troppi soldi in circolazione, ma piuttosto dalle aspettative di troppi soldi. Una distinzione molto importante nella pratica. Ad esempio, può spiegare perché la teoria quantitativa del denaro funziona a lungo termine, ma non nel breve periodo. Il denaro è uno strumento azionario di lunga durata, in forma speciale, che rappresenta una proporzionale sulla produzione futura della società. Non è la quantità di denaro che viene creata oggi a spingere il valore del denaro, ma piuttosto le aspettative riguardo ai futuri livelli di creazione di denaro.

Fraintendimento 8 – Offerta e domanda determinano il prezzo di un bene: un equivoco sull’economia moderna è che l’offerta e la domanda di un bene ne determinano il prezzo . Il mito che il prezzo di un bene è determinato esclusivamente dall’offerta e dalla domanda di quel bene è stato sostenuto per un lungo periodo di tempo perché si basa su una mezza verità. L’offerta e la domanda di un bene determinano il valore di mercato di quel bene. Ma il prezzo di un bene, in termini di un altro, dipende dal valore di mercato di entrambi i beni scambiati.

Fraintendimento 9 – L’economia non è altro che l’incrocio tra domanda e offerta . La rappresentazione tradizionale del paradigma della domanda e dell’offerta, con il prezzo sull’asse delle ordinate, oscura la vera natura della determinazione del prezzo. Al livello elementare e grossolano, un ” prezzo ” non è altro che un rapporto tra due quantità scambiate. Questo rapporto di cambio è determinato dal relativo valore di mercato dei due beni scambiati. Per definizione, non possiamo misurare una relazione relativa tra due beni a meno che entrambi i beni posseggano la proprietà che viene misurata, cioè la proprietà di ” valore di mercato “. Entrambi i beni devono possedere la proprietà del valore di mercato e, pertanto, devono esserci due processi di mercato indipendenti al lavoro. Più specificamente, l’offerta e la domanda per il primo bene determinano il valore di mercato del primo bene. L’offerta e la domanda per il secondo valore di misurazione determinano il valore di mercato del bene di confronto. Il prezzo del primo bene in termini di valore di misurazione è un’espressione relativa del valore di mercato di entrambi i beni e, pertanto, è determinato dall’offerta e dalla domanda di entrambi i beni.

Fraintendimento 10 – L’offerta e la domanda di denaro determinano il tasso di interesse . Questo secondo mito economico si è mantenuto per quasi un secolo perché, almeno in apparenza, sembra abbastanza credibile. Ad esempio, se chiedo di prendere in prestito del denaro, qual è il ” prezzo ” di quel denaro? Si potrebbe obiettare che il prezzo di quel denaro è il tasso di interesse che mi viene addebitato. Non bisogna confondere però il “ prezzo del denaro ” con il “ costo del credito ”. Quando qualcuno prende in prestito denaro da un’altra persona, allora quell’atto crea uno strumento di credito e il costo di quel credito è il tasso di interesse. Potremmo chiamare il tasso di interesse il ” prezzo del credito “, ma in realtà non è affatto un prezzo perché tecnicamente un ” prezzo ” è un rapporto di cambio, cioè una quantità di un bene per una quantità di un altro. Se il ” prezzo del denaro ” è un rapporto di cambio, non è un tasso di interesse. Quindi, tecnicamente, il denaro non ha un solo prezzo, ma molti prezzi, a seconda di quale sistema di misura si sta utilizzando per misurare il valore del denaro. In sintesi, l’offerta e la domanda di moneta determinano il valore di mercato del denaro, non il tasso di interesse.

Fraintendimento 11 – Il denaro è valido quanto la società che lo emette . Prendiamo il problema del debito pubblico: si può risolvere domani con uno schiocco di dita. Il problema dei soldi si può risolvere sempre, quello delle risorse no e le risorse del mondo sono limitate, al contrario della malafede dei banchieri. I soldi si possono riprodurre all’infinito perché non sono nulla. Come abbiamo visto, Aristotele diceva che il denaro è un simbolo, è simbolico, qui noi diremmo che addirittura si basano su una fantasia. Pensiamo che con la carta stampata che abbiamo nel portafogli possiamo ancora comprare il cibo per la cena e il pranzo perché i vostri biglietti stampati hanno il cosiddetto “ corso forzoso ” che obbliga tutti ad accettare quella moneta e non un’altra a pagamento. I soldi possono perdere valore da oggi a domani perché non sono un valore, sono un patto.

Perché le persone investono nei mercati finanziari?
La prima risposta è il guadagno finanziario, l’aumento della ricchezza personale. La seconda serie di risposte è che lo fanno per il brivido perché a loro piacciono le emozioni che stanno dietro l’investimento, che però in tal caso si trasforma in gioco d’azzardo. Il terzo motivo riguarda cose come lo status e il valore da considerare come investitori. Potremmo divertirci a sbalordire i nostri colleghi, la nostra famiglia, i nostri amici. Potremmo divertirci a dire, “ lo sapevo ” anche se non l’abbiamo mai saputo. Il primo di questi tre motivi è davvero l’unico da cui è possibile derivare una strategia di massimizzazione dei ritorni finanziari. Gli altri due motivi indicano che si è disposti a rinunciare al denaro, ma a pagare un prezzo per soddisfare bisogni emotivi o personali. Ogni volta che riscontriamo un guadagno o una perdita, sperimentiamo anche qualche forma di risposta fisiologica o emotiva ed è importante sapere cosa significa la ricompensa che proviamo quando riceviamo guadagni finanziari dal punto di vista del nostro cervello. Non sono diversi dalla ricompensa che proviamo quando assumiamo cibo o cocaina. È la stessa regione nel cervello che elabora queste ricompense. Lo stesso vale per le perdite. Quindi anche le perdite vengono elaborate in regioni del cervello che elaborano altri stimoli negativi come dolore, disgusto o pericolo. Ora, oltre a queste emozioni di base come la felicità e la paura in risposta a guadagni e perdite, è possibile sperimentare anche altre emozioni come ansia, rabbia, speranza, avidità. E tutte queste influenzeranno le decisioni finanziarie da prendere, facendoci fare scelte sbagliate.

In molti reclamano a gran voce, per la nostra economia, un ritorno alla lira e alla sovranità monetaria: sarebbe efficiente ed economicamente vantaggioso?
Coloro che sostengono ciò sottolineano come la sovranità monetaria abbia permesso al nostro Paese, soprattutto nel decennio a cavallo tra gli il 1970-1980, di vivere un vero e proprio miracolo secondo economico. Ma è davvero così?
Tornare alla lira vorrebbe dire che i nostri creditori, che hanno stipulato con il Paese un contratto concernente il pagamento in euro della liquidità dati in prestito attraverso la consegna di titoli di Stato per finanziare il disavanzo pubblico, verrebbero remunerati in lire. Inevitabilmente, data la minore appetibilità della valuta domestica rispetto all’euro, essi richiederanno interessi crescenti per poter compensare il maggior rischio derivante da tale decisione di politica monetaria.
Improvvisamente ci ritroveremmo con una moneta svalutata rispetto all’euro, ovvero dal minor potere d’acquisto, che potrebbe nel breve periodo favorire le esportazioni, dal momento che i nostri beni e servizi all’estero risulteranno essere molto più convenienti, con ripercussioni positive sulla produzione interna e sull’occupazione.
Ragionamento, ahimè, inverso sul fronte delle importazioni. L’Italia, non essendo un Paese economicamente autosufficiente nella produzione di beni energetici e materie prime, necessita di aprirsi agli scambi commerciali con il resto del mondo per poter reperire tali risorse, fondamentali, per i nostri processi produttivi e la nostra economia. Presentarsi sui mercati finanziari internazionali, le cui quotazioni ufficiali avvengono in dollari americani, con una valuta debole come la lira italiana, non farebbe altro che incrementare la quantità (nominale) di lire che occorrerebbero per acquistare suddetti beni e servizi esteri. Il tutto si tramuterebbe in una contrazione crescente e duratura dal momento che le imprese, avendo acquistato gli input necessari alla produzione, riverseranno i maggiori costi sostenuti sui prezzi di vendita di beni e servizi, con conseguenze negative per i consumatori finali.
La maggiore vendita, gonfiando il Pil, contribuirebbe nel breve periodo ad abbattere il rapporto debito/Pil e a salvaguardare le nostre finanze pubbliche, ma nel lungo periodo chi acquisterebbe i nostri titoli di Stato denominati in lire?
Vi sono, qui, due possibili alternative:
– Il sistema bancario italiano
– I contribuenti italiani
Il sistema bancario, molto probabilmente, sarebbe a rischio stabilità dal momento che, un annuncio di un ritorno alla lira, farebbe precipitare in massa i correntisti verso gli istituti di credito, desiderosi di rientrare in possesso della loro liquidità, temendo dunque per i propri risparmi e per il possibile verificarsi di un contagio finanziario su larga scala.
Il sistema bancario, a causa di questa forte incertezza ed instabilità, dovrebbe privarsi della liquidità dei correntisti, la voce principale dell’attivo del bilancio, assistendo così ad un’esplosione delle passività dal momento in cui il sistema bancario dovrebbe vendere asset e attività strategiche per colmare il disavanzo finanziario con i correntisti.
Il sistema bancario, sull’orlo del collasso finanziario, potrebbe essere salvato dal Governo attraverso piani di acquisizione e una nuova legge che vieti ai correntisti di poter richiedere indietro i propri risparmi. Le banche, contestualmente, essendo state di fatto pienamente nazionalizzate, si impegneranno ad acquistare titoli di Stato italiani finanziando così il disavanzo pubblico statale.
Gli investitori italiani, a differenza di quelli esteri, non avranno occasione a speculare sulla stabilità finanziaria del Paese e, probabilmente, saranno molto più propensi a detenere nei loro portafogli titoli di debito pubblico italiano garantendo così, al Paese, il giusto flusso di liquidità per salvaguardare il funzionamento della complessa macchina statale, stabilizzando al tempo stesso il debito evitandone una sua repentina esplosione che potrebbe comportare conseguenze devastanti per l’intero tessuto economico-sociale italiano.
Perciò, ci ritroveremo con un sistema bancario interamente nazionalizzato, un’inflazione crescente e una crescita economica nulla.
Ma cosa accadrebbe in caso di attacco speculativo alla lira?
Investitori esteri, fondi di investimento potrebbero decidere di vendere in massa titoli di debito pubblico italiano, come avvenne nel 1992 ad opera di George Soros, facendo così precipitare il valore e la stabilità della lira, innescando una spirale inflazionistica spaventosa.
Cosa dovremmo fare allora per tutelare la nostra economia?

La Banca d’Italia, affinché la lira mantenga il suo valore economico e il suo potere d’acquisto nei confronti delle altre principali valute nello scacchiere finanziario internazionale, dovrebbe attuare un regime di tassi di cambio fissi nei confronti delle principali valute mondiali, intervenendo con operazioni di acquisto e vendita di valuta domestica ed estera al fine di rispettare la parità nei rapporti di cambio.
Mirando a mantenere un rapporto di cambio fisso con il dollaro americano, il nostro Paese starebbe implicitamente delegando la propria politica monetaria alle decisioni varate dalla Federal Reserve Bank degli Stati Uniti in quanto, per poter preservare l’intero apparato economico-produttivo italiano, saremmo vincolati alla politica monetaria americana e non avremmo alcun incentivo, ma soprattutto convenienza, a deviare da questa traiettoria. Qualora gli Stati Uniti adottassero una politica monetaria espansiva, per superare una recessione, il dollaro tenderebbe a deprezzarsi, a causa della maggiore quantità di moneta nel sistema economico. La Banca d’Italia, per poter mantenere la parità pattuita con il dollaro americano, dovrebbe vendere valuta domestica (Titoli di Stato) nei mercati finanziari ed acquistare titoli di Stato americani (US Treasury Bond). Procedimento analogo, ma inverso, accadrebbe qualora il Paese, cui abbiamo delegato la gestione della nostra politica monetaria, attuasse una politica economica restrittiva per calmierare l’inflazione e la crescita economica.
Qualora, però, decidessimo di mantenere un regime di cambi flessibili nei confronti delle altre valute, la Banca d’Italia dovrebbe disporre di adeguate riserve finanziarie (oro e riserve di valute estere) per poter contrattaccare i plausibili attacchi speculativi cui la nostra valuta, non essendo vincolata ad alcuna valuta economicamente forte e stabile, sarebbe soggetta. La Banca d’Italia per mitigare gli effetti distorsivi sul sistema economico di un attacco speculativo alla nostra valuta, dovrebbe intervenire con operazioni di acquisto nei mercati finanziari cedendo attività denominate in valuta estera ed acquistando valuta domestica. Questa strategia di politica monetaria è vincente e sostenibile solo qualora le riserve, a disposizione della Banca Centrale, fossero sufficienti per stabilizzare il sistema finanziario, ma cosa accadrebbe qualora la Banca Centrale, impegnata in una vera e propria guerra per garantire la stabilità della nostra valuta domestica, terminasse le riserve di valuta estera?
La nostra valuta domestica, la lira appunto, economicamente sarebbe ridotta a cartastraccia e il nostro Paese, con un iperinflazione prossima a quella registrata nel 1920 nella repubblica tedesca di Weimar, sarebbe prossimo al default finanziario.
Lo Stato italiano non sarebbe più in grado di onorare il servizio del debito pubblico e l’intero sistema finanziario-bancario, essendo tra i primi creditori domestici dello Stato, a causa del crollo repentino nel valore dei titoli, dovrebbe dichiarare fallimento e chiudere i battenti .
L’Italia, perciò, economicamente e finanziariamente non esisterebbe più e, qualora ciò avvenisse, staremmo parlando di un disastro finanziario di portata inimmaginabile per le conseguenze che da ciò potrebbe derivare, non solo per l’economia italiana ma per la tenuta e solidità finanziaria del mondo intero.
Come afferma il trilemma di Mundell non si possono avere contemporaneamente cambi fissi, autonomia di politica monetaria e libertà dei capitali perciò, per poter salvaguardare la nostra lira, e nell’ipotesi stringente, quanto poco realistica dati gli effetti e le conseguenze che ne deriverebbero, di voler mantenere una flessibilità nei tassi di cambio dobbiamo rinunciare alla libertà dei movimenti dei capitali, e sostanzialmente è quello che accadde in Italia negli anni ’80 quando i nostri concittadini fuggendo all’estero, di nascosto, con le borse piene di lire, cercavano riparo, per i propri risparmi, in svizzera e in qualche altro paradiso fiscale.
Siamo sicuri di voler tornare in questo mondo?

NOTA

[1] Il Prodotto interno lordo altro non è che la semplice moltiplicazione tra i prezzi di mercato e le quantità prodotte in un’economia in un dato intervallo di tempo.

[2] Robert Alexander Mundell è stato un economista canadese, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1999, per la sua analisi della politica fiscale e monetaria in presenza di diversi regimi di cambio e per i suoi contributi sulle analisi delle aree valutarie ottimali .

1. La Costituzione: l’unica Stella Polare da seguire
Per iniziare, suggerisco di focalizzare l’attenzione alla Costituzione richiamando le parole del Presidente della Repubblica Mattarella dal consueto discorso alla Nazione di fine anno del 31 dicembre 2022: […] «La Costituzione resta la nostra bussola, il suo rispetto il nostro primario dovere; anche il mio».
Troviamo innanzitutto un caloroso invito a percorrere una strada che seppur sia inevitabilmente tortuosa e di difficile percorso, risulta essere l’unica e sola percorribile. Infatti, senza la Costituzione a fungere da bussola, ci perderemmo in vie che apparentemente potranno risultare maggiormente semplici e convenienti, ma che a lungo andare si rivelerebbero ingannevoli e nocive. Percorrere una strada avendo tra le mani una bussola diversa dalla Costituzione ci condurrebbe a destinazioni caratterizzate da illegalità, disparità economico-sociali ancor più marcate di quelle attuali ed opportunismo. L’osservanza attenta e meditata della nostra Carta fondamentale – e di concerto anche dei Trattati europei – non deve tradursi nella basica lettura di belle parole alle quali addossare astratte e talvolta superficiali buone intenzioni: al contrario, il suo rispetto deve incarnarsi attraverso azioni concrete atte a plasmare il quotidiano di ciascuno, il tutto in piena aderenza alle rispettive responsabilità e capacità di ogni cittadino. Gli articoli della Costituzione da una parte prevalgono su ogni cittadino e potere e dell’altra, garantiscono intensamente ognuno [1]. Ciascun articolo della Costituzione richiede indubbiamente un’analisi approfondita. Tuttavia, nel presente saggio, mi limiterò ad affrontare esclusivamente alcune tematiche che ritengo rilevanti e che mi stanno particolarmente a cuore: per tale motivo, auspico che tali questioni possano ricevere un’attenta ed oculata considerazione nel corso del nuovo anno, con la consapevolezza che i cambiamenti non avvengono tramite rapidi mutamenti, da una notte all’alba successiva.

2. L’ importanza del lavoro attribuita dalla Costituzione e nuovi paradigmi occupazionali
Un tema che infiamma l’opinione pubblica oltre che politica è sicuramente quello del lavoro: il primo articolo della Costituzione infatti, afferma che «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Già da tale enunciato si può comprendere l’importanza attribuita alla dimensione lavorativa, dello scopo che questa dovrebbe raggiungere, ovverosia il «progresso materiale o spirituale della società» e di come tale dimensione venga riconosciuta come diritto dalla stessa Repubblica, dove quest’ultima ha contemporaneamente il dovere di promuovere il lavoro in «condizioni che rendano effettivo tale diritto» (articolo 4 Cost.). Il diritto al lavoro genera, a cascata, un diritto ad «una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 Cost.).
Osservando l’attuale scenario socio-economico, ritengo imprescindibile approfondire la riflessione, focalizzandosi in particolare sul mondo del lavoro giovanile e sulla concezione che gli stessi giovani attribuiscono ad esso: per loro il lavoro non è solamente una fonte di reddito, ma anche una fonte di identità e di creazione di legami sociali [2].
Aldilà del dato tristemente noto dell’elevato tasso di disoccupazione giovanile nel nostro Paese (tale tasso secondo i dati Istat di settembre 2023 è pari al 23.1%, terzo solo a Spagna e Grecia, rispettivamente con un tasso del 27,4 e 23,6%), occorre chiedersi quale valore oggi venga attribuito al lavoro dai giovani. In una recente ricerca effettuata quest’anno dal Centro Luigi Bobbio dell’Università di Torino, risulta come una parte dei giovani sia più orientato alla qualità del lavoro rispetto al reddito percepito: emergono maggiormente rilevanti fattori quali gli aspetti inerenti il tempo libero e la vita privata, al fine di consentire al giovane lavoratore di conciliare il lavoro con gli impegni familiari [3]. Si badi bene che anche gli adulti stanno, seppur con qualche difficoltà e in misura minore ai giovani, abbracciando questo punto di vista. [4] Persiste dunque l’interesse alla dimensione lavorativa, a patto che essa sia soddisfacente e di qualità.
Già più di duemila anni fa, Aristotele comprese che oltre ad essere un diritto, il lavoro è soprattutto un bisogno avvertito da ogni persona non solo per trasformare la realtà nella quale egli esiste, ma anche per edificare sé stesso. Ne consegue che l’affermazione “il lavoro è un bisogno” è più forte dell’affermazione “il lavoro è un diritto” poiché un diritto può essere sospeso o nei casi più estremi negato, il bisogno, se fondamentale, no. Accettando tale prospettiva, è possibile sostenere che il lavoro giusto non assicura solamente una giusta remunerazione, ma soddisfa anche il bisogno di autorealizzazione del lavoratore, consentendogli da una parte di sviluppare appieno le sue capacità e dall’altra di poter dedicare il giusto tempo alla sfera extra-lavorativa [4]. Le imprese dunque, al fine di poter assumere giovani lavoratori, dovrebbero – naturalmente, al meglio delle loro capacità e dimensioni/necessità organizzative – offrire a quest’ultimi un nuovo paradigma d’approccio al lavoro, cercando di ottimizzare la c.d. work-life balance: questo obiettivo può essere raggiunto solo se vi è un serio impegno e comune d’intenti tra politica, organizzazioni sindacali e ovviamente, imprese. Spero si presti adeguata attenzione a questo aspetto nel corso del prossimo anno. Tuttavia, se il raggiungimento da parte delle imprese del massimo profitto possibile a qualsiasi condizione è patologico, lo è anche l’esatto opposto, vale a dire il suo declassamento a favore di altri scopi e ciò avviene quando l’impresa si focalizza eccessivamente in iniziative che non sono utili per rispondere alla domanda del mercato, causando in certi casi il fallimento dell’impresa stessa (innescando disoccupazione) oppure il suo mantenimento da parte dei poteri pubblici (creando in tal modo un danno alle casse dell’erario). Il profitto deve essere visto come un elemento essenziale e non come l’unico scopo da raggiungere o per converso come un elemento accessorio: esso deve trovare la giusta collocazione all’interno di un più ampio insieme virtuoso di mezzi e obiettivi, tenendo a mente che dimensione economica e dimensione sociale non possono essere considerate disgiuntamente [5].

2.1 La situazione femminile nella dimensione lavorativa
Desidero riportare un’ultima frase del già citato discorso di fine anno del Presidente Mattarella il quale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, affermò che «rimuovere gli ostacoli è un impegno da condividere, che richiede unità di intenti, coesione, forza morale». Restando in tema occupazionale, se c’è un’ostacolo spregevole ed intollerabile ancora troppo presente nel nostro Paese, è quello relativo ai notevoli e complessi problemi che le donne incontrano nel mondo lavorativo. Tali difficoltà si traducono in sfide significative nel percorso di avanzamento professionale e differenze salariali volte al ribasso se confrontate con quelle dei colleghi di genere maschile nell’assolvimento di mansioni equivalenti. In un periodo come quello attuale in cui si parla a gran voce di violenza contro le donne, credo che gli ostacoli appena menzionati siano anch’essi inammissibili forme di violenza. Se è pur vero che l’articolo 37 della Costituzione stabilisce che «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore» e che «le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione» è pur vero che la realtà dei fatti è ben diversa. Le ragioni di questa problematica sono tante, frammentate, caratterizzate da progressi e regressioni ed è difficile ricostruirle in modo uniforme [6].
Concordo con la professoressa Orsetta Giolo, docente di Filosofia del Diritto dell’ Università di Ferrara, la quale afferma che espressioni quali «l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro» è fuorviante, in quanto le donne hanno sempre fatto parte della dimensione lavorativa anche se in modo assai differenziato rispetto agli uomini. In passato, la maggior parte delle donne si vedevano costrette ed essere escluse da impieghi e professioni in quanto l’unica o principale mansione alla quale esse venivano “confinate” era quello concernente la sfera domestica. A differenza di quello maschile, il lavoro femminile che non si traducesse nella cura degli affetti, veniva visto nella realtà concreta – e per certi versi purtroppo, viene visto anche oggi – in termini eventuali e marginali: le donne potevano o meno lavorare e se lavoravano, potevano farlo anche solo per breve periodo della loro vita. Questa invisibilità delle donne nel contesto lavorativo che esula dall’ambiente affettivo deve essere correlata anche in termini politici: la cura delle attività domestiche non è normalmente ricondotta alla concezione classica di lavoro e quindi, non avendo ricadute concrete sulla società, tale tipologia di mansione risulta come un “fatto privato”, non ricevendo interesse – o ricevendone in modo assai limitato – da parte della classe politica.
In merito all’annoso problema del lavoro femminile, da qualsiasi prospettiva esso venga analizzato, auspico che coloro che i quali detengano responsabilità politiche possano intervenire in maniera concreta ed intelligente a partire dai prossimi dodici mesi.

3. Il futuro dell’Unione Europea
Credo sia doveroso, infine, uscire dall’ambito nazionale e focalizzare l’attenzione all’Unione Europea. Cito una delle frasi più celebri di Robert Schuman, padre fondatore dell’Unione: «l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto».
In questi anni, l’Unione Europea ha ricevuto numerose ed accentuante critiche e credo di non cadere in errore se affermo che i mittenti di tali giudizi negativi derivino da tutte le forze politiche, non solo italiane.
Tuttavia, si può sottolineare come Schuman abbia dimostrato un acume predittivo non comune, in quanto il processo di integrazione europea non può essere un percorso euclideo e scevro da ostacoli. Come uno scultore che con martello e scalpello incide il marmo in modo paziente e meticoloso al fine di ottenere la migliore opera possibile, coloro che hanno responsabilità nelle varie Istituzioni dell’Unione sono chiamati a contribuire al raggiungimento delle «realizzazioni concrete» invocate da Schuman.
Al contrario dell’opera d’arte però, la quale vede il suo aspetto immutato nel corso del tempo, l’Unione Europea è chiamata ad effettuare un costante rinnovamento degli obiettivi, adattandosi in tal modo ai cambiamenti sociali e della sensibilità collettiva e il tutto deve avvenire nel rispetto scrupoloso dei Trattati, i quali debbono rimanere il caposaldo a cui occorre ancorarsi. Soltanto se l’Unione avrà il coraggio di essere un “cantiere sempre aperto” si potrà – a mio avviso – affinare quel processo di integrazione europea volto a garantire una proficua convivenza tra gli Stati che hanno aderito all’Unione e sui valori dove quest’ultima si fonda. Sono due i temi che hanno ricevuto una scrupolosa attenzione da parte dell’Unione Europea in quest’ultimo quinquennio e data la loro importanza, riceveranno senz’altro il medesimo grado di considerazione nella prossima legislatura: i temi in questione sono la transizione tecnologica e la transizione verde.
Per quanto riguarda la transizione tecnologica, sono diversi gli atti adottati in questi cinque anni di Commissione Europea a guida von der Leyen, basti pensare a tutto ciò che concerne la regolamentazione della finanza tecnologica (meglio conosciuta con il più famoso acronimo “FinTech”).
Inoltre, è di questi giorni l’accordo tra il Parlamento Europeo e il Consiglio [7] al fine di dotare l’Unione di una regolamentazione concernente l’Intelligenza Artificiale (di seguito, IA) permettendo all’Unione stessa di divenire il primo spazio giuridico a regolare questo fenomeno sempre più presente nelle nostre vite.
La regolamentazione dell’IA si è resa necessaria non solo per tutelare ed approfondire numerosi aspetti etici, ma anche per porre una regolamentazione uniforme di questo fenomeno che ha già iniziato ad essere presente nelle vite di ognuno di noi. Tale accordo – per alcuni si tratta già di un fatto storico – vuole promuovere sia l’innovazione dell’IA garantendo, allo stesso tempo, il pieno rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione. Anche per quanto riguarda la transizione verde, sono stati numerosi gli atti adottati dall’Unione Europea e la maggior parte di essi sono assai recenti e rivolte a tutte le società, escluse le micro-imprese.
Sia per la transizione tecnologica quanto per quella verde, è ancora prematuro dare un giudizio positivo o negativo circa la normativa adottata dall’Unione. D’altra parte, occorre sottolineare che attraverso l’adozione di questi atti normativi, l’Unione vuole salvaguardare e proteggere quell’insieme di valori che costituiscono le sue fondamenta e che coinvolgono ognuno di noi in quanto cittadini dell’Unione: mi riferisco in particolar modo agli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione Europea. Senza una normativa meditata, rigorosa e ove necessario flessibile volta a disciplinare questa duplice transizione, non si avrà un pieno rispetto dei valori quali la «dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani», non si potrà garantire una società basata «sul pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini» ed infine, non vi sarà un’Unione Europea in grado di «promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli».

4. Conclusione
La qualità sia del nostro futuro ma anche di chi verrà dopo di noi dipende solo o in maggior parte da come rispondiamo al presente: sono convinto che se rispondiamo avendo ben ancorati dentro noi i valori della Costituzione e dei Trattati europei, potremmo sicuramente migliorare il mondo del lavoro, le dinamiche di genere e creare un’Unione Europea sempre più vicina ai suoi cittadini e deve essere un nostro imperativo morale e professionale fare si che la nostra generazione adotti un approccio ponderato e sostenibile.
Auspico che il 2024 possa offrirci l’opportunità di coltivare la visione di una società in cui la Costituzione continui a fungere da pilastro irrinunciabile della nostra convivenza.

 

 

NOTE
[1] Sbrescia V.M (2010), I valori della Costituzione repubblicana, Rivista giuridica del Mezzogiorno, n. 1, pp. 243.

[2] Bertolini S., Goglio V. (2023), Giovani e senso del lavoro, il Mulino, Rivista trimestrale di cultura e di politica, n.4. pp 86-94

[3] Bertolini S., Goglio V. (2023), Giovani e senso del lavoro, il Mulino, Rivista trimestrale di cultura e di politica, n.4. pp 91

[4] Zamagni S.(2019), Responsabili. Come civilizzare il mercato. Il Mulino.

[5] A. Ablela, J. Capizzi, Etica e business, Soveria Mannelli, Rubettino, 2016, p. 13.

[6] Orsetta Giolo, L’invisibilità (giuridica?) del lavoro delle donne. Esclusione, protezione, confinamento ed espropriazione, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Fascicolo 1, 2023.

[7] https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/12/09/artificial-intelligence-act-council-and-parliament-strike-a-deal-on-the-first-worldwide-rules-for-ai/

Abstract
In questo breve articolo esploreremo un tema di crescente importanza, strettamente correlato all’evoluzione della tecnologia: il contrasto al riciclaggio di denaro, noto come anti-money laundering . Dai suoi primi passi fino alle sue attuali evoluzioni, i contesti in cui viene applicato sono vasti e internazionalmente riconosciuti. In particolare, analizzeremo questo argomento nei contesti specifici del diritto italiano e cinese.

  1. NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO IN ITALIA

1.1 Due diligence aziendale nell’ambito del riciclaggio
Il tema dell’antiriciclaggio (AML, Anti-Money Laundering ) riveste una notevole attualità in quanto quotidiano le frodi costituiscono una minaccia sotto molteplici aspetti per la società e mettono a rischio la stabilità del sistema finanziario. È essenziale adottare e attuare politiche di due diligence della clientela, monitorare le transazioni e segnalare le attività sospette per prevenire volte sanzioni amministrative e penali previste dalle normative legali per contrastare il crimine finanziario. Queste misure mirano a prevenire gli abusi che potrebbero essere commessi attraverso l’utilizzo di società per attività illecite come il traffico di droga, lo sfruttamento della prostituzione, il finanziamento del terrorismo e la criminalità organizzata.
Con l’avanzamento della tecnologia, le pratiche criminali si sono evolute in modo sempre più sofisticato e intricato, rendendole difficili da individuare, specialmente nel contesto delle frodi finanziarie e informatiche. Oltre al rischio economico, le frodi finanziarie e il riciclaggio di denaro e beni possono minare il patrimonio di un’azienda, ma è altrettanto importante considerare il rischio di danni reputazionali, che possono compromettere la fiducia dei consumatori e ricevere una vasta eco mediatica. Pertanto, diventa chiaro il valore dell’antiriciclaggio nel prevenire perdite finanziarie, danni reputazionali e garantire al contempo stabilità e integrità del sistema finanziario.

1.2 Nozioni di riciclaggio e finanziamento al terrorismo nella disciplina italiana
• Il concetto di ” riciclaggio “, come definito dall’articolo 2 del Decreto Legislativo 231/2007, comprende una serie di operazioni volte a:
• Convertire o trasferire beni, conoscendo la loro origine da attività criminali o partecipazione a tali attività, per occultare o dissimulare l’origine illecita dei beni stessi o per aiutare coloro coinvolti a sfuggire alle conseguenze legali delle proprie azioni;
• Nascondere la vera natura, provenienza, posizione, disposizione, movimento e proprietà dei beni o dei diritti ad essi collegati, sapendo che provengono da attività criminose o dalla partecipazione ad esse;
• Acquistare, detenere o utilizzare beni, consapevoli al momento della ricezione che provengono da attività illegali o partecipazione ad esse;
• Partecipare ad uno di questi atti o associarsi per commetterlo, tentare di perpetrarlo, aiutare, istigare o consigliare qualcuno a commetterlo o facilitarne l’esecuzione.
L’obiettivo del riciclaggio è dunque occultare deliberatamente l’origine illecita della ” ricchezza “, dei proventi e degli aspetti economico-finanziari derivanti da attività illegali, ostacolando il tracciamento dei capitali fino all’evento criminale che li ha generati. Anche se le attività che hanno prodotto i beni da riciclare sono state svolte al di fuori dei confini nazionali, esse rientrano comunque nella definizione di riciclaggio di denaro.
Solitamente, il riciclaggio di denaro segue un modello suddiviso in tre fasi fondamentali: Placement, Layering e Integration .
Durante la fase di collocamento, i proventi illeciti vengono inseriti nell’economia utilizzando varie tecniche come pagamenti a imprese collaboranti o suddivisione dei fondi in importi più piccoli per evitare attenzioni indesiderate. Un metodo comune è il trasferimento di capitali o beni verso società offshore per nasconderne sia l’origine illecita che l’identità dei beneficiari.
Nella fase di layering , l’origine dei fondi viene ulteriormente nascosta attraverso una serie di transazioni finanziarie complesse, coinvolgendo spesso molteplici istituti finanziari, l’acquisto di polizze assicurative o beni immobili.
Infine, nella fase di integrazione, il denaro ” pulito ” viene reinserito nell’economia legale dopo la vendita dei beni o il recupero di altre somme seguendo la fase di layering , oppure attraverso l’utilizzo dei fondi ” ripuliti ” in attività imprenditoriali lecite.
Va sottolineato che il riciclaggio spesso si accompagna al finanziamento del terrorismo, che consiste nell’attività finalizzata alla fornitura, raccolta, intermediazione o gestione di fondi e risorse economiche utilizzabili, in tutto o in parte, per commettere atti di terrorismo.
L’antiriciclaggio rappresenta quindi l’insieme di azioni volte a prevenire e contrastare il riciclaggio di denaro, beni o altre utilità illecite, svolte da soggetti ” obbligati ” con l’obiettivo di monitorare, bloccare e individuare transazioni sospette legate al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo.

1.3 Contrasto al riciclaggio
In Italia, uno dei Paesi precursori nell’implementazione di misure contro il riciclaggio di denaro e beni, si fa particolare riferimento al decreto-legge 59 del 21/03/1978, successivamente convertito nella legge 191 del 18/05/ 1978. Questo provvedimento, al di fuori dei casi di concorso nel reato, prevedeva la punibilità per chiunque compisse azioni volte a sostituire denaro o valori provenienti da atti illeciti, con altri denaro o valori, al fine di ottenere un profitto personale o aiutare gli autori dei reati a beneficiario dei proventi illeciti. Le sanzioni penali previste includevano la reclusione da 4 a 10 anni e una multa da 1 milione a 20 milioni di lire per chi fosse stato implicato in atti di riciclaggio di denaro.
Per quanto riguarda il riconoscimento formale del reato di Riciclaggio, bisogna attendere l’introduzione della legge 55 del 19/03/1990. Questa legge ha portato innovazioni significative anche a livello sostanziale, definendo chiaramente i vari attori che potevano commettere tale reato e ampliando l’elemento oggettivo a comprendere denaro, beni e qualsiasi altra forma di utilità. L’impiego dei beni riciclati è stato escluso dall’ambito di applicazione di tale normativa e trattato in una disposizione separata, l’articolo 648 ter , aggiunto nello stesso codice legislativo. Questa norma punisce tutte le azioni finalizzate all’utilizzo di denaro, beni o utilità di origine illecita, creando un legame stretto e complementare rispetto alla legislazione precedente in materia di riciclaggio.

1.4 Le direttive antiriciclaggio
In Europa, la principale fonte normativa per contrastare il riciclaggio di denaro e beni è rappresentata dalla Quarta direttiva europea del 2015, successivamente modificata nel 2018. A livello nazionale, ci si riferisce al decreto-legge 231/2017, soggetto anch’esso ‘esso a modifiche in linea con l’evoluzione della normativa comunitaria, supportata da una serie di circolari ministeriali.
La prima legge mirata a combattere il fenomeno del riciclaggio in Italia fu il decreto-legge 143 del 3/05/1991, convertito nella legge 197 dello stesso anno. Questo decreto contiene provvedimenti urgenti per limitare l’uso di contante e titoli al portatore nelle transazioni al fine di prevenire il riciclaggio all’interno del sistema finanziario. Successivamente, la Seconda direttiva antiriciclaggio del 4/12/2001 ha ampliato la definizione di reato presupposto e l’ambito soggettivo degli obblighi di identificazione, registrazione e segnalazione di transazioni sospette.
La Terza direttiva del 21/11/2007 introduce nuovi enti di controllo dei flussi finanziari, come l’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (UIF) e il Nucleo Speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza. Un’altra innovazione significativa è stata rappresentata dal decreto legislativo n. 90 del 2017, che ha apportato modifiche al decreto-legge 231/2006 in materia di antiriciclaggio e finanziamento del terrorismo, con maggiore attenzione alla figura del cliente e alla natura delle attività svolte.
La Quarta Direttiva europea ha introdotto nuovi ruoli e responsabilità per il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’UIF, definendo obblighi di verifica semplificata, ordinaria e rafforzata per vari soggetti obbligati. Questi includono intermediari bancari, operatori finanziari, professionisti, notai, avvocati, revisori legali, operatori non finanziari e prestatori di servizi di gioco.
Con la Quinta Direttiva Antiriciclaggio, Direttiva 2018/843/CE, ricevuta con il decreto Legislativo 125 del 2020, sono state introdotte nuove disposizioni legate alle carte prepagate e ai pagamenti in criptovalute. Le principali modifiche riguardano soggetti obbligati alla verifica della clientela, registro dei conti di pagamento, registro dei titolari effettivi e misure di rafforzata verifica per contrastare il riciclaggio di denaro con particolare attenzione ai paesi a rischio elevato, servizi di cambio valute, carte prepagate e whistleblowing con la tutela dell’identità del segnalante.

1.5 Soggetti obbligati e adeguata verifica della clientela
Per rispettare la normativa antiriciclaggio, i soggetti tenuti all’adempimento includono:
• Società e professionisti;
• Intermediari bancari, operatori finanziari e altri operatori del settore finanziario;
• Professionisti operanti singolarmente o in partnership, nonché in forma societaria. Un’attenzione particolare è riservata ad avvocati e notai quando agiscono in operazioni finanziarie o immobiliari per conto dei clienti o li assistono in altre transazioni finanziarie.
Per assicurare un’adeguata conformità normativa, i tre passaggi fondamentali da seguire sono:
• La verifica adeguata della clientela basata sull’analisi del rischio;
• La registrazione, archiviazione e conservazione dei rapporti e delle operazioni;
• La valutazione e segnalazione delle transazioni sospette.
Due principi generali devono guidare il professionista nel processo decisionale riguardante la segnalazione di operazioni sospette. Il primo principio sottolinea la necessità di proporzionalità tra l’azione intrapresa e la verifica effettuata. Il professionista non deve automaticamente considerare un’operazione sospetta, ma deve condurre un’analisi specifica in accordo con la normativa antiriciclaggio prima di segnalare l’operazione sospetta alle autorità competenti. Il secondo principio riguarda il rapporto tra le circostanze note in relazione alle funzioni svolte, sottolineando l’importanza di effettuare adeguati controlli in base al contesto specifico.
Secondo le disposizioni per la verifica della clientela contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo (Banca d’Italia), l’identificazione del cliente avviene con documenti di identità al primo contatto utile, l’individuazione del titolare effettivo e, se applicabile, di altre parti coinvolte non direttamente con lo studio professionale, e l’acquisizione di informazioni sullo scopo e sulla natura del rapporto continuativo o occasionale, soprattutto in presenza di rischi elevati di riciclaggio o finanziamento del terrorismo.
L’articolo 17 del D.lgs. 231/2007 fornisce un elenco delle situazioni che richiedono la verifica della clientela da parte del professionista, che comprende l’instaurazione di un rapporto continuativo, operazioni occasionali sopra i 15.000 euro, sospetti di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e dubbi sulla validità dei dati del cliente già acquisito.
La verifica adeguata, quindi, è essenziale per contrastare operazioni sospette in modo tempestivo ed efficace, sia con i nuovi clienti sia con quelli già acquisiti, specialmente se variano i rischi di riciclaggio o finanziamento del terrorismo. A seconda del cliente e del livello di rischio, esistono tre tipologie di verifiche: semplificata, ordinaria e rafforzata.
Verifica semplificata: viene attuata in situazioni a basso rischio di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e prevede misure semplificate. Questo tipo di verifica include l’identificazione del cliente tramite documento d’identità, l’eventuale identificazione del titolare effettivo confermata dal cliente o dai registri pubblici, e un questionario per le persone politicamente esposte.
Verifica Ordinaria: quando emergono elementi che richiedono una maggiore indagine oggettiva o soggettiva, come lo scopo dell’operazione oi legami tra cliente e titolare effettivo/esecutore, si effettua una verifica più dettagliata. Durante un rapporto continuativo, se nuovi elementi vengono alla luce, se si procede con una verifica ancora più approfondita.
Verifica Rafforzata: in presenza di un elevato rischio di riciclaggio o finanziamento del terrorismo, vengono applicate misure di verifica della clientela più rigorose. Questo livello è applicato nei casi in cui si verificano operazioni in ambienti poco chiari, un notevole uso di denaro contenuto, rapporti con persone politicamente esposte, o transazioni con aree geografiche ad alto rischio di corruzione e attività criminose, secondo le raccomandazioni del GAFI (Gruppo d’azione finanziaria).
Regime Sanzionatorio: oltre agli adempimenti amministrativi, la normativa antiriciclaggio include anche implicazioni penali. I riferimenti normativi per il reato di riciclaggio sono gli articoli 648 bis e 648 ter del Codice Penale, con sanzioni aggravate nel caso in cui il reato sia commesso nell’esercizio di un’attività professionale, richiedendo sempre la natura intenzionale (dolosa) del reato .

Art 648 bis (riciclaggio):
Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa , è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 5.000 a euro 25.000.
La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi (6).
La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.
La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni ”.

Art 648 ter 1 (autoriciclaggio):
Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di conto delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. La pena è della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l’arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi.
La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni.
Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’articolo 416 bis.1.
Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinati alla mera utilizzazione o al godimento personale.
La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale.
La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto ” .

2.1 NORMATIVA ANTIRICICLAGGIO NELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Per quanto riguarda il campo dell’antiriciclaggio nella Repubblica Popolare Cinese (” Cina “), la legge di riferimento è la legge antiriciclaggio cinese (PRC AML Law) del 2006, la quale presenta diverse analogie con la normativa italiana. Nel corso degli ultimi anni, le modifiche apportate al quadro normativo hanno potenziato l’efficacia delle misure antiriciclaggio e antiterrorismo, estendendo tali obblighi a tutti i soggetti e le organizzazioni, soprattutto in considerazione della crescente diffusione delle criptovalute. Questo ha portato all’elaborazione della bozza della nuova legge del 2021. In Cina, le principali autorità responsabili del coordinamento delle attività antiriciclaggio sono la People’s Bank of China (PBOC), la China Banking and Insurance Regulatory Commission (CBIRC) e la China Securities Regulatory Commission (CSRC), supportata da altre autorità pubbliche come la Corte Suprema del Popolo, la Procura, il Ministero della Sicurezza, la polizia doganale e la Commissione Nazionale per la Prevenzione del Riciclaggio e del Finanziamento al Terrorismo. A fronte dell’incremento significativo di queste attività, soprattutto in relazione alle criptovalute e alla speculazione immobiliare, le autorità cinesi stanno attuando numerosi interventi per contrastare il fenomeno dell’antiriciclaggio.

2.2 Definizione di Antiriciclaggio
Nell’art. 2 della PRC AML Law viene definito l’antiriciclaggio come l’insieme di azioni volte a prevenire operazioni di riciclaggio, le quali, attraverso diversi metodi, cercano di occultare o dissimulare l’origine e la natura reale dei proventi derivanti da reati o benefici illeciti , tra cui, ma non solo:
• Reati legati a sostanze stupefacenti e psicotrope;
• Reati associati a organizzazioni criminali;
• Reati di matrice terroristica;
• Reati di contrabbando;
• Reati di appropriazione indebita e corruzione;
• Reati finanziari e frodi.
Tra le principali innovazioni introdotte dalle disposizioni del 2021, possiamo evidenziare:
• Un’estensione della definizione di riciclaggio e una maggiore connessione con il finanziamento al terrorismo, con una revisione delle origini e della natura dei proventi illeciti;
• Un maggiore controllo sui soggetti obbligati, che ora includono anche i promotori immobiliari e gli studi contabili, i quali sono tenuti a segnalare alle autorità ogni transazione significativa in contanti;
• Verifiche approfondite;
• Un aumento delle sanzioni amministrative per i soggetti obbligati che non rispettano le norme antiriciclaggio fino a 200.000 RMB;
• Una maggiore cooperazione con le autorità internazionali nella lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo.
2.3 Adeguata verifica della clientela
Analogamente alla disciplina prevista in altri paesi, anche in Cina la verifica della clientela deve includere i seguenti punti:
• Identificazione del cliente mediante documento di identità valido;
• Monitoraggio continuo del cliente;
• Ulteriori verifiche durante il rapporto continuativo in presenza di modifiche o comportamenti sospetti;
• Identificazione dell’eventuale titolare effettivo, confermata dal cliente in mancanza di dati nei registri pubblici;
• Questionario specifico per le persone politicamente esposte.
Per rafforzare ulteriormente le misure AML, nel marzo 2022 la PBOC, la CBIRC e la CSRC hanno emesso congiuntamente le ” Misure amministrative per gli istituti finanziari in materia di due diligence dei clienti e conservazione dei registri di identificazione dei clienti e delle transazioni “, che prevedono, tra l’altro:
• Un approccio basato sul rischio, con una verifica rafforzata per le situazioni ad alto rischio e una più semplificata per quelle a basso rischio;
• Requisiti aggiornati per l’identificazione dei titolari effettivi, con acquisizione di certificazioni e dati certificati;
• Norme per la conservazione dei registri di identificazione dei clienti e delle transazioni,con dettagli sullo scopo e la natura delle transazioni e il monitoraggio continuo nel tempo.
Queste disposizioni coinvolgono in modo più diretto, oltre ai soggetti obbligati già identificati, anche i centri di scambio valutario, le società di brokeraggio e assicurative, le imprese non bancarie e le agenzie immobiliari.
Per quanto concerne il regime sanzionatorio, è importante analizzare le normative cinesi in materia di antiriciclaggio, e confrontarle con le disposizioni italiane, tenendo conto delle sanzioni previste per le violazioni delle leggi antiriciclaggio.
Nell’articolo 32 della PRC AML Law del 2006 vengono delineate le sanzioni applicabili in caso di infrazioni alle norme antiriciclaggio, con una distinzione tra sanzioni amministrative per le istituzioni finanziarie e per i dirigenti di alto livello, come avviene nell’ordinamento italiano.
Per le violazioni gravi, le istituzioni finanziarie possono essere soggette a multe comprese tra 200.000 e 500.000 RMB. Inoltre, i direttori, i dirigenti di alto livello e le altre persone direttamente responsabili del cattivo comportamento essere sanzionati con multe tra 10.000 e 50.000 RMB in presenza di:
• Mancata osservanza degli obblighi di identificazione del cliente come possono imposto dalla legge o dai regolamenti;
• Mancata conservazione delle informazioni sull’identità dei clienti e dei registri delle transazioni come previsto dalla normativa pertinente;
• Omissione nella segnalazione di transazioni sospette o di importo elevato;
• Transazioni con clienti di identità non chiara, apertura di conti anonimi o con nomi falsi, o divulgazione di informazioni riservate;
• Ostruzione alle ispezioni o indagini antiriciclaggio;
• Rifiuto di fornire materiale investigativo o fornitura di informazioni false.
Nel caso in cui le istituzioni finanziarie compiano codotte scorrette che portano a operazioni di riciclaggio di denaro, le multe possono variare tra 500.000 e 5.000.000 RMB. Per le violazioni gravi, i dirigenti ei responsabili del cattivo comportamento possono ricevere un avvertimento e multe tra 50.000 e 500.000 RMB. In situazioni di particolare gravità, è prevista la sospensione dell’attività fino alla revoca della licenza commerciale dell’istituto coinvolto.
Per le violazioni commesse da singoli, persona fisica o giuridica, vengono applicate le disposizioni dell’articolo 192 del Codice Penale. Le sanzioni variano in base alla gravità del reato; per importi superiori a 100.000 RMB, la pena può arrivare fino a sette anni di reclusione, mentre per importi significativi o superiori al milione di RMB con impatti sociali negativi, la pena può essere anche l’ergastolo. Le sanzioni penali vengono valutate in relazione all’importo coinvolto, al danno prodotto, alla capacità finanziaria dell’autore e altri elementi rilevanti.

3. Conclusioni
In questo articolo abbiamo cercato di esaminare in modo conciso la tematica dell’antiriciclaggio, considerando anche le recenti leggi emanate. Le normative italiane e cinesi affrontano il riciclaggio in modo simile, definendo i soggetti coinvolti, gli obblighi dei soggetti designati, la natura del reato, la giurisdizione applicabile, i requisiti per la verifica della clientela, le segnalazioni obbligatorie e il regime sanzionatorio. Soprattutto con le novità normative del 2021, le disposizioni sulla verifica della clientela in Cina risultano essere paragonabili a quelle italiane, implementando procedure più o meno stringenti in base ai diversi criteri sopra elencati. Questo ennesimo sforzo dimostra la tendenza del governo cinese ad allinearsi sempre di più agli standard internazionali, come già visto con le modifiche nelle leggi commerciali e nella Foreign Investment Law (FIL), e con l’adozione di procedure antiriciclaggio simili adottate in altri Paesi, tutto ciò al fine di garantire la stabilità dei mercati.

Bibliografia e sitografia
Ramacci F., Spangher G., Codice penale e procedura penale, Giuffrè, 2022.
Shen W., China’s Foreign Investment Law in the New Normal, Routledge, 2022.
Avv. Acone G., Avv. Groccia V., AML: come funziona il riciclaggio – AllianzDataSaving, 29/04/2022.
https://eurasiangroup.org/en/peoples-republic-of-china.
https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2007/12/14/007X0246/sg.

1. Intro

L’attività conciliativa si esprime in diverse modalità e per molteplici casistiche negli ordinamenti giuridici, considerata l’importanza che ha nella prevenzione o nella risoluzione del conflitto e per evitare – laddove possibile – la scelta di adire alla via giudiziaria.
Nell’ambito dei rapporti di lavoro assume una connotazione ancor più peculiare, soprattutto se se ne osserva la specifica evoluzione normativa.
L’articolo illustra un quadro delle conciliazioni in materia di lavoro ed espone riflessioni sulle modalità di svolgimento, nonché sulle possibili prospettive future degli istituti conciliativi, volgendo attenzione particolare all’istituto delle Commissioni Provinciali di Conciliazione.

2. Gli istituti di conciliazione in materia di lavoro. La Commissione Provinciale di Conciliazione

La Commissione Provinciale di Conciliazione (d’ora in avanti CPC) è tra i più importanti istituti aventi finalità conciliativa dell’ordinamento giuslavoristico italiano, assieme ad altri mezzi di conciliazione, quali arbitrati, negoziazione assistita, conciliazione monocratica.
In questa sede si approfondirà l’analisi dell’istituto della CPC. Si rammenta che essa non va confusa con la conciliazione monocratica, che è un tentativo conciliativo gestito da un funzionario dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente nei casi di richieste di intervento ispettivo da cui emergano elementi per una risoluzione conciliativa della controversia ai sensi dell’art.11, D. Lgs 124/2004.
Le parti hanno facoltà di farsi assistere da associazioni, organizzazioni sindacali o da professionisti, previo conferimento di specifico mandato: laddove la procedura abbia esito positivo e ne consegua sottoscrizione del relativo verbale, non si applica l’art. 2113 del Cod. Civile, inerente le rinunce e le transazioni fatto salvo il quarto comma, (di cui si tratterà meglio in seguito), sicché l’atto del versamento dei contributi previdenziali e assicurativi e degli importi dovuti al lavoratore, determinati secondo norma di legge e in relazione all’oggetto della controversia e del rapporto di lavoro, concludono il procedimento ispettivo.
La conciliazione monocratica può essere contestuale o preventiva: è contestuale allorquando si avvia su iniziativa di un Ispettore del Lavoro in sede di accesso ispettivo (o a seguito di una diffida accertativa), mentre è preventiva se attivata dall’Ispettorato Territoriale del Lavoro dopo una richiesta di intervento da parte del lavoratore interessato o da parte di una organizzazione sindacale che lo rappresenta.
La CPC si caratterizza per una diversa complessità, per le parti coinvolte e per l’oggetto della conciliazione, presentando aspetti di differente negoziabilità della materia e più ampi margini di discussione sulla controversia.
L’istituto della CPC ha fondamenti normativi nella l. n. 604 del 1966 [Norme sui licenziamenti individuali], così come modificata dalla l. n. 92 del 2012 [Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita], con cui si prevede l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione in alcuni casi di licenziamento (giustificato motivo oggettivo) presso le sedi competenti territorialmente del Ministero del lavoro, oggi Ispettorato Territoriale del Lavoro.
Ulteriori norme di riferimento sono la l. 183 del 2010 [Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro], il d.lgs. n. 23 del 2015 [Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183].
Ai fini dell’applicazione e dell’interpretazione dell’istituto sono altresì fondamentali alcuni articoli del Codice Civile e del Codice di Procedura Civile.
In particolare, del Codice Civile si citano: l’art. 2964 e ss., relativo ai termini di decadenza previsti da legge o dal contratto entro cui esercitare diritti (in particolare per l’impugnazione del licenziamento); gli artt. 1965 e 2113, inerente i limiti posti alle possibilità di rinunce e di transazioni; l’art. 2116 per le prestazioni dovute al prestatore di lavoro.
Il perimetro del campo di applicazione dell’istituto è, invece, dato dall’art. 409 del Codice di Procedura Civile, che delinea l’insieme delle controversie trattabili in CPC, a seconda della tipologia di rapporti di lavoro.
Ai sensi dell’art. 409 del Codice di Procedura Civile, si può ricorrere all’istituto per controversie relative a:
1) rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di una impresa;
2) rapporti di mezzadria, di colonia parziaria, di compartecipazione agraria, di affitto a coltivatore diretto, nonché rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate agrarie;
3) rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato. La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa;
4) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici che svolgono esclusivamente o prevalentemente attività economica;
5) rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico, sempreché non siano devoluti dalla legge ad altro giudice.
Dopo aver definito il campo di applicazione dell’istituto, riguardo l’oggetto della controversia trattabile che può essere uno o più aspetti del rapporto di lavoro, purché rientri nell’alveo dei cosiddetti diritti “disponibili”, ovvero i diritti dei lavoratori che possono essere discussi e mediati nell’ambito di una transazione.
In particolare, le rinunzie e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, (ivi comprese le prestazioni ex art. 2114 del Codice Civile) ai sensi dell’art. 2113 del Codice Civile, non sono valide se non effettuate in sede di conciliazione.
Si precisa che per rinuncia si intende l’atto personale del lavoratore attraverso cui questi palesa la volontà di non esercitare più un diritto di cui è titolare, mentre per transazione si intende un negozio giuridico tra parti che decidono di prevenire o di porre fine ad una lite facendosi concessioni reciproche [1].
La sede di conciliazione si configura, pertanto, come “sede protetta”, ossia un luogo in cui un accordo tra datore di lavoro e lavoratore è siglato alla presenza di parti garanti l’equilibrio degli interessi e dei diritti oggetto della transazione. La sede protetta si identifica negli istituti conciliativi effettuati: a) ex art. 410 Codice di procedura civile, presso gli Ispettorati Territoriali del lavoro; b) in sede sindacale (ex art. 411 Codice di procedura civile); davanti al Giudice (art. 220 Codice di procedura civile); davanti al conciliatore monocratico (art.11, d.lgs. n. 124/2004); c) innanzi alle Commissioni di certificazione.
La CPC, in quanto sede protetta per le parti, funge da garanzia dell’equilibrio facilmente compromissibile nei rapporti di lavoro.
Per quanto riguarda la composizione della Commissione, si rimanda allo specifico dettato normativo dell’art. 410 del Codice di procedura civile, secondo cui le commissioni di conciliazione sono istituite presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ex Direzione provinciale del lavoro), composte dal direttore dell’ufficio stesso o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo, in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale.
È chiaro, dunque, che la Commissione deve essere rappresentativa delle parti sociali e datoriali a livello territoriali, a garanzia di una valutazione equa della vicenda di controversia.
Nella maggior parte dei casi, la stessa commissione opera per sottocommissioni composte da un rappresentante di parte datoriale, da uno di parte sindacale e da un funzionario dell’Ispettorato delegato dal proprio Dirigente.
Un caso particolare è la conciliazione intentata innanzi la Commissione di certificazione, che consiste in una procedura obbligatoria prevista dall’art. 80 del D. Lgs. n.276/2003 in caso di impugnazione del contratto certificato per difformità tra il contratto certificato e l’effettivo rapporto di lavoro, eventuali vizi del consenso o per qualificazione scorretta del contratto (da norma è prevista pure la conciliazione innanzi gli enti bilaterali, ex art. 82 del d.lgs. n. 276 del 2003, e in sede sindacale, ex art. 411 del Codice di procedura civile).

3. Tentativi di conciliazione presso la CPC: tipologie

I tentativi di conciliazione di una controversia di lavoro possono essere di due tipologie: obbligatorie e facoltative.
Per entrambi i casi, vale la determinazione della competenza territoriale dell’Ispettorato del Lavoro in base a dove è sorto il rapporto di lavoro ovvero ove si trova l’azienda o la sua unità produttiva o il domicilio del lavoratore (nel caso di rapporto di agenzia): si fa riferimento, comunque, ai criteri illustrati dall’art. 413 del Codice di Procedura civile.
Vi sono differenze sulle tempistiche, sulle modalità di comunicazione e sul soggetto istante (nel caso dell’obbligatoria, l’iniziativa è solo e obbligatoriamente in capo al datore di lavoro), ma la ritualità dell’incontro tra le parti è la medesima, constando di una prima fase di confronto tra queste ultime, eventuali consultazioni e/o esternazioni da parte della commissione e, infine, verbalizzazione dell’esito dell’incontro, siglato dalle parti e dalla commissione stessa.
Le parti possono farsi assistere o rappresentare da organizzazioni datoriali o sindacali cui le stesse sono iscritte e/o hanno dato mandato o da professionisti abilitati o da un soggetto terzo munito di delega valida.

3.1 Tentativo obbligatorio di conciliazione

Nel primo caso ci si trova nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo o nel caso di licenziamenti in rapporti di lavoro certificati.
La prima fattispecie è la più frequente tra le casistiche di conciliazione obbligatoria ed è disciplinata principalmente dell’art. 1 comma 40, della L. n. 92/2012, che ha modificato l’art. 7 della L. n. 604/1966, secondo cui è obbligatorio un tentativo di conciliazione della controversia, a seguito di comunicazione all’Ispettorato Territoriale del lavoro competente da parte del datore di lavoro che voglia procedere al licenziamento del lavoratore.
Per licenziamento per giustificato motivo oggettivo si intende, ai sensi dell’art. 3 seconda parte della citata l. n. 604/1966, la cessazione del rapporto di lavoro per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, quindi per ragioni non adducibili al comportamento del lavoratore.
Sono esemplificative situazioni tipo ipotesi di ristrutturazione di reparti, di soppressione del posto di lavoro, di terziarizzazione e di esternalizzazione di attività, di inidoneità fisica, di impossibilità del c.d. “repechage” anche all’interno del “gruppo d’imprese”, di licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato in edilizia, anche per chiusura del cantiere, di provvedimenti di natura amministrativa che incidono sul rapporto, di misure detentive [2].
Si noti che se i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo superano il numero di 5 lavoratori in una fascia temporale pari a 120 giorni, la procedura da seguire è quella disciplinata dalla L. n. 223/1991.
Va specificato, inoltre, che l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione sussiste nel caso in cui vi sia giustificato motivo oggettivo per il licenziamento, congiuntamente alla: a) verifica del dato della dimensione aziendale e alla b) data di assunzione del lavoratore.
È soggetto all’obbligo del tentativo di conciliazione il datore di lavoro imprenditore e non imprenditore avente i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni, ovvero quelli che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupino alle proprie dipendenze più di 15 unità o più di 5 se imprenditori agricoli. La disposizione trova applicazione anche nei confronti del datore, imprenditore o non imprenditore, che nello stesso ambito comunale occupi più di 15 lavoratori, pur se ciascuna unità produttiva non raggiunga tali limiti (anche per l’imprenditore agricolo dimensionato oltre le 5 unità vale lo stesso principio) e, in ogni caso, a chi occupa più di 60 dipendenti su scala nazionale .
Per quanto riguarda il secondo requisito, è necessario che il lavoratore sia stato assunto con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 o con contratto a tempo determinato trasformato a tempo indeterminato entro la stessa data.
L’obbligatorietà del tentativo implica un iter del procedimento ben definito in termini temporali e di successione delle comunicazioni, come disposto dall’art. 7, l. 604/1966 e chiarito dalla circ. n. 3/2013 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali: quest’ultima evidenzia che la procedura, infatti, prevede un intervallo temporale tra il momento in cui il datore di lavoro palesa la volontà di recedere dal rapporto comunicandola per iscritto al lavoratore e quello da cui il licenziamento assume efficacia.
Tale range temporale è funzionale all’esperimento del tentativo conciliativo e/o alla ricerca di soluzioni alternative all’uscita del lavoratore.
L’iter si avvia allorquando il datore di lavoro soggetto all’obbligo invia una istanza di tentativo di conciliazione, per iscritto, all’Ispettorato del Lavoro territorialmente competente, ove deve essere illustrata la motivazione addotta alla volontà di licenziamento per motivo oggettivo, oltre alla anagrafica di datore di lavoro e lavoratore e menzione dei requisiti necessari per ricadere nella procedura obbligatoria.
Laddove previste e/o possibili, sono indicate, altresì, le misure di assistenza o di ricollocazione.
L’Ispettorato Territoriale del Lavoro deve trasmettere la convocazione al datore di lavoro e al lavoratore ai fini del tentativo di conciliazione entro il termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della richiesta: la comunicazione contenente l’invito si considera validamente effettuata quando è recapitata al domicilio del lavoratore indicato nel contratto di lavoro o ad altro domicilio formalmente comunicato dal lavoratore al datore di lavoro, ovvero è consegnata al lavoratore che ne sottoscrive copia per ricevuta.
Dal momento in cui si avvia la procedura, essa deve concludersi entro venti giorni a far data dalla convocazione per l’incontro (che va effettuato entro sette giorni dalla data di ricezione dell’istanza).
Sebbene non sia raccomandabile dilazionare i termini, è possibile che il lasso temporale dei venti giorni possa esser superato qualora il rinvio possa essere funzionale al raggiungimento di un accordo, purché venga effettuato almeno un primo incontro.
Un’ipotesi di sospensione temporanea della procedura è prevista dal legislatore in caso di legittimo e documentato impedimento del lavoratore (anche autocertificabile) a presenziare alla riunione fissata per il tentativo di conciliazione, per un periodo massimo di 15 giorni, e può trattarsi di uno stato di malattia o un motivo familiare, purché giustificabile da legge (ad esempio, un intervento di assistenza ex L. n. 104/1992) o da contratto [2].
Nel caso di tentativo conciliativo obbligatorio è fondamentale la presenza delle parti direttamente coinvolte in sede di convocazione, più che nelle ipotesi di conciliazioni facoltative, stante la possibilità di fare emergere elementi inerenti le reali motivazioni della cessazione del rapporto o di possibili conflittualità connesse o contestuali al licenziamento, nonché di esperire eventuali soluzioni ricollocative del lavoratore.
La raccomandazione di partecipazione delle parti e il dettato preciso delle tempistiche esaltano la funzione deflattiva dell’istituto così come riposta dal legislatore nella norma: è anche in tali fattispecie che più di tutte si sperimenta la capacità di mediazione della Commissione, come si descriverà al par. 4.

3.2 Tentativo facoltativo di conciliazione

In tutti gli altri casi esclusi dalla casistica descritta nel precedente paragrafo di potenziale, insorgendo o reale contenzioso, il tentativo di conciliazione è di natura facoltativa.
È facoltativo anche il tentativo di conciliazione nei casi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo dei lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 (contratto a tutele crescenti) (rif. D.Lgs. 23/2015).
La richiesta di una conciliazione può essere avanzata, in tal caso, dal datore di lavoro, dal lavoratore o da entrambi (c.d. Istanza congiunta).
L’istanza sottoscritta dal/dai richiedente/i deve essere inviata alla sede dell’Ispettorato del Lavoro competente per territorio e deve contenere – come per il caso precedente – i riferimenti anagrafici delle parti, luogo di lavoro, recapiti per la ricezione di comunicazioni inerenti la procedura e l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa, ai sensi dell’art. 410 del C.p.c.
Al recepimento dell’istanza e della successiva adesione di controparte (con eventuale deposito di memorie), l’Ispettorato del Lavoro competente procede alla convocazione, per cui le parti sono invitate a presentarsi innanzi la Commissione.
La presenza o meno di una o di entrambe le parti, la discussione, il ruolo della Commissione, l’esito della conciliazione sono i fattori determinanti per la redazione del verbale, prevista in ogni caso, da parte della commissione stessa, che sancisce il rinvio o la conclusione della procedura.

4. Quali i possibili esiti? Il ruolo di mediazione della Commissione

Il tentativo di conciliazione, a prescindere dalla tipologia, può avere tre diversi esiti: un accordo, un mancato accordo oppure una mancata conciliazione per assenza di una delle parti (che nel caso di conciliazione obbligatoria può configurarsi solo per assenza del lavoratore).
In tutti i casi va redatto un verbale da parte della Commissione, siglato anche dalle parti.
In caso di accordo, inoltre, si può allegare al verbale la scrittura di totale o parziale conciliazione sulla controversia.
Sebbene sia frequente che le parti già abbiano interlocuzioni antecedenti alla convocazione innanzi la Commissione è fondamentale la discussione preliminare all’esito definitivo.
La capacità di conciliare di una Commissione dipende molto dalla preparazione tecnica in materia di diritto del lavoro e delle relazioni sindacali dei componenti e dallo studio preventivo della questione oggetto di discussione, prima di presenziare all’incontro con le parti.
Se la conoscenza della materia è una caratteristica basilare per una valida Commissione, altrettanto deve essere necessaria una capacità di affrontare una molteplicità di argomenti connessi a rapporti di lavoro tra loro eterogenei, per differenti CCNL applicati, tipologia di mansione, caratteristiche del lavoratore e della prestazione lavorativa, ecc.
Fra l’altro, l’oggetto stesso della controversia può riguardare molteplici e diversi aspetti del rapporto di lavoro, non implicanti necessariamente la cessazione dello stesso: si pensi a casi di demansionamento, di ore di straordinario non corrisposte, avanzamenti di carriera non riconosciuti, ecc.
È pur vero che spesso, pur trattandosi di vicende non inerenti la fine di una relazione lavorativa, esse possono compromettere il prosieguo sereno della stessa, alterando il rapporto di fiducia tra lavoratore e datore di lavoro a causa di conflittualità irrisolte.
È compito della Commissione, dunque, ascoltare le parti, se necessario singolarmente o congiuntamente, considerando però che il confronto tra le parti sia sempre auspicabile per l’emersione degli elementi di conflitto e la loro valutazione da parte di un organo collegiale caratterizzato da terzietà, garante dell’equilibrio degli interessi in gioco.
Per svolgere il lavoro di Commissione, pertanto, non basta la mera preparazione e valutazione tecnica del caso: si deve superare l’asetticità del tecnicismo insito nella tematica di controversia per osservare lo sviluppo della discussione in chiave relazionale datore di lavoro/lavoratore, sfruttando possibilmente intuizioni anche di tipo psicologico, guardando all’approccio dialettico delle parti e all’atteggiamento mostrato in sede di confronto. Al proposito sono utili le conoscenze delle tecniche di conciliazione, che approfondiscono anche l’analisi dei comportamenti, della gestualità del corpo e dell’esposizione dei fatti, dalla gestione dei silenzi alla tecnica delle domande. Rilevano persino le tipologie di messaggi non verbali, come la disposizione e la dimensione spaziale.
È inevitabile che il conciliatore, infatti, debba presentare una dialettica composita di contenuti meramente tecnici (normativi e contabili) ed altri più chiaramente emozionali, trattando comunque un aspetto fondamentale della vita delle persone, quale è il lavoro.
Riuscire a condurre una commissione in quest’ottica, consente di maturare una valutazione quanto più obiettiva e complessiva del caso in esame, soprattutto quando è necessario che l’organo debba formulare una proposta per scongiurare il perseverare del conflitto o – nel caso estremo – la cessazione del rapporto di lavoro, fermo restando che la valutazione suddetta non è un giudizio sul caso, attività che compete solo ed esclusivamente al giudice.
La proposta da parte della Commissione è essenziale quando le parti mostrano posizioni troppo distanti per dirimere il conflitto e deve, pertanto, avere necessariamente una natura di mediazione che implichi quasi sicuramente una rinuncia da entrambi i confliggenti al fine di pervenire ad uno stato satisfattorio per tutti.
Nella fase di genesi dell’accordo nasce il carattere di tombalità dello stesso sulle rinunce e sulle transazioni così effettuate, che si estende anche alla negoziabilità su diritti tendenzialmente indisponibili, ma che possono rientrare in un regime di trattabilità negoziale purché non compromettano pregiudizio per le parti coinvolte e siano immesse nell’omnibus caratterizzante l’accordo finale a suggellare la fine del conflitto (ad esempio, il conteggio complessivo delle ferie, la corresponsione della retribuzione degli straordinari).
La proposta di accordo, fra l’altro, serve a scongiurare il rischio del certo per l’incerto, ossia rispettivamente la sicurezza di una scrittura siglata in sede protetta su impegni, rinunce e transazioni delle parti opposta all’alea del giudizio e conseguenti spese legali, qualora si dovesse procedere portando il contenzioso in sede giudiziale.
È fondamentale, quindi, che l’accordo sia chiaro e comprensibile alle parti, conforme alle normative e che ivi emergano chiaramente obblighi e soggetti obbligati.
In aggiunta, è bene chiarire alle parti che se non volessero accettare la proposta avanzata dalla Commissione e la stessa sia valutata adeguata da parte del giudice su base del verbale redatto a conclusione del tentativo di conciliazione, questi può tener conto della non accettazione ritenuta immotivata da una o entrambe le parti in fase di giudizio.
Si ribadisce che le proposte e gli accordi in discussione in sede di conciliazione devono essere limitati dalla disciplina delle rinunce e delle transazioni, che individua i confini entro cui è possibile negoziare e su cosa, almeno per quanto riguarda i diritti del lavoratore.
L’istituto delle rinunce e delle transazioni è disciplinato dall’art. 2113 del Codice Civile, per cui le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e di contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide, a meno che non si rientri nell’ipotesi di accordi in sede c.d. protetta, in ambito giudiziale, sindacale ed amministrativa, dove le rinunce e le transazioni sono valutate come tombali, ovvero non più impugnabili [1].
L’impugnazione delle rinunce e delle transazioni, possibile con qualsiasi atto scritto del lavoratore, idoneo a palesarne la volontà, prevista nei casi in cui non siano stipulate in sede protetta, deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.
È chiaro che la differenza tra ammettere o meno la liceità di rinunce e transazioni a seconda che siano stipulate in sede protetta o no, dipende dalla presenza di soggetti terzi posti a garanzia dell’equilibrio dell’accordo tra le parti in termini di interessi, rinunce e reciprocità delle concessioni.
È da tale normativa che si individua la dicotomia tra diritti disponibili e indisponibili, laddove i primi sono diritti soggettivi, trasferibili in capo ad altri soggetti in modo gratuito o meno, mentre i secondi tutelano aspetti della persona non soggetti a negoziazione, pertanto non trasferibili.
Nell’ambito del rapporto di lavoro sono diritti indisponibili la retribuzione tabellare, il versamento dei contributi assicurativi e previdenziali , il riposo dal lavoro e il TFR (almeno per la maggior parte delle interpretazioni) [1], un diritto futuro e/o eventuale( art. 1418 del c.c. ), mentre sono disponibili i diritti a contenuto patrimoniale e derogabili da legge o contratti collettivi di lavoro, come l’indennità sostitutiva dei periodo di riposo, i trattamenti economici derivanti da pattuizioni individuali (c.d. superminimo), il periodo di preavviso, la retribuzione eccedente i minimi tabellari, la risoluzione consensuale, il diritto di precedenza nelle riassunzioni dopo i licenziamenti collettivi o per giustificato motivo oggettivo o per cessione di azienda, le dimissioni, con esclusione di quelle per matrimonio e per maternità [1].
Va pur detto che non si tratta di una dicotomia assoluta e inelastica: se nell’ambito di istituti come la conciliazione monocratica i margini di trattabilità sono molto più rigidi e confinati a materie previdenziali e retributive, nel caso della Commissione di Conciliazione può ravvisarsi una maggiore negoziabilità, anche su diritti tradizionalmente indisponibili, purché vi sia sempre equilibrio tra le parti.

5. L’offerta di conciliazione ai sensi del d.lgs. 23/2015

Nel caso di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e nelle fattispecie di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo si rientra nel regime delle tutele crescenti come disciplinato dal d.lgs. 23/2015 [Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183].
In tal caso il tentativo di conciliazione è sempre facoltativo e può esservi un’offerta da parte del datore di lavoro al fine di evitare il giudizio o un contenzioso.
Entro i termini di impugnazione del licenziamento (60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta), il datore può offrire, in sede protetta, al lavoratore una somma che non è reddito imponibile ai fini Irpef né ai fini contributivi, per un ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità, – come modificato dal noto Decreto Dignità approvato con il decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 e convertito dalla Legge 9 agosto 2018, n. 96, pubblicata sulla Gazzetta n. 168 del 13 luglio scorso, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.
La conseguenza dell’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore è l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e, inoltre, la rinuncia alla impugnazione del licenziamento, anche nel caso in cui sia stata già avanzata dal lavoratore.
Le altre possibili somme pattuite nella medesima sede conciliativa per cessazione di ulteriori pendenze connesse al rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.
È previsto, altresì, un obbligo di comunicazione delle cessazioni di rapporti di lavoro con conciliazione ai fini di monitoraggio.

6. Aspetti fiscali e previdenziali delle somme

Le somme corrisposte a seguito di transazione sono, in via generale, da sottoporre a tassazione separata se collegate alla cessazione di un rapporto di lavoro (art. 17, comma 1 lett. a del TUIR), poiché trova applicazione il principio del lucro cessante sulle somme erogate in sostituzione di redditi da lavoro dipendente a seguito di transazioni.
Rientra in tale campo anche l’incentivo all’esodo, che è la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro previa corresponsione di una determinata somma di denaro al lavoratore da parte del datore.
Per tutte le somme erogate al lavoratore che non rientrano nella casistica dell’art. 17, comma 1 lett. a del TUIR, infatti, non si applica la tassazione separata ma quella ordinaria.
Vi è da dire che non c’è una precisa definizione del trattamento fiscale di somme erogate per rinunce e transazioni, tuttavia si possono rinvenire i riferimenti normativi principali nel TUIR e nella prassi dell’Agenzia delle Entrate (in particolare, vedasi gli interpelli n. 343 e 344 del 2022).
Date queste incertezze, per accertare la correttezza del trattamento fiscale, è necessario verificare il momento della stipulazione dell’accordo transattivo, per cui una distinzione di massima deve essere fatta tra transazioni poste in essere durante il rapporto lavorativo e transazioni perfezionate alla conclusione dello stesso [3].
Del primo tipo, anche note come transazioni semplici o non novative sono quelle in cui le parti non sostituiscono il rapporto preesistente con un altro rapporto di natura giuridica diversa.
Esse sono collegate al rapporto di lavoro in essere al fine di soprassedere ad alcune conflittualità, potenziali o reali.
Sono normalmente sempre imponibili con tassazione ordinaria; solo se instaurate alla cessazione del rapporto di lavoro, sono sottoposte a tassazione separata.
Non sono imponibili se sono a titolo di risarcimento del danno emergente (es. perdita di possibilità lavorativa) né se si tratta di corresponsione a titolo di spese legali.
Non possono dunque considerarsi reddito imponibile in capo al lavoratore le somme a questi corrisposte dal datore di lavoro, ad esempio, a titolo di risarcimento dei danni alla salute e dei danni esistenziali sofferti a causa di infortuni sul lavoro o demansionamento, trattandosi di somme che vanno a risarcire un danno emergente e non la perdita di un reddito [4].
Ne consegue che le transazioni stipulate in corso di rapporto sono soggette a tassazione ordinaria secondo i criteri fissati dall’art. 51 del T.U.I.R.
Il secondo tipo di transazioni è quello delle novative, che implicano la costituzione di un nuovo rapporto giuridico.
Queste transazioni, a differenza delle non novative, sono assoggettabili a contribuzione se connesse ad un danno emergente, poiché secondo la giurisprudenza non è assoggettabile a contribuzione ciò che è corrisposto al fine di concludere una lite senza alcun nesso con le pretese inerenti al rapporto di lavoro.
Dalla giurisprudenza si desume che non è assoggettabile a contribuzione solo ciò che, in sede formalmente transattiva, venga corrisposto al solo scopo di porre fine alla lite senza alcun nesso con le pretese inerenti al rapporto di lavoro [1]: “Nell’ampio concetto di retribuzione imponibile ai fini contributivi rientra tutto ciò che, in denaro o in natura, il lavoratore riceve dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro talché per escludere la computabilità di un istituto non è sufficiente il riscontro della mancanza di uno stretto nesso di corrispettività, ma occorre che risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione” (Cass. 6663/02).
Va detto, infine, che le somme offerte per licenziamento con tutele crescenti non costituiscono reddito imponibile ai fini fiscali e contributivi.

7. La negoziazione assistita: un’alternativa al tentativo di conciliazione facoltativa innanzi la Commissione?

La negoziazione assistita rientra nell’ambito delle ADR – Alternative Dispute Resolutions, metodi di risoluzione delle controversie alternativi al procedimento giudiziale, trattandosi di una procedura conciliativa di natura facoltativa definita dal capo II del D.l. 12 settembre 2014, n. 132 [Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile], come convertito in legge L. 10 novembre 2014, n. 162.
Dall’entrata in vigore della riforma Cartabia , la negoziazione assistita è divenuta applicabile anche nell’ambito delle controversie di lavoro, per cui gli accordi gestiti dagli avvocati delle parti e conclusi con tale strumento sono di fatto pari a quelli siglati nelle sedi protette, con medesima qualificazione di tombale alla stregua degli accordi siglati ex art. 2113 del Codice Civile, quarto comma, con conseguente inoppugnabilità.
Come indicato dalla norma, infatti, per le controversie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall’art. 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale e ciascuna delle parti è assistita da almeno un avvocato oppure da un consulente del lavoro.
La convenzione di negoziazione assistita si formalizza in un accordo siglato dalle parti, soggetto alla disciplina dell’art. 2113, quarto comma, del codice civile, che dovrà essere poi inviato, a cura di una delle due parti, ad uno degli organismi certificatori menzionati nell’art. 76 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, entro 10 giorni dalla sottoscrizione, ossia agli organi abilitati alla certificazione dei contratti di lavoro – le commissioni di certificazione – istituiti presso: a) gli enti bilaterali costituiti nell’ambito territoriale di riferimento ovvero a livello nazionale quando la commissione di certificazione sia costituita nell’ambito di organismi bilaterali a competenza nazionale; b) Ispettorati Territoriali del Lavoro c) le università pubbliche e private, comprese le Fondazioni universitarie, esclusivamente nell’ambito di rapporti di collaborazione e consulenza attivati con docenti di diritto del lavoro di ruolo ai sensi dell’articolo 66 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382.
Si può ricorrere alla negoziazione assistita anche nel caso in cui il lavoratore non abbia ricevuto totalmente o parzialmente risposta dal datore di lavoro risposta su richieste di informazioni dovute ex D. Lgs. n. 104/2022, sebbene non esplicitamente citata dal medesimo decreto, ma in linea con Massi [3], non vi sono ragioni che ne adducano l’esclusione.
L’atto propulsivo per iniziare la negoziazione è un invito a stipulare la convenzione inerente l’oggetto della controversia: la mancata risposta entro trenta giorni dalla ricezione o il rifiuto può essere valutato dal giudice ai fini delle spese del giudizio.
Affinché una negoziazione assistita produca un accordo valido è necessario che siano rispettati alcuni requisiti, in primis il termine concordato dalle parti relativamente allo svolgimento della procedura (comunque non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti). La convenzione, infatti, si intende conclusa entro un periodo di tempo determinato dalle stesse parti, fatti salvi i termini precedenti. Essa, inoltre, deve riguardare diritti disponibili e può prevedere la possibilità di acquisire dichiarazioni di terzi su fatti rilevanti relativi all’oggetto della controversia o della controparte sulla verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste.
Lo svolgimento può essere anche in modalità telematica e con collegamenti audiovisivi a distanza, purché sia conforme alle disposizioni del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82; in ogni caso, pena la nullità, deve essere redatta in forma scritta.
Spetta agli avvocati la certificazione del mancato accordo e/o delle sottoscrizioni dello stesso.
La possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita di certo è un positivo ampliamento degli strumenti a disposizione per ridurre e prevenire il contenzioso in materia di lavoro, restano, però, incertezze sull’applicazione e sulla norma che, per alcuni aspetti, appare vaga, premesso che non c’è un periodo storico già consistente per disporre di dati tali da poter effettuare valutazioni di massima sul successo o meno del ricorso a tale istituto, né esiste una giurisprudenza consolidata al riguardo, sebbene si possa ben accogliere il punto di vista di Massi, per cui le pronunce di Cassazione in materia di controversie di lavoro possono ritenersi valide anche per la casistica delle negoziazioni assistite [3].
È pregnante, poi, il ruolo degli avvocati o dei professionisti coinvolti per tutta la procedura, ivi compresa l’informazione adeguata da fornire alle parti e la loro tutela, alla loro consapevolezza degli eventuali diritti rinunciati con la sottoscrizione e alla supervisione della stesura dell’accordo per la presenza di clausole liberatorie sul rapporto di lavoro concluso eccessivamente a sfavore di una delle parti.
Ciò, in particolare, ha effetto su due fronti: il campo di impugnazione degli accordi e l’effettiva tutela delle parti – soprattutto dei lavoratori – se può essere pari a quella delle sedi protette.
Varrebbe, dunque, la pena arricchire la norma e, a tal fine, definire meglio il ruolo delle commissioni di certificazione nella fase di recepimento dell’accordo, ancora ambiguo. Non è molto chiaro, infatti, se l’invio della scrittura sia solo un adempimento formale o se strumentale a un mero controllo numerico delle negoziazioni avvenute o se presupponga un’attività di controllo da parte dei soggetti destinatari.
Se si configurasse la terza ipotesi, sarebbe opportuno definire in che ambito e con quali criteri l’organo certificatore dovrebbe svolgere l’attività di supervisione o di controllo.
Si tratta, insomma, di un campo ancora da sperimentare, acerbo per valutazioni, ma sicuramente già migliorabile per assestare le incertezze discusse.

8. Conclusioni

La funzione di conciliazione nelle controversie di lavoro è un’attività delicata, particolarmente importante dal punto di vista sociale quando è svolta dall’organo della Commissione provinciale di conciliazione, che mostra la sua preminente finalità conciliativa nella fase propositiva, dirimente per un conflitto, e, pertanto, non confinandosi ad un mero organo collegiale, simil notarile, di controllore di accordi preconfezionati (attività che dovrebbe essere residuale).
La CPC, laddove raggiunga l’obiettivo di soluzione del conflitto, pertanto, garantisce un servizio pubblico importante per la collettività, perché riduce il carico sul contenzioso in sede giudiziale, con effetti riduttivi sulle spese e sui tempi della giustizia.
Ciò evidenzia l’importanza di promuovere il ricorso all’istituto in caso di insorgendo o insorto conflitto, oltre ai casi di obbligatorietà, da parte di chi assiste i soggetti in controversia, siano essi legali, professionisti, sindacati e organizzazioni datoriali.
È pur vero che ci si trova in una evoluzione storica particolare, per cui il ricorso al tentativo di conciliazione amministrativa verosimilmente in prospettiva tenderà a diminuire per due ragioni:

1. i rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015 afflitti da controversie tenderanno ad essere sempre di meno nel tempo. Ciò implica che gradualmente verrà meno l’obbligo di ricorrere a tentativi di conciliazione nei casi di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo;
2. se la negoziazione assistita si consoliderà come alternativa alla conciliazione amministrativa, probabilmente potrebbe incidere negativamente sulla quantità di istanze di conciliazione in sede di commissione, perché ha il vantaggio di una riduzione dei tempi – non occorrendo attenersi alla calendarizzazione della convocazione dell’Ispettorato. Si dovrà valutare, poi, se con la negoziazione potrà esserci una maggiore elasticità sugli accordi, qualora l’organismo di certificazione non dovesse effettuare alcun controllo, ma dovesse fungere quale sorta di archivio pubblico degli accordi così recepiti.

Il primo aspetto è più certo, l’altro meno ma è probabile che entrambi incideranno in modo infattivo sul carico di lavoro della commissione, che già ad oggi – rispetto al passato – ha una minore pressione in termini di istanze.
È, dunque, un futuro da definire, fermo restando che la CPC resta uno strumento utile anche per la funzione di vigilanza sulla conduzione dei rapporti di lavoro e sul bilanciamento degli interessi in gioco, quindi sull’equilibrio del rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e lavoratore, proprio per il coinvolgimento nella discussione di rappresentanti delle parti sociali, organizzazioni sindacali e datoriali.
Tra l’altro, questi soggetti di rappresentanza nella commissione non sono scelti arbitrariamente, ma vengono individuati secondo la rappresentatività che gli stessi hanno sul territorio di competenza (generalmente coincide con la provincia su cui esercita competenza l’Ispettorato Territoriale del Lavoro).
Al di là delle considerazioni sulla evoluzione dell’istituto e sulle tecniche conciliative più raffinate, la bussola a cui guardare per orientarsi nel processo di conciliazione, è probabilmente la capacità di affrontare le vicende trattate in quanto storie di persone e non esaminarle come asettici e meri fascicoli amministrativi da smistare: è, d’altra parte, la logica che dovrebbe contraddistinguere il dipendente di una moderna e rinnovata Pubblica Amministrazione.

Bibliografia

[1] L. Oppedisano e G. Patania, «Diritti disponibili e indisponibili del lavoratore» Lavoro@Confronto, Numero 23 Settembre/Ottobre 2017.
[2] Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, art. 7 L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 1, comma 40, della L. n. 92/2012 – procedura obbligatoria di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – primi chiarimenti operativi., Circolare n. 3 del 2013.
[3] «Conciliazioni in forma privata Art. 2113 cc Rinunzie e transazioni» [Online]. Available: https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=&ved=2ahUKEwj9-u2Y54eDAxUWR_EDHYD_BP4QFnoECBAQAw&url=https%3A%2F%2Fwww.gruppoarealavoro.it%2Fwp-content%2Fuploads%2F2019%2F06%2FRinunce-e-Transizioni-Francesco-Natalini-Rimini.pptx%23%3A~%3Atext.
[4] E. Massi, «Negoziazione assistita nelle controversie di lavoro: regole per attivazione e trasmissione alle commissioni di certificazione» Ipsoa Quotidiano, 13 DICEMBRE 2022.

Sommario

A partire dalla fine degli anni ’80 le istituzioni internazionali hanno prestato particolare attenzione ai temi della riduzione degli oneri amministrativi, della semplificazione normativa e dell’analisi di impatto della regolamentazione. Nel corso degli anni si è assistito ad una crescita del numero delle leggi e dei regolamenti, dei carichi regolativi che gravano sulle attività di cittadini, imprese e amministrazioni pubbliche e ad una complessità degli adempimenti burocratici imposti per assicurare e verificare il rispetto di tali regolazioni. Tutto ciò ha comportato un forte impatto sulla crescita e sulla competitività del singolo paese.
Le policies adottate da diversi paesi hanno tentato di dare una risposta alla domanda se una deregolamentazione sia da preferire una corretta ed efficace politica di regolazione. La risposta ritenuta più valida è nella ricerca del giusto equilibrio tra regolazione e buona qualità della formazione. In questo modo è possibile dare la giusta risposta alle opposte spinte alla deregolazione, per favorire il progresso economico, e alla iper-regolamentazione, per disciplinare la concorrenza o per tutelare gli interessi deboli o costituzionalmente sensibili.

La Better Regulation

Le politiche di semplificazione normativa e amministrativa hanno trovato un forte impulso nella Strategia di Lisbona. Ricordiamo che oggi, la gran parte dei servizi pubblici può essere gestita da soggetti organizzati in forma di società di diritto privato. Il potere pubblico viene chiamato a regolamentare i mercati con la produzione di regole specifiche con una disciplina pubblicistica che rimane quindi nella forma della regolazione. È questa una modificazione profonda delle funzioni dello Stato che pone la necessità di creare delle “buone” regole idonee al funzionamento del mercato d’interesse pubblico.
Gli effetti di un buon sistema di regolazione dei mercati sono infatti molto importanti poiché in primo luogo viene stimolata la nascita di mercati efficienti e concorrenziali anche a livello locale, in secondo luogo perché un effetto significativo è quello che consente al Paese di localizzare utilmente le imprese. Si sottolinea che, a seguito dell’impulso comunitario, è stato operato un vero e proprio passaggio tra uno Stato che erogava servizi pubblici ad uno Stato che opera una regolazione del mercato in cui esistono soggetti privati.
Prendendo spunto da queste considerazioni si cominciano a delineare i concetti “Regulatory Reform”, “Regulatory Policy” e “Better Regulation”, la cui matrice comune, aldilà delle sottili distinzioni termologiche, è costituita dall’esigenza di assicurare un contesto normativo di “alta qualità”.
Negli ultimi anni, l’espressione “Regulatory Policy” ha gradualmente preso il posto della denominazione “Regulatory Reform”, per sottolineare la diversa prospettiva che è andata assumendo la “politica” di regolazione come processo continuo, una strategia unitaria piuttosto che una serie di “riformead hoc. L’espressione “Better Regulation” nasce, invece, nel Regno Unito e sta ad indicare l’azione svolta dal Cabinet Office per promuovere il miglioramento della regolazione. L’impostazione seguita dall’OCSE si basa su un’accezione assai ampia di “regulation”, che finisce per ricomprendere tre ambiti, distinti in funzione degli obiettivi e degli interessi tutelati:
a) “regolazione economica”, che interviene direttamente nelle decisioni di mercato, attraverso la regolazione dell’entrata e dell’uscita dei prezzi;
b) “regolazione sociale”, che evoca gli interventi tesi alla cura di interessi pubblici prevalenti, come la salute e la sicurezza dei lavoratori, la protezione ambientale e la tutela dei consumatori;
c) “regolazione amministrativa”, con la quale i pubblici poteri impongono una serie di adempimenti (il c.d. red tape), attraverso i quali raccolgono informazioni ed intervengono nelle decisioni economiche degli operators.
In tale ampia nozione di regolazione si fa rientrare anche la disciplina della concorrenza. Si tratta di un’ampia categoria definita dall’OCSE come “the diverse set of instruments by which governments set requirements in enterprises and citizens”, che include “leggi, provvedimenti formali ed informali e norme delegate adottate a tutti i livelli governativi e da organismi non governativi o di autoregolazione ai quali l’ordinamento abbia delegato poteri di regolazione”.
Una definizione così ampia di regolazione, che comprende tutti gli interventi pubblici e coincide con tutto il diritto pubblico dell’economia, è apparsa a molti sostanzialmente inutilizzabile e si è perciò fatta strada una nozione più ristretta di regolazione che potremmo definire “amministrativa” e che si riferisce a ogni forma di esercizio di poteri autoritativi da parte di amministrazioni pubbliche.
Non è mancato però chi ha subito sottolineato che anche questa nozione, seppure circoscritta, porta ad includere nella definizione di regolazione anche il diritto penale e si rivela, dunque, particolarmente ampia. Si è così affacciata la tesi di una autorevole dottrina, che suggerisce di limitare ulteriormente l’accezione di regolazione ai soli interventi di amministrazioni indipendenti, cui sia stato affidato un unico compito istituzionale e che adottino regolazioni prevalentemente “condizionali”, nel rispetto del principio del giusto procedimento, attraverso gli strumenti della partecipazione e della trasparenza (si parla di “regolazione amministrativa a carattere economico”). Sembra dunque imprescindibile un diverso approccio, meno teorico e più ancorato al diritto positivo, che delimita il concetto di regolazione a seconda dell’ampiezza dell’ambito operativo dello strumento di volta in volta utilizzato per pervenire ad una “buona” regola.
Le difficoltà di pervenire ad un concetto universalmente valido di regolazione si colgono, per esempio, quando si tenta di individuare il concetto di regolazione da sottoporre ad analisi di impatto. Basta infatti ricordare che mentre inizialmente il nostro legislatore aveva accolto una nozione ampia di regolazione che comprendeva, accanto alle “regolazioni normative” (schemi di atti normativi e progetti di legge), le “regolazioni amministrative” vincolanti (schemi di atti normativi adottati dal Governo e di regolamenti ministeriali ed interministeriali; atti amministrative generali delle autorità indipendenti di regolazione) e non vincolanti (circolari e regole tecniche contenute in atti non normativi) . In conclusione, la nozione di regolazione, non solo varia da ordinamento ad ordinamento, ma risulta positivamente condizionata dalle scelte operate dal legislatore nell’individuazione degli strumenti di Better Regulation e del loro ambito applicativo.

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In economics a crucial role is defined by expectations, made up by economic agents, about future economic variables. Every day we are affected by a lot of economic’s informations, expecially in newspapers and on television.
In economics, in order to understand the state of the economic system, economists and research insitutes creates, using mathematical models, a lot of statistics to measure the most important variable’s trend, like inflation, unemployment, production and so on.
Inflation, for example, is defined like the rate change of prices during a specific time. In mathematical term we can define it as follow:

π = Pf – Pi / Pi

Where:
π = Inflation rate;
Pf = Final price’s level;
Pi = Initial price’s level.

Inflation, as we know, is one of the most important variables to estimate how a certain bundle of goods and services, that statically represent the average purchaising’s decisions of consumers in an economy, changes its value across time.
In an economy, to mantein as smooth as possible the aggregate demand and to not create particular problems to consumers and firms, is crucial that inflation’s rate remains as smooth as possible and close to lower values.
The European Central Bank, for the European countries that have adopted in their economies the euro, and the Federal Reserve System, for the United States of America, are the two most important Central Banks in the world and their task is to set the monetary policy in their economy.
Actually, Christine Lagarde is the president of the ECB while Jerome Powell is the president of the FED.
To define their monetary policy decisions they have to adopt several econometrics models in order to understand how a specific monetary policy can affect the economic system and how economic’s variables, like inflation, will react to these policies.
Central Banks can stimulate the economy, substantially, increasing or decreasing the interest rates. For example, during an expansionary period when the aggregate demand exceeds the aggregate supply, prices rises up an inflation occurs in the economy. As we have said before, Central Banks of the most developed countries, want to mantein inflation to 2% by year.
No one want to have an elevated inflation, because it affects negatively the economy, principally for two reasons:
I. The purchasing power of households and consumers decreases, because with the same amount of money and wages people can now buy less goods and services rather that in the past.
II. High inflation brings in the economy uncertainty, because consumers have no idea regarding the future price’s level and firms, at the same time, are not aible to sell their products, because economic agents will tend to decrease demand for goods and services. Inflation, if policymakers doesn’t control it massively, can develop in an hyperinflation. (A period in time in which inflation rate acrosses 50% per year).
III. For this reason we could think that a deflation could be desiderable for the economy. How beautiful would be a world with a speedly decreasing of prices’s level! No one could desire something of better!

Unfortunately this is not true, and now I will just try to explain why a deflation could be worst than a positive inflation.
If in the economy the general level of prices is getting down, firms and expecially entrepreneurs will be worried because it is probable that consumers, due a rising down of prices’s level, will decide to postpone their purchases for durable goods and services, because they image to buy them in the future, hoping that prices will continue to decrease.

If this prediction will be confirmed in the economy firms would have to cut employment, in order to contain costs due a reduction of profits and production. Deflation is very dangerous and it is one of first elements that appears during a recession.

In economics, thank the contribute of Alfred Phillips, a very important relation is expressed by the Phillips’ curve.
The Phillips’curve shows an important relation between inflation and unemployment. Phillips realised, using econometric models, that in the UK, between 1913 and 1948 the inflation rate was negatively related to the unemployment rate. During period of high inflation the unemployment went down, and in the opposite case, so when the inflation rate was very low, the unemployment increased a lot. The economic interpretation to this results is the following:
During economic growth the inflation rate goes up because the aggregate demand increases and firms, in order to equilibrate demand and supply, are going to rise up prices. During economic growth firms, also, tend to hire new workers in order to increase production, and for this reason the unemployment rate goes down.
In the opposite situation, when a recession occurs in the economy, the inflation rate deeply goes down and unemployment increases significantly.
During a recession, when GDP falls down sharply, firms experiment an excess of costs on revenues, because the aggregate demand decreases and to sell their products they have to reduce prices, and it affects profits negatively. For this reason firms starts to fire workers in order to contain costs, and this measure contributes to increase unemployment in the economy.

This relation, for its characteristics and peculiarities, was used a lot by policymakers in order to choose a combination of inflation and unemployment in the economy. If the policymakers want to reach a certain level of inflation in the economy, they have to accept the corresponding unemployment associated to that inflation’s level.

This model was modified and partially rejected by several economists when during 1970 inflation and unemployment appeared together in a lot of countries due the oil crise. When inflation and unemplyoment appears together in the economy, economists speak about stagflation. A stagflation is a very strange and particular state of the economy in which GDP progressively reduces its speed but inflation remains very high. This is an event that economist have studied a lot and it also happened due a supply shock, like an increasing of the commodity’s prices and some particular inputs that is crucial for the whole global production, that is not predictable in the past and in which Government and policymakers have no a direct control on the mitigation of its effects.

For public authorities it is easier to manage a demand shock when, for example, aggreate demand increases or decreases because it is a direct consequence of the state of the economy. If the aggregate demand is high probably the labor market in the economy is working very well, with great efficiency and no particular distortions in the market. Firms want to hire new people and workers want to exchange their time for a wage. In this way workers get a wage and they can consume, invest and operate in the economy. When this occours the aggregate demand increases a lot and firms have to increase production or have to set new high prices to reach the equilibrium point. The opposite case, so when the labor market is very rigid due a crise, the aggregate demand goes down and prices falls down.

A Government, only for demand shock, can easily solve the disequilibrium. During an economic boom fiscal policy, made up by an increasing in taxations or a decreasing in public expenditure, is important to mantein the sustainability of the balance constraint of the country. At the same time, during a recession, an expansionary fiscal or monetary policy is useful to stimulate and pump the economy.

This model is crucial to understand how the Government and the Central Banks fix expectations of economic agents.

If the Government, in order to stimulate the economy after a recession, decided to increase the public expenditure (for example subsidies), in this way he wants to fix people’s expactions about the future, that in economics are crucial.

People in the economy, seeing a direct intervention of the Government in the economy, expect a rising inflation and a progressively reduction in unemployment. At the same time a Central Bank, with the monetary policy, can affect people expectations about the economy. For example, if a Central Bank wanted to rise interest rates to fight inflation, people would understand that the Central Bank is seriously interested in cutting down inflation.

If Central Bank didn’t do this, probably people would expect increasing inflation in the future.
In an economy, if people would expect rising prices, a salary-prices spiral could appear in the economy. This is determinated by the fact that the economic agents try to mantein as stable as possile their real wages that, as we have said before, represents their purchasing power. If the Central Banks didn’t fight inflation in the economy, increasing interest rates or decreasing the quantity of money available in the economy, people future expectation’s on the economy will determine an increasing on the nominal wages because, in a situation characterized by a deep inflation, workers will ask firms to speed up their nominal wages in order to preserve their purchasing power. Firms, at the same time, will increment their sell prices in order to equilibrate revenues and costs, because the increasing on the nominal wages, that have to be correspond to the workers, will cause a significant rising up of costs on their balance sheets.

If this economic adjustment process will remain persistent in the future, economy could be affected by a period of hyperinflation. Weimar’s Republic, in the 1920s, registered a terrible and scared hyperinflation, with an inflation rate per year approximately equal to 325.000.000%.
Germany had to pay war’s debts and sanctions and, for that reason, the Central Bank began to print a lot of money but this expansionary monetary policy’s decision caused the depreciation of the value and a massive increasing of the inflation rate.
To conclude, we have to understand that Central Banks have to drive people’s expectations. How an economic agent could believe to the policy decisions adopted by the Central Banks? Why he should have confidence on the monetary policy’s authority?
Using the Phillip’s curve we can say that a Central Bank, in order to communicate to the whole economy its decision to fight inflation, has to generate a volountary recession. Only in this way people, observing an increasing in the unemployment, will mantein their confidence on the Central Bank because, during a recession, the aggregate demand falls and prices begin to decrease.
Ben Bernanke, nobel prize for economics in 2022 and president of the Federal Reserve System from 2006 and 2014, said that:

«Today the monetary policy is 98% words and 2% facts»

With this sentence I really hope to have shared with you which is the real secret of the economy.
In economics, but also in real life, words and communication have more effects rather actions. We, obviously, have to be good speakers infusing confidence, determination and competence. Only with this three tools monetary and fiscal policy can affect positively the economy.

I fattori Environmental, Social & Governance, meglio conosciuti con l’acronimo ESG, compongono i tre pilastri della sostenibilità non finanziaria [1]: Environmental attiene a tutto ciò che afferisce al tema della tutela dell’ambiente, come il climate change, la riduzione delle emissioni di CO2 e l’inquinamento. Social comprende le politiche di genere e inclusive, la tutela dei diritti umani, dei lavoratori e degli interessi dei stakeholders dell’attività di impresa. Infine, Governance abbraccia sia le condotte e i requisiti che i componenti dell’organo di gestione devono possedere, sia le remunerazioni dei membri del Consiglio di Amministrazione e il raggiungimento all’interno di esso della parità di genere, insieme al sistema di controlli interni [2].

Sin dal 1987, la sostenibilità viene definita come quella «condizione di sviluppo tale da assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri» [3] e tale condizione permette alle imprese di svolgere la loro attività con strategie equilibrate, a basso impatto ambientale, tali da non pregiudicare i livelli di benessere umano, la salute e l’equilibrio sociale [4]. Per sostenibilità, tuttavia, ci si può riferire anche alla c.d. “continuità aziendale” enunciata al secondo comma – introdotto dal D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14. – dell’art. 2086 del codice civile, indicando la possibilità che gli amministratori, in un arco temporale sufficientemente lungo, garantiscano all’impresa un equilibrio economico/finanziario [5].

Ad oggi, i fattori ESG costituiscono il punto di riferimento principale per le scelte economiche e sociali a livello globale [6],  incoraggiando da una parte i regolatori ed autorità di vigilanza e dall’altra i cittadini e le imprese ad accelerare la transizione economica [7], promuovendo un cambiamento culturale e sociale, oltre che giuridico ed economico [8]. Attualmente, la sostenibilità non finanziaria non rappresenta – o non dovrebbe rappresentare – un vincolo per le imprese: al contrario, essa viene vista come un’opportunità di crescita [9] e differenziazione [10], rispondendo così all’esigenza di temperare la logica del profitto bilanciando, quindi, l’interesse dei soci con quello degli altri stakeholders [11].

 1.2 L’azione dell’Unione Europea per favorire la transizione verso la sostenibilità

I fattori ESG sono divenuti un tema centrale nelle politiche e nel diritto dell’Unione Europea, conoscendo nell’ultimo lustro un vero exploit normativo [12]: a marzo 2018, attuando l’Accordo di Parigi del 2015 [13] e l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite [14], la Commissione Europea pubblica un Piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile [15] e nel dicembre 2019 avvia, nell’ambito del Green Deal europeo [16], il cosiddetto Fit for 55 [17], una dettagliata normativa europea ed un pacchetto di iniziative legislative con l’obiettivo di ridurre le immissioni di carbonio e di avviare l’Unione Europea verso la neutralità climatica entro il 2050.

Attraverso la definizione di articolati piani programmatici con l’intento di raggiungere la neutralità climatica e la sostenibilità dal punto di vista sociale, l’Unione Europea si è prefissata, oltre al resto, di raggiungere gli obiettivi previsto dal Pilastro Europeo dei Diritti Sociali [18].
La Commissione, per conseguire i traguardi prefissati dal Green Deal europeo, ha affermato che è opportuno impiegare «tutte le risorse finanziarie, sia pubbliche che private, sia nazionali che multilaterali» [19], ponendo al centro del sistema finanziario i finanziamenti verdi e sostenibili.

Per tale motivo, grazie alla loro capacità di convogliare fondi verso specifici settori incidendo di conseguenza sugli enti finanziati, le società bancarie sono chiamate a divenire protagoniste – seppur incoraggiate ed indirizzate dalle autorità del settore bancario – del processo di transizione, svolgendo un ruolo fondamentale nell’orientare l’economia verso un’autentica sostenibilità.

Integrando i fattori ESG nel loro modello di business, le banche hanno iniziato a concedere sia i green loan, finanziamenti volti a finanziare le imprese che intendono realizzare progetti con chiari benefici ambientali [20], sia i sustainability – linked loan, finanziamenti volti ad incentivare l’impresa mutuataria a raggiungere obiettivi di sostenibilità già predefiniti [21]. Inoltre, sono sorti i sustainability – linked deposit: i fondi entrati nella disponibilità degli enti creditizi vengono destinati ad attività che soddisfano i requisiti ESG.
La sostenibilità è divenuto un tema al quale hanno posto attenzione tutte le tipologie di banche – e non, o non più solo  quelle etiche [22] – anche con il fine di attrarre nuova clientela ed ottenere guadagni di reputazione [23]. Si può constatare dunque che gli obiettivi di sostenibilità, senza l’ausilio del sistema creditizio, non possono essere raggiunti e viceversa, oggigiorno le banche non possono non confrontarsi con la sostenibilità [24].

1.3 Le recenti riforme normative in tema di sostenibilità applicate al settore bancario

La Commissione Europea, al fine di realizzare gli obiettivi del Green Deal europeo ed attuando gli standards del Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria (il principale standard setter internazionale per la vigilanza prudenziale delle banche) ha recentemente emanato un considerevole corpus normativo.
Con il Backing Package 2021 [25] pubblicato dalla Commissione nell’ottobre 2021 e approvato dal Parlamento Europeo nel marzo 2023, le autorità di vigilanza sono autorizzate definitivamente ad incorporare i fattori ESG non solo in fase di Supervisory review and evaluation process (SREP) [26], ma anche nei stress test, con l’obiettivo ultimo di perseguire la stabilità finanziaria e il finanziamento sostenibile dell’economia. Inoltre, si richiede agli enti creditizi di dotarsi di idonei assetti di governo societario per comprendere i rischi ESG nel calcolo del capitale interno delle banche, estendendo l’obbligo di informativa di sostenibilità a tutti gli intermediari e non solamente a quelli quotati e di grandi dimensioni [27].

Fondamentale per il perseguimento degli obiettivi di sostenibilità è la disclosure delle informazioni ESG da parte delle banche nei confronti del mercato, sopratutto per contrastare il fenomeno greenwashing: [28] il legislatore europeo, a tal fine, è intervenuto con il regolamento 2020/852 (Taxonomy Regulation) che definisce criteri uniformi a livello europeo per stabilire se un’attività economica è ecosostenibile [29], contrastando di conseguenza il greenwashing di prodotti finanziari. [30] Dal 2014, inoltre, tutte le banche (congiuntamente alle società quotate in borsa e alle assicurazioni) sono soggette alla Non – Financial Reporting Directive [31]  (NFRD), la quale richiede agli enti di descrivere come questi hanno adottato i fattori ESG nel loro modello aziendale, oltre che richiedere l’informativa sulla politica ambientale [32].
Tuttavia, la NFRD si vede modificata dalla recente Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) [33] la quale è entrata in vigore lo scorso 5 gennaio 2023: quest’ultima direttiva modifica i precedenti obblighi di rendicontazione di sostenibilità, estendendo il campo di applicazione a tutte le grandi società europee – comprese le società bancarie – indipendentemente dal fatto di essere quotate, ad eccezione, però, delle micro-imprese.
Scopo principale di tale direttiva è quello di garantire una maggiore trasparenza e standardizzazione delle informazioni sulle prestazioni ambientali, sociali e di governance da parte delle imprese: per meglio comprendere, seppur senza pretesa di esaustività, il beneficio che il mercato ne trarrà – presumibilmente – da questa direttiva, si ritiene opportuno esaminare alcuni considerando di questa.
Innanzitutto, al nono considerando si afferma che le informazioni derivanti dalla rendicontazione della sostenibilità effettuata dalle imprese deve raggiungere due distinte categorie  di utenti: la prima categoria è rappresentata dall’arena degli investitori i quali, usufruendo di tali informazioni, saranno in grado di comprendere rischi, opportunità ed impatto dei loro investimenti su persone e ambiente. La seconda categoria di destinatari delle informazioni è rappresentata dalla categoria degli attori della società civile, compresi organizzazioni non governative e parti sociali: tale categoria, infatti, si aspetta che le società agiscano in modo rispettoso e responsabile in ottemperanza dei fattori ESG. Viene sottolineato, accortamente, che di norma i singoli cittadini o consumatori raramente consultano direttamente tali informazioni: essi, però, possono ottenere informazioni circa la sostenibilità di prodotti finanziari (investendo, in tal modo, in un’ottica di non sola sostenibilità finanziaria) che intendono sottoscrivere in via indiretta attraverso la richiesta di pareri o consigli a consulenti finanziari od organizzazioni non governative.
Tuttavia, l’attenzione viene posta anche alle imprese che dovranno rendere pubbliche le informazioni derivanti dalla rendicontazione di sostenibilità: all’undicesimo considerando si afferma che «le imprese stesse possono trarre beneficio da una rendicontazione di qualità elevata in merito alle questioni di sostenibilità». Si ritiene infatti che una  pertinente, precisa e sufficiente rendicontazione di sostenibilità possa consentire all’impresa stessa un potenziale miglioramento all’accesso al capitale finanziario. Inoltre, la stessa rendicontazione, oltre che a fungere d’ausilio alle imprese nel comprendere rischi ed opportunità legate alla sostenibilità, può costituire un ponte in grado di permettere il dialogo tra impresa da una parte e stakeholders di essa dall’altra, contribuendo ad un incremento di reputazione dell’impresa stessa.
L’articolo 1 paragrafo 4 della CSRD – rubricato “rendicontazione di sostenibilità” – definisce quali debbano essere le informazioni di sostenibilità da includere nella relazione sulla gestione: tra le varie, sono presenti le informazioni inerenti alla resilienza del modello e della strategia aziendali dell’impresa per quanto concerne i rischi connessi ai temi di sostenibilità, i piani imprenditoriali e piani finanziari – ivi incluse le azioni di attuazione – atti a garantire che il modello e la strategia aziendali siano compatibili con  gli obiettivi prefissati sia dall’accordo di Parigi, sia dal regolamento (UE) 2021/1119 il quale istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica. Particolare attenzione viene posta, infine, al ruolo esercitato dagli organi di amministrazione e più precisamente alle competenze e capacità che i membri di essi debbono possedere nell’affrontare efficacemente le questioni di sostenibilità.

1.4 Le zone d’ombra del diritto bancario europeo in ambito di sostenibilità non finanziaria

Al fine di ottenere una più nitida comprensione in merito alle modalità attraverso le quali le società bancarie dovranno affrontare la questione della sostenibilità non finanziaria, è necessario focalizzare l’attenzione sul ruolo svolto dai consigli di amministrazione delle banche stesse, in quanto sono i componenti dell’organo gestorio a far divenire la banca un soggetto protagonista del processo di transizione.
Attualmente, con la proposta di direttiva Corporate Sustainability Due Diligence (CSDD) [34], si è nel mezzo di una nuova stagione normativa che ha l’obiettivo di integrare concretamente la sostenibilità nella governance delle società andando a regolare  direttamente il comportamento degli amministratori: il legislatore europeo intende introdurre nell’ordinamento societario un «dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità» prevedendo per gli amministratori non obblighi di risultato bensì di mezzi, ovverosia la sostenibilità dev’essere perseguita attraverso procedure, protocolli, e policies nell’organizzazione societaria. Da ciò ne deriva, quindi, che il consiglio di amministrazione della società bancaria deve riscrivere le strategie aziendali – in ottemperanza al diritto dell’Unione – dove da una parte viene integrato tutto ciò che afferisce alla sostenibilità non finanziaria e dall’altra, per semplice effetto di correlazione, vengono poste in essere quei protocolli atti a mitigare i rischi che la sostenibilità comporta.
Per adempiere a tali attività, tuttavia, occorre porre l’attenzione a due zone d’ombra che appaiono insediarsi nell’ordinamento bancario se questa direttiva dovesse entrare in vigore: ci si limiterà, in questa sede, solo ad accennare tali incertezze normative.
La prima zona d’ombra riguarda i requisiti che gli amministratori devono (o dovrebbero) possedere per affrontare un tema nuovo per le banche come quello della sostenibilità non finanziaria. In primo luogo, pare opportuno non dimenticare che per gli amministratori delle società per azioni, in generale, non sono previsti requisiti espliciti di professionalità ed onorabilità, a condizione che tali società per azioni non siano quotate o società con statuti speciali, come le banche o assicurazioni. Gli esponenti aziendali delle società bancarie, per essere ritenuti idonei allo svolgimento del loro incarico, debbono possedere requisiti, conoscenze e competenze maggiormente stringenti rispetto alle società di diritto comune e volti al perseguimento della «sana e prudente gestione» della banca stessa: tale clausola viene richiamata, nel Testo Unico Bancario (d.lgs. 385/93), in diverse circostanze e nel caso di specie ci si riferisce all’articolo 26 del T.U.B rubricato “Esponenti aziendali” in recepimento dell’art. 91 della Dir. 2013/36/EU (CRD IV). Questi requisiti, conoscenze e competenze necessitano di sottostare ad un principio di proporzionalità che tenga in considerazione anche le dimensioni dell’ente creditizio dove rilevano non solamente le esigenze attuali della banca ma anche l’evoluzione futura della sua attività.
Tuttavia, risulta di dubbia comprensione quali requisiti, conoscenze e criteri siano necessari affinché gli amministratori possano gestire opportunamente le tematiche ESG e per di più è limitata la comprensione se tali – eventuali – parametri debbano essere posseduti dalla totalità dei componenti dell’organo gestorio o se è sufficiente che i parametri in questione debbano essere posseduti unicamente dai membri facenti parte dai sempre più presenti comitati esecutivi di sostenibilità.
La seconda zona d’ombra riguarda i rapporti della società bancaria con le sue controparti: la direttiva CSDD, in particolare, preannuncia un mutamento nel processo di erogazione del credito, dovuto all’implementazione dei fattori ESG nei business – model delle banche. Infatti, la CSDD impegna le banche a preoccuparsi che le loro imprese controparti – già in fase onboarding, ovverosia la fase di acquisizione del cliente – siano già munite di policy, codice di condotta e piani operativi di prevenzione al fine di raggiungere gli obiettivi di sostenibilità [35]. Infatti, nel caso in cui per l’impresa controparte sia impossibile prevenire o attuare gli impatti negativi derivanti dal loro operato, la banca dovrebbe astenersi dall’allacciare un rapporto nuovo o prolungare quello già esistente. Tuttavia, vi sono alcune incertezze che meritano di essere menzionate:

  • non è del tutto comprensibile se tali vincoli riguardano la totalità delle società controparti della banca, o solo quelle di determinate dimensioni, quotate o meno;
  • occorre dissipare il dubbio se tali vincoli all’accesso al credito si riferiscono a qualsiasi settore d’appartenenza ed oggetto sociale o se tali vincoli riguardano, a maggior ragione, determinati settori ritenuti maggiormente inquinanti e volti quindi a generare impatti negativi, non solamente ambientali;
  • infine, non è chiaro se tali vincoli riguardano qualsivoglia entità del credito, o se questi vincoli vengono posti in essere solo nel caso in cui venga superato un determinato ammontare.

I consigli di amministrazione delle banche, attualmente e nell’immediato futuro, sono chiamati ad adottare politiche creditizie più precise e selettive, per gestire il delicato equilibrio fra finanziamento della transizione ed esclusione dei clienti che saranno classificati a maggiore impatto in base alla CSDD.

 

 

Note

[1] BEVIVINO V. (2022), L’attività ESG delle banche e la prospettiva di riforma della regolazione prudenziale delle informazioni, Rivista trimestrale di Diritto dell’Economia, n.4, pp. 484 – 516.

[2] ROLLI R. (2020) L’impatto dei fattori ESG sull’impresa. Modelli di governance e nuove responsabilità, Bologna, il Mulino.

[3] Brundtland, G. (1987) Report of the World Commission on Environment and Development: Our Common Future, United Nations General Assembly document A/42/427.

[4]  STELLA RICHTER M. jr (2021), Long – Termism, Rivista delle Società, n.1, pp. 16 -32.

[5] In tal senso, GINEVRI SACCO A. (2022), Divagazioni su corporate governance e sostenibilità, Rivista trimestrale di Diritto dell’Economia, n. 1, pp. 83 – 94.

[6] ALPA G. (2022), Solidarietà. Un principio normativo, Bologna, il Mulino

[7] AMOROSINO S. (2021), Il futuribile. Governare le transizioni “economiche”, in Passalacqua M. (a cura di), Diritti e mercati nella transizione ecologica e digitale, Studi dedicati a Mauro Giusti, Milano.

[8] CALDERAZZI R. (2022), La sostenibilità nell’impresa bancaria, Rivista trimestrale di Diritto dell’Economia, n. 4, pp. 168-192.

[9] PORTER M. E., KRAMER M. R. (2011), Creating shared value, Harvard Business Review, pp.62-77.

[10] CONTE F. (2022), La finanza sostenibile: limiti e profili evolutivi, in federalismi.it, n.33, pp. 1-26.

[11] CONTE G. (2008), La disciplina dell’attività d’impresa tra diritto, etica ed economia, in Conte G. (a cura di), Responsabilità sociale dell’impresa : tra diritto, etica ed economia, GLF editori Laterza

[12] ALPA G. (2021), Responsabilità degli amministratori di società e principio di «sostenibilità, Contratto e Impresa, vol. XXXVII, n.2,  pp. 721-732.

[13] L’accordo di Parigi è un piano d’azione per limitare il riscaldamento globale. Tale accordo è entrato in vigore il 4 novembre 2016, con l’adempimento della condizione della ratifica da parte di almeno 55 paesi che rappresentano almeno il 55% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Tutti i paesi dell’UE hanno ratificato l’accordo.

[14] L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU.

[15] COM (2018) 97 final. Questo piano di azione si fonda sulla relazione finale del 31 gennaio 2018 dell’High – level expert group on sustainble finance, un gruppo di esperti istituito dalla Commissione Europea. Questa relazione si pone come obiettivo quello di «riorientare i flussi di capitali verso un’economia più sostenibile, integrare la sostenibilità nella gestione dei rischi e promuovere la trasparenza e la visione a lungo termine delle imprese.»

[16] COM (2019) 640 final. Nello specifico, la Commissione Europea descrive l’European Green Deal come «una nuova strategia di crescita mirata a trasformare lUE in una società giusta e prospera, dotata di una economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva che nel 2050 non genererà emissione nette di gas a effetto serra e in cui la crescita economica sarà dissociata dalluso delle risorse».

[17] COM (2021) 550 final.

[18] Tale documento è rinvenibile al seguente link: https://www.agenziacoesione.gov.it/wp-content/uploads/2019/02/PilastroEuropeoDirittiSociali_2018.pdf.

[19] COM (2021) 390 final, Strategy for Financing the Transition to a Sustainable Economy, pag. 1.

[20] BEVIVINO V. (2022), Il bank government dopo l’integrazione dei fattori ESG nella regolazione prudenziale europea, Banca Impresa Società, n. 3, pp. 593-635.

[21] BEVIVINO V. (2022), L’attività ESG delle banche e la prospettiva di riforma della regolazione prudenziale delle informazioni, Rivista trimestrale di Diritto dell’Economia, n.4, pp. 484 – 516.

[22] Le banche etiche sono banche popolari che, tenendo fede ai principi fondanti della cooperazione e della solidarietà, favoriscono non solo l’azionariato diffuso ma effettuano valutazioni etiche in fase di raccolta e di impiego. La banca etica, solitamente, agisce nei seguenti campi: servizi socio-sanitari-educativi, attività sociali verso soggetti deboli; la tutela ambientale e valorizzazione dei beni culturali; la cooperazione allo sviluppo; la qualità della vita.

[23] BEVIVINO V. (2022), Il bank government dopo l’integrazione dei fattori ESG nella regolazione prudenziale europea, Banca Impresa Società, n. 3, pp. 593 – 635.

[24] RIGANTI F. (2022), L’impresa bancaria nella transizione sostenibile: principi e problemi, Analisi Giuridica dellEconomia, n. 1, pp. 315-326.

[25] Il Backing Package 2021 comprende: i) la proposta di un regolamento che modifica il regolamento (UE) n. 575/2013, il c.d. Capital Requirements Regulation (“proposta CRR 3”); ii) la proposta di una direttiva che modifica la direttiva 2013/36/UE e che modifica la direttiva 2014/59/UE (“proposta Capital Requirements Directive, CRD VI”); iii) la proposta di un regolamento che modifica il regolamento (UE) n. 575/2013 e la direttiva 2014/59/UE per quanto riguarda il trattamento prudenziale dei gruppi di enti a rilevanza sistemica.

[26] Questo processo, eseguito dalle Autorità di Vigilanza, permette di valutare e misurare i rischi assunti dal singolo ente creditizio. In particolare, vengono analizzati l’idoneità del modello imprenditoriale, del capitale, della liquidità ed infine del modello di governance.

[27] Lamandini M., Pellegrini F. (2022), Il completamento dell’Unione Bancaria e le prospettive di ulteriori riforme, in Chiti M. P., Santoro V. (a cura di) Il diritto bancario europeo. Problemi e prospettive, Pisa, Pacini giuridica, 2022, pp. 297-317.

[28] Con greenwashing ci si riferisce a quel comportamento illecito esercitato dagli enti volto a garantire un indebito vantaggio attraverso la pubblicazione di informazioni ESG in tutto o in parte assenti. In tal senso R.  Lener, P. Lucantoni, Sostenibilità ESG e attività bancaria, in Banca Borsa Titoli di Credito,  vol1/2023.

[29] BERTARINI B (2022), Il finanziamento pubblico e privato dell’European Green Deal: la tassonomia delle attivitа economicamente ecosostenibili e la proposta di regolamento europeo sugli european green bonds, Ambientediritto.it,  n. 1, pp. 1-20.

[30] Per un approfondimento circa il concetto di prodotto finanziario si v. Renzo Costi, Il mercato mobiliare (a cura di Sergio Gilotta), G. Giappichelli Editore, 2020, pag. 1.

[31] Direttiva 2014/95/UE.

[32] COSSU M. (2022), Tassonomia finanziaria e normativa dei prodotti finanziari sostenibili e governo societario, Banca Impresa Società,  n. 3 , pag. 433-487.

[33] Direttiva UE 2022/2464. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32022L2464.

[34] Nello specifico, la proposta di direttiva CSDD si applica a: i) le grandi imprese europee con più di 500 dipendenti e più di 150 milioni di euro di fatturato annuo; ii) le imprese europee con almeno 250 dipendenti e oltre 40 milioni di euro di fatturato annuo che operano in settori ad alto impatto come tessile, agricoltura ed estrazione di minerali; iii) le imprese extra-europee attive in area UE che vantano un fatturato generato nell’UE e allineato ai due gruppi di cui sopra.

[35] DELLAROSA E. (2023), Cosa c’è dietro la «G» di Esg: una nuova governance bancaria per la sostenibilità, Bancaria, n. 5, pp. 41- 48.

Sommario

  1. La poligamia
  2. Il ripudio
  3. La kafalah
  4. Conclusione

 

Introduzione

L’internalizzazione dei rapporti e l’apertura dei confini, supportata da una normazione europea e sovranazionale propensa in tal senso, permettono l’intensificarsi delle relazioni tra ordinamenti giuridici diversi.

L’evoluzione tecnico-scientifica e il mutamento dei costumi, hanno permesso che si generassero nuovi modelli familiari, dai quali scaturiscono diverse situazioni giuridiche degne di tutela e che proprio per tale necessità di diritto, implicano il bilanciamento della normativa interna, in favore della protezione giuridica delle persone particolarmente vulnerabili e dei diritti fondamentali in generale. A fronte di tale esigenza primaria, a carattere universale, vige chiaramente la parallela necessità di assicurare la tutela dei valori costitutivi interni, propri dello Stato e per tale motivo l’ordinamento giuridico si concerne di mezzi idonei in tal senso.

Il principio di ordine pubblico, da clausola limitativa dell’autonomia contrattuale, è evoluto in un assetto normo-ideale di principi fondamentali predisposti a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo. Tale funzione, diviene quasi indispensabile, proprio nell’incontro tra ordinamenti giuridici diversi, cioè, in tutte quelle situazioni giuridiche che presentano elementi di estraneità, o perché non disciplinati nel diritto interno, o perché non conosciuti, o perché non tollerati e quindi vietati, che necessitano di valutazione, al fine di ricevere l’idoneità ad esplicare  effetti anche nell’ordinamento in cui queste entrano in collegamento.

Se da un lato, vi sono situazioni giuridiche che collidono con il sistema ordinamentale interno, perché presentano elementi diversi, rispetto sia alla fattispecie legali e sia al relativo profilo attuativo, dall’altro, si verificano spesso, situazioni giuridiche del tutto sconosciute o completamente contrapposte a quello che è l’assetto valoriale proprio del nostro Stato. Quest’ultime, costituiscono il prodotto dell’interculturalismo che si sviluppa sia all’interno dello Stato, attraverso la convivenza tra uomini appartenenti a culture diverse e sia all’esterno, tramite elementi di collegamento.

  1. La poligamia

Un fenomeno abbastanza incisivo in tal senso è rappresentato dalla vicinanza della cultura islamica alla nostra, una vicinanza che è da intendersi in lato senso, avendo quest’ultima un assetto normo-valoriale nettamente differente a quello del mondo occidentale. Tali differenze comportano problemi di interpretazione e di applicazione normativa, nell’ottica di assicurare la giustizia e la protezione dei diritti fondamentali. Si comincerà con l’analisi del matrimonio poligamico[i].

L’etimo (greco) del temine “poligamia[ii]” rivela il significato di “matrimonio plurimo”, il quale è propriamente diffuso nella cultura islamica e che, già per tale significato, si pone in netto contrasto con l’istituto del matrimonio interno, improntato sulla monogamia. Nel diritto di famiglia islamico, il matrimonio, sia esso poligamico o monogamico, si fonda sul principio della superiorità del marito, il quale esercita diritti sulla persona della moglie e correlativamente, attribuisce alla moglie il diritto ad un corrispettivo (che può essere inquadrato come atto donativo nuziale e/o mantenimento). Inoltre, mentre l’uomo può sposare anche donne non musulmane, purché siano ebree o cristiane, la donna è obbligata a sposare solo uomini musulmani. La forte limitazione della donna nella sua capacità di autodeterminarsi e nella libertà di scelta, collide con il principio dell’uguaglianza dei coniugi e con il principio di non discriminazione in base al sesso e in base a motivi di carattere religioso. Inoltre, il matrimonio poligamico, oltre a costituire fattispecie tipica di reato ex articolo 556 c.p., risulta contrario a quelli che sono i principi interni connaturati all’istituto del matrimonio stesso, che si evincono dal combinato disposto degli articoli 86, 116 e 117 del c.c. Per tali contrasti di diritto, si può, però, affermare che tale tipologia di matrimonio non possa produrre alcun effetto nel nostro ordinamento giuridico?

E’ chiaro che l’istituto del matrimonio si erge su un doppio binario giuridico, l’uno destinato all’atto legale che ne formalizza il vincolo e che sicuramente non può trovare recepimento nel nostro ordinamento, in quanto lesivo del principio di ordine pubblico, l’altro diretto al rapporto che ne costituisce la linfa vitale e la sostanza e che genera diverse situazioni giuridiche, le quali impegnano con le persone a cui si riferiscono i loro diritti fondamentali, che in quanto tali, necessitano di tutela a prescindere dall’atto a monte. Di fronte ad una situazione in cui un minore si venga a trovare privo del rapporto con la propria madre, in quanto il primo risulta residente in Italia con il padre ed una delle sue mogli, mentre la seconda è rimasta nel Paese di origine, la contrarietà dell’atto al principio di ordine pubblico può essere sufficiente a negare il diritto del minore a crescere con il sostegno della propria madre o debba essere garantito al medesimo il diritto di ricongiungimento, sebbene, con le dovute regolazioni? E’ interessante sottolineare, una pronuncia sul punto da parte del Consiglio di Stato. A fronte del disposto emanato tramite circolare dal Ministero di grazia e giustizia, risalente al 1987[iii], in cui si evidenzia il contrasto insanabile fra l’istituto del matrimonio islamico e l’ordinamento dello Stato, da cui deriva la nullità del matrimonio celebrato dal cittadino secondo il rito islamico per contrarietà all’ordine pubblico, l’anno successivo, su richiesta dello stesso Ministero nonché del Ministero degli affari esteri, il Consiglio di Stato si è espresso in senso opposto. Nel parere del 7 giugno 1988[iv], il Consiglio di Stato ha, infatti, affermato che «il diritto islamico collega (al matrimonio) fini di natura ed entità non dissimili da quelli propri del medesimo negozio concluso secondo la legge del nostro ordinamento», sicché il matrimonio celebrato con rito islamico è “in sé” trascrivibile nei registri dello stato civile italiano. Naturalmente l’ufficiale dello stato civile ha il compito di verificare che in concreto non sussistano elementi sostanziali in contrasto con i nostri principi fondamentali: in particolare, occorre verificare lo stato libero di entrambi i nubendi e negare la trascrizione del secondo matrimonio del poligamo. Tale pronuncia segna una prima inversione di marcia da parte del nostro ordinamento che, da una generale ed assoluta chiusura, comincia ad aprirsi nell’ottica di valutare con senso di legalità e giustizia tutti quei rapporti e quelle situazioni giuridiche degne di tutela, se pure connessi ad un sistema normativo diverso e per molti versi, opposto al nostro. Il riordino della normativa relativa al regolamento dei rapporti aventi natura di diritto internazionale privato, ha contribuito ulteriormente a chiarire i limiti della disciplina interna nei confronti del diritto esterno. Le norme di diritto internazionale privato, legge 218/1995, sulla filiazione ed in particolare sul punto l’articolo 33, comma 1, ad esempio stabilisce che: “Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita.”. Seguendo la definizione appena riportata, si può ragionevolmente ritenere che il principio di ordine pubblico non sia in grado di invadere lo status di figlio così come acquisito nell’ordinamento di provenienza, a nulla rilevando la poligamia che dovesse essere pertinente al rapporto a monte. Essendo il soggetto figlio legittimo in base all’ordinamento estero di provenienza, quest’ultimo è titolare di una serie di diritti acquisiti che dipendono dallo status posseduto. Tale norma interna, letta in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione di New York, che tutela i diritti del fanciullo e che stabilisce: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”, consentono di guidare l’interprete, nel bilanciamento degli interessi nel senso di assicurare la tutela dei diritti fondamentali del figlio e tra questi assume particolare importanza il diritto alla conservazione dello status ed il connesso diritto alla vita privata e familiare, così come disposto dagli articoli 8 CEDU e 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A chiudere ogni dubbio, almeno dal punto di vista legale, sulla necessità di assicurare tutela ai diritti del figlio, l’articolo 29 comma 1 lett. b del testo unico sull’immigrazione del 1998, prevede poi il diritto al ricongiungimento dei «figli minori, anche…nati fuori del matrimonio…a condizione che l’altro genitore…abbia dato il suo consenso e del genitore naturale che dimostri, entro un anno dall’ingresso in Italia, il possesso dei requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito». Inoltre, a prescindere dall’impostazione normativa, poc’anzi richiamata, l’istituto interno del matrimonio putativo funge da rimedio giuridico, dal momento che l’eventuale matrimonio poligamico produrrebbe gli stessi effetti di un matrimonio valido esclusivamente a garanzia della tutela dei diritti dei figli, ex articolo 128 del c.c., chiarendo che il requisito della buona fede, imprescindibile alla dichiarazione di efficacia, è palesemente rispettato poiché individuato nella legge nazionale dei nubendi. Ma tali precisazioni normative non sono ancora risolutive. L’excursus giurisprudenziale, sia interno che sovranazionale, dimostra come l’argomento abbia destato visioni opposte da cui poi sono dipese le relative decisioni. A dimostrazione di quanto appena esposto, può essere utile ricordare una decisione[v] della Commissione europea dei diritti dell’uomo risalente al 1992 e relativa alla richiesta di permesso di soggiorno in Olanda, avanzata dal figlio della prima moglie di un marocchino regolarmente residente in codesto Stato con la seconda moglie marocchina da lui ivi sposata. Le autorità olandesi avevano negato il permesso, precisando di intendere il diritto al ricongiungimento familiare limitato ad una sola moglie e ai figli. Padre e figlio ricorrono allora a Strasburgo, lamentando una violazione del diritto al rispetto della loro vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU. La Commissione riconosce la sussistenza di un’ingerenza nella vita familiare dei ricorrenti, ma rimarca la legittimità di detta ingerenza, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 8. Infatti, dal momento che «les mariages polygames sont contraires a`lale´ gislation ne´ erlandaise… l’ingè rence en question è tait «prevue par la loi». Nel versante interno, una delle primissime pronunce sul tema è una sentenza del TAR Emilia-Romagna del 1994[vi] che dichiarò inammissibile la richiesta di ricongiungimento familiare per due donne al marito comune, poichè la legge personale dello straniero era contraria all’ordine pubblico e al buon costume. In quella vicenda, il Tribunale negò il ricongiungimento di un cittadino marocchino a due mogli, che nel frattempo regolarizzavano comunque il loro soggiorno a titolo diverso, usufruendo di una sanatoria. Sulla riconoscibilità degli effetti al diritto islamico, sebbene, non affronti in modo diretto il problema del ricongiungimento familiare, si esprime la Corte di Cassazione con sentenza 2 marzo 1999, n. 1739[vii]con la quale ha stabilito che il matrimonio contratto da cittadino in Somalia, secondo la legge del luogo (applicazione della legge islamica), se pur prevede istituti contrari al nostro ordine pubblico, quali la poligamia ed il ripudio, è da ritenersi idoneo alla produzione di certi effetti, nella specie si tratta di effetti giuridici a fini ereditari, almeno fino a quando non venga pronunciata una sentenza definitiva e dichiarativa della nullità dello stesso. In senso favorevole alla tutela dei diritti fondamentali del minore e quindi di conseguenza, anche verso il rapporto genitoriale, si esprime la Corte d’Appello di Torino.  Il caso riguardava un cittadino marocchino residente in Italia con due mogli, e i rispettivi due figli. L’istanza presentata dall’uomo di autorizzare la seconda moglie a restare in Italia viene respinta dal Tribunale per i minorenni di Torino: ammettere il diritto al ricongiungimento familiare in base all’art. 29 del testo unico comporterebbe infatti, in questo caso, il riconoscimento di una situazione di poligamia, contraria ai principi dell’ordinamento italiano. Contro il decreto, marito e moglie propongono ricorso, che viene accolto dalla Corte d’Appello di Torino (decreto 18 aprile 2001)[viii], in base alla previsione dell’art. 31 comma 3 del testo unico, per cui, «per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, (si) può autorizzare…la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del…testo unico». Certo tale autorizzazione convaliderebbe una situazione poligamica se concessa ai sensi dell’art. 29 «per consentire ad un coniuge di ricongiungersi all’altro coniuge in una situazione di famiglia poligamica; ma nel caso di specie l’autorizzazione viene concessa nell’interesse del figlio minore, per garantirgli la vicinanza del genitore, indipendentemente dal fatto che questo sia o meno sposato con l’altro genitore del figlio, e che sia sposato in regime monogamico o poligamico». L’ autorizzazione è, quindi, finalizzata a tutelare non una relazione coniugale, in ipotesi, contraria ai principi del nostro ordinamento ma, a realizzare il diritto di un minore “a…non essere…separato dal genitore”. E’ in gioco insomma l’interesse superiore del fanciullo, richiamato dallo stesso testo unico (art. 28 comma 3) e dalla convenzione sui diritti del fanciullo (art. 3). La seconda moglie viene così autorizzata a permanere in Italia ancora per un anno. Nello stesso anno, con propria circolare, il Ministero dell’interno sancisce la trascrivibilità del (solo) «primo matrimonio celebrato secondo il rito islamico tra un cittadino italiano e un cittadino di religione islamica»[ix]. Nel 2005, la Corte di Cassazione è lungimirante sul tema[x]. Una donna marocchina regolarmente soggiornante in Italia ottiene il nulla osta al ricongiungimento del secondo marito e dei figli nati dal primo matrimonio sciolto con atto di ripudio: l’Ambasciata italiana in Marocco tuttavia nega il visto di ingresso dei figli, posto che questi erano stati affidati alla tutela del padre. La donna presenta ricorso al Tribunale di Perugia, che, previo accertamento del fatto, al mantenimento dei bambini provvedeva «a distanza» la madre, accoglie il ricorso in base all’art. 29 comma 1 lett. b del testo unico (che, prima delle modifiche apportare dal d.lgs. n. 5 del 2007, prevedeva il ricongiungimento dei soli figli minori «a carico» del richiedente). I Ministeri dell’interno e degli affari esteri propongono reclamo alla Corte d’Appello di Perugia, invocando il difetto di rappresentanza legale in capo alla donna: secondo la legge marocchina – applicabile ai rapporti tra genitori e figli in base all’art. 36 della legge n. 218/1995 – la rappresentanza infatti spetta in via esclusiva al padre. La Corte rileva la contrarietà all’ordine pubblico di tale normativa, perchè discriminatoria nei confronti della madre, e dichiara applicabile la legge italiana ex art. 16 comma 2 della stessa legge n. 218/1995: di fatto la Corte invoca la convenzione sui diritti del fanciullo e conclude che risponde all’interesse dei minori ricongiungersi alla madre, anzichè restare affidati in Marocco ad una zia nel disinteresse del padre. I Ministeri propongono ricorso per cassazione. La Cassazione conferma il giudizio di secondo grado, ritenendo decisivo il fatto che, l’unico genitore desideroso di convivere con i figli e mantenerli è la madre, come del resto testimonia il consenso all’espatrio dei bambini prestato dal padre. Quanto alla titolarità della potestà genitoriale, la Cassazione fa leva sulla distinzione tra titolarità della potestà ed esercizio della potestà, e sulla possibilità – prevista nell’ordinamento marocchino – che il padre deleghi l’esercizio concreto della potestà di cui è titolare alla madre, che quindi è ammessa a convivere con i figli. In senso conforme a tale pronuncia interna, con Risoluzione del 2006, il Parlamento europeo richiama gli Stati membri “a garantire l’illegalità della poligamia”. Nel 2007 è il Tribunale di Milano a ritrovarsi in un caso simile. Con sentenza 2 febbraio 2007[xi],  ha annullato il provvedimento con cui l’Ambasciata italiana in Pakistan ha negato il visto di ingresso in Italia, alla donna sposata per telefono da un connazionale residente in Italia. Essendo validamente celebrato per la legge pakistana (legge nazionale comune dei coniugi e – aggiunge il Tribunale – legge del luogo di celebrazione), il matrimonio è stato infatti giudicato formalmente valido e dunque titolo per il ricongiungimento familiare relativo al ricongiungimento della seconda moglie di un pakistano. La particolarità del caso è duplice: non solo infatti si tratta di matrimonio poligamico, ma il secondo matrimonio era stato celebrato telefonicamente. A fronte del rifiuto, da parte dell’Ambasciata italiana di Islamabad, del visto di ingresso della donna in Italia, si apre una vicenda giudiziaria che termina davanti alla Corte milanese, secondo la quale «l’esigenza di consentire il ricongiungimento di coniugi stranieri in Italia non può prescindere dall’accertata sussistenza di un vincolo che, al di là della sua certificazione per via documentale, riveste le connotazioni di un’unione matrimoniale stabile ed in concreto contraddistinta da reciproca solidarietà affettiva e materiale». Quanto alla validità del matrimonio, sia dal punto di vista formale – celebrazione telefonica – sia dal punto di vista sostanziale – mancato consenso della prima moglie alle seconde nozze del marito – i giudici milanesi non si pronunciano «dovendo la questione essere altrove ed altrimenti esaminata». Il Tribunale di Roma ha ritenuto opportuno investire del problema la Corte Costituzionale. In riferimento all’art. 2 Cost., è stato chiesto alla Corte di dichiarare illegittimo l’art. 116 cod. civ. nella parte in cui impone allo straniero la presentazione del nulla osta da parte dell’autorità del proprio Paese, ovvero – in subordine – nella parte in cui non prevede che, in assenza di nulla osta, lo straniero possa presentare all’ufficiale dello stato civile documentazione idonea ad attestare la mancanza di impedimenti al matrimonio, secondo la propria legge nazionale. Con ordinanza n. 14 del 30 gennaio 2003[xii] la Corte respinge il dubbio di incostituzionalità in ragione dell’interpretazione data all’art. 116 cod. civ. dal Tribunale di Roma e più precisamente, in ragione del fatto che il Tribunale «considera isolatamente la norma impugnata, senza inquadrarla nel sistema, in particolare senza riferirsi al contesto normativo in cui l’applicazione della legge straniera è esclusa ove i suoi effetti siano contrari all’ordine pubblico». In sostanza, la Corte rimette all’ufficiale dello stato civile l’incombenza di applicare l’art. 116 cod. civ., alla luce delle norme di diritto internazionale privato contenute nella legge n. 218 del 1995: ne consegue, tra l’altro, che laddove l’applicazione della legge straniera produca nel caso concreto effetti contrari ai principi fondamentali del nostro ordinamento, l’ufficiale dello stato civile avrebbe l’obbligo di far scattare il limite dell’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 218. Un recente provvedimento della Corte di Cassazione (Ordinanza 28 febbraio 2013, n. 4984)[xiii] delinea in maniera precisa i termini in cui è possibile assicurare certi effetti prodotti da un matrimonio poligamico, lo fa rimanendo ancorata al dettato normativo interno. Con tale pronuncia, la Corte esclude la possibilità di ricongiungimento familiare del figlio con la madre, se il matrimonio di quest’ultima è poligamico ed il marito risulta convivente in Italia con altra moglie. Come anticipato, tale pronuncia si fonda su quanto è stabilito nel testo unico dell’immigrazione dall’art. 29, così come riformato dall’articolo 1, comma 22, lettera s, della legge 15 luglio 2009, n. 94, “non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) e d) del comma 1, quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è coniugato con un cittadino straniero regolarmente soggiornante con altro coniuge nel territorio nazionale“, ma la particolarità del caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, è rappresentata dal fatto che il ricongiungimento fu richiesto dal figlio. Nella specie, un cittadino marocchino chiedeva il ricongiungimento con la madre, in quanto priva di mezzi di sostentamento e di altri figli nel paese d’origine. Quest’ultima, tuttavia, risultava già sposata con il padre del richiedente sebbene, separata del marito soggiornante in Italia, il quale aveva a sua volta richiesto (e ottenuto) il ricongiungimento familiare in favore di un’altra moglie. A causa della situazione di poligamia, vietata nel nostro ordinamento, che si sarebbe determinata con l’ingresso e il soggiorno nel nostro paese della madre del ricorrente, il Consolato Generale di Casablanca aveva negato il visto. Il cittadino marocchino proponeva allora una azione giudiziaria per ottenere il ricongiungimento con la madre, ottenendolo in primo e secondo grado di giudizio. Secondo la Corte d’Appello di Venezia, infatti, sebbene l’art. 29 espressamente vieti il ricongiungimento del coniuge poligamico se è già presente in Italia altro coniuge, non era questo il caso, poiché nel caso di specie la domanda era formulata dal figlio.
Il Ministero degli Esteri ricorreva in Cassazione evidenziando che: “il divieto introdotto nella norma, peraltro preesistente, in via sistematica nell’ordinamento interno, opera oggettivamente ogni qual volta possa verificarsi una situazione di poligamia, contrastante con il diritto familiare italiano. Risulta, conseguentemente, irrilevante che a formulare la domanda sia stato il figlio e non il coniuge, già soggiornante in Italia con altra moglie”. La Corte di Cassazione ha dato ragione al Ministero ritenendo che l’art. 29 comma primo ter d.lgs. 286 del 1998 “stabilisce un divieto, che opera oggettivamente nei confronti delle richieste di ricongiungimento familiare proposte in favore del coniuge di un cittadino straniero già regolarmente soggiornante con altro coniuge in Italia, non distinguendo soggettivamente la provenienza della domanda, e al contrario mirando ad evitare l’insorgenza nel nostro ordinamento di una condizione di poligamia, contraria al nostro ordine pubblico anche costituzionale; […] il divieto di poligamia non è condizionato da condizioni di fatto quali la coabitazione o la vivenza a carico, ma opera in sé e perdura fino alla cessazione legale di uno dei vincoli coniugali“. Sul punto può anzitutto ricordarsi la comunicazione della  Commissione al Parlamento e al Consiglio del 2 luglio 2009, recante la Guida ad una migliore trasposizione e applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente all’interno del territorio degli Stati membri, la quale espressamente afferma che «gli Stati membri non sono tenuti a riconoscere i matrimoni poligami, contratti legalmente in un paese terzo, che possono essere in contrasto con il loro ordinamento giuridico interno». Resta peraltro impregiudicato, secondo il medesimo documento, «l’obbligo di tenere conto dell’interesse superiore dei figli nati da tali matrimoni».

In conclusione, sul punto appena affrontato, si può affermare che a fronte di una norma straniera espressiva di valori contrastanti, non invero con i principi propri al nostro ordinamento interno, ma contrari ai valori comuni posti alla base della tutela giuridica relativa ai diritti fondamentali, il principio di ordine pubblico deve necessariamente trovare mitezza negli effetti e convogliare nella garanzia di giustizia, a seconda della situazione giuridica del caso concreto e delle posizioni giuridiche rilevanti nel contesto storico-normativo. Seguono lo stesso iter procedimentale, le risoluzioni dei casi in cui rilevano, giuridicamente, istituti normo-confliggenti come il ripudio e la kafala.

  1. Il ripudio

Nei paesi di diritto islamico il matrimonio (anche non poligamico) si può sciogliere o per annullamento davanti a un ministro di culto a causa di gravi motivi o per mutuo consenso ovvero per ripudio unilaterale (talaq) da parte del marito. Il ripudio[xiv] (talaq o talalq) quindi è una particolare forma di scioglimento del matrimonio, che si sostanzia in una dichiarazione unilaterale. Infatti, acquisisce effetto giuridico con la semplice pronuncia da parte del marito nei confronti della moglie di una formula rituale, la quale deve contenere espressamente il termine talaq o equivalenti, manifestando, in tal modo, l’inequivocabile intenzione di porre fine all’autorità maritale sulla sposa. Secondo il diritto islamico, il ripudio può essere revocabile (raj’a) e irrevocabile (bid’a). Prima dello scadere del periodo di tre mesi, che costituisce il termine legale che la donna è tenuta ad osservare prima di potersi risposare, il marito ha la facoltà di ritrattare il ripudio pronunciato e riprendere la vita in comune. Trascorsi i tre mesi, senza la ritrattazione o senza la pronuncia di un nuovo ripudio revocabile, il matrimonio si considera sciolto. Il talaq può essere anche ripetuto nelle stesse formule del primo, ma non più di tre volte, comportando, in tal senso, lo scioglimento immediato e definitivo del matrimonio. E’ abbastanza chiaro, come un simile istituto vada a collidere con la normativa generalmente riconosciuta in materia. Proprio sulla base di tale normativa, il Comitato per i diritti umani (Human Rights Committee) delle Nazioni Unite, ha osservato che gli Stati devono assicurare a uomini e donne uguali condizioni per ottenere la dissoluzione del vincolo coniugale[xv]. Senza dubbi interpretativi sulla questione è desumibile che il divorzio (ripudio) unilaterale del marito, contravviene alle norme di diritto internazionale in materia di diritti umani, poiché pone la donna in una posizione di soccombenza, nei confronti della volontà del marito. Tale disuguaglianza, si pensa essere il motivo per cui, nell’ambito di alcuni ordinamenti appartenenti all’area islamica, al nomen iuris ripudio si sia andato nel tempo associando un istituto, in effetti, molto simile al divorzio, consistente in un vero e proprio rimedio avverso il definitivo venir meno dell’armonia familiare, attuato per mezzo di una procedura giurisdizionale, nel cui ambito la moglie ha l’opportunità di difendersi e svolgere le proprie domande. Inoltre, in alcuni ordinamenti di ispirazione musulmana, poi, lo stesso ripudio è stato abbandonato. Ad esempio, l’art. 30 dello Statuto Personale (codice di famiglie) della Tunisia (1956) proibisce il talaq del marito, in quanto dissoluzione unilaterale ed extra-giudiziale. Altri ordinamenti (ad esempio, Marocco, Siria, Algeria, Iran) hanno cercato di limitare i casi di talaq, stabilendo per legge un compenso pecuniario dovuto alla moglie ripudiata. Altri ordinamenti ad ispirazione islamica hanno espressamente stabilito la validità dei soli divorzi registrati in tribunale (Algeria, Libia, Palestina). Significativa al riguardo l’evoluzione del diritto marocchino, specie alla luce della riforma del 2004. L’evoluzione storica e sociologica mostra il passaggio dalla forma di ripudio stragiudiziale concessa al solo marito (talaq) e dalla forma di divorzio per colpa (del marito) concessa alla sola moglie (tatliq), al nuovo istituto del divorzio giudiziale per intollerabilità della convivenza (chiqaq), introdotto nel 2004[xvi]. Certamente, tali evoluzioni normative contribuiscono a ridimensionare il divario, nella tutela dei diritti fondamentali, tra determinati Paesi orientali rispetto ai Paesi occidentali, ma non eliminano le problematiche normo-giuridiche che si presentano ogni volta che un determinato ordinamento entra in rapporto ad un altro che persegue fini e si avvale di fondamenti normo-valoriali diversi e talvolta contrastanti rispetto al primo. A tamponare questo tipo di situazioni, da una parte interviene il ruolo interpretativo del giudice, dall’altra, il complesso delle norme rilevanti nel caso di specie e con esse, il raffronto tra istituti posti a tutela della legge e dei diritti umani. In via generale, possono ritenersi contrari all’ordine pubblico italiano, i divorzi consensuali realizzati dinanzi ad autorità non giurisdizionali (adoul), mentre è sicuramente conforme alle nostre regole la procedura in base alla citata riforma marocchina del 2004 (divorzio c.d. chiqaq). A proposito dell’Italia, in materia di ripudio occorre riferirsi alla Legge del 1995 di riforma del sistema di diritto internazionale privato. In particolare, l’art. 31 della legge n. 218/1995 utilizza, in ordine allo scioglimento del matrimonio, gli stessi criteri di collegamento utilizzati in ordine ai rapporti personali tra i coniugi, ovvero lo scioglimento è sottoposto alla legge nazionale dei coniugi se è comune; altrimenti alla legge dello Stato di prevalente localizzazione della vita matrimoniale. Qualora, pertanto, si tratti di un musulmano straniero e di una italiana, il diritto musulmano assumerà rilievo solo nel caso che i coniugi abbiano prevalentemente condotto la loro vita coniugale in uno Stato islamico. Le norme islamiche sono invece in principio sempre competenti qualora, si tratti di coniugi musulmani aventi la stessa cittadinanza. In entrambe le eventualità si pone il problema degli effetti del ripudio per il nostro ordinamento giuridico, soprattutto in questa ultima ipotesi in cui si pone l’ulteriore dubbio interpretativo sul considerare se e come esso possa compiersi in territorio italiano. In Italia infatti lo scioglimento del matrimonio può avvenire soltanto attraverso l’intervento del giudice, di conseguenza il limite dell’ordine pubblico non solo preclude che si tenga conto di un ripudio effettuato, per esempio davanti alla guida religiosa (islamica), ma impedisce anche al giudice di fondare una decisione di divorzio sulla sola richiesta unilaterale del marito che contenga o configuri un atto di ripudio. Solo di fronte ad una domanda di scioglimento bilaterale sarebbe consentito al giudice italiano di pronunciare il divorzio sulla base della legge dello Stato non islamico nel quale la vita matrimoniale era prevalentemente localizzata o del diritto italiano. La norma islamica potrà essere applicata unicamente laddove configuri il ripudio come fondamento consensuale che sfoci in un atto giudiziale.

Per tali motivi, la giurisprudenza italiana fino a poco tempo fa si era sempre rifiutata, in nome dell’ordine pubblico, di riconoscere il ripudio effettuato all’estero, a causa della sua unilateralità e del mancato intervento di organi giurisdizionali e della discriminazione ai danni della donna. Sotto quest’ultimo profilo, si può richiamare l’art. 5 del protocollo n. 7 addizionale alla convenzione europea sui diritti dell’uomo, secondo cui i «coniugi godono di uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra loro e nelle relazioni con i loro figli in merito al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento». Analoga norma è contenuta nell’International Covenant on Civil and Political Rights, approvato dall’O.N.U. nel 1966, il cui art. 23.4 stabilisce che «States Parties to the present Covenant shall take appropriate steps to ensure equality of rights and responsibilities of spouses as to marriage, during marriage and at its dissolution»[xvii]. Riconoscere l’istituto del ripudio, nella sua accezione principale (dichiarazione unilaterale del marito) comporterebbe ammettere non solo un istituto contrario ai principi interni, ma allo stesso tempo una serie di violazioni normative avente rango internazionale. L’indissolubilità del matrimonio, sebbene non sia più vigente, conferisce all’intervento del giudice il ruolo di temperare le parti e di regolare lo svolgimento della procedura, in modo tale da assicurare la ponderatezza delle volontà e la giustizia nei rapporti normo-fattuali.

A fronte del principio appena espresso e riguardante l’attività del giudice nell’atto di fare giustizia, ci si deve domandare se la contrarietà del ripudio all’ordine pubblico, possa intendersi come assenza di riconoscimento o come ponderatezza degli effetti giuridici prodotti, in base al caso concreto esaminato. In sostanza, ci si deve chiedere se la condizione giuridica di un soggetto, debba essere negata o notevolmente limitata, sulla base di un contrasto tra istituti normativi diversi e contrapposti. Se al centro della tutela vi sono i diritti fondamentali, di conseguenza l’ordine pubblico deve intendersi nell’ottica di realizzare tale tutela e quindi essere ricondotto alla nozione di ordine pubblico attenuato, così come delineato dalla cultura giuridica francese. Appurato ciò, risulta del tutto inaccettabile l’esito di una pronunzia come quella del Tribunale di Milano[xviii] che, nel 21 settembre del 1967, ha rigettato la richiesta di riconoscimento dello stato libero, in conseguenza di un ripudio intervenuto secondo la legge iraniana, benché fosse stata presentata dalla stessa moglie ripudiata. Negare gli effetti giuridici sulla base della sola contrarietà dell’istituto del ripudio al principio di ordine pubblico vuol dire, infatti, negare la tutela dei diritti della donna.

La giurisprudenza italiana, in merito, si assesta su una posizione rigida. Nel 1948 la Corte d’Appello di Roma[xix], richiesta di riconoscere effetti in Italia a un atto di ripudio intervenuto in Siria tra due siriani, concludeva che il ripudio «ripugna alla mentalità morale e giuridica dei popoli che hanno raggiunto un maggior grado di civiltà e che del matrimonio hanno un concetto etico e sociale ben più elevato di quello che ne hanno i popoli orientali». Nel 1969 la Cassazione ha valutato il ripudio di un iraniano verso la moglie italiana[xx], come contrario all’ordine pubblico e al buon costume, in quanto discriminatorio per la donna, mentre i giudici di merito hanno censurato l’assenza di organi giurisdizionali nella procedura e la unilateralità della dichiarazione, ritenendo contrario all’ordine pubblico internazionale “l’art. 1133 del codice civile iraniano il quale, consentendo al marito di divorziare secondo il suo arbitrio senza che la moglie possa paralizzare la volontà di quest’ultimo, prevede un vero e proprio ripudio unilaterale”. Più di recente, la Corte di Appello di Torino[xxi] ha dichiarato intrascrivibile, disponendone la cancellazione dai registri anagrafici dello stato civile, la “dichiarazione di accertamento dell’irrevocabilità del ripudio” emessa dal Tribunale di Khouribga (Marocco), poiché tra le alte cause, non considera i doveri assistenziali verso il coniuge e verso la prole. Per la Corte torinese la pronuncia di ripudio-divorzio emessa su istanza di un cittadino italiano ivi residente, ma nato in Marocco, contro la moglie parimenti marocchina per nascita, ma cittadina e residente in Italia, non viola in tal caso l’ordine pubblico internazionale bensì quello interno  “a cagione della sua unilateralità e potestatività mera”; poiché “contrasta con i principi di parità ed uguaglianza tra uomo e donna …e di non discriminazione per sesso”; “mancando di disposizioni a protezione della prole minore contrasta insanabilmente con il  principio dell’art. 30, comma 2 Cost., in base a quale è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, ed infine, “sottraendo l’uomo a  qualsiasi dovere verso la donna, prescinde dalla necessità di regolare i rapporti economici tra i coniugi, violando i principi di solidarietà familiare desumibili dall’art. 29 Cost. e dalle disposizioni civilistiche in tema di mantenimento e  alimenti”. Come l’Italia anche il Regno Unito si è mostrato indisponibile ad un riconoscimento del talaq. Fin dal 1973, il Domicile and matrimonial Proceedings Act ha espressamente previsto che “no extra-judicial divorce shall be recognized in English law”, tuttavia la shari’a ha trovato in Inghilterra ampi canali non ufficiali di applicazione. Come già rilevato, si è infatti formata e consolidata nel tempo una giustizia arbitrale che fa capo all’Islamic Shari’a Council (ISC), il quale dal 1982 esercita funzioni conciliative su vari aspetti della legge familiare islamica. Le decisioni così adottate non hanno ovviamente esecutività nel sistema legale del Regno Unito, tuttavia esse “are generally honoured and implemented trough a mix of sanction and ostracism[xxii]. Alla ricezione, se pure non formale, di tale istituto nell’ordinamento inglese, si deve associare la tendenza, da parte di molti Paesi europei, ad ammettere nel proprio ordinamento, forme di divorzio consensuale stragiudiziale e contemporaneamente la centralità della volontà espressa anche nell’ambito dei procedimenti giudiziali. Diviene, quindi, difficile continuare a sostenere che il divorzio privato sia in quanto tale, sempre incompatibile con l’ordine pubblico, è necessario invece ponderare le varie situazioni giuridiche. Su tale scia, si allinea il provvedimento della Corte d’appello di Cagliari del 16 maggio 2008[xxiii], secondo cui è efficace nell’ordinamento italiano e deve essere trascritto nel registro dello stato civile il provvedimento di divorzio ottenuto in Egitto attraverso la procedura del talaq (ripudio), pur in assenza della moglie. Tale procedura non sarebbe contraria all’ordine pubblico, né violerebbe il diritto del contraddittorio, in quanto in essa sarebbe stata salvaguardata la possibilità della moglie di intervenire (la mera possibilità, si badi, non già la presenza). Significativo il fatto che, sul punto relativo all’ordine pubblico in relazione al principio d’uguaglianza la Corte abbia motivato come segue: «Peraltro è utile ricordare che nel diritto civile egiziano la moglie ha un uguale diritto (unilaterale) di sciogliersi dal vincolo matrimoniale anche in mancanza del consenso del marito, secondo la procedura del cd. khola, per cui non vi sarebbe violazione neppure del principio di uguaglianza tra i generi». A sostegno della graduale apertura verso procedure di divorzio degiurisdizionalizzati, possiamo fare riferimento alla pronuncia della Corte di giustizia UE, 20 dicembre 2017, C-372/16, S. Sahyouni c. R. Mamisch[xxiv], secondo la quale: “l’articolo 1 del regolamento (UE) n. 1259 del 2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale va interpretato nel senso che il divorzio risultante da una dichiarazione unilaterale di uno dei coniugi dinanzi a un tribunale religioso, come quello oggetto del procedimento principale, non ricade nella sfera di applicazione ratione materiae di detto regolamento[xxv].

  1. La kafalah

Il diritto islamico, nell’ambito dell’assetto normativo dedicato alla filiazione, si dimostra ancora una volta lontano da quelli che sono i principali istituti riconosciuti dagli Stati occidentali. Esso infatti conosce un unico tipo, la filiazione legittima e si conforma alla leggi coraniche che fanno espresso divieto di ricorrere all’adozione, dal momento che quest’ultima crea legami parentali fittizi. Infatti, la concentrazione del sistema islamico sulla sola filiazione legittima, si giustifica nell’ottica della tradizione islamica, la quale si fonda sull’importanza di assicurare il legame di sangue tra genitori e figli, declassando in tal modo ogni altro tipo di legame. La kafalah[xxvi], istituto dedicato alla protezione dei minori in stato di necessità, attraverso il quale un kafil (o meglio, di solito, una coppia di kafil) si assume l’obbligo (alla presenza di un giudice o di un notaio) di provvedere alle cure del minore (makful) fino al raggiungimento della sua maggiore età, non raffigura alcun tipo di legame tra i soggetti poc’anzi menzionati. La kafalah, non costituendo alcun rapporto di filiazione, non interrompe il legame giuridico del minore con la famiglia d’origine e perciò stesso, non comporta in capo a quest’ultimo, un cambiamento di status personale. Tale istituto acquisisce rilievo giuridico-interpretativo, quando si debba valutarne la qualificazione, al fine di regolarne gli effetti, nei casi in cui tale azione è necessaria nell’ottica di assicurare tutela giuridica al minore coinvolto. Una situazione diffusa è sicuramente quella in cui si tratta di ricongiungimento familiare. E’ bene precisare che, in materia di immigrazione, gli Stati godono tuttora di ampia libertà e soprattutto non hanno l’obbligo giuridico di garantire sempre e comunque il ricongiungimento familiare, essendo quest’ultima riservata al margine di apprezzamento statale, così come affermato dalla Corte EDU nei casi rilevanti in materia, Harroudj c. France nel 2012 e Chibhi Loudoudi et Autres c. Belgio nel 2014[xxvii]. La questione si rende più complicata, quando in contrapposizione a tale libertà (margine di apprezzamento statale e tutela dell’ordine pubblico), vi siano coinvolti diritti fondamentali, specialmente quelli ricollegati alla tutela del minore. La domanda sul punto è retorica e lo è anche la risposta. Il fatto di trovarsi di fronte ad un istituto straniero non conosciuto e contrario al proprio assetto normo-valoriale, è sufficiente a negare la produzione in toto degli effetti ad esso ricollegati?

In materia di ricongiungimento familiare, l’art. 29 del T.U. sull’immigrazione, equipara i figli adottati, affidati o sottoposti a tutela, ai figli naturali o legittimi. Tale disposizione obbliga i giudici italiani a valutare in concreto la singola situazione giuridica, nell’ottica di categorizzare l’istituto estraneo, poiché è fuori di ogni dubbio la consapevolezza che il fatto vada in qualche modo riconosciuto, onde assicurare la tutela del minore coinvolto. Si deve considerare che la kafala è contemplata dalla Conv.di N.Y. del 1989 sui dir. del fanciullo (art. 20, III) e, da ultimo è stata ricompresa fra le misure di protezione previste dalla Conv. Aja 1996 (art. 3, lett. e). Si deve, quindi, procedere in tal senso, attraverso un’interpretazione sostanzialistica, capace di andare oltre al nomen juris e di ricercare analogie tra l’istituto straniero e le misure previste dal nostro ordinamento giuridico. Sul punto appena esposto, si è pronunciato il Tribunale di Biella nel 2007, il quale ha affermato che “ai fini del T.U. sull’immigrazione, i concetti di adozione, affidamento e sottoposizione del minore a tutela, esigono di essere intesi alla stregua di strumenti atti a permettere che istituti di diritto straniero, ancorché diversi da quelli nazionali, possano, comunque, venire in rilievo nel nostro Paese, purchè produttivi di effetti omologhi agli effetti prodotti da quelli di quest’ultimo”, e ciò soprattutto “in considerazione del superiore interesse del minore all’unità familiare[xxviii]”. Sulla tematica è intervenuta anche la Corte di Cassazione, che con le sentenze n. 7472/2008, n. 18174/2008 e n. 19374/2008[xxix], ha concesso il rilascio del permesso di soggiorno al fine di assicurare il ricongiungimento familiare, attribuendo all’istituto della kafalah valore giuridico, perché idoneo a tutelare la posizione del minore. Nella sua valutazione, la Corte, nel bilanciamento dei valori contrapposti nel caso concreto, ha dato rilevanza alla protezione del minore, affermando che “il rifiuto a priori del visto vorrebbe dire «penalizzare tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». La differenza sostanziale tra le pronunce poc’anzi richiamate risiede nella nazionalità dei soggetti coinvolti. Se, infatti, nella medesima situazione vi si trovi un cittadino italiano, l’orientamento della Corte resterà immutato o subirà un cambiamento? Le contraddizioni sul punto non mancano a presentarsi. Da una prima posizione di rifiuto[xxx], fondata sulla non applicabilità ai cittadini italiani dell’art. 29, essendo quest’ultimo dedicato specificamente a beneficio del cittadino extracomunitario (con il solo limite della regolarità del soggiorno), stabilendo, per quest’ultime, l’applicazione della diversa disciplina di cui al D.lgs. 30/2007 in materia di ingresso, circolazione e soggiorno dei cittadini dell’UE e dei loro familiari (da intendersi come discendenti diretti ovvero adottati anche ai sensi dell’adozione internazionale), si è spostata verso un orientamento positivo[xxxi] determinando la validità del nulla osta all’ingresso del minore straniero in kafalah per ricongiungimento a italiano (convivente o che debba assistere il minore) sulla base dell’interpretazione estensiva, analogamente per quanto avviene nell’applicazione dell’articolo 29, della nozione di “altri familiari” di cui all’art. 3, II, lett. a D.lgs. n. 30/2007, al fine di garantire una duplice ratio antidiscriminatoria: la tutela dei minori cittadini stranieri da paesi che disconoscono l’adozione (rispetto ai minori italiani); la tutela dei cittadini italiani rispetto ai cittadini stranieri ai quali il ricongiungimento con minori affidati in kafalah è da sempre consentito, ma non può mai essere riconosciuta come adozione legittimante[xxxii].  Sull’ultimo punto, la giurisprudenza si è dimostrata abbastanza incerta. Infatti, mentre per la Corte di Appello di Bari, la kafalah può essere equiparata ad un affidamento, in quanto provvedimento straniero di volontaria giurisdizione in materia di diritto di famiglia e delle persone, che ha efficacia ex lege nel nostro ordinamento in forza dell’art. 66 della l. n. 218 del 1995[xxxiii], per il Tribunale dei minori di Trento, la kafalah non è in alcun modo equiparabile né all’adozione legittimante, né all’affidamento a questa preordinato, concludendo, per tale ragione, che “non può essere dichiarato efficace in Italia un provvedimento marocchino che ai sensi e per gli effetti dell’istituto della Kafalah, abbia disposto l’affidamento ad una coppia di coniugi italiani di un minore marocchino abitante con gli affidatari, in territorio italiano.” Appare, infatti, “evidente l’impossibilità di pronunciare l’efficacia di un provvedimento che non ha corrispondente nel diritto nazionale[xxxiv]”. E’ doveroso precisare che il Tribunale di Trento, nel negare la ricezione dell’istituto islamico su detto, ha provveduto ad individuare una forma di tutela diversa nei confronti del minore e specificamente ha ritenuto idoneo a tale fine, l’istituto delle adozioni in casi particolari, disciplinato dall’articolo 44 ex legge 184/1983, rispettando in tal modo, il disposto dell’art 20 della Convenzione ONU sui diritti del bambino, il quale stabilisce che il minore temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare ha diritto a una protezione sostitutiva da parte degli Stati contraenti. E’ dello stesso avviso il Tribunale di Torino, il quale ha decretato[xxxv] lo stato di abbandono e di conseguente adottabilità di un minore marocchino, irregolarmente introdotto nel nostro territorio da cittadini italiani, cui era stato affidato con provvedimento di kafalah dal Tribunale di Rabat. Per la Corte, pur essendo il provvedimento marocchino efficace nel nostro ordinamento e paragonabile “al contenuto del nostro affidamento familiare”, tuttavia non può ritenersi attributivo della tutela, poiché così pronunciando “verrebbe contraddetto il principio, cui quella legislazione tiene particolarmente, che non debba mai essere perduto il legame del minore con le proprie origini”, tale conclusione giustifica la decisione su esposta. Quasi risolutoria della diatriba giurisprudenziale sul punto, è la più recente pronuncia della Corte di Cassazione, che con sentenza del 2 febbraio 2015, ha stabilito “che non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore straniero affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, qualora il minore sia a carico o conviva con il cittadino italiano ovvero quando gravi motivi di salute impongano che sia da questo personalmente assistito”[xxxvi]. A confermare la ragionevolezza di tale interpretazione, sopraggiunge una della più recenti pronunce sul tema, la sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 26 marzo 2019[xxxvii], la quale in occasione di analizzare e controllare la corretta applicazione del principio della libera circolazione e libertà di soggiornare nel territorio degli Stati membri, ex Direttiva 2004/38/CE, ha palesemente negato all’istituto della kafalah la capacità di produrre qualsiasi legame giuridico-legale, tra il “tutore” ed il bambino, confermando la non corrispondenza del tipo all’istituto dell’affidamento e di conseguenza, negando, ai fini della direttiva su menzionata, la persistenza di un vincolo di discendenza diretta. Tuttavia, nel proseguo dell’iter motivazionale, la Corte di Giustizia afferma che, la valutazione della situazione giuridica del caso concreto deve necessariamente essere incentrata sulla tutela del minore ed in tal senso, quanto emerge dal sistema normativo, non può in alcun caso minare la prima, anzi, nonostante l’assenza di  legame naturale e giuridico, al fine di garantire il best interest del minore, si deve procedere nel senso di riconoscere il rapporto tra il primo ed il tutore ed acconsentire quindi, all’ingresso ed al soggiorno del minore, presso il domicilio del tutore. Una conclusione perfettamente corrispondete con quanto esposto dalla Corte di Cassazione, nella sentenza a Sezioni Unite n. 21108 del 2013, già esaminata.

L’armonia delle Corti, è un fattore positivo, il quale è in grado di tradurci, non solo la sintonia tra giudici interni e sovranazionali, ma soprattutto la comune certezza di incentrare il proprio sistema normativo, sulla tutela dei diritti fondamentali e nel bilanciamento tra quest’ultimi e gli interessi propri di uno Stato, compresa l’Unione europea, dare rilievo ai primi.

  1. Conclusione

In quest’ultima parte del lavoro che ne costituisce la conclusione, affronterò il tema dell’ordine pubblico da un duplice ed in certi versi divergente punto di vista, rispondendo cioè alle domande espresse che possono rinvenirsi nella produzione dello scritto e a quelle implicite che da esso possono essere estrapolate, sia attraverso un approccio logico-giuridico, che da un approccio propriamente personale. Dopo aver introdotto e ripercorso la nascita del concetto di ordine pubblico, così come lo stesso è inteso in termini giuridici nel corso dell’evoluzione storica e giuridica fino a giungere ai tempi “moderni”, si può cercare di vagliare quelle che sono state le tappe evolutive fondamentali dello stesso. La ricostruzione giuridica del concetto di ordine pubblico, ci ha condotto infatti, di fronte a diversi “momenti” che poi sembrano essere approdati con l’evolversi delle situazioni giuridiche in qualcosa di più stabile e quindi tendente alla certezza. Una domanda implicita, sebbene azzardata, è sicuramente quella che pone l’ordine pubblico in discussione, minandone la veridicità: “L’ordine pubblico esiste?”. Ai giuristi che prenderanno visione di questo scritto, probabilmente gli si alzerà un sopracciglio e gli distorcerà la bocca. E se questa domanda non fosse così insensata come sembra? Questo è un semplice invito a riflettere sulla possibilità di non esistenza del concetto. Qualcuno si domanderà, ma cosa si intende per inesistenza? L’esistenza è tutto quello che può essere percepito dai sensi, sia esso qualcosa di esteriorizzabile nel mondo concreto, sia esso appartenente al mondo dell’interiorizzazione a prescindere che possa o meno trovare corrispondenza nel mondo della materialità. Se allora esistere vuol dire quanto poc’anzi detto, se ne deduce che certamente l’ordine pubblico esiste. Correlata alla prima domanda, ve ne è un’altra quasi gemella, l’ordine pubblico è sempre esistito? Scorrendo in modalità retrograda l’evoluzione giuridica del concetto, si può ragionevolmente rispondere che l’ordine pubblico non è esistito in quanto tale da sempre, ma è senz’altro un costrutto giuridico-sociale generato da un qualcosa di giuridico antecedente allo stesso e che si è evoluto con l’evolversi del pensiero giuridico stesso ed in correlazione al mutare delle esigenze proprie della società a cui esso si riferisce. Se ad esempio, si valuta comparativamente ciò che era ordine pubblico nel periodo dell’egemonia fascista e ciò che invece ha cominciato a significare con l’attuazione dei principi costituzionali ed il lavoro interpretativo della Corte Costituzionale, ci si rende conto della netta contrapposizione di significato giuridico. Infatti, da oggetto esecutivo dispotico e autoritario, l’ordine pubblico diviene espressione pratica dei principi fondamentali costituzionali, siano essi riferiti propriamente ai diritti fondamentali della persona in quanto tale, siano essi riferiti al regolare funzionamento dello Stato democratico. Tra i due poli opposti, vi è un buco di principio, l’esclusione dell’espressione in quanto tale dalla Carta Costituzionale, ad opera dell’Assemblea Costituente. E si giunge alla prima domanda: perché nel progetto e nel testo definitivo della Costituzione, dove si trovano espressi principi generalmente riconosciuti e principi di attuazione dei primi, l’ordine pubblico viene non semplicemente tacciato, ma addirittura condannato all’oblio? La risposta, che vede congiunti sia la giuridicità, che la personalità dell’approccio finale al tema, si rinviene, facilmente, analizzando le motivazioni rese in sede di progettazione e di approvazione del testo costituzionale. Il malessere generale insito nelle considerazioni dei costituenti, traduce una duplice certezza storica, la labilità del concetto e la sua amara conseguenza, la manipolazione dello stesso. Tale accaduto storico, ci permette di realizzare una prima considerazione conclusiva. Il fatto che un concetto esista, non vuol dire che esso venga fatto esistere per quello che è ed allora, com’è avvenuto, può esistere per quello che si voglia che esso sia, in un particolare momento storico e per uno o più motivi estranei al suo significato. Tale conclusione, può oltretutto spiegare, la ratio normo-valoriale alla base del lungo e laborioso iter interpretativo della Corte Costituzionale riguardante proprio l’ordine pubblico. Ed ecco che si presenta una nuova domanda: in sostanza, la Corte Costituzionale, in merito all’ordine pubblico che cosa fa? La Corte, inizia il suo lavoro di reinterpretazione da tre punti chiave:

  • il passato storico-politico e quindi la manipolazione del concetto per la realizzazione del dominio;
  • la mancanza di un riferimento espresso nel testo Costituzionale;
  • la contestuale presenza del concetto nei testi normativi, su cui non si è preveduto e voluto intervenire nel senso di dare continuità alla scelta effettuata da parte dell’assemblea costituente e quindi di eliminare concretamente lo stesso.

Una non continuità, quest’ultima, che ha fatto giustamente credere alla Corte Costituzionale ed alla maggioranza dei cultori del diritto, che tale assenza non sia poi da considerare tale, ma che corrisponda più tosto ad una mera cautela formalistica. Da tale considerazione, nasce quindi l’esigenza giuridica di legittimare quel concetto, attestatene la presenza viva nel corpus normativo. Tali elementi quindi, hanno giustificato il lavoro re-interpretativo della Corte Costituzionale, la quale, nel corso dell’evoluzione del lavoro è giunta a ridefinire il concetto di ordine pubblico in chiave costituzionale. Nel continuo processo di costruzione dei principi-valori, nell’ottica finalistica di raggiungere e realizzare, sul piano concreto delle situazioni giuridiche, il fine primario di garantire la tutela dei diritti fondamentali, la Corte ha elaborato un concetto di ordine pubblico garante di tali diritti, elevando il contenuto normativo-valoriale della Costituzione a base legittimante lo stesso, che quindi opera all’interno dell’ordinamento giuridico, non più con il ruolo di garante di fini esclusivamente politici e propriamente protezionistici dello Stato inteso come apparato ma, quello di tutelare la persona in tutti gli aspetti della vita privata e sociale che la riguardano. Sul piano logico e cognitivo, un simile traguardo, alla luce dell’internalizzazione dei rapporti, dell’evoluzione socio-economica e medico-tecnologica e l’evoluzione dei bisogni e delle stesse situazioni giuridiche degne e necessitanti di tutela, appare come il miglior risultato che nel mondo attuale avrebbe potuto essere raggiunto. In realtà, nel mondo dei diritti, l’esigenza di giustizia necessita di un continuo lavoro evolutivo e di livellamento tra le diverse situazioni giuridiche, le quali, molto raramente agiscono in solitudine. La morfologia delle stesse situazioni giuridiche e dei relativi diritti da quest’ultime generate, porta a continui processi di interpretazione e di valutazione comparativa, perché nel piano della sostanzialità dei rapporti, risulta improbabile la realizzazione di una giustizia assoluta, al contrario, proprio la tendenza a volere realizzare quest’ultima, comporta nel caso concreto all’esatto opposto, cioè, a realizzare l’ingiustizia e tale dualismo opposto, dipende appunto dalla multidimensionalità delle situazioni giuridiche, le quali prospettano una contemporanea contrapposizione tra soggetti agenti e diritti ad essi spettanti. Tale esigenza di giustizia relativa, costituisce la forza propulsiva che anima gli attori politici e giuridici che rivestono un ruolo incisivo nella scelta degli indirizzi normo-valoriali da ergere e custodire, al fine di guidare l’azione di tutti i soggetti coinvolti nella convivenza sociale. Nel mondo socio-politico contemporaneo, dove i confini tra le Nazioni, ormai, corrispondono a meri punti territoriali, dove al contrario si evolve verso la multiculturalità, la poliedricità, la globalizzazione dei diritti, il rispetto e la reciprocità, è necessario garantire una base normativa sicura e comune, che sia in grado di guidare al giusto. Il principale attore dedito per costituzione, a lavorare in tal senso, è sicuramente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, la quale svolge un continuo ruolo di assistenza nella verifica del rispetto dei diritti fondamentali e che richiama al giusto gli Stati e tutti i soggetti coinvolti nel processo esecutivo. Con le su dette argomentazioni, ci si confronta con una nuova questione, che cosa può fare l’ordine pubblico? L’esigenza di tutela del principio di ordine pubblico fin dove può ritenersi legittima? Questi interrogativi, possono ragionevolmente essere ricondotti alla “famigerata” dualità del concetto di ordine pubblico interno ed internazionale. E’ infatti, in base alla funzione esercitata dal concetto, in relazione al campo d’azione, che ci si riferisce all’uno o all’altro. In dottrina ed in giurisprudenza, si è dibattuto molto, quasi fino all’esasperazione del concetto, sulla natura della dualità dello stesso e senza mai giungere ad un’univocità di senso e di significato. In questa sede, si evita di affrontare nel merito la questione, cioè, se si possa parlare di un ordine pubblico in senso univoco, che a seconda delle situazioni subisca delle diversificazioni nell’estensione del significato proprio o se invece, si possa ritenere valida la tesi che tende a considerare vero il dualismo concettuale, a seconda che nelle situazioni giuridiche concrete siano coinvolti o meno diritti fondamentali. Ciò che va invece indagato, è l’essenza dell’ordine pubblico, che può essere valutata solo attraverso l’analisi delle situazioni giuridiche nel caso concreto. Se, infatti, l’ordine pubblico costituisce il riflesso dei diritti fondamentali, è sufficiente verificare l’effettività dello stesso nei casi concreti. A proposito di tale questione, si è discusso dell’approccio giurisprudenziale interno ed esterno, in merito al ruolo ed alla funzione dell’ordine pubblico in relazione ad alcuni diritti fondamentali, animati da specifiche situazioni giuridiche, le quali impegnano la sfera propriamente intima delle persone. Si è parlato infatti, non a caso, di alcuni rapporti propri al diritto di famiglia e dei connessi diritti, quali il diritto al matrimonio, il diritto alla genitorialità ed il diritto del minore a nascere e a crescere con i propri genitori. In merito a tali diritti, non vi è alcun dubbio ormai, che costituiscano, in quanto assumono la qualifica di diritti fondamentali, una fonte di legittimazione di tutela per i soggetti a cui si riferiscono e dai quali derivano tutta una serie di diritti ed interessi che vanno a completare la sfera giuridica-sociale nella quale l’individuo, come singolo o come parte di un rapporto giuridicamente rilevante, esplicita e realizza il proprio sviluppo personale. Ragionando in termini strettamente giuridici e normativi, si è rilevato che, tali diritti fondamentali, certamente non possono intendersi come diritti assoluti e che necessitano di una continua valutazione nel caso concreto, essendo gli stessi in relazione e molte volte in contrapposizione ad altri diritti aventi lo stesso peso normo-valoriale. Ad esempio, si è discusso sull’efficacia interna di un atto matrimoniale costituito all’estero e riguardante coniugi dello stesso sesso, rilevando una distinzione in base al criterio della cittadinanza. Seguendo una logica propriamente nazionalista, infatti, l’ordinamento giuridico interno regola e tutela tutti quei rapporti che hanno un collegamento giuridico con lo Stato, di converso nulla può statuire in relazione a tutti quei rapporti estranei e che non presentano quindi, alcun collegamento giuridicamente legittimo. In merito, rilevano le norme sul diritto internazionale privato e la legge interna, legge 218/2019, che ha provveduto al riordino ed alla modifica della disciplina, individua quali sono i criteri di collegamento validi, tra i quali riveste un ruolo predominante, il criterio della cittadinanza. La logica sottesa alla scelta di tale criterio è che, l’ordinamento giuridico interno essendo appunto interno, non possa estendere la propria efficacia fino a regolare rapporti esterni, essendo quest’ultimi regolati a loro volta dal proprio ordinamento giuridico di riferimento. In caso contrario, si verificherebbe un’ingerenza ingiusta nell’ordinamento giuridico di un altro Stato, proprio perché ogni Stato conserva le propria nazionalità e quindi la propria storia, le proprie radici, la propria evoluzione, che sebbene possa essere comune agli altri Stati, rimane un bagaglio di esperienze e modus vivendi specifico ed unico. Tale unicità nazionale, costituisce la ratio giuridica che è insita nel più volte citato principio di margine di apprezzamento, un criterio quest’ultimo rivolto ad individuare l’area di competenza Statale. Sia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sia la Corte Europea dei diritti fondamentali, riconoscono l’esigenza di controbilanciare nel caso concreto, la tutela di un diritto fondamentale o di un interesse meritevole di tutela, con il rispetto della competenza nella particolare materia e del campo d’azione. Si parla di margine di apprezzamento, ogni qual volta una certa situazione giuridica, impegna principi e valori propri di uno Stato e di questioni etiche e sociali che per la loro importanza, possono e devono essere affrontate dallo Stato stesso (legislatore). L’ordine pubblico, in tale contesto multidisciplinare ed inter-relazionale, come si è avuto modo di vedere, svolge il ruolo di parametro legale in base al rispetto del quale ne deriva l’espletamento dell’efficacia giuridica di un atto e/o di un rapporto all’interno dello Stato. Rammentando, che in tale sede si esula dalla valutazione del concetto di ordine pubblico interno in contrapposizione al concetto di ordine pubblico internazionale, ciò che riveste un ruolo chiave è il grado di effettività del concetto stesso, in relazione ad uno o a più diritti fondamentali. Si precisa inoltre, che per grado di effettività, in tale contesto, si intende il grado di aderenza alla giustizia, cioè quanto sia efficace il concetto di ordine pubblico nella realizzazione della giustizia nel caso concreto. Analizzando tale questione dal punto di vista prettamente giuridico, attraverso la disamina dei vari casi di giurisprudenza più noti e più importanti per la definizione di un orientamento normo-giurisprudenziale equo e coerente, si è giunti alla consapevolezza che un ordinamento giuridico positivo, quale è il nostro, necessita di criteri ordinamentali che siano in grado di tutelare la specificità dello stesso e che allo stesso tempo non precluda l’interconnessione con gli ordinamenti giuridici esterni. Non esistendo un valore assoluto di giustizia e di conseguenza non esistendo un significato assoluto di diritto fondamentale, sia esso riferito alla protezione della vita, o alla tutela dei diritti di cui si è trattato, il concetto di ordine pubblico ben può assumere un ruolo di criterio di legittimazione ed esercitare una funzione ordinatrice. Tale criterio, svolge quindi la funzione che più si presta a realizzare il senso di legalità che in un determinato momento storico viene ritenuto necessario per il normale svolgimento della vita personale e personale-relazionale-sociale. In tema di matrimonio same-sex, ad esempio, si è potuto apprendere, dall’analisi normo-giurisprudenziale affrontata, che nel nostro ordinamento giuridico non può dirsi idoneo a produrre effetti, non in via assoluta, ma in relazione a tutti i cittadini, perché lo stesso è ad essi che si riferisce. L’istituto delle Unioni civili, a seguito di una lunga e sofferta diatriba politica, assolve attualmente, il compito di tutelare tali soggetti, che grazie a tale legge, non sono più esclusi dal godere di protezione giuridica relativa al rapporto da quest’ultimi posto in essere. Il problema continua però a sussistere, perché tale istituto non è il matrimonio e di conseguenza, non produce ne gli stessi effetti legali, ne assume la stessa valenza. L’ordine pubblico, in tale contesto, realizza l’esigenza di giustizia? Se, si parla di uguaglianza e non discriminazione, applicare una legge apposita per le coppie omosessuali, la dove per le stesse, non esiste un divieto espresso al matrimonio, non comporta già di per se una forma di discriminazione? Sostenere che non lo sia, fornendo a favore di tale tesi, l’esistenza di un testo normativo che riconosce i principali diritti e doveri inerenti al rapporto e non valutare nella sostanzialità dei diritti che a quest’ultimi sono effettivamente riconosciuti, è utopia. Esiste un diritto alla genitorialità? La Corte EDU, come si è già appreso, ha espressamente riconosciuto il diritto fondamentale ad essere genitori, perché insito nel diritto a formare una famiglia e a vivere una vita familiare. Tale diritto, essendo fondamentale, esiste per tutti? In ambito internazionale, l’ordine pubblico si connota di un particolare significato, che diviene unico, quello di espressione della tutela dei diritti fondamentali, perché giammai può la particolarità di un ordinamento interno, affievolire o annullare, la tutela di un diritto fondamentale. Se si assiste ad una tale restrizione di significato e quindi di efficacia, se ne deduce che le norme interne di uno Stato, essendo tali, non sono idonee a fungere da parametro valutativo di un diritto fondamentale. Ciò che è propriamente particolare non può dirsi universale. E perché mai, l’utilizzo del sostantivo universale, per connotare la dichiarazione Onu sui diritti fondamentali del 1948? E’ evidente, che tale utilizzo ha un fine, quello di rendere universale determinati diritti, in modo che a tutto il mondo sia chiaro, quali essi siano, al fine ultimo di non commettere più ingiustizie e soprusi. Il giurista clinico, potrà affermare che l’universalità è un monito generico e che poi nella realizzazione della tutela, le modalità della stessa rientrano nel potere di scelta di chi fa le leggi. Corretto. E’ il legislatore che interpreta i bisogni sociali, almeno nel nostro ordinamento ed in base a quest’ultimi che poi attua un piano normativo d’intervento. Il legislatore agisce nel giusto? Tutto ciò che è legale dovrebbe tendere al giusto, ma di fatto legge e giustizia costituiscono due funzioni diverse. La paura insita nell’assemblea costituente è già una possibile risposta a tale interrogativo. La triplicità delle funzioni, ne costituisce un’altra, così come la diversità degli ordinamenti giuridici, la diversità di ciò che viene considerato giusto in un dato momento storico ed in uno specifico luogo della terra. Che cos’è quindi l’ordine pubblico? L’ordine pubblico può essere. E’ un parametro ordinamentale, che per funzione, è destinato a mutare, con il mutare della società e quindi anche in relazione al mutamento del legislatore.

[i] Colaianni N., Poligamia e società policulturale: quale diritto, in federalismi.it, |n. 10/2020;

Campiglio C., Matrimonio poligamico e ripudio nell’esperienza giuridica dell’occidente europeo, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1990;

Rizzuti M., Ordine pubblico costituzionale e rapporti familiari: i casi della poligamia e del ripudio, Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 10, febrero pp. 604-627.

[ii] Def. in enciclopedia Treccani, “Forma di matrimonio per la quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente…”.

[iii] Circolare n.1/54/FG/3(86)1395 del Ministero di Grazia e Giustizia;

Cit. Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, edizione Cedam, 2008; anche in Federica di Pietro, La poligamia e i ricongiungimenti di famiglie poligamiche in Spagna e Italia, quadernos de derecho transnacional (marzo 2015), Vol. 7, nº 1, pp. 56-70.

[iv] Cit. in Benigni R., Identità culturale e regolazione dei rapporti di famiglia tra applicazioni giurisprudenziali e dettami normativi, Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it) Novembre 2008.

[v] Commissione europea diritti dell’uomo, decisione 6 gennaio 1992, ric. n. 14501/89, A. e A. c. Paesi Bassi,in De´cisions et Rapports 72, p. 118 ss. La prima moglie risiedeva in Marocco con altri figli. Il ricorso è stato giudicato inammissibile.

[vi] TAR Emilia-Romagna – sede di Bologna, sez. I, 14 dicembre 1994 n. 926 – Galoppini, Ricongiungimento e poligamia, Dir. Famiglia 2000, 02, p. 739 ss.

[vii] Corte di Cassazione sezione I civile; sentenza 2 marzo 1999, n. 1739; Pres. Corda, Est. Verucci, PM Raimondi (concl. Conf.); Prola (Avv. Sinibaldi, Manni) c. Salada Nur Ibrahaim (Avv. Amici, Motta). Conferma App. Milano 13 maggio 1994, Il Foro Italiano Vol. 122, n. 5 (MAGGIO 1999), pagg. 1457 / 1458-1461 / 1462, Societa Editrice Il Foro Italiano ARL, https://www.jstor.org/stable/23193464; Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Riv. dir. int. priv. proc., 1999, p. 613;

Nota a sentenza, di G. Balena; in Giust. civ., 1999, 2695 ss.; Nota di Di Gaetano L., «I diritti successori del coniuge superstite di un matrimonio poligamico. Questione preliminare e validità nel nostro ordinamento dell’unione poligamica», ha riconosciuto la rilevanza a fini successori del matrimonio contratto da un italiano in Somalia secondo il diritto locale, rigettando le argomentazioni in senso contrario proposte dai parenti del de cuius, secondo i quali sarebbe stato inaccettabile riconoscere valore a tale coniugio, retto da un ordinamento che ammette la poligamia ed il ripudio.

[viii] Corte di App. Torino, 18 aprile 2001, in Rep. Foro it., 2002, Straniero, n. 101; App. Torino, 18 aprile 2001, in Dir. fam. pers., 2001, p. 1492; Valentina Petralia, Ricongiungimento familiare e matrimonio poligamico.  Il riconoscimento di valori giuridici stranieri e la tutela delle posizioni deboli, Università di Catania – Online Working Paper 2013/n. 49.

[ix] Circolare MIACEL (Ministero dell’Interno) 26 marzo 2001 n°2.

[x] Corte di Cassazione, 9 giugno 2005 n. 12169, in Fam. dir., 2005, p. 354.

[xi] Tribunale di Milano, Sentenza 02 febbraio 2007, in olir.it.

[xii] Corte Costituzionale, ordinanza n. 14 anno 2003, in giurcost.org.

[xiii] Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 4984/13; depositata il 28 febbraio, in diritto e giustizia.it; entrambe citate in Morozzo della Rocca P., Ordine pubblico matrimoniale e poligamia nella disciplina del ricongiungimento familiare, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2019, fasc. 2 pag. 417 – 439.

[xiv] Virgadamo P., Ripudio islamico e contrarietà all’ordine pubblico tra unitarietà del limite e corretta individuazione dei principi, (Nota a App. Roma 12 dicembre 2016), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2017, fasc. 2 pag. 353 – 364;

Vanin O., Ripudio islamico, principio del contraddittorio e ordine pubblico italiano (Nota a App. Venezia 9 aprile 2015), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, fasc. 11  pag. 1031 – 1038.

[xv]   HRC, General Comment 28, Par. 26.

[xvi]  Cit. Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, edizione Cedam, 2008.

[xvii] Patto internazionale sui diritti civili e politici, in ohchr.org.

[xviii] In Riv. dir. int. priv. proc., 1968, p. 403.

[xix]  Corte di App. Roma, 29 ottobre 1948, in Foro pad., 1949, I, 348 ss; Cit.Campiglio C., Il Diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam, 2008.

[xx]   Cit.Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam,2008. Sulla rapporto tra diritto di famiglia islamico e principi di diritto internazionale si veda: Clerici R., La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con l’ordine pubblico internazionale, (Relazione al Convegno “Questioni attuali in materia di famiglia”, Verona 29 febbraio 2008), in Famiglia e diritto, 2009, fasc. 2 pag. 197 – 211; Sul rapporto tra il diritto islamico e l’ordinamento giuridico nazionale si prenda visione di: D’Arienzo M., Diritto di famiglia islamico e ordinamento giuridico italiano, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2004, fasc. 1 pag. 189 – 219.

[xxi]  Corte di App. Torino, 9 marzo 2006, in Dir. fam., 2007, p. 156 ss; Sinagra A., Ripudio-divorzio islamico ed ordine pubblico, (Nota a App. Torino 9 marzo 2006) in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2007, fasc. 1 pag. 163 – 168; Sull’applicazione del principio di ordine pubblico nelle situazioni giuridiche in cui vi sono casi di ripudio, si veda, Nencini G., L’ordine pubblico e le sentenze straniere di divorzio nella legge 218/95, in Lo Stato Civile Italiano, 2009, fasc. 4  pag. 248 – 252; Cit. Cristina Campiglio, Il Diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam, 2008.

[xxii] Cit. Benigni R., Identità culturale e regolazione dei rapporti di famiglia tra applicazioni giurisprudenziali e dettami normativi, Rivista telematica (www.statoechiese.it), Novembre 2008.

[xxiii] Barbu A., Brevi note in materia di riconoscimento del ripudio-divorzio islamico nell’ordinamento italiano, (Nota a App. Cagliari 24 maggio 2008, n. 198), in Rivista giuridica sarda, 2009, fasc. 2 pag. 311 – 321.

[xxiv] Cit. De Meo R., Il divorzio islamico e i diritti delle donne in europa, in giustiziacivile.com, 2018, fasc. 11.

[xxv] Sul punto, De Meo R., Il divorzio islamico e i diritti delle donne in europa, in giustiziacivile.com, 2018, fasc. 11.  La questione era stata sollevata dall’Oberlandesgericht München, di fronte al caso di una famiglia immigrata dalla Siria, ove vige il ripudio islamico, in Germania, dove non è prevista nessuna forma di divorzio privato: il rimettente chiedeva alla Corte Europea “se il consenso al divorzio prestato dal coniuge discriminato – anche mediante la sua accettazione di prestazioni compensative – costituisca già un motivo per disapplicare” il ricordato art. 10 del reg. 1259 del 2010, proponendo in sostanza di ritenere accettabile in siffatte circostanze l’efficacia del divorzio privato siriano, e nel procedimento in sede comunitaria il governo tedesco, nonché ovviamente il marito ripudiante (che in Siria aveva già versato alla donna accettante circa ventimila dollari americani), argomentavano in favore di una risposta affermativa al quesito, mentre la Commissione, i governi francese, ungherese e portoghese, nonché l’Avvocato Generale della stessa Corte, nelle conclusioni rassegnate il 14 settembre 2017, si esprimevano in senso contrario.

[xxvi] Cit. Amisano P., Riconoscimento ed esecuzione delle decisioni: questioni in materia di famiglia, struttura di formazione decentrata della corte di cassazione, Lo spazio giudiziario europeo in materia civile nella giurisprudenza italiana ed europea, Roma, 3-5 maggio 2017, Corte di Cassazione, Aula Giallombardo.

[xxvii] Corte europea dei diritti dell’uomo, del 4 ottobre 2012, Harroudj c. France (ric. n. 43631/09);

Corte europea dei diritti dell’uomo, del 16 dicembre 2014, Chibhi Loudoudi et Autres c. Belgio, Seconda Sezione (ric. n. 52265/10) entrambe in Ruggeri A., europeanrights.eu ed in Di Pietro F., La kafalah islamica e le sue applicazioni alla luce della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, Ordine internazionale e diritti umani, (2016), pp. 91-99;

Per un approfondimento sul punto si veda anche,  Long J., Corte europea dei diritti dell’uomo e “kafalah”: un’esortazione alla flessibilità del diritto civile minorile, (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. V 4 ottobre 2012 (Harroudj c. Francia), in Minorigiustizia, 2013, fasc. 1 pag. 304 – 310.

[xxviii] Tribunale di Biella, 26 aprile 2007, in Dir. Fam. e delle pers., 2007, 4, 1810 con note di Long J., Il ricongiungimento familiare del minore affidato con kafala;

Conformi, cfr. Corte di Appello di Torino, decreto 28 Giugno 2007, in Dir. imm. citt., 2007, 3, 142;

Tribunale di Firenze, decreto 9 novembre 2006, ibidem, 2007, 4, 169;

Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, 10 ottobre 2006, in Fam. e min,. 2006, 2, 86. Contra cfr. Tribunale di Reggio Emilia, ordinanza 9 febbraio 2005, in Dir. imm. citt., 2005, 2, 183, per il quale “deve essere ogni volta verificata  in concreto la compatibilità dell’atto di kafalah … con l’ordine pubblico (espresso anche dal riconoscimento dei fondamentali diritti all’unità familiare ed alla tutela del diritto del minore alla propria famiglia), compatibilità che nella specie va esclusa”.

[xxix] Corte di Cassazione, sentenze n. 7472/2008, n. 18174/2008 e n. 19374/2008, tutte in olir.it.

[xxx] Cass., 1/3/2010, nn. 4868 e 4869; id. 19450/1, in ricerca giuridica.com;

Venchiarutti A., No al ricongiungimento familiare del minore affidato con kafalah: i richiedenti sono cittadini italiani!, (Nota a Cass. 1 marzo 2010, n. 4868), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2010, fasc. 4  pag. 1629-1639;

Ardita C. M., Riflessioni sull’istituto della kafalah nell’ordinamento italiano: tra antinomie giurisprudenziali e inerzia legislativa, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2010, fasc. 16 pag. 1641–1653;

Long J., Kafalah: la cassazione fa il passo del gambero, (Nota a Cass. sez. I civ. 1 marzo 2010, n. 4868), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2010, fasc. 7-8  pag. 835 – 839.

[xxxi] Corte di Cassazione S.U. 16/9/13, n. 21108, in ricerca giuridica.com;

Sul punto, Avezzù E., Problemi relativi alla giurisdizione italiana e agli affetti della “kafalah” in italia, (Relazione al convegno internazionale “Il diritto di famiglia in Marocco e in Italia”, Reggio Emilia, 18 aprile 2015), in Minorigiustizia, 2015, fasc. 4 pag. 55–64;

Marotta A., Italia e “kafala”: reinventare le prospettive tradizionali per accogliere la diversità? (Nota a Cass. sez. un. civ. 16 settembre 2013, n. 21108), in The Italian Law Journal, 2016, fasc. 1.

[xxxii] Cass., 23/9/2011, n. 19450, in ricerca giuridica.com;

Long J., La kafalah come banco di prova per un diritto “interculturale”, (Nota a Cass. sez. I civ. 23 settembre 2011, n. 19450), in Minorigiustizia, 2012, fasc. 2 pag. 254 – 261.

[xxxiii] Corte d’Appello di Bari, decreto del 16 aprile 2004, IN OLD ASGI.IT;

Cit. Amisano P., Riconoscimento ed esecuzione delle decisioni : questioni in materia di famiglia, Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione, 2017.

[xxxiv] Long J., nota a Trib. min. Trento 5.03.2002 e Trib. min. Trento 10.09.2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, Parte I, 151 e Ordinamenti giuridici occidentali, kafala e divieto di adozione: un’occasione per riflettere sull’adozione legittimante, ibidem, Parte Seconda, 175.

[xxxv] Long Joëlle, Il ricongiungimento familiare con un bambino affidato, (Nota a App. Torino sez. persona e famiglia 21 luglio 2011), in Minorigiustizia, 2012, fasc. 2 pag. 267 – 269.

[xxxvi] Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 2 febbraio 2015, n. 1843, in EIUS.IT;

Di Masi M., La cassazione apre alla “kafalah” negoziale per garantire in concreto il “best interest of the child”, (Nota a Cass. sez. I civ. 2 febbraio 2015, n. 1843), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, fasc. 7-8 pag. 717 – 724.

[xxxvii] Corte di Giustizia, causa C-129/18), in dirittoegiustizia.it;

Commento di Giuseppe Buffone, in gnewsonline.it.

Introduzione

 L’istituto del matrimonio occupa un ruolo rilevante nella normativa dedicata ai rapporti familiari ed è talmente incisivo, che non solo funge da atto costitutivo del rapporto coniugale, ma esercita anche una funzione legittimante il tipo di famiglia legale, rappresentato, per tradizione, dal tipo famiglia legittima. In dottrina, proprio per l’importanza connaturata all’istituto, si è ampiamento parlato e ci si continua a riferire ad un generale principio di “favor matrimonii[i]”. Il legame dell’istituto matrimoniale con la famiglia è figlio della tradizione e nel tempo ha assunto un valore sacrale che, ancora oggi, è in grado di diversificare tale tipo di unione rispetto alle altre tipologie di formazioni familiari riconosciute. Anche se è stata giuridicamente accertata la separazione tra funzione civile e religiosa del matrimonio[ii], la prima continua a rimanere marchiata dalla seconda. La diversità tipologica del rito, civile e canonico, non comporta infatti una decadenza della solennità del rito in sé, che denota un nucleo di rapporti giuridici endo-familiari ed eso-familiari plurimi ed unici, da cui emergono un fascio di diritti e doveri che vanno ad identificare l’immagine precisa dell’istituto familiare nella comunità e quindi nell’immagine collettiva di famiglia.

  1. La famiglia fondata sul matrimonio

La famiglia fondata sul matrimonio, come istituto storico-sociale e come principio, trova Costituzionalizzazione nell’articolo 29, il quale recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge (articoli 84-87,107, 143-143bis-231) a garanzia dell’unità familiare”. Il primo comma, dell’articolo, poc’anzi richiamato, è stato e continua ad essere al centro di una diatriba dottrinale e giurisprudenziale che permea il centro della riflessione sul significato da attribuire, in ottica costituzionale, al termine “naturale”. Per quanti della dottrina appartengono alla visione giusnaturalista affermano che tale termine sta ad indicare, che la famiglia è un istituto che non nasce con lo Stato ma, anzi, fornisce in un certo senso l’ispirazione per la nascita di quest’ultimo e da questo deve essere riconosciuta, al fine di garantire la produzione degli effetti giuridici e sociali da essa generati. Tale visione, a mio avviso, sembra essere quella corretta, non solo giuridicamente, ma anche antropologicamente. Gli studi antropologici, infatti, dimostrano come l’idea di famiglia e la sua costituzione esistano fin dalle fasi più evolute dell’epoca dell’ominazione. Tale impostazione crea qualche perplessità, se si osserva l’intera proposizione e cioè, società naturale fondata sul matrimonio, la quale permette di allargare gli orizzonti e di interpretare la locuzione naturale, in maniera evolutiva e più specifica. Infatti, il matrimonio non è un fatto naturale, ma è un atto (nel mondo giuridico) o un rito (mondo antropologico), che è stato costruito in funzione della collettività, rivolto cioè a designare un particolare fascio di diritti e doveri, che solo attraverso quest’ultimo possono essere esercitati (nel caso delle società senza Stato, il matrimonio è un rito, un fattore culturale in grado di elevare una tipica formazione familiare all’interno di un gruppo specifico). Essendo il prodotto di una costruzione, il matrimonio non può essere considerato un fatto naturale. A dimostrazione di ciò, può ergersi la stessa evoluzione della famiglia, che non necessariamente trova un fondamento nel matrimonio, anzi, tutt’altro. È tale realtà a fungere da principio che legittima la pluralità dei tipi familiari.

  1. Il matrimonio same sex nel dialogo tra le Corti

In tal senso, si esprime la Corte EDU, che con la sentenza Schalk e Kopf contro Austria[iii], afferma l’appartenenza della relazione instaurata tra due persone aventi il medesimo sesso biologico, al tipo famiglia (si avrà modo nel proseguo di analizzare meglio tale pronuncia). Altra cosa è associare l’istituto matrimoniale ad ogni tipo di famiglia e per quel che a noi interessa, al tipo famiglia omosessuale. L’evoluzione giurisprudenziale e normativa relativa a tale tematica parte da molto lontano, da un punto così distante che coincide con l’oblio dei diritti. Di concerto con l’assenza di normativa interna dedicata al regolamento dei rapporti e, quindi, al riconoscimento dei diritti relativi alle formazioni familiari omosessuali, la giurisprudenza ha condotto l’esame di tutti quei casi implicanti la trascrizione del matrimonio (atto) tra persone dello stesso sesso costituito all’estero, sulla base di una considerazione di inesistenza dell’atto.

Di inesistenza parla il Tribunale di Treviso[iv] con sentenza del 19 maggio 2010, nella quale afferma: “Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è inesistente per l’ordinamento italiano; una volta assodata la non qualificabilità della fattispecie, non è necessario accertare la contrarietà del matrimonio omosessuale al nostro ordine pubblico, che, comunque, presuppone che l’atto straniero da trascrivere sia compreso nella categoria degli atti esteri trascrivibili nei registri anagrafici italiani secondo la disciplina che li regola”. La pronuncia segue due direzioni giuridiche negative, affermando che il matrimonio tra coppie omosessuali non esiste nel nostro ordinamento giuridico, perché lo stesso sarebbe connaturato e fondato sulla diversità del sesso dei coniugi, un principio non direttamente stabilito, ma desunto dall’insieme delle disposizioni normative del sistema, precisamente si fa riferimento all’articolo 29 della Costituzione e agli obblighi di legge da quest’ultimo richiamati che si sostanziano nelle norme del codice civile ad esso corrispondenti, articoli 115, 143, 143 bis. Inoltre, a prescindere da tale valutazione, ci sarebbe l’ulteriore barriera dell’ordine pubblico, che secondo l’articolo 18 dell’ordinamento sullo stato civile, D.p.r. n°396/2000, nel titolo atti formati all’estero, afferma che: “non possono essere trascritti gli atti formati all’estero che sono contrari all’ordine pubblico”, sul presupposto che con il termine ordine pubblico si faccia riferimento al complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’atteggiamento etico[v] e giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico e che, quindi,  impedisce la trascrizione dell’atto matrimoniale costituito tra coppie aventi il medesimo sesso, sulla base della contrarietà di quest’ultimo al principio appena richiamato. Sul tema si pronuncia per la prima volta la Corte Costituzionale con la sentenza n° 138/2010[vi] (una pronuncia che darà seguito ad altre fondamentali pronunce, fino a culminare nella condanna dell’Italia per violazione dell’articolo 8 CEDU), sul giudizio di legittimità costituzionale riguardante gli articoli 93-96-98-107-108-143-143bis-156bis del codice civile, per contrasto con gli articoli 2-3-29-117 della Costituzione (nella parte in cui escludono l’applicazione del matrimonio alle coppie omosessuali), sollevato con ordinanza del tribunale di Venezia e dalla Corte d’appello di Trento nel 2009, in merito alla trascrizione dell’atto di matrimonio redatto all’estero da una coppia di cittadini italiani omosessuali. In tale giudizio è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità di tali articoli del codice civile, nei confronti degli articoli 3 e 29 della Costituzione, perché non viene rilevata alcuna violazione del principio di non discriminazione, in quanto il matrimonio sarebbe cosa diversa e non applicabile ad un rapporto tra uniti civilmente. Ancora una volta, si palesa una generale considerazione dell’inesistenza dell’istituto, se correlato a coppie aventi il medesimo sesso biologico. Per quanto riguarda gli articoli 2 e 117 della Costituzione e di riflesso per mobile rinvio, gli articoli 8-12-14 della CEDU che tutelano rispettivamente la vita privata e familiare, il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia e il principio di non discriminazione si ritengono non violati per inammissibilità della questione, in quanto la CEDU non vincola lo Stato ad utilizzare il matrimonio come istituto per la realizzazione familiare, essendo ampio il margine di apprezzamento statale su questo tema e mancando una visione maggioritaria univoca degli Stati aderenti e per questi motivi questione interna da riservare al potere legislativo. La Consulta, quindi, si esprime in senso negativo nei confronti dell’estensione applicativa dell’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali, affermando che “l’unione omosessuale, pur se riconducibile all’art. 2 Cost., rappresenta tuttavia una formazione sociale non idonea a costituire una famiglia fondata sul matrimonio stante l’imprescindibile (potenziale) ‘finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale’ e di conseguenza, perché ‘la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio‘”. Ma una simile pronuncia è legata al vuoto legislativo in merito e l’unico appiglio su cui direzionare il ragionamento giuridico risultava essere l’articolo 29 della Costituzione, letto ed interpretato in relazione alla normativa civilista pertinente. Andare oltre, in quel momento, per la Corte era del tutto inimmaginabile, non solo per una questione di ordine socio-politico, ma soprattutto per una questione di democraticità. Una dichiarazione positiva al caso in questione, da parte della Consulta, avrebbe incitato gli animi delle forze politiche giustamente motivati, perché avrebbe determinato la sovversione delle funzioni. Tale pronuncia però riveste una notevole importanza, perché per la prima volta la Corte avverte l’esigenza storica e politico-sociale di una necessaria tutela normativa dei rapporti posti in essere da questa tipologia di persone, affermando che a tale tipo di unione non spetta soltanto il diritto «di vivere liberamente una condizione di coppia» ma altresì «il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri»”, riconoscimento che deriva dall’articolo 2 della Costituzione ed invita in tale occasione, il legislatore a colmare il vuoto normativo del nostro sistema. Con l’ordinanza n. 276 del 22 luglio 2010[vii], nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte d’Appello di Firenze, la Corte Costituzionale riprende le conclusioni pronunciate con la sentenza poc’anzi richiamata e ribadisce pienamente il concetto che le unioni omosessuali sono formazioni sociali irriducibili al paradigma matrimoniale rientranti nell’art. 29 Cost. Tali pronunce della Corte si affacciano in una realtà giuridica extraterritoriale in evoluzione. Nel panorama internazionale, la svolta è segnata dalla Corte suprema del Massachusetts[viii] che con la sentenza emessa nel 2003 ha dichiarato incostituzionale il divieto di sposare una persona del proprio sesso, sulla base di un doppio esame dell’istituto matrimoniale, l’uno prettamente formale e quindi incardinato sull’atto giuridico, l’altro sostanziale e quindi concentrato sul rapporto, dai quali emerge l’irragionevolezza della discriminazione e quindi la decisione in senso contrario. Dopo due anni da quest’ultima pronuncia, nel 2005 è la volta del Continente Africano: la Corte Suprema del Sudafrica, infatti, ha emanato l’obbligo, diretto al legislatore, di rimuovere il divieto di matrimonio tra le persone dello stesso sesso, spingendo per un intervento immediato e imponendogli di provvedere entro un anno dalla pronuncia[ix]. Nello stesso anno, il 2005, la Corte Suprema del Canada fu chiamata a decidere sulla medesima questione, la cui pronuncia condusse il Parlamento alla promulgazione della legge 20 luglio 2005, attraverso la quale procedette alla riforma della definizione giuridica del matrimonio, da intendere come “gender-neutral”, cioè un’unione formata semplicemente da due persone e quindi eliminando ogni tipo di riferimento al requisito sessuale. Nel caso di specie, è bene segnalare che tale decisione venne riformulata nel suo perfetto opposto, tramite il referendum popolare nel 2008, ma nel 2010 tale risultato venne dichiarato illegittimo dalla Corte distrettuale del Nord California, sulla base del principio che i diritti fondamentali, per natura, non siano passabili di scelte rappresentative. Sulla stessa scia si schiera il legislatore portoghese, che attraverso la riforma del codice civile, nel 2010 ha esteso l’istituto del matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso[x]. Se nel contesto internazionale ed europeo, a livello di giurisdizione statale, si stava verificando una graduale ma completa apertura verso il riconoscimento del matrimonio come diritto fondamentale e, in quanto tale, degno di essere esteso agli “uomini”, nella giurisprudenza di matrice europea-internazionale un simile risultato sembra essere ancora molto lontano, anche se propositivo nel senso di riconoscere l’unione tra persone dello stesso sesso come tipo famiglia.

  1. Il matrimonio same sex e l’ordinamento dell’Unione Europea

Il percorso evolutivo dell’Unione europea si genera lentamente, da una prima posizione di totale astensionismo, complice la natura iniziale del fine economico a fondamento della Comunità europea, si arriva gradualmente verso l’apertura normativa europea sul punto. La prima formulazione normativa, che apre l’avvio all’avvicinamento della tutela dei diritti fondamentali e con essi della tutela relativa alla comunità Lgbt, si ha con il Trattato di Maastricht, il quale ha stabilito, che l’Unione europea rispetta i diritti fondamentali (art. 6, par. 2): “quelli garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quelli che risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quando principi generali del diritto comunitario”. Successivamente, il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale viene consacrato con il Trattato dell’Unione Europea da una serie di disposizioni: art. 2 TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”; art. 3, par. 5, in cui si enunciano gli obiettivi dell’Unione nelle relazioni internazionali e si prevede che: “[…] l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, Caso Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande sezione)”. Tra l’altro, il rispetto dei diritti fondamentali è previsto anche dall’art. 6 TUE, dedicato proprio ai diritti umani (compresi quelli delle minoranze) e dall’art. 10 TFUE, che inserisce l’orientamento sessuale nella lista delle discriminazioni che l’Unione si impegna a combattere nell’attuazione delle sue politiche. La consacrazione della tutela dei diritti umani e quindi del principio fondamentale di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, parte da ambiti materiali definiti e circoscritti, quali la libera circolazione delle persone, la tutela del lavoro e delle pari opportunità. Comincia ad evolversi nel campo delle relazioni familiari, con l’annessione della Carta di Nizza al Trattato di Lisbona, qualificando i principi in essa espressi come principi imperativi. Nello specifico, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 9, ha previsto in capo ad ogni individuo “il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, stabilendo che tale diritto, è riconosciuto: “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Dall’esame testuale dell’articolo, secondo l’opinione maggioritaria della dottrina, la Carta ha operato una scelta storica, al fine di includere le coppie omosessuali nelle relazioni familiari, optando per un’espressione diversa da quella contenuta nell’art. 12 della CEDU, dove vi è un preciso riferimento, così si il testo: “uomini e donne in età matrimoniale, hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio a tale diritto”. Una simile apertura da parte dell’Unione Europea, complici le giurisprudenze comunitarie e non, rivolte al medesimo fine, non poteva restare al di fuori della visione della Corte EDU. Nell’iter giurisprudenziale della Corte EDU, infatti, le unioni omosessuali erano collocate nel range di tutela riguardante la vita privata ex articolo 8 CEDU. Con la soluzione del caso, già menzionato Schalk e Kopf c. Austria, una pronuncia di poco successiva a quella emanata dalla Corte Costituzionale nel 2010, la Corte EDU, sebbene precisi che in tale sostrato materiale il margine di apprezzamento Statale sia più tosto ampio e rilevi al contempo la mancanza di un’opinione comune sul tema, per la prima volta riconosce a tali unioni il diritto a godere dello status familiare e quindi di ricevere considerazione giuridica e corrispondente tutela ex articolo 8 CEDU, come rapporti attinenti alla vita familiare. Tale passaggio storico, se pure minimo, riveste una notevole importanza nella qualificazione del rapporto e dei diritti fondamentali, perché sulla base di questa conclusione non potrà più parlarsi di inesistenza del rapporto, pena la violazione del diritto fondamentale alla vita familiare. Pochi anni dopo, il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria il 24 maggio 2012, approva, con una larga maggioranza, il principio che condanna ogni forma di discriminazione che non sia giustificabile e che si fondi sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale, considera inoltre inaccettabili episodi di intransigenza verificatisi all’interno dell’Unione nei confronti dei diritti delle persone LGBT. In specifico, con la risoluzione si invitano gli Stati membri a garantire la protezione di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, dai discorsi omofobi in generale e dai primi impregnati della qualifica negativa di incitamento all’odio e dalla violenza, nonché ad assicurare che la libertà di manifestazione, garantita da tutti i trattati sui diritti umani, sia effettivamente rispettata. Contemporaneamente a quanto poc’anzi esaminato a livello europeo/internazionale, in Italia il percorso di tutela nei confronti delle coppie omosessuali è ancora lontano, sia da un riconoscimento normativo interno riguardante il rapporto in sé, sia nei confronti degli effetti ricollegati agli atti di matrimonio celebrati all’estero. Seguendo l’impostazione data sul tema, da parte della Corte Costituzionale (sentenza 138/2010) e quanto espresso dalla Corte EDU, la Corte di Cassazione, con una pronuncia considerata dalla dottrina di portata storica, la sentenza n. 4184, del 15 Marzo del 2012[xi], poi richiamata dalla Cassazione stessa con la pronuncia del 9 febbraio 2015 n. 2400[xii], muta l’orientamento generale sul tema, sostenendo che non si può più parlare di inesistenza o di invalidità per contrarietà al principio di ordine pubblico ex articolo 18, D.p.r. n. 396/2000, dal momento che detta argomentazione non può più ritenersi adeguata alla realtà giuridica coeva, giungendo per tale via a sostenere che l’intrascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero si fondi sulla sua inidoneità a produrre, nell’ordinamento interno, qualsivoglia effetto giuridico, atteso che l’attuale contesto normativo nazionale non prevede e né riconosce come matrimonio quello contratto tra persone dello stesso sesso. Il baricentro normativo alla base di entrambe le decisioni è rappresentato dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 12 CEDU, i quali non impongono agli Stati l’adozione del modello matrimoniale per il riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive, così come espresso nella sentenza della Corte EDU sul caso Schalk e Kopf c. Austria, al loro interno, ferma restando la necessità di garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali sorti da tali unioni, tendenzialmente omogeneo a quelle riservata alle coppie eterosessuali coniugate. La giurisprudenza di merito ha confermato questa impostazione, infatti seguono lo stesso percorso logico-motivazionale, se pur con motivazioni differenti (contrarietà all’ordine pubblico, inesistenza del vincolo, inefficacia dello stesso), il Tribunale di Latina, decreto 31 maggio 2005; la Corte d’appello di Roma, 6 giugno 2006; il Tribunale di Treviso, sentenza 19 maggio 2010; il Tribunale di Milano, decreti 2 luglio 2014 (Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è esistente per l’ordinamento italiano ma non è trascrivibile negli atti dello stato civile, posto che la trascrizione degli atti nei registri dello Stato Civile è soggetta al principio di tassatività e che il matrimonio fra persone dello stesso sesso celebrato all’estero è inidoneo, quale atto di matrimonio, a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano) e 17 luglio 2014; il Tribunale di Pesaro, decreto 14 ottobre 2014[xiii], la Corte di Appello di Milano, sentenza del 16 ottobre 2015 ed infine il Consiglio di Stato, sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 (Il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è contrario all’ordine pubblico ex art. 18 d.P.R. 396/2000. Il certificato di matrimonio tra persone dello stesso sesso non può essere trascritto nei registri di stato civile perché il matrimonio tra persone dello stesso sesso è un atto giuridico inesistente, in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio. Al Prefetto spetta il potere di annullare un atto di stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione, e nella specie di un atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso, trattandosi di un atto radicalmente inefficace per l’ordinamento giuridico italiano; spetta invece all’autorità giudiziaria ordinaria il potere di annullare gli atti di stato civile indebitamente registrati astrattamente idonei a costituire o modificare lo stato giuridico delle persone) del 26 ottobre 2015, nelle quali il medesimo si pronuncia nel senso della legittimità della circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 che ordinava ai Prefetti di provvedere all’annullamento d’ufficio delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali[xiv].

Tuttavia, non mancano pronunce opposte a quelle poc’anzi richiamate, che riflettono, con grande spirito evolutivo, il principio della non contrarietà della trascrizione del matrimonio, costituito da coppie aventi il medesimo sesso, all’ordine pubblico internazionale, così come stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza, già richiamata, n. 2400/2015, perché è a quest’ultimo che si deve fare riferimento ogni volta che si deve dare esecuzione o disporre l’efficacia di un atto/sentenza che presenta elementi di estraneità, ma al contrario dell’orientamento di quest’ultima sul tema, che abbiamo detto essere ancora negatorio, in quanto considera l’atto non idoneo a produrre effetti nel nostro ordinamento e perciò stesso, è inutile ricorrere al confronto con il principio di ordine pubblico.

Alcuni tribunali ordinari interpretano il principio di non contrarietà all’ordine pubblico internazionale come momento risolutivo in senso favorevole alla trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato all’estero specificando, che il ruolo della trascrizione non coincide con la costituzione del matrimonio, già perfettamente concluso, bensì con la mera natura dichiarativa dello stesso (rivolta a rendere pubblico il fascio dei diritti e degli obblighi derivanti dall’atto giuridico); così si esprime il Tribunale di Grosseto, con decreto del 17 febbraio 2015[xv]. Poco tempo dopo a tale pronuncia, ne segue la stessa impostazione la Corte di appello di Napoli, che con sentenza del 13 marzo 2015[xvi] afferma: “Nell’ipotesi di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, entrambe cittadine di un Paese che ammette il matrimonio tra persone dello stesso sesso (nella specie, la Francia), posto che lo stesso deve ritenersi esistente anche per l’ordinamento giuridico italiano, si deve dare luogo all’applicazione della legge nazionale di ciascun nubendo e si impone per conseguenza la sua trascrizione nei registri dello Stato civile, attesa la sua non contrarietà all’ordine pubblico internazionale”. Ad onore del vero, è giusto precisare che entrambe le pronunce furono ribaltate, a conferma dell’orientamento generale di negazione degli effetti, così come le decisioni di alcuni Comuni italiani, fra tutti, quelli di Roma, Bologna e Milano, di dare seguito alla trascrizione, sempre sulla base della tutela del diritto fondamentale al matrimonio e della non contrarietà dello stesso al principio di ordine pubblico internazionale. Si ricordi il provvedimento emanato dall’allora Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, diretto proprio a richiedere ai sindaci in questione l’immediata cancellazione delle trascrizioni a cui avevano dato effetto. In seguito a tale provvedimento, all’inerzia di esecuzione dei Sindaci, che rifiutarono di darne seguito, i prefetti di Roma, Bologna e Milano ne disposero così l’annullamento. Mentre in Italia si assiste ad una serie di pronunce giurisprudenziali contrapposte, tra chi giudica trascrivibile l’atto di matrimonio costituito all’estero da coppie omosessuali e chi invece è di contraria convinzione, oltreoceano si verifica una pronuncia di portata emblematica. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Obegefell v. Hodges[xvii] del 2015, giunge a riconoscere la natura di diritto fondamentale del diritto al matrimonio e, sulla base di questa conclusione, afferma che esso non può essere negato in alcuno Stato della Federazione. In specifico la Corte stabilisce:

  1. a) la Costituzione impone che tutti gli stati permettano il matrimonio tra persone dello stesso sesso;
  2. b) uno stato non può non riconoscere un matrimonio legalmente contratto in altro stato tra persone dello stesso sesso per il solo carattere omossessuale dell’unione.

Tali conclusioni, sono il frutto dell’interpretazione evolutiva della Costituzione, da parte della Corte suprema, convogliando il ragionamento sul principio di eguaglianza (equal protection clause ex XIV emendamento) letto in combinato disposto con il principio della negazione della tutela di un diritto fondamentale a fronte di un’adeguata giustificazione del governo (due process clause ex V emendamento) e tale giustificazione non si rinviene nel caso di specie. Tale pronuncia, più che per il contenuto in se della stessa, ha un ruolo di particolare rilevanza, perché segna giuridicamente un cambiamento totale, rispetto all’impostazione classica e tradizionalista che ha da sempre connaturato la legislazione degli Stati Uniti e fortemente radicata nel principio della differenza di sesso come requisito per accedere al matrimonio. In Europa, nello stesso anno, a pronunciarsi è nuovamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo che, con la soluzione del caso Oliari[xviii], ha condannato l’ordinamento italiano per l’assenza di una disciplina giuridica che tuteli la vita familiare delle coppie formate da persone avente lo stesso sesso e che rappresenta l’evoluzione giurisprudenziale di quanto ebbe a decidere nel caso Schalk and Kopf c. Austria. È doveroso affrontare tale caso più da vicino. I ricorrenti sono tre coppie omosessuali, le quali hanno adito la Corte EDU lamentando che l’ordinamento giuridico italiano, non consente a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, né riconosce altre forme di unioni civili. Fra queste coppie, Enrico Oliari e il suo compagno avevano domandato al comune di Trento di procedere alle pubblicazioni prodromiche al loro matrimonio. Il comune si era rifiutato e ne era nato un contenzioso che era giunto fino alla Corte costituzionale. Il giudice remittente aveva ritenuto, infatti, non manifestamente infondata la questione se il codice civile violasse, per il tramite dell’art. 8 della Convenzione EDU, l’art. 117, primo comma della Costituzione. La Corte dichiarò la questione in parte infondata e in parte inammissibile con la sentenza n. 138 del 2010 e, successivamente, la corte d’appello di Trento rigettò il ricorso del signor Oliari. Invocando l’articolo 8 CEDU (diritto alla vita privata e familiare), da solo e in combinato disposto con l’articolo 14 (divieto di discriminazione), essi hanno sostenuto di essere vittime di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale contraria alla Convenzione. La Corte ricorda di aver già statuito (caso Schalk and Kopf c. Austria) che le relazioni fra persone dello stesso sesso, necessitano di riconoscimento giuridico e tutela: “le coppie omossessuali, infatti, hanno la stessa capacità delle coppie eterosessuali di instaurare relazioni stabili e si trovano in una situazione significativamente simile a una coppia eterosessuale per quanto riguarda l’esigenza di riconoscimento giuridico e di tutela della loro relazione.” La Corte osserva che i ricorrenti, non potendosi sposare, non hanno potuto avere accesso a uno specifico quadro giuridico (quale quello relativo alle unioni civili o alle unioni registrate) in grado di permettere il riconoscimento del loro status e garantire loro alcuni diritti relativi a una coppia che ha una relazione stabile.

Nel caso esaminato, infatti, emerge una grave lacuna normativa interna, che fa regredire lo Stato italiano in termini di evoluzione e protezione dei diritti, al cospetto della platea internazionale, per cui la violazione della democraticità risulta essere ancora più grave rispetto alla scelta del tipo “giusto” riconosciuto a fronte della tutela di tali unioni. A fronte del vuoto legislativo e normativo dell’ordinamento italiano, in relazione allo spazio relazioni sociali e/o familiare di persone con medesimo sesso, altri Stati come l’Inghilterra o l’Austria hanno provveduto al riconoscimento di un tipo giuridico idoneo alla tutela degli stessi, mentre altri Stati come la California e la Spagna riconoscono alle coppie dello stesso sesso il diritto al matrimonio. E ancora la Corte EDU sul punto: “…nel contesto giuridico interno l’attuale status dei ricorrenti può essere considerato semplicemente ‘un’unione di fatto’, che può essere disciplinata mediante alcuni accordi contrattuali privati di portata limitata. Per quanto riguarda i contratti di convivenza, la Corte osserva che tali accordi privati non provvedono ad alcune esigenze che sono fondamentali, ai fini della regolamentazione del rapporto di una coppia che ha una relazione stabile, quali, inter alia, i reciproci diritti e obblighi, compresa la reciproca assistenza morale e materiale, gli obblighi di mantenimento e i diritti successori. “Il fatto che tali contratti non siano finalizzati al riconoscimento e alla tutela della coppia, è ovvio perché essi sono accessibili a chiunque conviva, indipendentemente dall’essere una coppia che ha una relazione stabile”. Nella precisazione dell’inadeguatezza del sistema normativo interno, la Corte EDU esplicita la non coerenza del tipo convivenza di fatto, con la natura e la sostanza del rapporto che viene ad instaurarsi tra persone dello stesso sesso che esprimono la volontà di vivere insieme, non per il semplice fatto di convivere, ma sulla comunione di intenti rivolta ad un cuore pulsante di desideri, bisogni e necessità propri di chi vuole creare una famiglia. Una situazione interna che è destinata al collasso, perché riduce fortemente la tutela dei diritti e dei doveri reciproci di tali formazioni sociali, subordinando la stessa a continui ed estenuanti corse ai tribunali; Sul punto la Corte: “… la necessità di ricorrere ripetutamente ai tribunali interni per sollecitare parità di trattamento in relazione a ciascuno dei molteplici aspetti che riguardano i diritti e i doveri di una coppia, specialmente in un sistema giudiziario oberato come quello italiano, costituisca già un ostacolo non irrilevante agli sforzi dei ricorrenti volti a ottenere il rispetto della propria vita privata e familiare. Ciò è ulteriormente aggravato dallo stato di incertezza. Ne consegue che la tutela attualmente disponibile non solo è carente nel contenuto, nella misura in cui non provvede alle esigenze fondamentali di una coppia che ha una relazione stabile, ma non è neanche sufficientemente certa – dipende dalla convivenza, nonché dall’atteggiamento dei giudici (o a volte degli organi amministrativi) nel contesto di un paese che non è vincolato dal sistema del precedente giudiziario”. Ma al di là dei tecnicismi giuridici e degli errori formali di sistema e dei relativi vuoti legislativi, l’espressione della Corte EDU che fa breccia nel cuore del problema principale dell’ordinamento giuridico italiano è la seguente: “La Corte osserva che, dall’esame del contesto interno, emerge l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti che prevalentemente vivono in Italia la loro relazione apertamente e la legislazione che non fornisce loro alcun riconoscimento ufficiale sul territorio”. Secondo la Corte “l’obbligo di prevedere il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, consentendo in tal modo alla legge di rispecchiare le realtà delle situazioni dei ricorrenti, non comporterebbe alcun particolare onere per lo Stato italiano di tipo legislativo, amministrativo o di altro tipo. Inoltre, tale legislazione risponderebbe a un’importante esigenza sociale”.

Il vero problema della normativa italiana, in merito, è proprio la distanza tra il legislatore e quella parte di società che si ritrova ad avere “il problema” e di conseguenza la mancanza di dialogo, di informazione, di coinvolgimento sociale, di crescita, di evoluzione sistematica ad accompagnare l’evoluzione sociale, la riluttante indifferenza degli apparati Statali nei confronti del “principio costitutivo”, la sovranità popolare. Quando si discute sul tipo di scelta giuridica che possa garantire nel modo migliore l’equilibrio dei diritti e delle libertà Costituzionali, a fronte di un piano giuridico che predispone una diversità di mezzi e soluzioni, il sistema esprime una certa capacità di adattamento alle condizioni sociali-culturali e politiche emergenti in un certo lasso di tempo storico, proseguendo in modo corretto, in termini di giustizia, nel percorso dei diritti evolutivi (situazioni esistenziali) tracciato dalla Costituzione. Quando, invece, emergono “buchi normativi” causati dal collasso dei principi che si riversa nei diritti, il sistema si dimostra inadeguato, incapace di assolvere alle sue principali funzioni ed esprime la fallacia di chi ne tiene le redini, il legislatore, palesando un grave gap interno, che coinvolge la società intera, per mezzo dell’oblio di una parte di essa. Un tale vuoto normativo, prima di rappresentare una violazione, (in questo caso della vita privata e familiare ex articolo 8), di uno o più principi della CEDU, rappresenta un attacco all’evoluzione sociale e quindi all’uomo in quanto tale e di riflesso, alla Costituzione. A sua difesa, lo Stato (inteso qui, come apparato e quindi il legislatore) adduce l’esistenza del margine di apprezzamento che gli consentirebbe di agire con una certa discrezionalità;

Sul punto la Corte EDU: “la Corte osserva che, sebbene l’oggetto della presente causa può essere connesso a delicate questioni morali o etiche, che permettono un maggiore margine di discrezionalità in assenza di accordo tra gli Stati membri, il caso di specie non riguarda alcuni specifici diritti “supplementari” (in contrapposizione ai diritti fondamentali) che possono o non possono sorgere da tale unione e che possono essere oggetto di una feroce controversia alla luce della loro dimensione sensibile”. Con tali parole, la Corte non solo chiarisce il fine principale del ricorso allo strumento del margine di apprezzamento, (livellare ed equilibrare le libertà interne), ma allo stesso tempo chiarisce che la materia in questione non può e non deve essere causa di conflitti interni, per assenza naturale di possibili contrasti di principio. In parole spicciole, è come se la Corte EDU dicesse al legislatore italiano: guarda che ti stai preoccupando inutilmente, la società di cui devi farti portavoce, ti sta dimostrando che è evoluta e che sa convivere con le sue differenze e che quindi necessita dell’unica cosa più ovvia e più facile in uno Stato democratico, ossia la giustizia. Ma il legislatore italiano, non solo ha ignorato quanto stesse avvenendo nel panorama europeo ed internazionale, ormai da diversi anni e mai come prima in  maniera così aperta ed esplicita (legislazioni positive nei confronti delle unioni omosessuali) ha proseguito nella sua ceci-sordità anche a livello interno, ignorando la sostanza della realtà sociale (parte della società che si trova nella condizione di essere omosessuale) e la sostanza delle pronunce dei principali giudici interni, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione.

Sul punto la Corte: “La Corte ritiene dunque che nel caso di specie il legislatore, intenzionalmente o per mancanza della necessaria determinazione, abbia disatteso le ripetute esortazioni dei supremi tribunali italiani, e che questa ripetuta inosservanza da parte del legislatore delle pronunce della Corte costituzionale, o delle raccomandazioni in esse contenute relative alla coerenza con la Costituzione per un significativo periodo di tempo, indebolisca potenzialmente le responsabilità della magistratura e nel caso di specie abbia lasciato gli interessati in una situazione di incertezza giuridica di cui si deve tener conto”. Ed infine la Corte conclude: “In conclusione non avendo il Governo italiano dedotto un interesse collettivo prevalente (ordine pubblico) in rapporto al quale bilanciare gli interessi dei ricorrenti e alla luce del fatto che le conclusioni dei tribunali interni in materia sono rimaste lettera morta, la Corte conclude che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali. Conseguentemente vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione”.

Da questo ultimo passaggio si deve riflettere su un punto determinato: mancanza di interesse collettivo da dedurre contro gli interessi dei ricorrenti. Quest’ultima, sembra una formula giuridica che non ha niente di diverso rispetto a tante altre formule in problematiche giurisprudenziali simili, ma così non è. La Corte ci ribadisce che, sebbene sulla materia vi sia dissenso in ambito europeo-internazionale, il margine di apprezzamento non è poi così ampio da permettere al legislatore italiano di continuare ad ignorare la fallacia del sistema interno, ma non solo. La mancanza di un interesse collettivo da contrapporre (quindi un interesse che abbia la stessa portata di valore che possa collidere con altri interessi dello stesso livello) agli interessi dei ricorrenti, è segnale di una presa di posizione del legislatore di fronte a tale problematica, una posizione “politica” che non è in grado di lottare perché priva di “armi giuridiche”, una posizione vuota di diritti che riflette il vuoto normativo del sistema. A ragione delle nozioni apprese in questo percorso fino a questo momento, cosa può muovere un simile intento del legislatore? Le risposte prospettabili sono poche se non una soltanto, l’ordine pubblico. Il governo persegue la credenza che riconoscere tale spaccato di società possa comportare disordini sociali interni ed attacchi all’etica del governo stesso. Dal momento che una questione etica di tale portata diviene perciò stesso, una questione politica di un certo peso, trovare l’equilibrio giuridico tra le diverse fazioni politiche risulta, non solo altamente problematico, ma sul punto del tutto impossibile. Quando la politica si distacca dai diritti, ogni scelta sembra un azzardo per l’ordine politico-sociale (ordine pubblico) e allora tanto vale fingersi sordo-cieco e rimandare. Ma le esortazioni che il giudice internazionale, con la definizione del caso Oliari, muove al nostro legislatore sono più esplicite che mai.

A distanza di 5 anni dalla prima pronuncia sulla questione, caso Schalk e Kopf, infatti la Corte EDU non solo ribadisce quanto in essa aveva espresso, ma scende nel cuore del problema, scandagliando la fallacia del sistema normativo italiano e concludendo con una decisione che ha tutte le caratteristiche di un decreto ingiuntivo.

  1. Le Unioni Civili

La decisione della Corte EDU e le conseguenze da esse prodotte sul piano politico e sociale, l’evoluzione propositiva di alcune delle più influenti legislazioni nazionali europee ed extraeuropee ed alcune pronunce interne che cambiano il risultato generalmente condiviso dalla giurisprudenza interna (non trascrizione), concorrono per un primo ed importante step, la creazione e la promulgazione della legge 76/2016, recante la normazione delle Unioni civili e delle convivenze di fatto. Come si è avuto modo di apprendere, il contesto giuridico-normativo in cui venne promulgata la su detta legge, era abbastanza sterile, se non del tutto assente. Per quanto riguarda la normazione delle unioni caratterizzate da coppie same-sex, queste venivano relegate a semplici unioni di fatto, (inutili furono i tentativi di definire in legge, le proposte legislative avanzate in precedenza, rivolte a dare tutela giuridica a tali tipi di unione, sulla scia della normazione francese, che aveva istituito i “Pacs[xix]”, perché non ritenute omogenee al tipo famiglia, anche se degne di poter chiedere tutela in condizioni specifiche, mentre nei confronti dei rapporti connotati da elementi di estraneità e quindi implicanti la richiesta di trascrizione dell’atto matrimoniale costituito all’estero, al fine di poter ottenere il riconoscimento dello status acquisito, la disciplina era ancora più rigida e sterile. Da un primo orientamento, che classificava inesistente tale tipologie di atti, si è giunti a considerare i medesimi, inidonei alla produzione di qualsia effetto, che se bene cambia il volto della negazione rendendola consona al rispetto della persona e del rapporto, non muta i parametri legali che fungono da base per non procedere alla trascrizione, la mancanza della configurazione del tipo legale inerente al rapporto, l’attaccamento al binomio articolo 29 della Costituzione ed eterosessualità come requisito per contrarre il matrimonio e di conseguenza la contrarietà all’ordine pubblico. Restando fedele all’attaccamento tradizionalista del connubio matrimonio-famiglia eterosessuale, il legislatore adotta un tipo legale apposito per tali coppie, l’unione civile[xx].

Con la legge 76/2016, il legislatore qualifica le coppie same-sex come Unione civile, traendo la ratio giuridica legittimante il tipo, dall’articolo 2 Costituzione, che si occupa di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, sia come singolo e sia come formazione sociale, restando perfettamente coerente con quanto espresso dalla Corte Costituzionale nel rinomata sentenza n.138/2010, nella quale esortava il legislatore ad intervenire per tutelare tali rapporti in quanto posti in essere da formazioni sociali. L’intento del legislatore è quello di tutelare tali coppie, fornendo loro una disciplina normativa vicina a quella prevista per la famiglia tradizionale, ma allo stesso tempo, inevitabilmente, molto lontana nella sostanza. Nel testo della legge, non vi è possibilità di estendere il matrimonio e tutti i suoi effetti a tali coppie, fatta eccezione per quelli specificatamente disposti e per quelli ufficialmente richiamati dalla legge (ex articolo 1 comma 20, clausola di equivalenza). In tal modo, l’unione civile diviene un tipo legale, non al pari del matrimonio, ma semplicemente diverso e adatto per il tipo di formazione a cui si riferisce. Di conseguenza, per tali coppie non è possibile parlare di genitorialità familiare e neanche di adozione familiare ma, la rigidità e la chiusura dell’impianto normativo posto in essere, raggiunge il culmine, con la regolazione degli effetti dei matrimoni same-sex costituiti all’estero. Infatti, a seguito della su detta legge, la ratio giuridica su cui fondare il rifiuto di trascrizione divenne ancora più solida, data la riconduzione al tipo legale costituito. Tale generale impostazione, però, non trovò piena condivisione, in quanto sono diversi i punti di contrasto, primo tra tutti la regolamentazione dei rapporti esterni, con il principio di non discriminazione. Il legislatore, a norma dell’art.1, comma 28, lett. b) della legge n. 76/2016, ha delegato il Governo ad adottare le norme necessarie per la “modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato”. In attuazione della delega, il Governo ha provveduto, attraverso lo schema del decreto legislativo, D.lgs. n. 7/2017, al riordino delle norme di diritto internazionale privato in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso, modificando la precedente L. 218 del 1995. L’art. 32 bis ora sancisce che «Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». L’art. 32 quinquies stabilisce che «l’unione civile, o altro istituto analogo, costituiti all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». Sulla base di queste disposizioni normative, vi è la conversione automatica dell’atto matrimoniale in unione civile, per tutte le coppie formate da persone dello stesso sesso e aventi entrambi o una parte soltanto la cittadinanza italiana (requisito dello stretto collegamento con lo Stato). Restano al di fuori della conversione, tutte le coppie formate da persone dello stesso sesso, ma entrambi stranieri, diversamente da quanto disposto dall’originaria formulazione dell’art. 32-bis, la quale prevedeva che il matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso dovesse produrre gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana, senza che quindi avesse alcuna rilevanza la cittadinanza, italiana o straniera, delle parti. È del tutto evidente, che promulgare una simile disposizione avrebbe comportato non pochi problemi di interpretazione e legittimazione. La questione legata al range applicativo della disciplina sulla conversione del matrimonio in unione civile è stata chiarita in maniera esaustiva, successivamente dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 14/05/2018, n.11696. Nell’affermare l’applicabilità dell’art. 32-bis l. 218/1995 anche ai matrimoni contratti all’estero da un cittadino italiano e da uno straniero — e non solo a quelli stipulati da due cittadini italiani — ha risolto i dubbi interpretativi sorti in ordine alla portata applicativa soggettiva della predetta norma e ha chiarito, al contempo, che il regime di conversione in unione civile, invece, non interessa i matrimoni omosessuali costituiti all’estero da cittadini entrambi stranieri, i quali devono essere trascritti in Italia come tali, dato il carattere intrinsecamente transazionale di detto rapporto matrimoniale e il fatto che in tale ipotesi non può ravvisarsi alcun intento di aggiramento della l. 76/2016[xxi]. Sulla ratio iuris che ha determinato la conclusione della Corte di Cassazione, la stessa dichiara: «se l’art. 32 bis non si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti” […] si determinerebbe una discriminazione cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno contratto matrimonio all’estero e possono “trasportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro ordinamento e quelli che hanno contratto un’unione civile in adesione al modello legislativo applicabile nel nostro ordinamento». Fondamentalmente, il legislatore adotta in tale caso materiale-normativo, rapporti familiari-matrimonio-unioni civili, la tecnica dell’applicazione della norma necessaria. Ogni volta che vi sia un collegamento diretto o rilevante con lo Stato italiano, nel caso concreto Stato di destinazione, è necessario ricorrere all’applicazione della norma di quello Stato. Il criterio della cittadinanza, nei rapporti internazionali-privatistici inerenti a tale sostrato normativo, pone la base giuridica per procedere alla diversificazione del trattamento normativo ed applicare la normativa interna ai rapporti che presentano elementi di collegamento giuridicamente significante ed invece, dare spazio applicativo alla norma straniera per tutti quei rapporti che non presentano le caratteristiche poc’anzi dette. Sostanzialmente, la Corte di Cassazione ribadisce che l’unico limite da non prevaricare resta quello dell’ordine pubblico, che nel caso concreto si traduce nel rispetto della legge (legge 76/2016- legge 218/1995)[xxii], ma tale principio interno non può trovare effetto, nei confronti di tutti quei rapporti estranei all’ordinamento statale, perché quest’ultimi devono essere vagliati sulla base del rispetto del principio di ordine pubblico internazionale, il quale riflette la tutela dei diritti fondamentali. All’indomani della pubblicazione della legge sulle unioni civili, giungono per l’Italia altre due condanne consecutive per violazione dell’articolo 8 CEDU, casi Taddeucci e McCall[xxiii] e Orlandi e a. c. Italia[xxiv]. Il primo caso, riguarda il diniego delle autorità interne di rilasciare un permesso di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare, il quale è stato confermato dalla Corte di Cassazione sulla base di diverse conclusioni quali, il disposto dell’articolo 29 del Dlgs 286 del 1998, che specifica: “membro della famiglia” comprende solo il coniuge, i figli minori, figli adulti che non sono autonomi per motivi di salute e genitori a carico che non hanno un adeguato sostegno nel Paese”, escludendo quindi ogni estensione della nozione di coniuge, per legge interna non attribuibile ai ricorrenti, l’impianto normativo interno dedicato ai rapporti familiari, il margine d’apprezzamento ampio in materia che si traduce nella libertà di scelta in merito a tale tematica, confermata dalla Corte EDU, la considerazione della non applicazione della direttiva UE 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari all’interno del territorio dei paesi membri diversi da quello d’origine, con la motivazione che non vi fu circolazione. A seguito del ricorso presentato alla Corte Edu, la stessa ha condannato il 30 Giugno 2016 l’Italia per violazione dell’articolo 8, presentando le stesse motivazioni addotte nella prima condanna in materia a seguito della sentenza sul caso Oliari. Sulla stessa scia, converge la decisione sul caso Orlandi, con sentenza del 14 dicembre 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo, accerta, con una maggioranza di cinque contro due, che l’Italia ha violato il diritto alla vita privata e familiare di undici cittadini italiani ed uno canadese (sei coppie di coniugi dello stesso sesso) negando reiteratamente la trascrizione di matrimoni celebrati all’estero, sulla base dei fatti prospettati all’epoca dei ricorsi. Sul rispetto del principio di ordine pubblico, a fondamento dell’ordinamento interno, in tutti quei casi in cui si dibatte sulla tutela di diritti fondamentali connaturati a rapporti familiari, si è pronunciata di recente, la Corte di Giustizia nel noto caso Coman[xxv]. La vicenda riguardava il sig. Coman, di cittadinanza rumena, e il sig. Hamilton, cittadino americano, che dopo essersi sposati a Bruxelles, nel dicembre 2012, hanno chiesto alle autorità rumene (la Romania è lo Stato in cui è cittadino il sig. Coman ed il luogo dove i coniugi avevano intenzione di stabilirsi) le informazioni inerenti alla procedura per l’ottenimento del permesso di soggiorno per un termine superiore a tre mesi, una richiesta avallata, in quanto essendo coniugi, il sig. Hamilton è familiare del sig. Coman, così come previsto dalla direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione, la quale permette al coniuge di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato tale libertà (circolazione) di raggiungere quest’ultimo nello Stato membro in cui soggiorna. Solo con il ricongiungimento, infatti, è possibile garantire la tutela del diritto fondamentale a vivere la vita familiare. Contravvenendo al dettato della direttiva, le autorità rumene hanno negato la richiesta del sig. Coman e del sig. Hamilton, concedendo a quest’ultimo soltanto il diritto di soggiorno per tre mesi, con la motivazione che egli non potesse assumere la qualifica giuridica di coniuge, in quanto in Romania i matrimoni tra persone dello stesso non vengono riconosciuti. A fronte di tale provvedimento e delle ragioni ad esso annesse, il sig. Coman e il sig. Hamilton hanno quindi proposto ricorso ai giudici rumeni, al fine di far dichiarare l’esistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in ordine all’esercizio del diritto di libera circolazione nell’Unione. In tale occasione, la Corte ha modo di stabilire in maniera chiara e precisa la nozione di coniuge, se bene tale nozione, sia già presente nel testo della direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione, 2004/28/CE, secondo la quale la nozione di «coniuge» viene presentata sconnessa da qualsiasi riferimento al sesso, è proprio a causa della mancanza di una precisazione sul punto che la Corte giunge a tale definizione, non solo per risolvere il caso in questione, ma per risolvere ogni dubbio. Nel novero dei diritti riconosciuti ai cittadini europei ex art. 21 § 1 TFUE, è presente anche il diritto di condurre una normale vita familiare, sia nello Stato membro ospitante (quello di cui non si ha la cittadinanza) sia in quello di origine, è conseguenza logica-fattuale che affinché questo diritto sia effettivamente goduto, occorre che sia garantita la presenza dei familiari, protagonisti insieme al soggetto della vita familiare. È necessario procedere quindi alla determinazione di cosa si intende per coniuge. Secondo la Corte, con il termine coniuge si intende una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale e la stessa è neutra dal punto di vista del genere, così da poter comprendere anche il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione. Sempre in codesta sentenza, la Corte ha ribadito che il diritto alla libera circolazione delle persone può essere sì oggetto di restrizioni/limitazioni che non necessariamente dipendono dalla cittadinanza delle persone interessate, ma solo quando tali restrizioni/limitazioni, siano basate su motivi oggettivi, di interesse generale e siano proporzionate al raggiungimento dello scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale. La normativa nazionale “idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone” (par. 47) può essere giustificata “solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea], di cui la Corte garantisce il rispetto”. Per tale motivo, il principio di ordine pubblico, nel caso di specie, invocato come giustificazione per limitare il diritto di libera circolazione, dev’essere inteso in senso restrittivo e la sua portata non può essere determinata in maniera discrezionale da ciascuno Stato membro, senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. La Corte aggiunge che il rispetto dell’obbligo per uno Stato membro di riconoscere, in questo caso al solo fine della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato non-UE da un matrimonio omosessuale, non pregiudica l’ordinamento dello Stato che lo esegue, infatti garantire il diritto di soggiorno o la libera circolazione non si traduce nell’obbligo di prevedere la specie del matrimonio omosessuale, ne è capace di ledere l’identità nazionale o di minacciare l’ordine pubblico dello Stato membro interessato. La Corte, nel suo ragionamento, si avvicina alla soluzione in maniera graduale: in primo luogo, ricorda che Coman gode dello status di cittadino dell’Unione Europea e che le libertà che discendono da questa situazione soggettiva, inclusa la libertà di circolazione e di soggiorno all’interno di uno Stato membro diverso da quello di origine, sono esercitabili anche nei confronti dello stesso Stato di origine. Nel novero dei diritti riconosciuti ai cittadini europei ex art. 21 § 1 TFUE, è presente anche il diritto di condurre una normale vita familiare, sia nello Stato membro ospitante (quello di cui non si ha la cittadinanza), sia in quello di origine: è ovvio che, affinché questo diritto sia effettivamente goduto, occorra che sia garantita la presenza dei familiari, protagonisti insieme al soggetto della vita familiare. La direttiva del 2004 menziona, espressamente, nell’elenco dei familiari anche il coniuge.

Ma è coniuge anche una persona dello stesso sesso? Sul punto, la Corte afferma che la nozione di coniuge è neutra dal punto di vista del genere e può comprendere, dunque, il coniuge dello stesso sesso del cittadino dell’Unione interessato. Per queste ragioni, uno Stato membro non può porre alla base del diniego del diritto di soggiorno la propria normativa nazionale, indipendentemente dal fatto che questa impedisca la celebrazione o anche il solo riconoscimento del matrimonio omosessuale. Alla luce di tale pronuncia, sebbene la Corte di Giustizia non affronti direttamente il tema della qualificazione giuridica dell’unione tra coppie omosessuali, restando coerente con la generale accettazione sul riservo di competenza agli Stati, in quanto materia di diritto familiare, concernente gli status, pone una netta linea di demarcazione, tra appunto il potere discrezionale proprio degli Stati e la tutela dei diritti fondamentali in generale e dei principi-fini propri dell’Unione.

  1. Conclusione

La normativa Statale, come si è avuto modo di apprendere, non è isolata, al contrario è in continua fermentazione, di concerto con la normativa europea e internazionale. Questo triplice meccanismo normativo, si basa sul rispetto reciproco, mantenuto in equilibrio sul piano delle competenze e sulla comune direzione verso la tutela dei diritti fondamentali, i quali sono in continua evoluzione e pretendono rispetto in ogni circostanza, una garanzia di supremazia che si sostanzia nel principio del bilanciamento. Sul versante giuridico fattuale, invece, quella dei diritti fondamentali, si pone come una battaglia senza fine, essendo per natura mutevoli, necessitano di un continuo adeguamento normativo, che sia in grado di garantirne la tutela. A tal proposito, si è appena esaminato, l’excursus storico-giuridico che ha caratterizzato la normazione statale ed europea/internazionale, riguardante la protezione di una particolare categoria di persone, quelle che sono predisposte ad un orientamento sessuale nei confronti del proprio sesso biologico, in relazione al fatto, cioè il rapporto di coppia e l’atto, la legittimazione del rapporto sul piano normativo al fine di stabilire e garantire diritti e doveri scaturiti da quest’ultimo. Tale legittimazione è avvenuta lentamente e con moderazione, nel caso dell’Italia, si è giunti, dopo un percorso tortuoso e quasi obbligato, alla pubblicazione della legge sulle Unioni civili, la quale qualifica tali coppie come formazioni sociali che trovano fondamento giuridico nel combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione. L’articolo 29 della Costituzione, infatti, concerne la disciplina delle famiglie fondate sul matrimonio e sebbene non vi sia alcun divieto di estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, tuttavia, quest’ultimo emergerebbe dall’insieme delle norme sul diritto di famiglia e dalla tradizione cultura e storica che caratterizza il nostro ordinamento, tanto da assurgere a principio di ordine pubblico. Proprio al principio di ordine pubblico, la giurisprudenza si riferiva nei casi implicanti le norme del diritto internazionale, sulla richiesta di trascrizione dei matrimoni costituiti all’estero, da persone dello stesso sesso. L’ordine pubblico, in tali casi, esercitava il ruolo di limite invalicabile, per tutti quei rapporti/atti non previsti nel nostro ordinamento e contrari al senso giuridico interno, tale era per disposizione normativa, il solo principio da rispettare al fine della produzione degli effetti nel nostro ordinamento giuridico, ex articolo 18 D.P.R n.396/2000. Con l’introduzione della legge 76/2016 si qualifica giuridicamente il tipo legale, Unione civile ed attraverso questa predisposizione normativa, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale europea ed internazionale, che sigilla per le coppie omosessuali, la natura di diritto fondamentale a vivere una vita di tipo familiare, il principio di ordine pubblico subisce una mutazione di significato applicativo, che si sostanzia in una degradazione di efficacia, non risultando più idoneo a regolare i rapporti esterni. Quando, infatti, la nostra normativa entra in rapporto ad istituti stranieri, ci si riferisce al concetto di ordine pubblico internazionale, il quale, richiama solo il rispetto dei diritti fondamentali, nell’intento di garantire coerenza normativa ed applicazione egualitaria. Ma la ridefinizione del concetto di ordine pubblico a tutela dei diritti fondamentali non pone un punto di arrivo, anzi, al contrario determina una serie di contraddizioni e problemi di interpretazione, tra quanti, nella giurisprudenza e nella dottrina, propendono per una nozione restrittiva e più statalista e quanti invece tendono all’internalizzazione del concetto, basandosi sulla necessità di aderire alla tutela tout court dei diritti fondamentali. Inoltre, a scatenare opposte interpretazioni, è l’evoluzione stessa dei diritti fondamentali. Nel contesto storico-giuridico attuale, accompagnato dal progresso scientifico e sociale, il terreno dei diritti fondamentali è sempre più fertile e produttivo di nuove situazioni giuridiche che necessitano di inquadramento giuridico e di relativa tutela. Dalla tipizzazione delle relazioni omo-affettive, infatti, discendono ulteriori situazioni giuridiche, le quali creano non pochi problemi di interpretazione.

[i]     Sulla preferenza per la famiglia fondata sul matrimonio, Manetti M., Famiglia e costituzione: le nuove sfide del pluralismo delle morali, in Rivista AIC, 2010, fasc.;

  1. Mondello, La famiglia fondata sul matrimonio e le famiglie, in Reciprocità e alterità. La genesi del legame sociale, Quaderno, 2010

[ii]    Appunti di diritto ecclesiastico, Il matrimonio tra diritto civile e diritto canonico, “Con la diffusione del Cristianesimo a partire dall’anno Mille (Medioevo), l’istituto del matrimonio assunse una notevole importanza per la chiesa cattolica che ne affermò la sua esclusiva competenza, stabilendone i requisiti necessari e gli obblighi derivanti dallo stesso. L’autorità ecclesiastica aveva il compito di risolvere ogni tipo di controversia, relegando all’autorità civile le sole controversie patrimoniali. Con l’età moderna, l’autorità esclusiva della chiesa sull’istituto matrimoniale cominciò ad indebolirsi con l’emanazione di provvedimenti opposti alle disposizioni canoniche, come per esempio l’introduzione del divieto al matrimonio per i minorenni. Tale declino ebbe il suo culmine con la Rivoluzione francese nel 1789 e la costituzione successiva nel 1791 segna una netta separazione tra rito civile e religioso, definendo il rito civile l’unico in grado di essere riconosciuto dallo Stato per tutti i cittadini e che ne regolamentava ogni aspetto, tollerando la libertà di contrarre il matrimonio anche con il rito religioso. Nello Stato italiano, il matrimonio civile è stato introdotto con il codice civile del 1865, a seguito dell’Unità d’Italia, confermando la separazione tra sfera civile e canonica, assegnando rilevanza giuridica al solo matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile. La conseguenza di tale impostazione è la celebrazione dei due riti, mantenuta tutt’ora, anche con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948”;

Fattori G., Enciclopedia Treccani, L’evoluzione del matrimonio civile, 2018: “Il matrimonio civile viene introdotto in Italia nel 1865 con il primo Codice dello Stato postunitario. Nato come istituzione deliberatamente laica, il matrimonio-contratto civile si presenta alternativo e competitivo rispetto al matrimonio-sacramento della tradizione teologico/giuridica della Chiesa cattolica. Benché privo di connotazioni religiose, l’istituto assume e mantiene a lungo la struttura del matrimonio canonico: è indissolubile, monogamico, eterosessuale. Nel tempo il matrimonio civile recupererà anche una dimensione/finalità etica come «comunione materiale e spirituale» tra coniugi… In seguito alla svolta costituzionale del 1948, il progresso dell’ordinamento italiano ha condotto il modello matrimoniale del diritto civile sempre più lontano dal modello matrimoniale del diritto canonico. Negli anni Settanta del Novecento il matrimonio civile abbandona il dogma dell’indissolubilità, retaggio della concezione sacramentale del vincolo coniugale (l. n. 898/1970 e l. 19.5.1975, n. 151). Venuta meno l’indissolubilità matrimoniale, con le riforme del divorzio ‘facile’ (l. 10.11.2014, n. 162) e ‘breve’ (l. 6.5.2015, n. 55) sembra attenuarsi anche il principio della stabilità della relazione coniugale. Nel 2016 il riconoscimento delle unioni civili omosessuali e delle convivenze supera l’eterosessualità come paradigma delle relazioni affettive giuridicamente riconosciute e sancisce la crisi del matrimonio stesso come modello esclusivo della coniugalità (l. 20.5.2016, n. 76)”;

  1. Sciarra, Il matrimonio nell’Ottocento italiano fra potere civile e potere ecclesiastico, Historia et ius,2016. “L’autore svolge un excursus comparativo normativo sul matrimonio civile e cattolico tra i diversi regni presenti in Italia, all’indomani della fine della dominazione francese, facendone emergere le differenze culturali e le contrapposte visioni: il Regno delle Due Sicilie (1816-1861) fu il primo degli stati della penisola italiana nel periodo della Restaurazione a darsi una codificazione civile, Il Codice per il Regno delle Due Sicilie. Quest’ultimo codice introdusse un sistema misto in cui il matrimonio, celebrato secondo le formalità prescritte del diritto canonico, era produttivo di effetti civili solamente in seguito ad alcuni adempimenti civili, sia precedenti che susseguenti la celebrazione del rito cattolico. In particolare, all’articolo 67 era previsto che: Il matrimonio nel regno delle Due Sicilie non si può legittimamente celebrare che in faccia della Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento. Gli atti dello stato civile sono essenzialmente necessari, e preceder debbono la celebrazione del matrimonio, perché il matrimonio produca gli effetti civili, tanto riguardo a’conjugi che a’ di loro figli… Il Codice civile piemontese del 1837, introdotto in Sardegna solamente nel 1848, in tema di matrimonio si caratterizzava per il suo stampo confessionale in cui gli effetti civili, che il legislatore piemontese si limitava a regolare, derivavano dal matrimonio religioso per i cattolici. Secondo l’art. 108 infatti: Il matrimonio si celebra giusta le regole, e con le solennità prescritte dalla Chiesa Cattolica, salvò ciò che è in appresso stabilito riguardo ai non cattolici ed agli ebrei”.  All’ultimo comma dell’articolo 29 viene specificato che il matrimonio (cioè, l’atto costitutivo), deve rispettare i limiti stabiliti dalla legge (che si presumono essere gli articoli 84-87, 107, 143-143bisc.c.) al fine di garantire l’unità familiare. Se svolgiamo l’analisi letterale del dispositivo costituzionale, tali limiti si rinvengono nel rispetto dei requisiti per contrarre il matrimonio. I nubendi devono avere la maggiore età (18 anni, riducibile in casi particolari a 16 anni mediante decreto del Tribunale per i minori), tale limite è garantista della consapevolezza della scelta da intraprendere, che sebbene opinabile nel numero (età) è giustificabile nell’intento finalistico, dare una certa importanza all’istituto familiare; devono essere in grado di intendere e volere, per lo stesso motivo precedente: la capacità consapevole della scelta da effettuare; non devono aver contratto un precedente matrimonio che sia, al tempo della celebrazione dello stesso, ancora perdurante, di derivazione culturale, tale limite consolida la monogamia giuridica, è ammesso un solo matrimonio giuridicamente valido; non devono avere tra loro determinati vincoli parentali (parentela in linea collaterale di terzo grado e affinità in linea collaterale in secondo grado), il vincolo del sangue e del legame parentale che trae le sue giustificazioni giuridiche nella scienza, onde evitare la trasmissione di diverse malattie genetiche alla prole e nel senso morale della tipologia dei rapporti (parentela stretta); non devono aver riportato una condanna per il reato di omicidio, consumato o tentato, ai danni del precedente coniuge dell’altro nubendo, limite connaturato al senso umano, morale e civico del singolo nei confronti dell’altro ricondotto a tipologie di reati che esprimono una certa gravità dell’offesa e una possibile pericolosità sociale dell’individuo. Inoltre, il consenso di entrambe le parti è un requisito primario per poter contrarre validamente il matrimonio, la distinzione tra scelta ed imposizione risiede proprio nella manifestazione della volontà di entrambi i coniugi che per essere coerente al senso giuridico, posto alla base dell’istituto matrimoniale, deve risultare libero, consapevole e reciproco. Nulla dispone il codice civile in merito al requisito del sesso, fatta eccezione per qualche sporadico riferimento ai termini marito-moglie. Questo non deve farci cadere in un errore di valutazione. Ciò che è espresso e ciò che non lo è, dipende in ogni caso dal grado di accettazione culturale e sociale del tempo. Nell’interpretazione diretta delle norme del codice civile ed in specifico di quelle dedicate alla famiglia e al matrimonio si deve tenere in considerazione lo spazio storico-culturale e sociale in cui quest’ultime sono state prodotte e promulgate. L’esclusione di ogni riferimento al sesso in termini di requisiti per accedere al matrimonio, è giustificabile nel senso di una non necessità di scrittura, perché la diversità di sesso dei coniugi è un principio etico diffuso nella tradizione dello Stato italiano. I riferimenti ai termini distintivi marito e moglie insiti nelle norme civilistiche relative ai rapporti familiari, come ad esempio avviene all’articolo 143 c.c. sui diritti e doveri reciproci dei coniugi: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” non hanno l’intento di rimarcare il sesso diverso dei coniugi come elemento costitutivo del matrimonio, ma è rivolto a sottolineare e a conclamare la parità dei coniugi nei rapporti familiari e quindi a solennizzare l’uguaglianza della moglie al marito nei diritti e nei doveri del matrimonio sganciando una bomba di valore sull’impostazione patriarcale familiare, che vedeva il marito il dominus della famiglia (capo-famiglia) in un ruolo di comando e sovraordinato alla moglie ed ai figli. Tale impostazione è suffragata dal terzo comma dell’articolo 143: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” dove il legislatore si esprime nella conduzione sostanziale dei rapporti patrimoniali sottolineando la contribuzione della moglie al sostentamento della famiglia, quasi a segnarne l’importanza del ruolo e l’indipendenza acquisita, gli articoli seguenti, 143 bis sul cognome: “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze” (In aderenza al principio di parità tra marito e moglie, è consentito alla donna limitatamente ai rapporti professionali – derogare a tale impostazione), e 143 ter sulla cittadinanza: “La moglie conserva la cittadinanza italiana, salvo sua  espressa rinunzia, anche se per effetto del matrimonio o del mutamento di cittadinanza da parte del marito assume una cittadinanza straniera”, confermano tale assunto. Ragionare giuridicamente vuol dire ragionare in maniera giusta. La giustificazione giuridica dell’illegalità del mancato riconoscimento del matrimonio alle coppie dello stesso sesso non può farsi derivare dall’assenza di un divieto normativo e imperativo esposto nel codice civile o nella Costituzione, ma deve ricercarsi altrove, seguendo un altro senso. Ancora una volta si tratta di verificare se vi è giustizia nel bilanciamento degli interessi alla luce dei fini costituzionali e tale ragionamento è rivolto oltre che alle norme, ai principi e all’esperienza. La Costituzione è evolutiva e non tradizionalista, l’ordine pubblico è tradizionalista, perché pur nel senso ideale, comunque costituisce un freno per sua natura, essendo un limite e i diritti invece che natura hanno? Il diritto segue l’uomo così come la Costituzione costituendo quest’ultima il riflesso giuridico sia del diritto che dell’uomo. La domanda quindi è, la tradizione segue l’uomo oppure ne costituisce una catena al suo sviluppo?  R. Bin, La famiglia: alla radice di un ossimoro,”Studium Iuris”, 2000. L’autore descrive perfettamente la contraddizione logico-giuridica insita nel termine società naturale per indicare la tipologia costitutiva e correttamente inquadra il senso costituzionale dell’espressione analizzata: società naturale indica il bisogno naturale, un valore, un bisogno, una necessità, una realtà, quella della famiglia che è propria dell’uomo in quanto tale e che quindi deve essere riconosciuta a tutti indistintamente, art 2 e 3 Cost.

[iii]   Corte eur. Dir. Uomo sez. I, 24 ottobre 2010 (Schalk e Kopf c. Austria), in articolo29.it;

Commento alla sentenza, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. 4, n. 3/2010.  La Corte EDU ha affermato che la relazione di una coppia omosessuale rientra nella nozione di “vita privata” nonché in quella di “vita familiare” nell’accezione dell’articolo 8. In antitesi, la stessa Corte EDU aveva ritenuto che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisse solo “vita privata”, ma non già “vita familiare”, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte aveva osservato che, nonostante la crescente tendenza negli Stati europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l’esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un’area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità. Avuto riguardo all’evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali e all’avvenuto riconoscimento giuridico delle stesse da parte di un notevole numero di Stati membri, la Corte di Strasburgo (con la richiamata sentenza del 24 giugno 2010, prima sezione, caso Schalk and Kopf contro Austria), ha ritenuto artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della “vita familiare” ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente anche una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra anche nella nozione di “vita familiare”, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione.

[iv]    Tribunale di Treviso, sentenza del 19 maggio 2010: Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è inesistente per l’ordinamento italiano; una volta assodata la non qualificabilità della fattispecie, non è necessario accertare la contrarietà del matrimonio omosessuale al nostro ordine pubblico, che, comunque, presuppone che l’atto straniero da trascrivere sia compreso nella categoria degli atti esteri trascrivibili nei registri anagrafici italiani secondo la disciplina che li regola. In Dir. Fam., 2011, 3, 1239, con nota WINKLER, Ancora sul rifiuto di trascrizione in Italia di same-sex marriage straniero: l’ennesima occasione mancata.

[v]     Sull’argomento ordine pubblico come tutela di principi etici, Balestra L., Commentario codice civile (famiglia e leggi collegate), Utet, 2010;

Sull’eticità dell’ordine pubblico ideale, Gargiulo E., Mantenere l’ordine pubblico, feticci liberali e principi etici nella gestione della sicurezza pubblica, Il lavoro culturale, 2016: “se la concezione ideale è considerata propria di uno stato “etico”, ossia di un regime politico che si fa portatore di specifici valori e princìpi a discapito di altri orientamenti normativi (magari imponendo una religione ufficiale o determinati comportamenti e norme morali in ambito sessuale), la concezione materiale è ricondotta invece a uno stato “liberale”, vale a dire a un sistema, neutrale e laico sul piano dei valori, in cui le autorità pubbliche si fanno semplicemente garanti di proteggere la sfera personale dei singoli da interferenze concrete, e dove quindi l’esercizio della libertà di associazione e manifestazione è condizionato al rispetto di altri diritti”

[vi]    Corte Costituzionale sentenza n. 138 del 2010 (che decideva sulle eccezioni proposte da Tribunale di Venezia e Corte d’Appello Trento), in Foro it. 2010, parte I, 1367 con nota DAL CANTO, La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale e ROMBOLI Per la Corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio; anche in Fam. e Dir. 2010, 653;

Romboli Roberto, Il diritto “consentito” al matrimonio ed il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la corte dice “troppo” e “troppo poco”, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), Giur. cost. 2010, 2, 1629; Mastromattino F., Il matrimonio conteso: le unioni omosessuali in una eclettica pronuncia della corte costituzionale italiana, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2011, fasc. 1  pag. 439 – 469: “ Con la sentenza 14 aprile 2010, n. 138 il giudice delle leggi si è pronunziato sulla questione concernente l’ammissibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento affermando che l’unione omosessuale, pur se riconducibile all’art. 2 Cost., rappresenta tuttavia una formazione sociale non idonea a costituire una famiglia fondata sul matrimonio stante l’imprescindibile (potenziale) “finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale”; proseguono i giudici precisando che “in tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale” concludendosi che “in questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”;

Romboli R., Per la corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), in Il Foro italiano, 2010, fasc. 5  pag. 1367 – 1369 : “In tema di: Infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. rispetto agli artt. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non consentono il matrimonio omosessuale; inammissibilità della medesima questione rispetto agli artt. 2 e 117, comma 1 Cost., in quanto diretta ad ottenere una pronuncia additiva volta al riconoscimento delle unioni omosessuali intese come stabili convivenze tra due persone dello stesso sesso. Necessario l’intervento del legislatore. Non condivisibilità della pronuncia da parte dell’A. per la considerazione della nozione di matrimonio che non contemplerebbe le unioni omosessuali, in quanto risalente al 1946-47 e per il riferimento alle finalità esclusivamente procreative dello stesso”;                                                                                                                                                                                                                         

Sulla stessa scia della Corte Costituzionale, si era pronunciata in precedenza la Corte di Cassazione: 9 giugno 2000 n. 7877, 2 marzo 1999 n. 1739; 22 febbraio 1990 n. 1304 con le convergenti conclusioni che “il matrimonio omosessuale non è idoneo a costituire tra le parti lo status giuridico delle persone coniugate in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, considerata nell’ordinamento italiano quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio”.

[vii]   Riviezzo A., Sulle unioni omosessuali la corte ribadisce: “questo” matrimonio non s’ha da fare (se non lo vuole il parlamento), (Nota a ord. C. Cost. 7 luglio 2010, n. 276), in Famiglia e diritto, 2011, fasc.1 pag. 20 – 29.

[viii]  Corte suprema del Massachusetts Goodridge v. Department of Public Health del 18 novembre 2003, in articolo29.it; Nota di Garetto R., Presupposti per una «ridefinizione» concettuale del matrimonio. Il dibattito fra sostenitori della tradizione e fautori del cambiamento negli Stati Uniti d’America ed in Spagna, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino – n. 4/2015.

[ix]    Corte Suprema del Sudafrica Minister of Home Affairs v. Fourie, del 1 dicembre 2005, in articolo 29; Nota di Gattuso M., Matrimonio tra persone dello stesso sesso, Capitolo tratto dal Trattato di Diritto di Famiglia diretto da Paolo Zatti, in forumcostituzionale.it.

[x]     Vagli G., L’approvazione della legge che consente il matrimonio tra omosessuali in portogallo, in Quaderni costituzionali, 2010, fasc. 3 pag. 605 – 608;

Passaglia P., Matrimonio ed unioni omosessuali in europa: una panoramica, (Nota a Tribunal Constitucional de Portugal 8 aprile 2010, n. 121 (Portogallo)), in Il Foro italiano, 2010, fasc. 5 pag. 273 – 277.

[xi]    G. Saccaro, Nota alla sentenza della corte di cassazione n. 4148 del 15 marzo 2012, Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna : “Con sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto da due cittadini italiani del medesimo sesso che, successivamente alla celebrazione del loro matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi), si sono visti rifiutare dal Sindaco del Comune di Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto di matrimonio in quanto formato all’estero e non suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico (italiano).

 La questione sottoposta all’esame della Corte di legittimità consiste nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero siano o meno titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.  Nel ricorso presentato al vaglio della Corte di Cassazione i ricorrenti sostenevano che, se è pur vero che gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se contrari all’ordine pubblico italiano, tuttavia, trattandosi di norma di relazione con ordinamenti estranei al nostro, tale deve intendersi come ordine pubblico internazionale e non interno. Gli stessi sollecitavano la Corte a pronunciarsi sui quesiti di diritto se nel nostro Paese l’omosessualità sia un comportamento contrario all’ordine pubblico; sposarsi rientri tra i diritti fondamentali dell’individuo; la pubblicità di un atto negoziale come il matrimonio sia idonea a stravolgere i valori fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento.  In particolare i ricorrenti lamentavano il carattere discriminatorio della nozione stessa di matrimonio come unione eterosessuale e sugli- inesistenti- effetti giuridici nel nostro ordinamento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso; tale nozione, a loro giudizio, non tiene conto del fenomeno della evoluzione sociale, culturale e giuridica intervenuta nella gran parte degli Stati europei e pertanto  il riferimento alla tradizione interpretativa ed al suo carattere vincolante, in assenza di una norma espressa che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, oltre a rivelarsi anacronistico, contrasta con il principio di non discriminazione di cui all’art. 3, 2 co. Cost.  In considerazione dei mutamenti registrati, i ricorrenti proponevano una lettura in chiave evolutiva delle norme in materia di matrimonio sostenendo che un’interpretazione della vigente disciplina che escluda le coppie omosessuali dal matrimonio collide con la Costituzione nella parte in cui riconosce e garantisce ad ogni essere umano il diritto di costituire una famiglia, fondata sul matrimonio, e con l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.  Nella fattispecie, i ricorrenti chiedevano alla Corte di Cassazione di stabilire se la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, avendo, ai sensi dell’art. 17 del DPR n. 396 del 2000, natura meramente certificativa e dichiarativa, in presenza di prova della sua celebrazione secondo la lex loci, sia atto dovuto ed “automatico…”; Di Bari M., Considerazioni a margine della sentenza 4184/2012 della corte di cassazione: la cassazione prende atto di un trend europeo consolidato nel contesto delle coppie same-sex anche alla luce della sentenza n.138/2010 della corte costituzionale, Associazione italiana dei costituzionalisti, Rivista n.1/2012 : “In primo luogo la Cassazione chiarisce in modo netto che, non essendo l’omosessualità contraria all’ordine pubblico, la legittimità del diniego alla trascrizione non può essere fatta derivare dalla contrarietà all’articolo 18, della legge sull’ordinamento civile. Tuttavia, nella sentenza n.4184 la Cassazione è andata oltre: una volta esaminate in combinato disposto le sentenze n.138/2010 e Schalk and Kopf è giunta a concludere che il diritto a contrarre matrimonio non sia affatto precluso dall’attuale testo dell’art.29 Cost. Semmai, viene ribadito dalla Cassazione, tale scelta rientra a pieno titolo tra le possibilità cui il legislatore può liberamente fare ricorso.  Tale lettura della sentenza n.138/2010, che invero sembra risentire anche delle conclusione raggiunte dal Giudice delle leggi nella sentenza 245/2011 (sul diritto a contrarre matrimonio come diritto inviolabile), aderisce alle più ottimistiche osservazioni emerse in dottrina che avevano (ora si può dire a ragione) auspicato un’apertura del nostro ordinamento al riconoscimento del matrimonio alle coppie omosessuali”; Ius M., Le coppie omosessuali hanno diritto ad una vita familiare ma il loro matrimonio non esiste. nota alla sentenza della cassazione 4184/2012, (Nota a Cass. sez. I 15 marzo 2012, n. 4184), in Lo Stato Civile Italiano, 2013, fasc. 7 pag. 18 – 22;

Gattuso M., “Matrimonio”, “famiglia” e orientamento sessuale: la Cassazione recepisce la “doppia svolta” della Corte europea dei diritti dell’uomo, articolo29.it;

Sgobbo C., Il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso: la Cassazione abbandona la qualifica di “atto inesistente” approdando a quella di “non idoneo a produrre effetti giuridici nell’ordinamento interno”, in Giust. civ., 2013

[xii]   Auletta T., Cass., 9.2.2015, n. 2400 – Commento, in Famiglia; Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 2400/15; depositata il 9 febbraio, in diritto e giustizia.it.

[xiii]  Tribunale di Pesaro, sentenza del 14 ottobre 2014, in articolo29.it e Corte di Appello di Milano, sentenza del 16 ottobre 2015, in articolo29.it.

[xiv]  Leo G.M., Intrascrivibilità dei matrimoni celebrati all’estero tra persone delle stesso sesso e legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle relative trascrizioni, sarannoprefetti.it,2016;

FerranteW., Gli atti defensionali della Avvocatura dello Stato sulla trascrizione dei matrimoni omosessuali [Nota a sentenza: Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015, nn. 4897, 4898, 4899], Periodico: Rassegna avvocatura dello stato, 2015 – Volume: 67 – Fascicolo: 4 – Pagina iniziale: 123 – Pagina finale: 149;

Midena E., L’annullamento dei “same-sex marriage“, in Giornale di diritto amministrativo, 2017, fasc. 4, pag. 536 – 543.

[xv]   Il nuovo “sì” del Tribunale di Grosseto, in articolo29.it, 2015: “il tribunale ritiene che non esista alcuna preclusione alla trascrizione dell’atto celebrato all’estero. Ritiene, infatti, il tribunale toscano che il rifiuto di trascrizione configurerebbe una discriminazione basata sull’orientamento sessuale, la quale è vietata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo se non sussista uno scopo legittimo e se non vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, scopo e proporzionalità che nella specie vengono esclusi. Il tribunale richiama dunque la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che «con riferimento al mancato riconoscimento dello status personale ha chiarito che affinché il rifiuto di riconoscere un atto riguardante lo status acquisito all’estero sia legittimo deve rispondere ad un imperativo sociale e deve essere proporzionato allo scopo che si propone di raggiungere», concludendo per la trascrivibilità dell’atto.

[xvi]  Osservatorio su diritto internazionale privato e diritti umani n. 5/2015, La corte d’appello di Napoli sulla trascrizione del matrimonio samesex: il richiamo al criterio della cittadinanza per colmare il vuoto normativo, Ordine internazionale e diritti umani, (2015), pp. 1289-1294; Corte di appello di Napoli, sentenza del 13 marzo 2015, in articolo29.

[xvii] Vitucci C., La sentenza della corte suprema degli stati uniti sul matrimonio omosessuale e il diritto internazionale, 2015 in sidiblog.org.

[xviii] Winkler M. Il piombo e l’oro: riflessioni sul caso “oliari c. Italia” (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia), in Genius, 2016, fasc. 2;

Pedullà L., Il percorso giurisprudenziale sul riconoscimento delle c.d. “unioni civili”, Associazione italiana costituzionalisti, Rivista N°: 2/2016;

Rudan D., L’obbligo di disporre il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso: il caso “oliari e altri c. Italia” (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia)), in Rivista di diritto internazionale, 2016, fasc. 1 pag. 190 – 198;

Sangiorgi Alessio, Monito della corte europea: l’Italia riconosca protezione alle coppie omosessuali. il caso “oliari” come primo timido passo verso il matrimonio egualitario?, (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia)), in I diritti dell’uomo, 2015, fasc. 3 pag. 528 – 538.

[xix]  In Francia, con la legge del 15 novembre del 1999, si è riformato il codice civile francese, con l’introduzione dell’istituto dei pactes civils de solidaritè, noti come “Pacs”. Successivamente, nell’aprile 2013, l’Assemblea nazionale votò a maggioranza, una legge che legalizzasse le nozze omosessuali. Con l’entrata in vigore della legge del 2013 (loi n. 2013-404 du 17 mai 2013 ovrant le marriage aux couples de personnes de meme sexe), tutte le diatribe sulla natura giuridica dei PACS sono state risolte; infatti, la nuova legge, incidendo sull’art. 143 del codice civile francese, ha previsto che: “Il matrimonio è un contratto tra due persone di sesso opposto o dello stesso sesso”.

[xx]   Zannoni D., Gli effetti nell’ordinamento italiano delle unioni civili e dei matrimoni “same-sex” conclusi all’estero, in DPCE online, 2020, fasc. 1, pag. 233 – 256;

[xxi]  Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11696, Il matrimonio contratto all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero, dello stesso sesso, produce in Italia gli effetti di un’unione civile. Nota di C. Cicero e A. Leuzzi. Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2018, 4, I, 1268;

Miri V., Matrimonio same-sex celebrato all’estero e “downgrading” in unione civile: una prima lettura di Cass. 14 maggio 2018, n. 11696, Rivista diritti comparati, 2018;

Serra M. L., Sulla trascrizione del matrimonio omosessuale estero e diritti fondamentali della persona, (Nota a Cass. sez. I civ. 14 maggio 2018, n. 11696), in Famiglia e diritto, 2019, fasc. 2, pag. 143 – 150: “La pronuncia n. 11696/2018 della S.C. affronta la questione della trascrivibilità, negli atti dello stato civile italiano, del matrimonio contratto all’estero da una coppia di persone dello stesso sesso di cui una soltanto di nazionalità italiana, confermando la soluzione dei giudici di merito a favore della legittimità del rifiuto. Più precisamente, la S.C. nega l’ammissibilità della trascrizione del matrimonio omoaffettivo perché tale tipo di matrimonio è riconducibile alla previsione dell’art. 32 bis della L. n. 18/1995, come modificata dal D.lgs. n. 7/2017, producendo pertanto gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana non solo quando entrambi i nubendi sono cittadini italiani ma anche se uno di essi è straniero. Viene così ribadito l’orientamento giurisprudenziale per cui l’unico limite che può impedire il riconoscimento di atti o di provvedimenti d’una autorità straniera è dato dall’ipotesi in cui siano in contrasto con l’ordine pubblico del luogo in cui sono destinati a produrre effetti giuridici. La pronuncia fornisce lo spunto per considerare la nozione di ordine pubblico anche nell’ottica delle Corti Europee in funzione della necessaria tutela dei diritti fondamentali dell’uomo desumibile dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali”.

[xxii] Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11696, in consultaonline.it Non è contrario all’ordine pubblico internazionale il riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili contratti all’estero. La definizione, ai sensi degli articoli 32-bis e 32-quinquies della l. 31 maggio 1995 n. 218, degli effetti del matrimonio e dell’unione civile contratti all’estero da cittadini italiani, non può essere temporalmente limitata alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute contratte dopo l’entrata in vigore della l. 20 maggio 2016 n. 76, né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio. L’applicazione di tali disposizioni ai rapporti sorti prima della entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione. La non contrarietà all’ordine pubblico internazionale del riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili o istituti analoghi contratti all’estero è consacrata dagli articoli 32-bis e 32-quinquies della legge n. 218 del 1995. Infatti, gli atti di matrimonio e di unioni riconosciute producono senz’altro effetti giuridici nell’ordinamento italiano secondo il regime di convertibilità stabilito da tali norme. L’art. 32-bis comporta la preminenza del modello dell’unione civile, adottato nel diritto interno. Pertanto, il matrimonio contratto all’estero da coppia omoaffettiva formata da cittadino italiano e da cittadino straniero non è trascrivibile come tale, ma come unione civile. L’art. 32-bis non trova invece applicazione nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un matrimonio contratto all’estero da due cittadini stranieri. La trascrizione del matrimonio omosessuale come unione civile (c.d. downgrading) non produce effetti discriminatori per ragioni di orientamento sessuale, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati stessi.

[xxiii] Causa Taddeucci e McCall c. Italia, sentenza 30 giugno 2016 (ricorso n.22567/09), camera.it

[xxiv] Causa Francesca Orlandi e altri c. Italia, sentenza 14 dicembre 2017, camera.it;

Deana F., Diritto alla vita familiare e riconoscimento del matrimonio same-sex in Italia: note critiche alla sentenza Orlandi e altri contro Italia, Rivista di diritti comparati,2019.

[xxv] Corte di Giustizia, sentenza 5 giugno 2018, causa C-673/16, Coman, in curia.europa.eu;

Zappalà L., Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.4, 2018, pag. 953, Nota a: Corte giustizia UE , 05 giugno 2018, n.673, grande sezione, Nozione di «coniuge» sans phrase: la tutela dei diritti fondamentali delle same sex families;

Perelli A., Matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il caso Coman: un importante passo verso l’eguaglianza, Note e commenti – DPCE on line, 2018/3.

Abstract: L’articolo propone l’esame della sindacabilità giurisdizionale delle valutazioni tecniche. Si ripercorrerà l’iter giurisprudenziale che segue le sentenze del Consiglio di Stato n. 601 del 1999 e della Corte di Cassazione n. 507 del 2000 che distinguono l’opinabilità dall’opportunità e pertanto la mancata dichiarazione del difetto di giurisdizione. Si sottolinea l'equilibrio tra discrezionalità amministrativa e sindacato giudiziario nelle questioni di competenza tecnica.

  1. Premessa

In un ambito in cui il merito amministrativo è da considerare l’insindacabile baluardo del potere della pubblica amministrazione, si pone la necessità di comprendere quale sia il ruolo del giudice amministrativo dinnanzi alle valutazioni tecniche che, in luogo del primo, ammettono la sindacabilità dell’operato dell’amministrazione attiva (in termini di “opinabilità” e non di “opportunità”).

Vedremo che siffatta valutazione, prima che dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 507 del 2000, trova il proprio fondamento nella pronuncia del Consiglio di Stato n. 601 del 1999.

Il riferimento al Giudice di legittimità, oltreché al Supremo organo di consulenza giuridico-amministrativa, lascia intendere che la questione attinente al limite tra merito amministrativo e valutazione tecnica – o ancora tra opportunità e opinabilità – sia riconducibile alla giurisdizione. Non sarebbe altrimenti consentita la ricorribilità dinnanzi alla Corte di Cassazione in ordine all’art. 111, 8° comma, Cost.[1].

Vedremo come la sentenza n. 601 del 1999 del supremo organo di giustizia amministrativa ricolleghi alla valutazione tecnica, consistente nell’apprezzamento opinabile di concetti indeterminati, la possibile verifica dell’attendibilità delle operazioni tecniche effettuate dall’amministrazione attiva.

La tesi del Supremo giudice amministrativo è corroborata dalla sentenza del Giudice di legittimità n. 507 del 2000 che – nell’affermare che le vertenze aventi ad oggetto le valutazioni tecniche non ripetibili non determinano una pronuncia di difetto di giurisdizione – approva la sindacabilità giurisdizionale delle stesse attraverso il giudice generalmente competente.

Vedremo inoltre che la considerazione della sindacabilità delle valutazioni tecniche ha condotto alla diatriba sul controllo, forte o debole, riconosciuto dalla legge al giudice amministrativo, risoltasi successivamente con un sindacato limitato alla verifica di logicità e ragionevolezza delle stesse.

  1. Il confine tra poteri amministrativi e controllo giurisdizionale

Posta la necessità di padroneggiare la distinzione tra merito amministrativo e la discrezionalità amministrativa [2], si propone l’indagine delle questioni che ricomprendono le valutazioni tecniche [3] per le quali nel corso dei decenni sono stati sollevati seri dubbi di sindacabilità in considerazione della possibilità che queste potessero essere sottoposte ad apprezzamento ed eventuale riforma ad opera del giudice amministrativo.

Con sentenza n. 507 del 2000 la Suprema Corte ha distinto l’opinabilità dall’opportunità ampliando in tal senso il novero delle materie censurabili dal giudice amministrativo di legittimità e considerando pertanto sindacabili le valutazioni tecniche delle autorità amministrative. La riconducibilità di siffatte valutazioni in sede di giurisdizione generale di legittimità preclude la configurabilità del difetto di giurisdizione e pertanto della dichiarazione di improponibilità della domanda.

Evidenziamo però le tappe percorse dalla giurisprudenza prima che questa giungesse all’innovativa sentenza della Corte di Cassazione n. 507 del 2000.

Posteriormente ad una fase di assoluta insindacabilità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche della pubblica amministrazione, si sono manifestati i primi segni di insofferenza provocata da una carenza di effettività della giustizia, non ancora in grado di sindacare le valutazioni tecniche in termini di opinabilità. Tali spinte hanno condotto la giurisprudenza verso un maggiore riconoscimento dei poteri di accertamento della realtà fattuale.

L’apertura giurisprudenziale del tempo si limitò al riconoscimento di un mero c.d. sindacato estrinseco [4] e ciò in considerazione della circostanza che le valutazioni complesse o opinabili della pubblica amministrazione potessero essere ammesse nelle ipotesi “di illogicità o ingiustizia manifesta della valutazione tecnica dell’autorità amministrativa, di errore nei presupposti di fatto, di incoerenza ed inadeguatezza della motivazione, di carenza di istruttoria”[5]; ossia in tutte le circostanze in cui il controllo dell’organo giurisdizionale fosse effettuato attraverso “massime di esperienza appartenenti al sapere comune”[6] e che però non si spingessero verso una verifica tecnico-specialistica della decisione amministrativa.

Apri fila del nuovo orientamento fu la sentenza n. 601 del 9 aprile 1999, del Consiglio di Stato, la quale dichiarava che “ricorre discrezionalità tecnica quando la norma tecnica da applicare da parte dell’amministrazione contenga concetti indeterminati che comportano apprezzamenti opinabili. Il sindacato giurisdizionale su tali apprezzamenti può svolgersi in base non al mero controllo formale ed estrinseco dell’iter logico seguito dall’autorità amministrativa, bensì, invece, alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio tecnico e procedimento applicativo” [7].

La sentenza sopraccitata rileva nella misura in cui distingue l’opportunità del merito amministrativo – chiaramente non sindacabile dall’organo giurisdizionale al di fuori dei particolari casi espressamente previsti dalla legge – dall’opinabilità della discrezionalità tecnica. Quest’ultima ricorre ogni qualvolta il legislatore riconosca all’amministrazione l’applicazione di una norma tecnica cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta. Rammentiamo che le valutazioni sono tali in quanto contenenti concetti indeterminati o apprezzamenti opinabili [8]. L’opinabilità di una valutazione tecnica è presupposto di fatto di una eventuale e solo successiva valutazione in termini di opportunità.

Cercando di fare chiarezza, si può asserire che esiste una “riserva di amministrazione” per tutte quelle questioni che richiedano una valutazione dell’interesse pubblico in termini di opportunità e convenienza (ossia in ordine al merito) [9] e si può avanzare la tesi per la quale l’apprezzamento dei presupposti di fatto (di un provvedimento amministrativo) sia correlato al giudizio di legittimità (e pertanto ad un sindacato del giudice amministrativo).

La valutazione tecnica va intesa, dalla sentenza testé richiamata, come presupposto di fatto sussumibile nella sfera delle questioni apprezzabili dal giudice di legittimità e al quale può dunque applicarsi un sindacato pieno c.d. intrinseco, per tale intendendosi quello con il quale il giudice faccia “utilizzo… di regole e conoscenze tecniche che appartengono alla medesima scienza specialistica ed ai modelli professionali applicati dall’amministrazione” [10]. Ciò è oggi possibile anche tramite l’impiego dello strumento della consulenza tecnica d’ufficio [11] che originariamente non era presente in sede di giurisdizione amministrativa e che adesso svolge una funzione pregnante in ordine all’apprezzamento dei caratteri tecnico-specialistici dei concetti indeterminati.

A sostegno di tale tesi la Suprema Corte con sentenza n. 507 del 19 luglio 2000 evidenzia come l’espressa sindacabilità ad opera del giudice amministrativo delle valutazioni tecniche poste in essere dall’amministrazione pubblica non ammetterebbe la pronuncia di improponibilità della domanda conseguente sovente ad una dichiarazione di difetto di giurisdizione.

La decisione della Corte pone pertanto un discrimine tra i poteri di esclusivo dominio della pubblica amministrazione, insindacabili dinanzi al giudice amministrativo, e i poteri che involgono un compatibile apprezzamento del giudice amministrativo.

L’insindacabile merito amministrativo comporta una scelta di valori che la valutazione tecnica non postula in quanto già “dal legislatore cristallizzati nella norma, venendo (nella previsione di questa) unicamente demandata all’amministrazione la verifica della sussistenza in concreto dell’interesse da attuare e dei presupposti (prestabiliti) della correlativa tutela, sulla base di determinate regole tecniche.” [12]

Gli elementi valutativi della valutazione tecnica sono sussumibili nella sfera dell’attività vincolata e non in quella della discrezionalità vera e propria. L’amministrazione è dotata di un comprensibile margine di opinabilità o valutazione che però non va considerato in par misura all’opportunità; “una cosa è l’opinabilità ed altra l’opportunità (cfr. Cons. Stato, IV, b. n. 601/1999)”. [13]

Il Giudice di legittimità ribadisce quanto prima vagliato dal Consiglio di Stato.

Il riconoscimento all’organo amministrativo giurisdizionale “sia [del]l’accertamento autonomo dei fatti e [del]la loro diretta sussunzione entro lo schema normativo sia dell’interpretazione di quei concetti” [14] entro lo schema di generale legittimità [15], non consente (alla Corte) di ritenere la questione come attinente alla giurisdizione.

Il giudice amministrativo, nell’evenienza in cui dovesse errare nell’accertamento o nell’interpretazione, incorrerà in un errore che non potrà essere oggetto di ricorso in Cassazione. Rammentiamo, difatti, che il ricorso ex art. 111, 8° comma, Cost. è ammesso per motivi attinenti alla giurisdizione, “con esclusione, [dunque], di ogni controllo di pretesi vizi in procedendo o in iudicando” [16].

L’estensione della sindacabilità del provvedimento porge però il fianco ad un ulteriore diatriba relativa ai poteri riconosciuti al giudice amministrativo.

Si pose il quesito in ordine alla possibilità che il giudice potesse sostituirsi all’amministrazione financo riformando il provvedimento (c.d. controllo forte) ovvero se siffatto controllo dovesse essere effettuato in termini di ragionevolezza e coerenza tecnica (c.d. controllo debole). [17]

Con sentenza 6 ottobre 2001, n. 5287, la IV sezione del Consiglio di Stato, una volta evidenziato il quadro generale dei principi [18], esclude un controllo in senso forte sulle valutazioni complesse dell’amministrazione. La stessa afferma che: “la stretta connessione tra apprezzamento tecnico opinabile e scelta di merito è un indice dell’esistenza di un potere di valutazione tendenzialmente riservata all’amministrazione, non già nel senso della preclusione del controllo giurisdizionale, ma nel senso che, in tal caso, è concesso al giudice amministrativo un sindacato senza poteri sostitutivi, limitato alla verifica di logicità e ragionevolezza” [19].

Tuttavia, la tesi de qua non è incontrovertibilmente accettata in determinate materie, quali i concorsi pubblici, in cui alla tesi tradizionale del Consiglio di Stato del 2001 – per la quale oltre al controllo debole non è ammesso un sindacato che non invada il campo della discrezionalità attribuita alla commissione – si affianca una tesi più innovativa che ammette un sindacato intrinseco [20] e un controllo forte sulle decisioni delle commissioni. [21]

Per ultimo è il caso di accennare il limite di sindacabilità della discrezionalità tecnica da parte del giudice ordinario. Nonostante in un primo periodo la Suprema Corte avesse negato l’evenienza di una tutela di posizioni giuridiche lese da valutazioni tecniche dell’amministrazione, questa si è ricreduta affermando che le posizioni giuridiche soggettive sono tutelabili in seno al giudice civile anche se lese da valutazioni tecniche della pubblica amministrazione. [22]

  1. Conclusione

L’analisi della trattazione lascia intendere il motivo per il quale si sia mostrata l’esigenza di ampliare l’indagine del provvedimento ad opera del giudice amministrativo. L’impossibilità di sindacare un concetto indeterminato riconducibile a criteri tecnico-specialistici non rispondeva alle esigenze di effettività giustiziale e di certezza insite nel ruolo del giudice.

La circostanza che la Suprema Corte potesse, altresì, dichiarare l’improponibilità della domanda in sede di difetto di giurisdizione lasciava all’amministrazione pubblica un margine di operatività così ampio da essere a limite con arbitrio.

Si mostra, pertanto, la necessità di ampliare l’ambito di operatività del sindacato giurisdizionale che distinguendo tra opinabilità e opportunità pone un discrimen con confine marcato tra merito amministrativo e valutazione tecnica.

Può ritenersi che la lettura originaria dei poteri del giudice amministrativo, se non ampliata tramite apposite interpretazioni giurisprudenziali estensive, sarebbe stata in contrasto con l’art. 113 Cost. che nell’ammettere “sempre” la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione si pone in condizione di manifestare la volontà che tutti gli elementi che non appartengano alla valutazione amministrativa in termini di convenienza e di opportunità della debbano sempre essere sindacate dal giudice amministrativo.

NOTE

[1] “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”: così l’art. 111, 8° comma, Cost.

[2] A riguardo vedi MASTROIANNI F., Tra opportunità e convenienza: gli effetti processuali del merito amministrativo, in economiaediritto.it, 2023.

[3] La dottrina si riferisce alle stesse anche con l’espressione “discrezionalità tecnica”. Tuttavia, contro siffatta  denominazione si veda, CLARICH M., Manuale di diritto amministrativo, Il Mulino, Bologna, 2022, pp. 130-131 che afferma: “A proposito delle valutazioni tecniche è ancora oggi frequente l’uso dell’espressione «discrezionalità tecnica», che non è in realtà corretta proprio perché nella discrezionalità tecnica manca l’elemento volitivo che caratterizza invece, come si è visto, la discrezionalità in senso proprio, cioè quella amministrativa” e giustifica l’utilizzo del sostantivo dicendo che “soprattutto in passato, il problema dei limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche era posto in termini analogici a quello dei limiti del sindacato sulla discrezionalità amministrativa… [ritenendosi in entrambi i casi] precluso un sindacato pieno che comporti una valutazione autonoma del giudice che si sovrapponga (e sostituisca) a quella dell’amministrazione”.

[4] Al quale si contrapponeva il c.d. sindacato intrinseco. CINTIOLI F., Consulenza tecnica d’ufficio e sindacato giurisdizionale della discrezionalità tecnica, in Il nuovo processo amministrativo dopo la legge 21 luglio 2000 n. 205, a cura di Caringella F. e Protto M., Milano, 2001, pp. 920 e ss., afferma che il sindacato estrinseco “si concretizza in un controllo sulle valutazioni tecniche effettuato attraverso massime di esperienza appartenenti al sapere comune e non si spinge fino alla verifica dei caratteri tecnico-specialistici della decisione amministrativa, il sindacato intrinseco, invece, si caratterizza per l’utilizzo, da parte del giudice, di regole e conoscenze tecniche che appartengono alla medesima scienza specialistica ed ai modelli professionali applicati dell’amministrazione”.

[5] ZINGALES I., Pubblica amministrazione e limiti della giurisdizione tra principi costituzionali e strumenti processuali, Milano, 2007, p. 215.

[6] Vedi CINTIOLI F., Consulenza tecnica, cit., pp. 920 e ss.

[7] Sentenza Cons. Stato., Sez. IV, n. 601, 9 aprile 1999, in Foro Amm., 1999.

[8] Diversamente si ricondurrebbe alla figura dell’accertamento tecnico; privo di valutazioni, concetti indeterminati o apprezzamenti da effettuare.

[9] Per una migliore comprensione degli effetti processuali del merito amministrativo vedi MASTROIANNI F., Tra opportunità e convenienza: gli effetti processuali del merito amministrativo, cit.

[10] CINTIOLI F., Consulenza tecnica, cit., pp. 920 e ss.

[11] Il giudice amministrativo può accertare l’attendibilità delle operazioni tecniche attraverso l’impiego del consulente tecnico d’ufficio disciplinato dall’art 67 del codice di procedura amministrativa; v. anche ZINGALES I., Pubblica amministrazione, cit., p. 216.

[12] Corte cass., sez. un., 19 luglio 2000, n. 507.

[13] La Cass. civ., Sez. Unite, 19 luglio 2000, n. 507, cit., mostra che: “l’’applicazione di tali regole è, a sua volta, non priva di elementi valutativi (che valgono appunto a connotare l’accertamento in termini di discrezionalità tecnica), quando essa comporti la rilevazione di dati fattuali suscettibili di vario apprezzamento; soprattutto ove quelle regole contengano (come la norma di riferimento del caso concreto) concetti indeterminati (ad es., la “prossimità”, che non è predefinita distanza, rispetto a curve, incroci ecc.), o comunque richiedano apprezzamenti opinabili. Ma, una cosa è l’opinabilità ed altra l’opportunità (cfr. Cons. Stato, IV, b. n. 601/1999). La questione di fatto, attinente ad un presupposto di legittimità del provvedimento amministrativo, non si trasforma – sol perché opinabile – in una questione di opportunità, anche se è antecedente ad una scelta di merito. Ed invero, quando la valutazione tecnica è presupposta dalla norma giuridica (che assume così una struttura, in certo qual modo analoga a quella della norma penale in bianco), il giudizio fondato su operazioni non corrette o insufficienti ha una inevitabile ricaduta sulla stessa norma (di cui il profilo tecnico è un segmento), comportando, con ciò, appunto, l’illegittimità dell’atto per violazione di legge.”; v. anche ZINGALES I., Pubblica amministrazione, cit., pp. 212 e ss.

[14] Corte Cass., sez. un., 19 luglio 2000, n. 507, cit.

[15] A riguardo vedi Cons. Stato, sez. V, 5 marzo 2001 n. 1247, in Cons Stato, 2001, I, p. 586, secondo cui: “L’esercizio della discrezionalità̀ tecnica… sostanzia un rilevante profilo di ricostruzione del fatto e, come tale, va conosciuto dal giudice, nell’esercizio dei suoi ordinari poteri istruttori… L’apprezzamento degli elementi di fatto del provvedimento, siano essi semplici o complessi (da rilevare attraverso valutazioni tecniche) attiene sempre alla legittimità̀ del provvedimento e, pertanto, non può essere sottratto al giudizio, pena la violazione del principio di effettività̀ della tutela giurisdizionale e del nuovo canone costituzionale della parità̀ processuale delle parti, come emerge dalla puntuale regola del giusto processo sancita dal novellato art. 111 della Costituzione…”.

[16] Corte cass., sez. un., 27 luglio 1998, n. 7348 , cit.

[17] Cfr. CINTIOLI F., Consulenza tecnica, cit., pp. 924 e ss., secondo cui: “Il primo modello si traduce in un potere sostitutivo del giudice, che sovrappone la propria valutazione tecnica opinabile a quella dell’amministrazione o, più precisamente, sovrappone il proprio modello logico di attuazione del concetto indeterminato a quello prescelto dall’amministrazione… Il secondo modello utilizza le cognizioni tecniche solo per un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica della decisione amministrativa. Il giudice penetra nel procedimento conoscitivo dell’autorità e ne vaglia l’esito, ma solo allo scopo di accertarne l’attendibilità scientifica, arrestandosi di fronte alla sfera di opinabilità che sostanzia il nucleo forte del concetto giuridico indeterminato.”; ZINGALES I., Pubblica amministrazione, cit., p. 217, afferma che: “Il primo (ossia il controllo forte) si tradurrebbe, ad avviso del collegio, in un potere sostitutivo del giudice, che potrebbe spingersi fino a sovrapporre la propria valutazione tecnica opinabile a quella dell’autorità amministrativa; il controllo “debole”, invece, consisterebbe nella utilizzazione delle cognizioni acquisite tramite la consulenza tecnica al solo scopo di effettuare un controllo di ragionevolezza e coerenza tecnica della decisione amministrativa”.

[18] “Questi principi appaiono in certa qual misura confortati dalle innovazioni processuali, che, concedendo al giudice di avvalersi di un consulente terzo, esperto di una certa disciplina tecnica, inducono ad alcune affermazioni di massima: a) la presenza di una valutazione tecnica non implica, di per sé, l’instaurazione di un regime speciale di insindacabilità; b) il giudice amministrativo ha il potere di accertare tutti i presupposti di fatto del rapporto controverso, ivi compresi i processi conoscitivi seguiti dall’amministrazione che coinvolgano apprezzamenti di natura tecnica; c) il sindacato del giudice non deve attuarsi solo sulla base di massime d’esperienza appartenenti al sapere comune e di dominio dell’intera collettività, ma, quando effettivamente tali massime siano insufficienti, può disporre grazie al c.t.u. di tutte le conoscenze tecnico-specialistiche che appaiono, secondo i casi, necessarie alla più completa conoscenza dei fatti”: così statuisce la sentenza della IV sez., Cons. Stato, 6 ottobre 2001, n. 5287, in Riv. Giur. Edil., 2002.

[19] Sentenza IV sez., Cons. Stato, 6 ottobre 2001, n. 5287, cit.

[20] Per una definizione di sindacato intrinseco v. nota 4.

[21] Cfr. ZINGALES I., Pubblica amministrazione, cit., p. 219, che sottolinea: “Ed invero, con riferimento alla possibilità, per il giudice amministrativo, di sindacare il merito (inteso, ovviamente, non come “merito amministrativo”) dei giudizi espressi dalle commissioni giudicatrici, sono riscontrabili due antitetiche linee di pensiero. Secondo l’impostazione tradizionale, salvo restando il sindacato in caso di manifesta illogicità o di irragionevolezza, di arbitrio o di palese disparità di trattamento, sarebbe inammissibile sindacare il merito di tali giudizi, in quanto, così facendo, il giudice invaderebbe il campo della discrezionalità attribuita alla commissione, sconfinando, pertanto, in un ambito riservato alla pubblica amministrazione. Per la giurisprudenza più innovativa, invece, il giudice amministrativo potrebbe sottoporre a sindacato “intrinseco” e “sostitutivo” i giudizi espressi dalle commissioni in esami di abilitazione ed in concorsi a pubblici impieghi”; T.A.R. Sicilia-Catania, sez. III, 11 giugno 2001, n. 1219, e 5 ottobre 2000, n. 1802; T.A.R. Abruzzo, 29 gennaio 2003, n. 13, in Foro amm.-T.A.R., 2003, p. 2311.

[22] Corte Cass., sez. un., 23 aprile 1997, n. 3567, in Giur. It., 1998, p. 572, secondo cui: “È principio costantemente affermato da questa Corte che la discrezionalità e conseguente insindacabilità, da parte del giudice ordinario, dei criteri, dei tempi con i quali la pubblica amministrazione provvede alla costruzione, all’esercizio e alla manutenzione delle opere pubbliche trovano un limite di carattere esterno posto a tale discrezionalità dal principio generale ed assoluto del neminem laedere, che comporta per la stessa amministrazione l’osservanza di specifiche norme tecniche e delle comuni regole di prudenza e diligenza a garanzia dei terzi (v. sent. 722/1988; 6635/1988; 8836/94; 3939/96)… In forza del ricordato principio, per il quale l’attività della pubblica amministrazione deve sempre svolgersi nei limiti posti non solo dalla legge, ma anche dalla norma primaria del neminem laedere, è consentito al giudice ordinario accertare se vi è stato, da parte della pubblica amministrazione, un comportamento colposo tale da determinare, in violazione di detta norma, la lesione di un diritto soggettivo…”. Per un’approfondita analisi dottrinaria cfr. OTTAVIANO V., Giudice ordinario e giudice amministrativo di fronte agli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1986, pp. 18-19, il quale osserva che: “…mentre prima l’amministrazione nel suo complesso veniva sottratta al controllo del giudice ordinario, successivamente ciò è apparso giustificato solo in quanto essa eserciti potestà pubbliche. L’amministrazione, pertanto, poiché quando arreca danno ad una persona ai suoi beni, non esercita alcun potere, non sussistendo certamente un potere siffatto, deve sottostare al sindacato del giudice ordinario anche con riferimento all’applicazione di criteri tecnici. Lo stesso deve dirsi per ogni altro caso in cui la giurisdizione spetti a giudici dei diritti, atteso che la loro competenza è legata appunto alla mancanza di un potere da parte dell’amministrazione. Né l’accertamento, per quanto complesso possa essere, può degradare il diritto soggettivo. Esso per sé stesso attiene al conoscere e non al provvedere, che caso mai si riferisce ad un momento successivo, e quindi ove all’accertamento non si accompagni un potere, non viene meno né la competenza del giudice ordinario, né i suoi poteri debbono incontrare limitazioni. La natura della controversia portata avanti al giudice ordinario importa la determinazione dei diritti o degli obblighi spettanti al cittadino o all’amministrazione, e se per risolvere una siffatta controversia occorre procedere ad accertamenti complessi, il giudice deve poterli eseguire, giacché altrimenti non sarebbe possibile decidere se siano fondate le pretese della p.a., ovvero quelle del privato. A ciò conduce lo stesso art. 2 della legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo che, attribuendo al giudice ordinario «tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico», implicitamente gli attribuisce i poteri a tal uopo necessari, con le sole limitazioni di cui ai successivi artt. da 4 a 6” (pag. 18); “La tesi secondo cui la ricerca della colpa dell’amministrazione dovrebbe venire limitata ai soli comportamenti compiuti in esecuzione delle scelte adottate, mentre sarebbe vietata con riferimento all’adozione stessa delle scelte, tesi particolarmente cara all’Avvocatura dello Stato (v. Relazione dell’Avvocatura gen. dello Stato negli anni 1966-70, II, Roma, 1971, p. 248 ss.), suscita perplessità̀. Essa appare invero frutto di un equivoco qual è quello di ritenere che lo stabilire se una scelta violi il principio di neminem laedere, significa rifare le valutazioni riservate all’amministrazione su come curare un interesse pubblico. Il divieto di arrecare danno costituisce un limite alle valutazioni della p.a., che potrà scegliere la soluzione che ritiene più consona ai fini pubblici, nel rispetto però di tale principio. Il sindacato diretto ad accertare l’osservanza di esso non concerne le scelte in sé stesse, ma il limite in cui esse debbono venire contenute. Il danno per il terzo può derivare sia dalla scelta che dall’attuazione di essa, da ciò l’esigenza di garantire l’osservanza del principio anche con riferimento al primo momento.” (pag. 19, nota n. 19).

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Milano, non solo piattaforma internazionale della Moda ma anche laboratorio digitale.

Giunta alla seconda edizione, questa interessante iniziativa è stata promossa dal Comune di Milano, Assessorato alla Trasformazione Digitale e Servizi Civici.

Numerosi gli eventi in programma in città da domani fino al 17 marzo 2019. Tra i tanti si segnalano:

  • la Conferenza del 13 marzo 2019 “Welcome to the Supply Chain Finance Collaboration” presso il Politecnico di Milano;
  • i due Round Table del 14 marzo 2019 intitolati rispettivamente L’innovazione è ovunque” all’Università di Milano e “Blockchain, creatività e proprietà intellettuale: sfide, minacce e strumenti di protezione” presso l’Agenzia Connexia.

Non si può certo dire che la nostra Rivista non sia adeguatamente rappresentata in ambito accademico. Oltre al prestigio derivante dal nostro Comitato Scientifico, costituito da docenti universitari italiani e stranieri, un ulteriore segnale di crescita in questa direzione è rappresentato dalla nomina del Dott. Claudio Melillo, Direttore Editoriale del nostro periodico, a docente del Master in Diritto Tributario, Contabilità e Pianificazione Fiscale (edizione 2016/2017) della LUISS Business School di Roma, sulle orme dell’Avv. Serena Giglio, attuale Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it.

Ciò premesso, di seguito, riportiamo alcune informazioni utili per chi intendesse iscriversi al prestigioso Master, tratte dal sito http://businessschool.luiss.it/diritto-tributario.

La Redazione


Il Master in Diritto Tributario, Contabilità e Pianificazione Fiscale della LUISS Business School forma i professionisti in ambito tributario che intendono inserirsi in un contesto aziendale o in studi professionali di primario livello, senza trascurare le possibilità di sbocco nell’Amministrazione Finanziaria.


Il Master è rivolto a giovani laureati (II Livello, ordinamento a ciclo unico) in discipline giuridiche ed economiche.

I profili in uscita dal Master possono trovare collocazione in studi di consulenza aziendale, studi legali, uffici fiscali di primarie aziende italiane e multinazionali, uffici studi di Istituzioni Private e Pubbliche, Amministrazioni Finanziarie.


Curriculum:

Il programma dura 12 mesi, distribuiti in 8 mesi d’aula e 4 mesi di esperienza sul campo (Field Project).

Precorso di Contabilità generale e bilancio (2 – 11 novembre 2015)

L’azienda, il sistema delle operazioni di gestione e le condizioni di equilibrio economico-finanziario. La rappresentazione contabile delle operazioni di gestione. Le operazioni di finanziamento. Le operazioni di acquisto: gli investimenti in fattori pluriennali e le spese correnti. Le operazioni di vendita. L’assestamento dei valori economici e la determinazione del reddito. L’analisi di un bilancio di esercizio. La redazione del bilancio d’esercizio nella prospettiva internazionale: principi contabili IAS-IFRS.

Mod. 1 – L’IRPEF: principi e disciplina della tassazione delle persone fisiche. Elementi di fiscalità locale (12 novembre – 9 dicembre)
Responsabile didattico: Prof. Fabio Marchetti

Determinazione dell’imponibile e dell’imposta. Redditi soggetti a tassazione separata. Redditi fondiari e fiscalità degli immobili di impresa. Redditi di natura finanziaria (redditi di capitale e plusvalenze finanziarie). Il regime dei dividendi percepiti da persone fisiche. Imposizione sui capital gains. Redditi di lavoro dipendente, redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e adempimenti del datore di lavoro. Redditi di lavoro autonomo e ritenute alla fonte. Redditi diversi di natura non finanziaria. La previdenza complementare: profili civilistici e fiscali. Casi operativi ed esempi di redazione dei Mod. 730, “Unico”, 770. La semplificazione fiscale e la dichiarazione precompilata. Addizionali IRPEF regionali e comunali. La fiscalità locale: profili generali ed elementi generali sul Federalismo fiscale. IMU, TASI e TARES: soggetti passivi, base imponibile e aliquote, esenzioni e riduzioni. La fiscalità locale: D. LGS 14 marzo 2011 n.23: la cedolare secca sugli affitti. Tassazione patrimoniale delle persone. La fiscalità locale: D. LGS 14 marzo 2011 n.23 – IMU.

Mod. 2 – Fiscalità d’impresa (10 dicembre 2015 – 4 marzo 2016)

Responsabile Didattico: Dott. Massimiliano Longo

  • IRES E DETERMINAZIONE DEL REDDITO D’IMPRESA

La qualificazione del reddito d’impresa. Principi generali sulla determinazione del reddito d’impresa e sulle valutazioni fiscali. Dal risultato civilistico all’imponibile fiscale, il principio di imputazione e di derivazione del risultato fiscale da quello civilistico. Il reddito di impresa per i soggetti che adottano gli IAS. Componenti positive e negative del reddito di impresa: approfondimenti su ammortamenti, accantonamenti, rimanenze, oneri pluriennali, dividendi e plusvalenze. Raccordo tra valutazioni civilistiche e fiscali, casi operativi di variazioni in aumento ed in diminuzione. La fiscalità differita attiva e passiva, le variazioni temporanee nella determinazione del reddito di impresa ed il loro riassorbimento nel tempo. Agevolazioni temporanee e/o strutturali per le imprese. Esercitazioni e casi operativi sui valori in bilancio e loro rilevanza fiscale; eventuali novità per il 2016.

  • IRES: SOGGETTI PASSIVI E SPECIFICITÀ NELLA TASSAZIONE DELLE SOCIETÀ DI CAPITALI

Il modello Ires di tassazione societaria. I soggetti passivi e la residenza fiscale. La base imponibile per società, enti commerciali ed enti non commerciali. Il regime tributario degli utili societari e delle plusvalenze. I vincoli alla deduzione degli interessi passivi. La trasparenza fiscale per le società di capitali. Il consolidato nazionale e mondiale

  • IRAP

Federalismo fiscale su base regionale: quadro generale e ultime novità normative. Presupposto e soggetti passivi: quadro evolutivo alla luce dei numerosi interventi giurisprudenziali. La base imponibile delle società di capitali: il principio di derivazione dal risultato civilistico. La base imponibile per società di persone ed imprese individuali. La base imponibile per i professionisti. La base imponibile per Banche, Assicurazioni, Enti non commerciali ed Amministrazioni Pubbliche. Le deduzioni dall’imponibile: quadro analitico e casi operativi. Le aliquote e la deduzione piena del costo del lavoro a tempo indeterminato: novità dal 2015. La gestione operativa del raccordo tra Irap e reddito di impresa. Esercitazione: la redazione del modello autonomo di dichiarazione IRAP per le diverse categorie di soggetti passivi

  • IVA

Presupposto soggettivo, oggettivo e territoriale: principi generali ed approfondimenti operativi. Le categorie di operazioni rilevanti ai fini Iva. L’esigibilità dell’imposta: regole generali, deroghe e regime di “cash accounting”. La territorialità per le cessioni di beni e per le prestazioni di servizi Base imponibile, rivalsa e detrazione. Approfondimenti su limiti e rettifiche alla detrazione.

Il tributo negli scambi con i Paesi terzi e nei rapporti interni all’Unione Europea . Le novità dal 2015 nelle transazioni internazionali on line. Adempimenti e obblighi dei contribuenti. La gestione Iva per gli enti non profit. Principali regimi speciali. Esempi di redazione di dichiarazione annuale

Mod. 3 – Pianificazione Fiscale Interna (7 marzo – 5 aprile 2016)
Responsabile Didattico: Prof. Livia Salvini

La nozione di elusione fiscale. Aumenti e riduzioni di capitale: profili contabili, civilistici e tributari. Trasformazioni, fusioni, scorpori e scissioni: profili contabili, civilistici e tributari. Liquidazione di società, fallimento e altre procedure concorsuali: profili civilistici e tributari. La disciplina tributaria di titoli e partecipazioni. Aspetti operativi della participation exemption. Il regime fiscale dei dividendi. L’interpello generale e speciale: oggetto e procedimento

Mod. 4 – Accertamento, contenzioso tributario e diritto penale tributario (6 aprile – 6 maggio 2016)
Responsabile Didattico: Prof. Massimo Basilavecchia

La dichiarazione dei redditi e gli obblighi contabili. Accessi, ispezioni e verifiche. Gli accertamenti bancari. Metodi e tipi di accertamento. Parametri e studi di settore. Partecipazione del contribuente al procedimento. Avviso di accertamento globale, parziale, integrativo ed esecutivo. Motivazione e prova. Strumenti deflattivi del contenzioso. Nuova normativa in materia di riscossione dei tributi erariali e locali. Versamenti delle imposte e compensazioni orizzontali e verticali. Le sanzioni amministrative tributarie. Competenza e composizione delle commissioni tributarie. Rappresentanza e difesa del contribuente. Procedimento di primo grado e la fase del reclamo. Procedimento di secondo grado. Ricorso per Cassazione. Il giudicato. Il giudizio di ottemperanza. Redazione di ricorsi. Il sistema penale tributario. Rapporti tra processo tributario e processo penale. Soggetti e struttura del reato tributario. Contravvenzioni in materia di IVA e di imposte sui redditi. Frode fiscale e falso in bilancio

Mod. 5 – Pianificazione fiscale internazionale (9 maggio – 8 giugno 2016)
Responsabile Didattico: Prof. Giuseppe Melis

Nozione di residenza fiscale di persone fisiche, società ed enti nel diritto interno e convenzionale. Le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione: struttura e funzionamento. La nozione di stabile organizzazione e gli effetti sulla determinazione del reddito di impresa. Investimenti all’estero sotto forma di branches o di subsidiaries. Tassazione di dividendi, interessi e royalties. Paradisi fiscali e norme antielusive: Controlled. Foreign Companies, regime di indeducibilità dei costi, transfer price. Voluntary disclosure. Il principio di non discriminazione nelle imposte dirette e indirette. L’armonizzazione delle imposte dirette e indirette e la cd. “concorrenza fiscale”. Fondi di investimento e partnerships. Operazioni societarie transnazionali. Consolidato fiscale mondiale. Il trust. Lo scambio di informazioni tra le autorità fiscali: la cooperazione internazionale contro la frode e l’evasione. Ruling internazionale. Fiscalità doganale


Presidente

Livia Salvini Ordinario di Diritto Tributario LUISS

Direttore del Master

Giuseppe Melis Ordinario di Diritto Tributario LUISS

Advisory Board

  • Fabrizio Amatucci Ordinario di Diritto Tributario, Seconda Università degli Studi di NAPOLI;
  • Nicola Antoniozzi Socio Fondatore Studio Pirola Pennuto Zei & Associati;
  • Claudio Berliri Vice Presidente Nazionale dell’Associazione Nazionale Tributaristi Italiani;
  • Eugenio Della Valle Ordinario di Diritto Tributario, SAPIENZA;
  • Valerio Ficari Ordinario di Diritto Tributario, Università di SASSARI;
  • Stefano Fiorentino Ordinario di Diritto Tributario, Università di SALERNO;
  • Massimiliano Longo Docente di Scienze delle Finanze LUISS;
  • Gerardo Longobardi Presidente dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Roma;
  • Fabio Marchetti Associato di Diritto Tributario LUISS;
  • Francesca Mariotti Direttore Area Politiche Fiscali CONFINDUSTRIA
  • Giuseppe Melis Ordinario di Diritto Tributario LUISS;
  • Renzo Parisotto Consulente del gruppo Ubi Banca ;
  • Giovanni Puoti Rettore Università degli Studi Niccolò Cusano;
  • Livia Salvini Ordinario di Diritto Tributario LUISS;
  • Rita Santarelli Presidente VISES Onlus – Federmanager
  • Andrea Silvestri Socio Studio Legale Bonelli Erede Pappalardo

Docenti intervenuti nelle precedenti edizioni:

Giacomo Albano – Dottore Commercialista, Studio Legale e Tributario Ernst & Young
Paola Albano – Avvocato, Studio Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP
Fabrizio Amatucci – Ordinario di Diritto Tributario della Seconda Università degli Studi di Napoli
Giuseppe Ascoli – Dottore Commercialista, Adonnino Ascoli e Cavasola Scamoni Studio Tributario
Massimo Basilavecchia – Ordinario di Diritto Tributario dell’ Università degli Studi di Teramo
Fabio Brunelli – Partner Di Tanno e Associati Studio Legale e Tributario
Bruno Ciappina – Ufficio Fiscale Autostrade per l’Italia
Alberto Comelli – Associato di Diritto Tributario dell’Università di Parma
Giuseppe Corasaniti – Associato in Diritto Tributario dell’Università degli Studi di Brescia
Giammarco Cottani – Assistente di Direzione – Direzione Centrale Accertamento – Agenzia delle Entrate
Angelo Cremonese – Dottore Commercialista, Studio Perno, Cremonese, Radice & Cereda
Roberto Cusimano – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Davide De Girolamo – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Vincenzo De Sensi – Docente di Diritto Fallimentare luiss Guido Carli, Avvocato in Roma
Lorenzo Del Federico – Ordinario di Diritto Tributario dell’Università degli Studi di Chieti – Pescara
Gabriele Escalar – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Massimo Fabio – Avvocato, KStudio Associato
Stefano Fiorentino – Ordinario di Diritto Tributario dell’Università di Salerno
Serena Giglio – Avvocato, ACP Studio Consulenza Tributaria (Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it)
Claudio Giordano – Avvocato, Studio Legale Macchi di Cellere e Gangemi
Vittorio Giordano – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Fabrizio Iacuitto – Partner, Di Tanno e Associati Studio Legale e Tributario
Antonio Laudati – Sostituto Procuratore Generale Corte di Appello di Roma
Maurizio Lauri – Dottore Commercialista, Studio L4C – Studio Lauri Lombardi Lonardo Carlizzi
Stefano Lizzani – Dottore Commercialista, LT Partners Studio Legale e Tributario
Massimiliano Longo – Docente di Scienza delle Finanze Università LUISS Guido Carli
Luca Longobardi – Dottore Commercialista, Maisto e Associati
Daniele Majorana – Dottore Commercialista e Consulente Fiscale
Fabio Marchetti – Associato di Diritto Tributario Luiss Guido Carli
Giuseppe Marino – Associato di Diritto Tributario dell’Università di Milano
Mario Martinelli – Avvocato, Studio McDermott Will & Emery
Giuseppe Melis – Ordinario di Diritto Tributario LUISS Guido Carli
Rossella Miceli – Ricercatrice di Diritto Tributario dell’Università Sapienza di Roma
Giuseppe Molinaro – Dottore Commercialista, Responsabile Fiscale della Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo
Roberta Moscaroli – Dottore Commercialista, Dla Piper
Alberto Mula – Ricercatore di Diritto Tributario, Università degli Studi Napoli Federico II
Giuseppe Napoli – Dottore Commercialista, Docente di Diritto Tributario LUISS Guido Carli
Giuseppe Nebbia – Avvocato in Campobasso
Annalisa Pace – Professore Aggregato di Diritto Tributario Università di Teramo
Roberto Padova – Avvocato, Studio Pirola, Pennuto Zei & Associati
Alessio Persiani – Avvocato, Studio McDermott Will & Emery
Vania Petrella – Avvocato, Studio Cleary Gottlieb Steen & Hamilton LLP
Franco Petrucci – Consulente Fiscale già Dirigente Assonime
Luca Peverini – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Antonio Piciocchi – Dottore Commercialista, Studio Tributario e Societario Deloitte
Fabio Pirolozzi – Dottore Commercialista, TLS Associazione Professionale di Avvocati e Commercialisti
Pasquale Pistone – Associato di Diritto Tributario dell’Università di Salerno
Giovanni Puoti – Ordinario di Diritto Tributario dell’Università Sapienza di Roma
Paolo Puri – Associato di Diritto Tributario dell’Università del Sannio S.E.A.
Giulio Ranocchiari – Dottore Commercialista, T&R Studio Associato
Federico Rasi – Avvocato, Dottore di Ricerca in Diritto Tributario
Alberto Renda – Avvocato, KLegal Studio Associato
Domenico Riccio – Coordinatore dell’Area Governo e Riscossione presso Agenzia delle Entrate
Carlo Romano – Avvocato, TLS Associazione Professionale di Avvocati e Commercialisti
Fabiola Rossi – Dottore Commercialista, Bonelli Erede Pappalardo Studio Legale
Francesco Rossi Ragazzi – Docente di Diritto Tributario Comparato Università di Chieti – Pescara
Eugenio Ruggiero – Dottore Commercialista, Studio Visentini Marchetti e Associati
Massimiliano Russo – Avvocato, LL.M. in Diritto Tributario
Carlo Sallustio – Avvocato, Fantozzi e Associati – Studio Legale Tributario
Livia Salvini – Ordinario di Diritto Tributario LUISS Guido Carli
Alessandro Serena – Ten.Col. t.ST GDF, Direttore responsabile Rivista della Guardia di Finanza
Enrico Siciliano – Dottore Commercialista, Studio Legale e Tributario Siciliano
Andrea Silvestri – Avvocato, Bonelli Erede Pappalardo Studio Legale
Gianni Tarozzi – Dottore Commercialista, T&R Studio Associato
Riccardo Tiscini – Ordinario di Economia Aziendale dell’Universitas Mercatorum
Chiara Todini – Avvocato, Studio Associato Legale Tributario Fondato da F. Gallo
Giuseppe Zizzo – Ordinario di Diritto Tributario dell’Università LIUC di Castellanza


DATA DI INIZIO: 24 ottobre 2016
DURATA: 12 mesi
SELEZIONI: Aperte
LEZIONI: 9.30 – 13.30

QUOTA DI PARTECIPAZIONE

€ 13.000

PROSSIME SELEZIONI

6 ottobre alle 10:00 in sede o alle 14:30 su Skype

CONTATTI

LUISS Business School

Viale Pola, 12 – 00198 Roma
T 06 8522 2327
T 06 8522 2391
T 06 8522 5225
F 06 85 222 400
numero verde 800901194 – 800901195
smluissbs@luiss.it

MILANO BICOCCA

SONO APERTE LE ISCRIZIONI

AI LABORATORI DEL CE.S.E.D. – ANNO 2015

accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e dalla Guardia di Finanza di Milano

Per informazioni: formazione@economiaediritto.it

Telefono: 02/00681087 (Melillo & Partners)

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LABORATORIO N. 2 

I LABORATORI TRIBUTARI DI ECONOMIAeDIRITTO.it – ANNO 2015

accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano e dalla Guardia di Finanza

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DALLA VERIFICA FISCALE AL CONTENZIOSO:

Metodologie e Tecniche di Difesa Tributaria

Laboratorio di Tax Risk Management e Gestione delle Controversie Tributarie

Programma analitico

Obiettivi:

Il Corso intende formare una nuova figura professionale che sarà molto richiesta in futuro, quella del Tax Risk & Dispute Manager, che avrà la competenza di mappare e monitorare i rischi fiscali in azienda, implementando un apposito modello, e di gestire eventuali future controversie tributarie atte a difendere gli interessi aziendali, laddove il modello non sia stato in grado di dimostrare la Tax Compliance nei confronti degli Organi di controllo. La formazione della nuova figura avverrà attraverso la (ri)qualificazione e/o la specializzazione di professionisti tradizionali (es., avvocati, commercialisti, consulenti d’azienda, ecc.) e di dipendenti degli uffici fiscali delle imprese (es., CFO, responsabili fiscali, impiegati, ecc.); il Corso è rivolto anche ai funzionari dell’Amministrazione finanziaria (Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate) che svolgono (o intendano svolgere) le verifiche fiscali nei confronti delle imprese nazionali e/o multinazionali. Il percorso formativo consente di conoscere le principali tecniche di Tax Governance finalizzate alla Tax Compliance e alla gestione dei rischi fiscali, con particolare attenzione ai rapporti con il Fisco (verifiche fiscali, accertamenti, monitoraggio, ruling, contraddittorio, ecc.). Questo tema è divenuto oggi cruciale (anche alla luce della Delega Fiscale approvata a marzo 2014 e del successivo decreto sulla certezza del diritto, approvato nel 2015) per chi si trova a gestire i rapporti con l’Amministrazione finanziaria e/o ad affrontare una verifica fiscale. In siffatto scenario, i migliori risultati (secondo l’esperienza empirica) giungono sempre da una corretta impostazione delle politiche di Tax Compliance e da una adeguata attività di prevenzione del rischio fiscale, prima ancora del contenzioso tributario. Lo scenario, dunque, è significativamente mutato rispetto a qualche anno fa in quanto oggi (e sempre più in futuro), soprattutto nelle imprese che operano con l’estero, occorre attuare politiche di prevenzione, prendendo in considerazione il contenzioso (incerto, oneroso e defatigante) solo come extrema ratio.

Questo non vuol dire rinunciare all’azione di difesa ma, al contrario, intraprendere la controversia nella maniera più efficace possibile e con i migliori presupposti in fatto e in diritto, certi di non aver lasciato nulla al caso.

Programma:

MODULO I – 23 OTTOBRE 2015 (14:00 – 18:00)

  • Tax Planning & Tax Risk Management:
    • Il concetto di rischio fiscale ed i principi dettati dalla legge delega n. 23/2014
    • Il Tax Risk Assessment dell’Amministrazione finanziaria e l’attribuzione del Tax Risk Score
    • La Tax Compliance e i modelli di trasparenza fiscale
    • La nuova figura del Tax Risk Manager con competenze di contenzioso tributario (Tax Risk & Dispute Manager)
    • Casi e testimonianze
  • La verifica fiscale e i poteri dell’Amministrazione finanziaria:
    • La nozione di verifica
    • La classificazione delle verifiche
    • I periodi d’imposta verificabili
    • La durata della verifica
    • I poteri esercitabili nel corso della verifica
    • I diritti del Contribuente sottoposto a verifica fiscale
    • La prova legale in ambito tributario
    • Le dichiarazioni rese da terzi
    • Il contraddittorio in verifica
    • La partecipazione del Contribuente alle operazioni ispettive e il suo diritto di rilasciare osservazioni e memorie
    • La gestione delle operazioni di chiusura della verifica fiscale
    • Il processo verbale di constatazione
    • Le valutazione del PVC e le possibili azioni difensive successive
    • La verifica delle operazioni aventi rilevanza internazionale (cenni e casi pratici)
    • Casi e testimonianze

MODULO II – 6 NOVEMBRE 2015 (14:00 – 18:00)

  • L’accertamento (parte prima)
    • Le richieste da parte degli uffici finanziari e le sanzioni derivanti dall’inadempimento del Contribuente
    • Le metodologie di accertamento nei confronti dei soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili
    • L’accertamento sintetico
    • L’accertamento basato sugli studi di settore
    • L’emissione dell’avviso di accertamento: modalità e presupposti

MODULO III – 13 NOVEMBRE 2015 (14:00 – 18:00)

  • L’accertamento (parte seconda)
    • Gli istituti deflattivi del contenzioso
    • L’accertamento delle operazioni aventi rilevanza internazionale (cenni e casi pratici)
    • La scelta: adesione o ricorso?
    • Casi e testimonianze

MODULO IV – 20 NOVEMBRE 2015 (14:00 – 18:00)

  • Il Contenzioso:
    • Il ricorso tributario di I° e II° grado: strumenti di difesa del Contribuente sotto il profilo procedurale e nel merito
    • La mediazione-reclamo in ambito tributario
    • L’utilizzo della consulenza tecnica nel contenzioso tributario
    • La conciliazione giudiziale
    • Il ricorso per revoca
    • Il ricorso per Cassazione
    • Le ultime novità sul processo tributario telematico

MODULO V – 27 NOVEMBRE 2015 (14:00 – 18:00)

  • Case History: simulazione in aula di un processo tributario basato su un caso reale.
    • Esame e commento del pvc (con eventuale coinvolgimento dei verificatori della Guardia di Finanza presenti in aula)
    • Esame e commento dell’avviso di accertamento (con eventuale coinvolgimento dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate presenti in aula)
    • Esame e commento degli atti del processo tributario (a cura del Prof. Avv. Paolo Brecciaroli, già Giudice Tributario presso le Commissioni della Lombardia; è stato Giudice nel famoso processo tributario a carico della multinazionale “Philip Morris“, accusata di avere stabili organizzazioni occulte in Italia)

Il programma potrebbe subire modifiche e/o integrazioni in ragione di eventuali esigenze didattiche o organizzative.

Accreditamenti ottenuti:

  • Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano: 20 Crediti Formativi Professionali (CFP) riconosciuti agli iscritti (4 CFP per ciascun modulo);
  • Comando Regionale Guardia di Finanza Lombardia: Corso accreditato per l’aggiornamento professionale di 10 Funzionari dei Reparti operativi (es. Nucleo di Polizia Tributaria di Milano);

 

Date degli incontri:

  • 23/10/2015 (Tax Risk Management e Verifica fiscale)
  • 06/11/2015 (Accertamento – parte prima)
  • 13/11/2015 (Accertamento – parte seconda)
  • 20/11/2015 (Contenzioso – procedura)
  • 27/11/2015 (Simulazione di un processo tributario – a cura del Giudice tributario, Avv. Paolo Brecciaroli di Milano)

Sede del Corso: MILANO, Via Santa Maria Valle, 3 – c/o Regus Center.

Referente Accademico:

  • Claudio Sacchetto, Avvocato Tributarista, Professore Emerito di Diritto Tributario dell’Università degli Studi di Torino, Membro dei Comitati Scientifici delle principali Riviste scientifiche di Diritto Tributario nazionale, europeo e internazionale, Autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria, Docente e relatore in convegni, seminari e corsi nelle principali università e istituzioni del mondo.

Direzione Scientifica:

  • Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Legnano e Milano, Dottore di Ricerca in Diritto Tributario, membro della Commissione Fiscalità Internazionale dell’ODCEC di Milano, Autore di numerose pubblicazioni, Docente in seminari, convegni e corsi tenuti presso università italiane ed estere nonché presso le scuole di formazione dell’Amministrazione finanziaria, Direttore editoriale della Rivista online ECONOMIAeDIRITTO.it;

 

Docenti e relatori (in ordine alfabetico):

  • Paolo Brecciaroli, Avvocato Tributarista e Dottore Commercialista, già Giudice Tributario presso le Commissioni Tributarie della Lombardia, Membro della Commissione Contenzioso dell’ODCEC di Milano, Pubblicista e Docente in corsi e convegni in materia tributaria in Italia e all’Estero;
  • Marco Cardillo, Funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Torino, Autore di alcune pubblicazioni in materia tributaria su ECONOMIAeDIRITTO.it;
  • Raffaele Caso, Avvocato Tributarista in Milano, Melillo & Partners Studio Legale Tributario, Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D.;
  • Serena Giglio, Avvocato Tributarista in Roma, Direttore Responsabile della Rivista online ECONOMIAeDIRITTO.it;
  • Cesare Maragoni, Colonnello t. SFP, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
  • Claudio Melillo, Dottore Commercialista e Tributarista in Legnano e Milano, Esperto di Tax Risk Management, Melillo & Partners Studio Legale Tributario, Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D., Dottore di Ricerca in Diritto Tributario, membro della Commissione Fiscalità Internazionale dell’ODCEC di Milano;
  • Ernestina Pollarolo, Avvocato Tributarista in Alessandria e Torino, già Giudice tributario per circa 23 anni presso le Commissioni Tributarie del Piemonte;
  • Camillo Sacchetto, Avvocato in Alessandria, Docente di diritto tributario telematico dell’Università degli Studi di Torino, Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D.;
  • Sergio Sottocasa Biani, Avvocato Tributarista in Milano, Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D.;
  • Altri relatori provenienti dall’Agenzia delle Entrate.

Ulteriori informazioni:

Il presente intervento formativo, articolato in 5 incontri pomeridiani di 4 ore ciascuno, per un totale di 20 ore, è strutturato come un vero e proprio Laboratorio (analogamente agli altri eventi formativi del Ce.S.E.D.) e mira al trasferimento di know-how da parte dei docenti e relatori nei confronti di discenti (professionisti, managers, funzionari del Fisco, imprenditori, praticanti, laureati, ecc.) interessati a conoscere strumenti e modalità operative di gestione del rischio fiscale e delle controversie aventi natura tributaria: dalla tax governance alle verifiche fiscali (ed eventuali indagini penal-tributarie correlate) e dagli accertamenti tributari fino al contenzioso.

Il Laboratorio ha contenuto prevalentemente pratico e costituisce un momento di crescita e di confronto costruttivo tra professionalità simili ma aventi ruoli differenti e talvolta contrapposti (es. professionisti e funzionari del Fisco). L’approfondimento delle tematiche oggetto dei singoli Moduli, infatti, è divenuta cruciale per chi si trovi ad affrontare una verifica fiscale, sia dal punto di vista della Pubblica Amministrazione che dal punto di vista del Contribuente.

Naturalmente, l’obiettivo principale del Laboratorio rimane quello di approfondire le metodologie e le tecniche difensive adottabili dal Contribuente in sede di verifica, accertamento e contenzioso, tenendo conto che i migliori risultati (secondo l’esperienza) giungono da una corretta impostazione dell’attività di difesa tributaria preventiva (i.e., Tax Risk Management) e da un utilizzo razionale ed equilibrato del contenzioso tributario (che, oggi più che mai, deve essere considerato sempre come extrema ratio, nell’interesse del Contribuente).

Contributo di iscrizione: 150,00 Euro (75,00 Euro Soci Ce.S.E.D.).

Per associarsi al Ce.S.E.D. e avere diritto alla riduzione del 50% è sufficiente seguire le indicazioni riportate nella seguente pagina web:

https://www.economiaediritto.it/centro-studi/aderisci-al-ce-s-e-d/

COME ISCRIVERSI AL CORSO O AD UN SINGOLO MODULO?

Scarica il Modulo di iscrizione entro il 26 novembre 2015 (data dell’ultimo modulo)!

Il pagamento del contributo d’iscrizione di 150,00 euro per la partecipazione al LABORATORIO TRIBUTARIO (RIF. TR&DM) o, in alternativa, ad un singolo modulo di proprio interesse e deve essere eseguito tramite bonifico bancario sul conto corrente intestato a “Centro Studi di Economia e Diritto” (IBAN: IT32 X031 5801 600C C102 2001 078) inserendo come causale: “Iscrizione al Corso TR&DM“.

Dopo aver effettuato il bonifico è sufficiente inviare una e-mail all’indirizzo formazione@economiaediritto.it con la richiesta di partecipazione al LABORATORIO DI TR&DM, allegando la ricevuta del bonifico bancario.

Coloro che intendono avere la riduzione del 50% sul contributo di iscrizione devono aderire al Ce.S.E.D. in qualità di Soci, seguendo le indicazioni riportate al seguente link:

DIVENTA SOCIO CESED

Gli appartenenti all’Amministrazione finanziaria (Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate) che si iscriveranno al Ce.S.E.D. come Soci Ordinari Persone Fisiche, versando la quota minima di euro 100,00, avranno diritto a partecipare gratuitamente a tutte le iniziative di Alta Formazione, sia in presenza che on line (senza alcuna limitazione).

Dal 2015 il Ce.S.E.D., in collaborazione con il Comando Regionale della Guardia di Finanza della Lombardia, offre fino a 10 posti GRATUITI per la formazione professionale di altrettanti funzionari e/o dirigenti in servizio presso i principali Reparti della Lombardia.


LABORATORIO N. 1 (concluso in data 15 ottobre 2015)

STRUMENTI OPERATIVI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

Programma analitico

SEMINARIO N. 1: Come affrontare i mercati esteri

Obiettivi:

Le opportunità offerte dalla internazionalizzazione sono una risorsa cruciale per il raggiungimento degli obiettivi di business e per l’incremento del fatturato aziendale. Il seminario fornisce una serie di strumenti operativi per affrontare i mercati esteri in maniera efficace, aiutando l’impresa ad individuare le corrette strategie di marketing e ad orientare al meglio le proprie risorse ed investimenti.

Programma:

  • Il sistema delle strategie aziendali;
  • Strategie di sviluppo e strategie competitive;
  • I percorsi d’internazionalizzazione delle imprese;
  • Le diverse forme di internazionalizzazione;
  • Gli elementi che influenzano le strategie di sviluppo internazionale;
  • Analisi competitiva e strategie di internazionalizzazione;
  • Selezione e analisi dei mercati esteri;
  • Modalità di entrata nei mercati esteri;
  • Business planning per l’internazionalizzazione;
  • Le leve di marketing.

SEMINARIO N. 2: Come gestire l’assetto organizzativo

Obiettivi:

Nessuna impresa può fare a meno di organizzare le proprie risorse se intende raggiungere i propri obiettivi. Avviare un progetto di internazionalizzazione richiede un’attenta analisi delle funzioni e dei processi aziendali coinvolti nonché, spesso, una riorganizzazione del modello di business e una modifica della mentalità. Il seminario fornisce gli strumenti operativi indispensabili per gestire il cambiamento organizzativo e adottare una corretta struttura finanziaria in vista dei nuovi traguardi.

Programma:

  • I motivi per l’internazionalizzazione;
  • Le strategie più adatte per operare sui mercati internazionali;
  • Global niche, networking e neoregionalismo;
  • Strategie organizzative e modelli di management;
  • Scenari e variabili per la definizione delle strategie di impresa;
  • Strategia di globalizzazione e strategia (multi) domestica;
  • L’Internazionalizzazione delle imprese: il modello a stadi;
  • L’integrazione informativa a supporto della strategia di internazionalizzazione;
  • Grado e forme di internazionalizzazione;
  • Modelli di strutture per l’internazionalizzazione;
  • La produzione delocalizzata;
  • Il global sourcing e la virtual enterprise;
  • Le soluzioni organizzative per lo sviluppo internazionale;
  • Modelli organizzativi di imprese internazionali;
  • Il nuovo ruolo della Tesoreria nella strategia aziendale;
  • Un uso strategico delle risorse finanziarie per l’internazionalizzazione;
  • Il cash pooling;
  • La Payment Factory;
  • L’House Banking;
  • Analisi dei modelli operativi bancari in un contesto internazionale;
  • Overview dei servizi offerti da SACE;
  • Overview dei servizi offerti da SIMEST;
  • Cenni su altre forme di finanziamento disponibili.

SEMINARIO N. 3: I programmi europei come percorso privilegiato

Obiettivi:

Prendendo spunto dai finanziamenti a sostegno dell’internazionalizzazione offerti a livello Nazionale e Regionale, il corso fornisce una panoramica completa degli strumenti finanziari e di finanziamento dedicati dall’Unione Europea alle PMI. Il corso offre ai partecipanti una mappa esaustiva di riferimenti e strumenti che consentirà agli stessi di orientarsi in modo autonomo nella ricerca delle soluzioni più adeguate alla proprie esigenze di internazionalizzazione e ricerca di nuove opportunità.

Programma:

  • Dati di contesto: il livello di internazionalizzazione delle PMI, fattori agevolanti e barrieranti, benefici per le PMI;
  • Accenni alle opportunità, ai soggetti erogatori e alle modalità di accesso ai finanziamenti per l’internazionalizzazione a livello Nazionale e Regionale (Regione Lombardia);
  • Presentazione del Portale della Comunità Europea dedicato alle PMI;
  • Panoramica delle principali opportunità di finanziamento per le PMI europee:
    • Programmi tematici e modalità di accesso (es: COSME o HORIZON 2020);
    • Sostegni indiretti all’internazionalizzazione;
  • Servizi di supporto: agenzie europee e nazionali;
  • Case study: dall’idea allo sviluppo di progetto – comprendere l’articolazione di un bando, i formulari e i criteri di valutazione; utilizzare le banche date dei progetti e dei partner; il proprio ruolo nel progetto; strutturare il progetto in wp e deliverables; il budget; l’invio e il sistema di finanziamento e rendicontazione.

SEMINARIO N. 4: Come gestire gli aspetti legali e contrattuali

Obiettivi:

Per affrontare i mercati esteri e interagire con soggetti ubicati al di là dei confini nazionali occorre conoscere in dettaglio gli aspetti legali e contrattuali delle singole operazioni. Il seminario fornisce una serie di spunti operativi per approfondire tali aspetti e per attuare una politica di internazionalizzazione consapevole ed efficace.

Programma:

  • Mercati globali e sistemi giuridici;
  • I contratti internazionali e la legge applicabile;
  • La forma del contratto;
  • La lingua del contratto;
  • La conclusione del contratto: tempi e formalità;
  • I modi di soluzione delle controversie:
    1. l’arbitrato;
    2. la giurisdizione ordinaria;
  • Il riconoscimento delle decisioni straniere;
  • I contratti tra investitori e Stati e le problematiche connesse;

SEMINARIO N. 5: Come gestire la variabile fiscale

Obiettivi:

Nelle operazioni di internazionalizzazione la variabile fiscale rappresenta un elemento critico e, come tale, meritevole di particolare attenzione. Alla luce del quadro normativo assai complesso e mutevole, infatti, le imprese devono attuare un’attenta politica di Tax Governance e Tax Risk Management finalizzata al raggiungimento della Tax Compliance. Il seminario fornisce una serie di suggerimenti operativi per ridurre i rischi fiscali e far fronte in maniera efficace a tutte le problematiche fiscali delle operazioni aventi rilevanza internazionale.

Programma:

  • Gli indirizzi operativi dell’Amministrazione finanziaria in materia di contrasto dell’evasione ed elusione fiscale internazionale;
  • I rischi fiscali derivanti dall’internazionalizzazione;
  • La residenza fiscale (delle persone fisiche e giuridiche) e l’esterovestizione;
  • La stabile organizzazione (personale e materiale);
  • Il transfer pricing ed il concetto di “arm’s length price”;
  • I paradisi fiscali e la disciplina delle controlled foreign companies (CFC);
  • Le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (Modello OCSE);
  • Le verifiche fiscali dell’Amministrazione finanziaria;
  • Base Erosion and Profit Shifting (BEPS);
  • Tax Governance e modelli di International Tax Compliance;
  • La risoluzione delle controversie internazionali (MAP, ecc.);
  • Gli aspetti penal-tributari delle operazioni internazionali.

Il programma potrebbe subire modifiche e/o integrazioni in ragione di eventuali esigenze didattiche o organizzative.

Accreditamenti ottenuti:

  • Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano: 20 Crediti Formativi Professionali (CFP) riconosciuti agli iscritti (4 CFP per ciascun modulo);
  • Guardia di Finanza: Corso accreditato dal Comando Regionale Lombardia per l’aggiornamento professionale di 10 Funzionari dei Reparti operativi (es. Nucleo di Polizia Tributaria di Milano).

 

Date degli incontri:

  • 18/09/2015, orario 14:00-18:00 (Aspetti strategici e commerciali) – Dott. Roberto Bottiroli, consulente aziendale, Dott. Valerio Vicenzetto e Dott.ssa Anna Barbieri, MAP SpA.
  • 25/09/2015 orario 14:00-18:00 (Aspetti organizzativi) – Ing. Giancarlo Poggi, consulente aziendale, già Partner di Accenture SpA.
  • 02/10/2015 orario 14:00-18:00 (Aspetti finanziari) – Prof. Giorgio Beltrami, docente dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.
  • 09/10/2015 orario 14:00-18:00 (Aspetti contrattuali) – Avv. Anna Pozzato, civilista esperta di contrattualistica internazionale.
  • 15/10/2015 orario 14:00-18:00 (Aspetti fiscali) – Dott. Claudio Melillo, dottore commercialista, tributarista e dottore di ricerca in diritto tributario.

Ospiti: Dott. Roberto Bottiroli, consulente aziendale; Avv. Raffaele Caso, fiscalista internazionale; Avv. Sergio Sottocasa Biani (in attesa di conferma).

Sede del Corso: Via Santa Maria Valle, 3 – c/o Regus Center.

Docenti e relatori:

  1. Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Legnano e Milano e Dottore di Ricerca in Diritto Tributario;
  2. Giorgio Beltrami, Docente a contratto presso l’Università di Milano Bicocca;
  3. Giancarlo Poggi, Consulente aziendale, già Partner di Accenture SpA;
  4. Roberto Bottiroli, Consulente aziendale;
  5. Anna Pozzato, Avvocato civilista esperta di contratti internazionali e infragruppo;
  6. Valerio Vicenzetto, Presidente del CdA della Società MAP S.p.A. (in attesa di conferma);
  7. Anna Barbieri Venturi, Responsabile commerciale della Società MAP S.p.A. (in attesa di conferma);
  8. Lidia Komjanc, Esperta in operazioni di internazionalizzazione nei Paesi balcanici (in attesa di conferma);
  9. Raffaele Caso, Avvocato Tributarista in Milano;
  10. Col. t. SFP Cesare Maragoni, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
  11. Marco Cardillo, Funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Torino (in attesa di conferma);
  12. Sergio Sottocasa Biani, Avvocato Tributarista in Milano (in attesa di conferma).

Ulteriori informazioni:

Il presente intervento formativo, articolato in 5 incontri pomeridiani di 4 ore ciascuno, per un totale di 20 ore, è strutturato come un vero e proprio laboratorio (analogamente agli altri eventi formativi del Ce.S.E.D.) e mira al trasferimento di know-how da parte dei docenti e relatori nei confronti di discenti (professionisti, managers, funzionari del Fisco, imprenditori, praticanti, ecc.) interessati a conoscere strumenti e modalità operative di gestione delle operazioni di internazionalizzazione delle PMI.

Il corso ha contenuto prevalentemente pratico e costituisce un momento di crescita e di confronto costruttivo tra i docenti e i discenti, destinato a proseguire anche dopo il Corso, grazie all’attività di networking sviluppata dal Centro Studi.

Contributo (simbolico) di iscrizione: 150,00 Euro (75,00 Euro Soci Ce.S.E.D.).

PER ISCRIVERSI AL CORSO:

Scaricare il Modulo di iscrizione.

Il pagamento del contributo d’iscrizione al Corso n. 1 deve essere eseguito tramite bonifico bancario sul conto corrente intestato a “Centro Studi di Economia e Diritto” (IBAN: IT32 X031 5801 600C C102 2001 078) inserendo come causale: “Iscrizione al Corso n. 1“.

Dopo aver effettuato il bonifico è sufficiente inviare una e-mail all’indirizzo formazione@economiaediritto.it con la richiesta di partecipazione al Corso n. 1, allegando la ricevuta del bonifico bancario.

Coloro che intendono avere la riduzione del 50% sul contributo di iscrizione devono aderire al Ce.S.E.D. in qualità di Soci, seguendo le indicazioni riportate al seguente link:

DIVENTA SOCIO CESED

Gli appartenenti all’Amministrazione finanziaria (Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate) che si iscriveranno al Ce.S.E.D. come Soci Ordinari Persone Fisiche, versando la quota minima di euro 100,00, avranno diritto a partecipare gratuitamente a tutte le iniziative di Alta Formazione, sia in presenza che on line (senza alcuna limitazione).

Dal 2015 il Ce.S.E.D., in collaborazione con il Comando Regionale della Guardia di Finanza della Lombardia, offre fino a 10 posti GRATUITI per la formazione professionale di altrettanti funzionari e/o dirigenti in servizio presso i principali Reparti della Lombardia.

TAX LAB 2015

CORSI ACCREDITATI DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI DI MILANO – ANNO 2015:

Il Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D., in collaborazione con Melillo & Partners Studio Legale Tributario, avvia i “Laboratori di Economia & Diritto”, una serie di workshop formativi, a numero chiuso, pensati per stimolare l’interesse dei discenti (professionisti, imprenditori, manager, funzionari pubblici, laureati, ecc.) a partecipare a sessioni di studio fondate sull’esperienza, oltre che sulla teoria.

Durante i “Laboratori di Economia & Diritto” qualificati docenti metteranno la loro pluriennale esperienza al servizio dei partecipanti, affinché questi possano accrescere con facilità il loro bagaglio di competenze teorico-pratiche.

Nell’ambito dei “Laboratori di Economia & Diritto” rientra il Tax L@b 2015: Laboratorio di Fiscalità Internazionale, corso di alta formazione accreditato dall’ODCEC di Milano con il riconoscimento di 20 CFP, unitamente al quale, su richiesta, è possibile attivare ulteriori incontri di approfondimento in aula, orientati a rispondere a specifiche esigenze di problem solving (anche su proposta di ciascun partecipante).

  • TAX LAB 2015 (EVENTO ACCREDITATO DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI DI MILANO PER 20 CFP) – PROGRAMMA – BROCHURE E MODULO DI ISCRIZIONE:
    • Rappresentante del Comitato Scientifico di E&D:
      • Prof. Avv. Claudio Sacchetto (Professore emerito di Diritto Tributario dell’Università di Torino).
    • Direttore Scientifico e Coordinatore del Corso:
      • Dott. Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Milano (www.melilloandpartners.it) e Dottore di Ricerca in Diritto Tributario presso la Seconda Università di Napoli (www.claudiomelillo.it).
    • Relatori e Ospiti:
      • Dott. Luigi Busoni, Tax Manager Gruppo IKEA Italia;
      • Dott. Gianluca D’Aula, Tax Manager Gruppo ILLY Caffè (in attesa di conferma);
      • Avv. Sergio Sottocasa Biani, Tributarista in Milano;
      • Dott. Alessio Rombolotti, Analista di transfer pricing, Melillo & Partners Studio Legale Tributario;
      • Avv. Massimiliano Sammarco, Tributarista in Roma;
      • Dott. Marco Cardillo, Funzionario tributario presso l’Agenzia delle Entrate (in attesa di conferma);
      • Col. t. SFP Cesare Maragoni, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
      • Avv. Serena Giglio, Tributarista in Roma, Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it;
      • Avv. Claudia Marinozzi, Tributarista in Milano, (in attesa di conferma).

gli eventi sono organizzati in collaborazione con:

La sede dei corsi per i Professionisti è Milano, Via Santa Maria Valle 3. I posti disponibili sono 65.

Tutti gli eventi sono stati accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano. Ai partecipanti verrà rilasciato apposito attestato ai fini del riconoscimento dei CFP.

La sede dei Corsi è Milano, Via Santa Maria Valle, 3.

Informazioni e prenotazioni:

Melillo & Partners Studio Legale Tributario

Via Santa Maria Valle, 3 – 20123 MILANO

Telefono: (+39) 02 00681087

E-mail: formazionecontinua@economiaediritto.it

ALTRI EVENTI SVOLTI NEL 2015:

  1. Arriva il Tax Risk Manager in azienda_Worskshop del 7 maggio 2015
  2. Digital innovation Social Communication_Workshop del 3 giugno 2015

*****

Sei interessato a sponsorizzare i nostri eventi formativi?

A fronte di un contributo a copertura parziale degli oneri organizzativi, Ti offriamo la possibilità di partecipare come relatore ad uno o più eventi nonché di effettuare uno speech di presentazione della Tua organizzazione e di esporre materiale promozionale durante gli eventi.

Per i dettagli contattaci all’indirizzo partnership@economiaediritto.it.

Finanziamenti

FONDI EUROPEI GESTITI DIRETTAMENTE DALL’EUROPA

> Ambiente, Azione per il Clima, Green economy (2)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Progettazione, pianificazione e conduzione di una valutazione delle esercitazioni per i moduli della protezione civile, le équipe di assistenza tecnica e di sostegno e le équipe della protezione civile dell’Unione europa (ECHO/B1/SER/2014/09).

  • Scadenza 9 febbraio 2015 NEW.

Call for application – Presentazione candidature: Premio europeo Natura 2000

  • Scadenza 21 gennaio 2015

> Audiovisivi, Cinema, Media (9)

Call for Proposals – Sovvenzioni: Sostegno alla programmazione televisiva di opere audiovisive europee (EACEA 24/2014)

  • Scadenza 13 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Sostegno allo sviluppo di pacchetti di progetti (slate funding) (EACEA 18/2014)

  • Scadenza 5 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Sostegno allo sviluppo di singoli progetti (EACEA 17/2014)

  • Scadenza 15 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Sostegno alla programmazione televisiva di opere audiovisive europee (EACEA 24/2014)

  • Scadenze 13 gennaio 2015; 28 maggio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Invito a presentare le proposte. Sostegno all’accesso ai mercati (EAC/S29/2014)

  • Scadenza 22 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Europa Creativa – Sottoprogramma Media. Sostegno alla distribuzione di film europei non nazionali – Sistema Agenti di vendita (EAC/S21/2013)

  • Scadenza 1 marzo 2016 (Reinvestimenti)

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Europa Creativa – Sottoprogramma Media. Sostegno alla distribuzione di film europei non nazionali – Sistema Cinema Automatic (EAC/S28/2013)

  • Scadenza 31 luglio 2015 (Reinvestimenti)

Eurimages: Fondo del Consiglio d’Europa a sostegno della coproduzione, distribuzione, sfruttamento e digitalizzazione di opere cinematografiche europee

  • Scadenza 15 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Sostegno alla distribuzione transnazionale dei film europei – Sistema di sostegno «agente di vendita» 2013 (EACEA/07/13)

  • Scadenza 2 marzo 2015 (reinvestimento fondo potenziale)

> Cooperazione con Paesi terzi (9)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Assistenza tecnica per l’integrazione della sostenibilità ambientale, compresi la biodiversità, il cambiamento climatico e la riduzione del rischio di catastrofi (EuropeAid/136473/DH/SER/Multi)

  • Scadenza 19 febbraio 2015 NEW

Call for proposals – Sovvenzione: Verso un futuro libero dalla violenza domestica nei Paesi dei Caraibi orientali e Barbados (EuropeAid/136243/DH/ACT/Multi)

  • Scadenza 28 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Servizi di assistenza tecnica internazionale per il progetto ADESEP (EuropeAid/136417/DH/SER/Multi)

  • Scadenza 16 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Creazione di un Meccanismo europeo per i difensori dei diritti umani (EuropeAid/136316/DH/ACT/Multi)

  • Scadenza 12 marzo 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Sostegno agli attori regionali impegnati nella tutela dei diritti umani negli Stati africani (EuropeAid/136394/DD/OPR/OUA)

  • Scadenza 2 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Switch Asia II – Promozione di modelli e abitudini di consumo e di produzione sostenibili (EuropeAid/136362/DH/ACT/Multi)

  • Scadenza 9 febbraio 2015

Call for proposals – Sovvenzione: Rinforzare il ruolo della società civile nella promozione dei diritti dell’uomo e delle riforme democratiche – Algeria (EuropeAid/136240/DD/ACT/DZ)

  • Scadenza 25 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Supporto tecnico all’attuazione e alla gestione di programmi di cooperazione transfrontaliera dello strumento europeo di vicinato (EuropeAid/136274/DH/SER/Multi)

  • Scadenza 12 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Bando Twinning in Internet. “Rafforzare le capacità dei servizi dell’Infrastruttura Nazionale di Qualità (INQ) e la Valutazione di Qualità (VQ) nella Repubblica di Serbia (EuropeAid/136447/IH/ACT/RS)

  • Scadenza 12 gennaio 2015

> Cultura, Turismo, Cittadinanza (7)

Call for Application – Presentazione candidature: Designazione della Capitale europea della cultura per il 2021 (EAC/A03/2014)

  • Scadenza 23 ottobre 2015 NEW

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Europa per i Cittadini. Asse 1 – Memoria Europea. Asse 2 – Impegno democratico e partecipazione civica (Gemellaggi di città, Reti di città, Progetti della società civile)

  • Scadenza 2 marzo 2015

Call for Application – Presentazione candidature: Premio europeo Carlo Magno della gioventù 2015

  • Scadenza 2 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Europa Creativa – Sottoprogramma Cultura. Supporto alle piattaforme europee (EACEA 47/2014)

  • Scadenza 25 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Europa Creativa – Sottoprogramma Cultura. Progetti di traduzione letteraria (EACEA 46/2014)

  • Scadenza 4 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Facilitare i flussi turistici transnazionali per gli anziani e i giovani nella bassa e media stagione (COS-TFLOWS-2014-3-15)

  • Scadenza 15 gennaio 2015

Premio Internazionale sull’Innovazione Culturale

  • Scadenza 5 febbraio 2015

> Energia, Efficienza energetica, Energie rinnovabili, Reti Trans-europee TEN-E (1)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Sostegno alle attività principali della piattaforma tecnologica europea sul riscaldamento e il raffreddamento rinnovabili (PP-2041/2014)

  • Scadenza 2 marzo 2015 NEW

> Giustizia, Sicurezza, Lotta alla violenza, Lotta alla droga, Diritti, Immigrazione (15)

Call for Proposals – Sovvenzione: Sostegno a progetti che promuovono l’indipendenza economica paritaria tra donne e uomini (JUST/2014/RGEN/AG/GEND)

  • Scadenza 31 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Contratto quadro per servizi tecnici e di supporto nel settore della sicurezza legata agli eventi chimici, biologici, radiologici/nucleari ed esplosivi (CBRNE) (HOME/2014/ISFP/PR/CBRN/0025)

  • Scadenza 28 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Crimini finanziari ed economici, corruzione e crimini ambientali (HOME/2014/ISFP/AG/EFCE)

  • Scadenza 30 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Prevenzione della radicalizzazione, del terrorismo e dell’estremismo violento (HOME/2014/ISFP/AG/RADX)

  • Scadenza 29 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Azioni di finanziamento volte a sostenere progetti transnazionali nell’ambito delle politiche comunitarie sulle droghe (JUST/2014/JDRU/AG/DRUG)

  • Scadenza 20 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Sviluppo di una piattaforma digitale per la lotta contro le mutilazioni genitali femminili (MGF) (JUST/2014/RPPI/AG/FGMU)

  • Scadenza 8 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Daphne – Progetti nazionali o transnazionali per il sostegno alle vittime di violenza e di reato (JUST/2014/SPOB/AG/VICT)

  • Scadenza 10 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Daphne – Progetti transnazionali legati ai bambini vittime del bullismo (JUST/2014/RDAP/AG/BULL)

  • Scadenza 10 marzo 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Lotta contro la criminalità informatica e gli abusi sessuali su minori (HOME/2014/ISFP/AG/CYBR)

  • Scadenza 16 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Scambio di informazioni ai fini dell’applicazione della legge (HOME/2014/ISFP/AG/LAWX)

  • Scadenza 14 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Azioni di sostegno ai progetti nazionali e internazionali volti a promuovere la cittadinanza dell’Unione Europea (JUST/2014/RCIT/AG/CITI)

  • Scadenza 4 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Progetti internazionali per rafforzare la capacità dei professionisti che operano nella tutela dei diritti minorili (JUST/2014/RCHI/AG/PROF)

  • Scadenza 15 gennaio 2015

> Imprese, PMI, Industria, Competitività, Start-up, Reti e cluster (20)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Promozione delle competenze di «e-leadership» in Europa (EASME/COSME/2014/013)

  • Scadenza 18 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio relativo all’eventuale duplice uso delle tecnologie abilitanti fondamentali (EASME/COSME/2014/019)

  • Scadenza 16 febbraio 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Sviluppo e attuazione di un quadro europeo per la professione nel settore delle TIC (EASME/COSME/2014/012)

  • Scadenza 11 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio sull’adeguatezza della regolamentazione del quadro legislativo che disciplina la gestione dei rischi delle sostanze chimiche (escluse procedure REACH), in particolare il regolamento CLP e la legislazione pertinente (375/PP/ENT/IMA/14/11917)

  • Scadenza 6 febbraio 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio relativo alla fattibilità di alternative ai rating del credito e allo stato del mercato dei rating del credito (MARKT/2014/257/F)

  • Scadenza 25 febbraio 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Sostegno della cooperazione internazionale tra le reti di imprese e di cluster attraverso l’ulteriore sviluppo della piattaforma europea di collaborazione tra cluster (EASME/COSME/2014/023)

  • Scadenza 13 febbraio 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di Servizi: Organizzazione di eventi tra paesi terzi e Unione europea durante l’esposizione universale di Milano 2015 (424/PP/ENT/SME/14/F/S608)

  • Scadenza 19 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Settore europeo delle calzature: oltre la moda – Campagna di sensibilizzazione (EASME/COSME/2014/021)

  • Scadenza 2 febbraio 2015

Call fo Proposals – Sovvenzione: Enterprise Europe Network – secondo bando (COS-EEN-2014-2-04)

  • Scadenza 29 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Quadro di valutazione relativo all’attrattività degli investimenti esteri diretti (IED) — studio in particolare sugli investimenti internazionali e sulla competitività per migliorare le catene di approvvigionamento transfrontaliere/intrafrontaliere nell’UE (EASME/EASME/COSME/2014/016)

  • Scadenza 28 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Prove interlaboratorio di fibre tessili, compresi test e servizi connessi per l’analisi tecnica della fibra «poliacrilato» (423/PP/ENT/IMA/14/1131)

  • Scadenza 12 febbraio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio per l’assistenza tecnica concernente la progettazione ecocompatibile per il gruppo di prodotti DG ENTR lotto 9 (419/PP/ENT/IMA/14/11931A)

  • Scadenza 9 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio sulle miscele di detergenti pericolose contenute in imballaggi solubili monouso (406/PP/ENT/IMA/14/119429)

  • Scadenza 23 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Programma COSME. Analisi dei fattori guida, degli ostacoli e dei fattori di disponibilità delle imprese dell’Unione europea per l’adozione di prodotti e tecnologie di fabbricazione avanzata (EASME/COSME/2014/014)

  • Scadenza 14 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Facilitare l’accesso al regolamento per Sistemi Aerei leggeri Pilotati Remotamente (COS-RPAS-2014-2-03)

  • Scadenza 18 febbraio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Prestazione di servizi di valutazione alla Commissione europea nel settore del commercio (TRADE/2014/01/01)

  • Scadenza 16 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio di sostegno per il controllo dell’adeguatezza nel settore dell’edilizia (408/PP/ENT/SME/14/A/N307C)

  • Scadenza 23 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon 2020, Strumento PMI (SME Instrument)

  • Fase I, Scadenze: 18 marzo 2015; 17 giugno 2015; 17 settembre 2015; 16 dicembre 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Progetti EuroTransBio per progetti di ricerca applicata e di sviluppo sperimentale caratterizzati da eccellenza e innovatività

  • Scadenza 30 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Facilitare i flussi turistici transnazionali per gli anziani e i giovani nella bassa e media stagione (COS-TFLOWS-2014-3-15)

  • Scadenza 15 gennaio 2015

> Istruzione, Formazione, Giovani, Sport (5)

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Erasmus+, Azione chiave 3: Supporto per la riforma delle politiche — Iniziative per l’innovazione delle politiche. Sperimentazione delle politiche nel settore dell’educazione scolastica (EACEA/30/2014)

  • Scadenza 20 marzo 2015 Pre-proposte (eForm) NEW

Call for Proposals – Sovvenzioni: Programma Erasmus+. Azione chiave 3: Sostegno alle riforme delle politiche — Iniziative emergenti. Progetti europei di cooperazione lungimiranti nei settori dell’istruzione, della formazione e della gioventù (EACEA/33/2014)

  • Scadenza 24 febbraio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio sulla comparabilità delle prove linguistiche in Europa (EAC/45/2014)

  • Scadenza 21 gennaio 2015

Premio per la scuola 2014/2015: Inventiamo una banconota. Per le scuole primarie, secondarie di primo e di secondo grado

  • Scadenza 2 marzo 2015: termine per la presentazione dei progetti

 

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Erasmus+. Invito a presentare proposte 2015 (EAC/A04/2014)

  • Azione chiave 1, Scadenze: 4 febbraio 2015; 4 marzo 2015; 30 aprile 2015; 1 ottobre 2015; 4 marzo 2015; 3 aprile 2015

> Pesca, Ricerca marina e marittima (6)

Call for Proposals – Sovvenzione: Migliorare l’interoperabilità negli Stati membri per rafforzare la condivisione di informazioni nell’ambito della sorveglianza marittima (MARE/2014/26)

  • Scadenza 31 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio sulle migliori pratiche internazionali per la pianificazione dello spazio marittimo transfrontaliero (MARE/2014/40)

  • Scadenza 31 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Networking a sostegno della rete delle zone di pesca europee 2014–2020 — Unità di sostegno FARNET (MARE/2014/29)

  • Scadenza 9 febbraio 2015 NEW

Call for Proposals – Sovvenzione: Rafforzare la cooperazione regionale nella raccolta di dati nel settore della pesca (MARE/2014/19)

  • Scadenza 15 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Appalto per la prestazione di servizi a sostegno del monitoraggio e della valutazione della pesca e dell’acquacoltura nell’ambito di EMFF 2014–2020 — FAME (MARE/2014/02)

  • Scadenza 9 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Guardiani del mare (MARE/2014/24)

  • Scadenza 9 gennaio 2015

> Politica regionale e urbana (1)

Call for application – Presentazione candidature: Regiostars 2015 – Premio per i progetti europei più interessanti e innovativi nel contesto dello sviluppo regionale

  • Scadenza 28 febbraio 2015

> Protezione sociale, Lavoro e Mobilità, Integrazione, Cittadinanza (3)

Call for Proposals – Sovvenzione: Creazione di una rete sulla qualità e sui costi/benefici nell’assistenza a lungo termine e nella prevenzione della dipendenza (VP/2014/010)

  • Scadenza 31 marzo 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Sostegno a favore dell’istituzione di una «piattaforma a livello UE per agevolare la costituzione di un partenariato transnazionale, scambio di esperienze, sviluppo delle capacità e networking, e capitalizzazione e diffusione dei risultati pertinenti» (VT/2014/011)

  • Scadenza 5 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Programma Europa per i Cittadini. Asse 1 – Memoria Europea. Asse 2 – Impegno democratico e partecipazione civica (Gemellaggi di città, Reti di città, Progetti della società civile)

  • Scadenza 2 marzo 2015

> Reti di comunicazione, Internet, Information Technology (2)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Servizi di gestione di media online e social media (4 lotti) (COMM/DG/AWD/2014/389)

  • Scadenza 12 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: FIWARE Accelerator Programme – Settore Smart cities.Inviti a presentare proposte SOUL-FI (Startups Optimizing Urban Life with Future Internet)

  • Scadenza 26 giugno 2015

> Ricerca e Innovazione (20)

Call for Proposals – Sovvenzione: Programma Eurostars a supporto dei progetti di ricerca delle PMI che sviluppano prodotti, processi e servizi innovativi per guadagnare vantaggio competitivo a livello internazionale

  • Scadenza 5 marzo 2015 NEW

Call for Proposals – Sovvenzioni: EraNetMed – Invito a presentare proposte di ricerca sulle Energie Rinnovabili, le Risorse idriche e le connessioni tra loro per la Regione del Mediterraneo. Energie rinnovabili ed efficienza energetica (JC-ENERGY-2014); gestione delle risorse idriche (JC-WATER-2014); nesso energia-acqua (JC-NEXUS-2014)

  • Scadenza 2 febbraio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Progetti EuroTransBio per progetti di ricerca applicata e di sviluppo sperimentale caratterizzati da eccellenza e innovatività

  • Scadenza 30 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: CHIST-ERA. Invito a presentare proposte per progetti di ricerca 2014

  • Scadenza 13 gennaio 2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Azioni trasversali. Programma Scienza con e per la società

  • Scadenza 16 settembre 2015: H2020-GARRI-2015-1

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Eccellenza Scientifica. Programma Tecnologie emergenti e future (FET)

  • Scadenza 25 novembre 2014: H2020-FETHPC-2014

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Eccellenza Scientifica. Programma Infrastrutture di ricerca europee (comprese le infrastrutture digitali)

  • Scadenza 14 gennaio 2015: H2020-EINFRA-2015-1

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Eccellenza Scientifica. Programma Azioni Marie Sklodowska Curie per competenze, formazione e sviluppo della carriera (MSCA)

  • Scadenza 13 gennaio 2015: H2020-MSCA-ITN-2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Eccellenza Scientifica. Programma Consiglio Europeo per la Ricerca (CER)

  • Scadenza 5 febbraio 2015: ERC-2015-PoC

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Leadership Industriale. Programma Innovazione nelle PMI

  • Scadenza 16 dicembre 2015: H2020-SMEINST-2-2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Leadership Industriale. Programma Accesso alla Finanza di Rischio

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 Pilastro Leadership Industriale. Programma Tecnologia Spaziale

  • 17 novembre 2014: H2020-PROTEC-2015

Call for Proposals – Sovvenzioni: Horizon2020 – Pilastro Leadership Industriale. Programma Nanotecnologie, materiali avanzati, biotecnologie e manifattura e processi avanzati

  • Scadenza 09 dicembre 2014: H2020-EeB-2015
  • 09 dicembre 2014: H2020-FoF-2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Società sicure

  • Scadenza 21 aprile 2015: H2020-DS-2015-1 NEW

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Società inclusive, innovative e riflessive

  • Scadenza 28 maggio 2015: H2020-INT-INCO-2015
  • 28 maggio 2015: H2020-INT-SOCIETY-2015

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Azione per il clima, efficienza delle risorse e materie prime

  • Scadenza 21 aprile 2015: H2020-SC5-2015-one-stage

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon 2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Trasporti intelligenti, verdi e integrati

  • Scadenza 15 ottobre 2015: H2020-GV-2015

Call for Proposals – Sovvezione: Horizon 2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Energia sicura, pulita ed efficiente

  • Scadenze
    • 3 marzo 2015: H2020-LCE-2015-1
    • 3 marzo 2015: H2020-LCE-2015-2
    • 3 marzo 2015: H2020-LCE-2015-3
    • 3 marzo 2015: H2020-LCE-2015-4

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon2020 – Pilastro Sfide per la Società. Programma Sicurezza alimentare, agricoltura sostenibile, ricerca marina e marittima nonché bioeconomia

  • Scadenze varie

Call for Proposals – Sovvenzione: Horizon 2020 – Pilastro Sfide per la società. Programma Salute, cambiamento demografico e benessere

  • Scadenze varie

> Trasporti e Mobilità, Reti trans-europee TEN-T (3)

Call for Tenders – Appalto di servizi: Gestione dell’Osservatorio europeo per i carburanti alternativi (MOVE/C1/2014-797/2015-67)

  • Scadenza 12 marzo 2015 NEW

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio di valutazione sull’applicazione della direttiva 2011/82/UE intesa ad agevolare lo scambio transfrontaliero di informazioni sulle infrazioni in materia di sicurezza stradale

  • Scadenza 12 gennaio 2015

Call for Tenders – Appalto di servizi: Studio sull’autorizzazione e sulla promozione della preparazione dei progetti principali della rete transeuropea di trasporto (TEN-T), in particolare dei progetti riguardanti le vie d’acqua e dei progetti transfrontalieri (MOVE/B3/2014-751)

  • Scadenza 11 febbraio 2015

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FONDI EUROPEI GESTITI DALLE REGIONI ITALIANE

E FONDI NAZIONALI/REGIONALI

 

> Fondazione Unipolis – Progetti d’innovazione culturale e sociale (1)

Bando della Fondazione Unipolis: Culturability – spazi d’innovazione sociale

  • Scadenza 28 febbraio 2015

> Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) (3)

Bando Smart&Start Italia: Sostegno alla nascita e alla crescita delle start-up innovative in tutto il territorio nazionale

  • Domande a partire dal 16 febbraio 2015

Bando per la concessione di agevolazioni alle imprese per la valorizzazione dei disegni e modelli

  • Scadenza fino ad esaurimento delle risorse

MISE: Strumento agevolativo beni strumentali (“Nuova Sabatini”)

  • Aperto

> Regione Campania (1)

Avviso pubblico – Bando ‘Sportello per l’innovazione’. Interventi a favore delle PMI e degli organismi di ricerca.

  • Procedura a sportello

> Regione Emilia Romagna (4)

Bando Start up innovative 2014, per piccole imprese costituite dopo l’1 gennaio 2011

  • Scadenza 31 marzo 2015

Ingenium Emilia-Romagna II – Il fondo di investimento per le imprese innovative. Por Fesr 2007-2013, Asse 2, Attività II.1.3 – Fondo di capitale di rischio per le piccole e medie imprese innovative

  • Scadenza 31 dicembre 2015

Fondo rotativo di finanza agevolata per la green economy: Programma Por Fesr 2007-2013, Asse 3 Qualificazione energetico ambientale e sviluppo sostenibile – Agevolazioni per piccole e medie imprese

  • Fino ad esaurimento delle risorse

Avviso pubblico: Riconoscimento danni e concessione contributi in relazione a eventi alluvionali e trombe d’aria. Concessione di contributi alle imprese interessate

  • Scadenza 28 febbraio 2015

> Regione Lazio (11)

Fondo per il Microcredito (L.R. 10/06)

  • aperto

Fondo di Garanzia CCIAA di Roma

  • aperto

FONDO POR I.3 Lazio – Interventi nel capitale di rischio delle imprese. Bando per PMI industriali o di servizi che vogliono avviare programmi di sviluppo tecnologico e innovativo

  • Scadenza 15 maggio 2015 (per le PMI)

Fondo di Garanzia a favore delle PMI interessate dai Programmi Locali di Sviluppo Urbano (P.L.U.S.)

  • aperto

Fondo di Garanzia Spettacolo, Cultura, Editoria e Sport

  • aperto

Fondo per la nascita e lo sviluppo di Start-up innovative sul territorio del Lazio (art. 6 L.R. 13/2013)

  • dal 20 novembre 2014 fino ad esaurimento delle risorse disponibili

Avviso pubblico per la presentazione di progetti coerenti con il tema di EXPO MILANO 2015 ‘Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita’

  • a partire dalle ore 9.00 del 10 novembre 2014 e per i successivi 30 giorni

Bando POR FESR Lazio 2007- 2013: Horizon2020 Misure per favorire l’accesso ai Programmi dell’Unione Europea per il finanziamento della ricerca, dell’innovazione e della competitività

  • Scadenza 31 gennaio 2015

Bando Accesso al credito Lazio – Far crescere il patrimonio delle piccole e medie imprese

  • bando di prossima apertura

Bando Innovazione e Reti d’impresa Lazio – Fondo ‘Capitale di rischio’. Una partnership pubblico-privato per le imprese innovative

  • 15 maggio 2015 o fino a esaurimento delle risorse

Bando Start up Lazio. Fondo per prestiti partecipativi alle start up

  • 31 gennaio 2015 o fino a esaurimento delle risorse

> Regione Lombardia (6)

Avviso Pubblico per la selezione di progetti pilota finalizzati alla prevenzione e alla lotta contro la dispersione scolastica

  • Scadenza 16 gennaio 2015

Bando ricerca e innovazione e contributi per i processi di brevettazione. Edizione 2014

  • Scadenza 25 marzo 2015

Bando per individuare le migliori start up lombarde nei settori collegati al tema EXPO ‘Feeding the planet, Energy for life’ (Start up per Expo)

  • Scadenza 16 gennaio 2015

Bando Lombardia Concreta – Contributi al credito per le imprese del turismo e dell’accoglienza

  • Fino ad esaurimento delle risorse

Bando voucher per l’internazionalizzazione delle micro, piccole e medie imprese lombarde 2014

  • Scadenza 30 gennaio 2015

Avviso pubblico: Azioni di rete per il lavoro, rivolte a gruppi di lavoratori coinvolti in processi di crisi o in cerca di occupazione

  • Scadenza 31 dicembre 2015

> Regione Marche (2)

Avviso pubblico: Sostegno a progetti integrati di sviluppo delle PMI in fase di ricambio generazionale

  • Bando a sportello

Bando Regione Marche: Fondo di Ingegneria Finanziaria della Regione Marche – “Concessione di un Finanziamento agevolato per le Imprese del Comparto Culturale della Regione Marche”

  • Fino ad esaurimento delle risorse finanziarie

> Regione Piemonte (9)

Contributi per l’acquisto, installazione ed attivazione di parabole e modem per la connessione ad internet via satellite, in zone rurali

  • Bando a sportello

Agevolazioni agli investimenti innovativi delle Piccole e Medie Imprese per impianti di proiezione cinematografica digitale: impianti digitali, reti, audio e risparmio energetico

  • Bando a sportello

Agevolazioni per le PMI a sostegno di progetti ed investimenti per l’innovazione,la sostenibilità ambientale e la sicurezza nei luoghi di lavoro – Edizione 2014 (Bando Pmi 2014)

  • Bando a sportello

Strumenti finanziari a sostegno delle nuove imprese nate dai servizi forniti dagli sportelli provinciali per la creazione d’impresa (art. 42. l.r. 34/2008 e s.m.i.)

  • Bando a sportello

Agevolazioni per le micro e le piccole imprese a sostegno di progetti ed investimenti per l’innovazione dei processi produttivi – Edizione 2014 (Bando Micro 2014)

  • Bando a sportello

Interventi per la nascita e lo sviluppo del “lavoro autonomo” (art. 42. l.r. 34/2008 e s.m.i.)

  • Bando a sportello

Interventi per la nascita e lo sviluppo di “creazione d’impresa” (art. 42. l.r. 34/2008 e s.m.i.)

  • Bando a sportello

Bando regionale per la realizzazione di interventi volti a promuovere l’occupabilità di cittadini di paesi terzi in condizione di disagio occupazionale

  • Bando a sportello

Accesso alle agevolazioni per studi di fattibilità tecnica preliminari ad attività di ricerca industriale e sviluppo sperimentale riservate ai soggetti aggregati ai Poli di Innovazione – Bando Studi di fattibilità 2014

  • Scadenza 27 febbraio 2015

> Regione Puglia (1)

Avviso per la presentazione delle istanze di finanziamento per la realizzazione di progetti di promozione internazionale, volti alla penetrazione commerciale ed alla collaborazione industriale, a favore delle reti per ’internazionalizzazione, costituite da P.M.I. pugliesi

  • Scadenza 31 gennaio 2015

> Regione Sardegna (5)

Avviso pubblico: Servizi per l’innovazione. Sostegno alla realizzazione di idee e progetti di innovazione delle imprese

  • Scadenza 30 novembre 2015

IV Avviso per la selezione di progetti da ammettere al finanziamento del “fondo microcredito FSE”. POR FSE 2007-2013 Asse II occupabilità. Asse III inclusione sociale

  • Fino ad esaurimento delle risorse

Borse “Generazione Faber” – Secondo bando per l’assegnazione di borse di sperimentazione da spendere presso il FabLab di Sardegna Ricerche

  • fino ad esaurimento della dotazione finanziaria

Avviso Pubblico: Servizi ICT per il turismo. Bando per la presentazione delle domande di aiuti

  • Scadenza 31 marzo 2015

Bando Pubblico “Microincentivi per l’innovazione e la fabbricazione digitale”. Incentivi per la competitività delle piccole e medie imprese

  • Scadenza 31 gennaio 2015

> Regione Toscana (7)

Fondo di Garanzia per i giovani professionisti e le professioni

  • aperto (data inizio presentazione: 15 novembre 2014)

Bando FAS SALUTE 2014 – Sostegno alla realizzazione di progetti di ricerca in materia di qualità della vita, la salute dell’uomo, biomedicale, l’inustria dei farmaci innovativi

  • Scadenza 30 gennaio 2015

Bando FAR-FAS 2014 per il finanziamento di progetti di ricerca fondamentale, ricerca industriale e sviluppo sperimentale realizzati congiuntamente da imprese e organismi di ricerca in materia di nuove tecnologie del settore energetico, fotonica, ICT, robotica e altre tecnologie abilitanti connesse

  • Scadenza 23 gennaio 2015

Fondo di Garanzia, Sezione 3 – Sostegno all’imprenditoria giovanile, femminile e dei lavoratori già destinatari di ammortizzatori sociali” (L.R. 21/2008)

  • aperto

Bando FAR-FAS 2014: Nuove tecnologie del settore energetico, con particolare riferimento al risparmio energetico e alle fonti rinnovabili

  • Scadenza 23 gennaio 2015

Bando contenente le disposizioni tecniche e procedurali per l’attuazione della Misura C.2.2. “Sostegno alle attività di valorizzazione dell’ambiente e della fauna di interesse regionale” Azione a) “iniziative e attività di monitoraggio faunistico di interesse regionale in materia faunistico venatoria”

  • ventesimo giorno dalla pubblicazione sul B.U.R.T. n.41 parte III del 15 ottobre

Avviso pubblico per la concessione di incentivi a favore delle imprese di informazione (sostegno alle assunzioni)

  • Fino ad esaurimento delle risorse

> Regione Umbria (1)

Bando per il finanziamento di interventi volti all’innalzamento degli standard di qualità, nella ricettività alberghiera, extralberghiera e all’aria aperta

  • Scadenza 11 febbraio 2015

> Regione Veneto (3)

Bando Mettiti in moto! Neet vs Yeet – Le opportunità per i giovani in Veneto

  • Scadenza 30 giugno 2015

Bando per la concessione di contributi alle PMI per l’accesso ai servizi digitali in modalità cloud computing. POR 2007-2013 Parte FESR, Asse 4 – Linea di intervento 4.1. – Azione 4.1.3.

  • Scadenza 31 dicembre 2015

Avviso pubblico: Programma Operativo Regionale 2007-2013, Parte FESR. Asse 2. Energia – Linea di intervento 2.1. “Produzione di energia da08/01/2015 fondi rinnovabili ed efficienza energetica”. Azione 2.1.3 – Fondo di rotazione e contributi in conto capitale per investimenti realizzati da PMI e finalizzati al contenimento dei consumi energetici

  • Scadenza 30 giugno 2015

L’articolo ha l’obiettivo di svolgere una riflessione sulla presentazione della propria identità nel quotidiano attraverso i social media. Si sviluppa iniziando dalla presentazione di cos’è l’identità di un individuo e l’identità collettiva, collegandosi ai lavori di Loredana Sciolla e di Ervin Goffman. Partendo da quest’ultimo viene analizzata la teoria dell’interazione nei tempi moderni e come può essere collegata ai social network, approfondendo i rischi e come la legge italiana tutela da essi gli utenti del web: focalizzandosi su programmi di prevenzione.

Introduzione

L’identità dell’individuo non è solo, come da definizione del dizionario, “il complesso dei dati personali caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione o garantiscono l’autenticità, specialmente dal punto di vista anagrafico o burocratico”, ma molto di più. L’identità “individuale” è la definizione di sé come soggetto irripetibile, con un carattere sociale che si manifesta attraverso l’individuazione, vale a dire la distinzione tra sé e l’altro, e l’identificazione, cioè il sentirsi parte di una relazione.

Secondo la studiosa Loredana Sciolla, l’identità individuale ha tre dimensioni: una personale, che si basa sui riconoscimenti di sé e degli altri, una sociale, basata sulla relazione con gli altri e con i gruppi sociali e una culturale, che si acquisisce attraverso la cultura e la società in cui si è educati. L’identità, però, non solo è individuale, ma può anche essere collettiva, la quale si riferisce alla percezione di sé come parte di un gruppo, che può essere un genere, un’etnia, una generazione, con una dimensione soggettiva (per chi ne fa parte) e oggettiva (categorizzazione sociale esterna). Comprende anch’essa una dimensione integrativa, sociale, che sottolinea la necessità di approvazione sociale da parte dell’opinione pubblica.

L’essere coscienti della propria identità permette di assumere coscienza di sé, del proprio “self”, come lo chiama il sociologo Ervin Goffman. Esso è la rappresentazione sociale di sé stessi, che si costruisce in base alle aspettative degli altri e al contesto in cui si interagisce. A seconda del contesto e chi ci troviamo davanti presentiamo un self diverso. Questo concetto sta alla base della teoria dell’interazione, sempre ideata da Goffman: sostiene che ogni individuo si trova immerso in una rete di relazioni sociali, che influenzano la sua vita e la sua identità. Le persone assumono varie “maschere” a seconda delle situazioni in cui si trovano, creando delle interazioni sociali diverse. Queste interazioni sono simili a dei copioni teatrali, divise in ruoli specifici e fasi da seguire.

Il self nei social media e i rischi

Questa teoria, ideata nel 1959, può essere rapportata all’impiego quotidiano che viene fatto dei social media ai giorni d’oggi. Ogni utilizzatore, nel momento in cui inizia a pubblicare contenuti, vuole mostrare un’idea perfetta e felice di sé. Raramente sui social vengono presentate delle immagini negative di sé ai propri interlocutori, anzi vengono messe da parte e fatte quasi scomparire. Questo ha alimentato la concezione che non si possano condividere proprie rappresentazioni imperfette, creando questi cumuli di falsa perfezione e di ideali irraggiungibili nella vita reale. Il social è diventato lo specchio di ciò che vogliamo essere, eliminando i propri difetti. La nostra rappresentazione nei media è come vogliamo apparire agli altri anche nella realtà.

Uniformandosi a ciò che viene esposto dagli altri viene sottolineata l’esigenza di appartenere ad un’identità collettiva, quindi alla ricerca di approvazione dell’opinione pubblica. Di conseguenza, si arriva a una vera e propria dipendenza dai social network, rendendo difficile la concentrazione durante attività che la richiedono come il lavoro, lo studio, o anche solo la lettura o la visione di un film. Ormai, anche durante le uscite la sera con amici non si riesce a non condividere il momento sulle proprie storie di Instagram, a causa di un costante bisogno di far vedere le cose socialmente considerate belle che vengono fatte. La maggior parte degli utenti avverte la necessità di pubblicare in tempo reale cosa stanno facendo, come se cercassero l’approvazione continua da parte di altri. Si arriva ad un momento in cui se non ci si organizza per svolgere attività si inizia a soffrire di disagi psicologici e a soffrire di FOMO (the Fear of Missing Out), vale a dire la paura di essere esclusi, una forma di ansia sociale che si manifesta con la preoccupazione di non essere coinvolti in esperienze piacevoli e considerate gratificanti che coinvolgono persone conosciute.

Il giudizio altrui

L’esposizione della propria figura porta anche il rischio di ricevere critiche e commenti negativi, tendenti al bullismo, giustificati dal fatto di essersi messi in mostra al pubblico e di dover accettare quello che viene in risposta a questo atto. Per quanto sia importante poter mostrare la propria identità a volte può comportare un pericolo, mettendo a repentaglio persino la propria salute mentale. Gli utenti dei social media spesso si sentono legittimati a commentare e criticare negativamente la persona che ha pubblicato il contenuto, senza tenere a mente che si tratta di un essere umano con delle difficoltà come tutti. Il mostrare solo tematiche positive e considerate belle fa credere che sia tutta la propria vita, di conseguenza i commentatori si sentono autorizzati a poter contestare e disapprovare quello che hanno visto con cattiveria.

Ma se si è alla costante ricerca di approvazione, ricevere commenti negativi, quindi una forma di cyberbullismo, cosa può comportare? Le persone possono essere portate a non volersi più esibire, non solo sui social, ma anche nella vita reale. Si inizia ad autoconvincersi che, come si viene dipinti dai commenti, è la rappresentazione veritiera della propria identità.

Secondo la legge italiana il cyberbullismo viene definito come “forma di maltrattamento perpetrato in danno di soggetti minorenni utilizzando le tecnologie dell’informatica e della telematica”. Il Codice penale tutela chi ne è vittima con la legge 70/2024, aggiornata recentemente, che cita nel primo punto “La presente legge è volta a prevenire e contrastare i fenomeni del bullismo e del cyberbullismo in tutte le loro manifestazioni, in particolari con azioni di carattere preventivo e con una strategia di attenzione e tutela nei confronti dei minori, sia nella posizione di vittime sia in quella di responsabili di illeciti, privilegiando azioni di carattere formativo ed educativo e assicurando l’attuazione degli interventi, senza distinzione di età, nell’ambito delle istituzioni scolastiche, delle organizzazioni degli enti locali, sportive e del Terzo settore che svolgono attività educative, anche non formali, e nei riguardi dei soggetti esercenti la responsabilità genitoriale […]”. Essa evidenzia come sia essenziale il corretto insegnamento di internet nei confronti degli utenti, in particolare i giovani, per evitare e cercare di eliminare episodi di bullismo sul web. Quest’ultimo può diventare reato in caso in cui si configura come: calunnia, ingiuria, diffamazione, molestia, furto d’identità e atti di violenza verbale e fisica. Nel caso in cui chi commette il reato ha un’età inferiore a quattordici anni ne rispondono i genitori. Superata questa età si può arrivare anche a una pena detentiva, da uno a sette anni. Se questi atti avvengono per mezzo di una o più persone con testimoni al seguito, la legge punisce con la reclusione, dai sei mesi ai tre anni, anche chi è testimone di tali e non interviene o denuncia. Per far sì che questo non accada sono stati creati programmi di prevenzione nelle scuole, durante i quali viene appreso ai giovani studenti il corretto uso dei mezzi di comunicazione tecnologici.

Conclusioni

In conclusione, si può affermare che, seppure sia essenziale per sentirsi bene con sé stessi, esporre la propria identità può comportare dei rischi, sia nella vita reale che nella vita sui social media. La costante ricerca di approvazione pubblica porta solo all’esprimersi solo parzialmente, vale a dire solo la parte di noi che si sa anticipatamente che verrà accettata dalla società. È essenziale imparare a non criticare e giudicare apertamente cosa viene pubblicato sui social, in quanto questo può portare a delle conseguenze negative per chi li riceve. Per questo la creazione di programmi dediti all’apprendimento di un corretto uso dei media è importante, soprattutto di questi tempi, in cui vengono a contatto sempre più presto con le nuove generazioni.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

L’articolo si sviluppa a partire da un video divulgativo che analizza il confronto fra l’effettiva frequenza con cui si verificano dieci tra le cause di morte più comuni e diffuse in Italia e la loro percezione pubblica. Viene proposta una considerazione sul rapporto tra libertà giuridica di stampa (garantita dall’articolo 21 della Costituzione italiana) e la responsabilità morale che consegue alla scelta di quali notizie pubblicare e come trasmetterle. Ad una valutazione del ruolo dei mass media nel creare un’immagine sproporzionata della realtà criminale segue un approfondimento sul fenomeno sociologico del gatekeeping.

Introduzione 

Un video su YouTube del medico-psichiatra e divulgatore Valerio Rosso, fermo sostenitore della Lifestyle Medicine, analizza quelle egli che definisce le “dieci principali cause di morte in Italia”: nello specifico il ricercatore interroga il proprio pubblico, dopo aver fornito in ordine sparso le cause in questione, chiedendogli di stilare una personale classifica che vada da quella più frequente a quella meno frequente, per poi rivelare l’effettiva realtà della dei fatti. L’esercizio proposto da Rosso al proprio pubblico risulta interessante, nonostante dal punto di vista del rigore scientifico la ricerca presenti alcune fallacie: la sua analisi, infatti, pur basandosi su dati reali, non appare completa e rigorosa. Il divulgatore ignora alcuni fattori molto importanti, ad esempio la sovrapposizione tra diverse cause di morte o l’influenza di variabili demografiche, e si esprime in modo fuorviante, portando al rischio di credere che le categorie da lui proposte siano effettivamente le principali cause di decesso più rilevanti a livello nazionale.

Dal momento in cui condividere o meno gli approcci e le metodologie del dottor Rosso è una questione assolutamente soggettiva, questo articolo non analizzerà il suo lavoro, bensì prenderà spunto dalla sua intuizione per riflettere sull’influenza dei social media sulla nostra percezione della realtà.

Le dieci cause di morte prese in esame

Si propone dunque al lettore di fare lo stesso esercizio. A seguito verranno elencate in ordine sparso le stesse cause menzionate nel video sopracitato e vi sarà chiesto di metterle in ordine, secondo il vostro personale giudizio, da quella che provoca più morti a quella che ne provoca di meno: crimine, alcool, sedentarietà, fumo, incidenti domestici, decessi sul lavoro, obesità e sovrappeso, incidenti stradali, droga e inquinamento atmosferico. Prima di svelare la classifica reale, è opportuno specificare che i dati riportati a seguito sono stati ricavati da rilevazioni statistiche a cura di fonti ufficiali, riportate negli ultimi anni utili per ciascuna categoria (indicativamente 2018-2024), e non dal video menzionato all’inizio dell’articolo.

Come suggerito dal grafico proposto, l’ordine realistico di influenza delle dieci categorie prese in considerazione è il seguente: fumo di tabacco, sedentarietà, inquinamento atmosferico, obesità e sovrappeso, alcol, incidenti domestici, incidenti stradali, decessi sul lavoro, crimine, droga.

Investigando tra i commenti pubblicati sotto al video di Rosso è emerso che il senso comune porta tendenzialmente ad invertire quasi completamente questa graduatoria: le persone tendono a collocare in posizioni più elevate “decessi sul lavoro”, “crimine”, “alcol” e non considerare così di impatto fattori come “inquinamento atmosferico” e “obesità”, ad esempio. Ma qual è il motivo che si cela dietro a questa misinterpretazione?

Il ruolo dei mass media e una diversa immagine della realtà sociale

Questa discrepanza tra realtà e immaginazione è fortemente alimentata dalla narrazione che quotidianamente sentiamo sui social e in televisione e che leggiamo sui giornali, che spinge la gente a preoccuparsi troppo per alcune cose e troppo poco per altre.  I mass media, infatti, hanno un impatto significativo sulla percezione pubblica della criminalità, dal momento in cui presentano la forte tendenza ad enfatizzare e amplificare alcuni episodi, come quelli di cronaca nera, incidenti domestici e atti di criminalità violenta, rispetto ad altri. Nonostante non ci sia unanimità tra gli studi sull’influenza diretta dei media sui cittadini, risulta evidente che la modalità di diffusione delle notizie condiziona la capacità di giudizio e la percezione individuale della sicurezza: la ripetizione costante di determinati eventi, l’uso di un linguaggio sensazionalistico e la selezione strategica delle notizie, ad esempio, sono solo alcuni tra gli espedienti narrativi usati dai mezzi di comunicazione di massa che possono facilmente trarre in inganno il pubblico.

Nel contesto dell’influenza dei media sulla percezione della realtà è infatti importante distinguere tra una dimensione oggettiva, ovvero i dati statistici effettivi e misurabili in maniera strutturata e a lungo termine, e una soggettiva, ovvero la percezione individuale della realtà (alimentata da fattori psicologici, culturali e mediatici), che può non riflettere l’effettivo andamento dei fatti.

Il fenomeno del gatekeeping: la selezione delle notizie

Il termine gatekeeping, letteralmente “controllare i cancelli”, è usato soprattutto nel mondo dei media per descrivere il modo in cui la scelta delle notizie giornalistiche da diffondere viene filtrata da coloro che hanno il potere di farlo, creando un divario tra realtà e rappresentazione. Il sociologo Mauro Wolf afferma che il termine gatekeeping comprende “tutte le forme di controllo dell’informazione che possono determinarsi nelle decisioni circa la codificazione dei messaggi, la diffusione, la programmazione, l’esclusione di tutto il messaggio o di sue componenti […]”.

Secondo questa logica questo fenomeno utilizza una serie di tecniche per impedire una presa di coscienza dei cittadini sulla realtà.

Ad oggi, in un panorama mediatico che si evolve facilmente e con così tanta velocità, il gatekeeping non riguarda più esclusivamente i mezzi di informazione tradizionali, bensì si estende anche alle dinamiche dei social media.

Libertà giuridica di stampa vs responsabilità morale

L’Articolo 21 della costituzione italiana recita “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Esso si presenta come il fondamento della libertà di stampa, ma evita di mettere in discussione come questa libertà venga esercitata nella pratica e con quali conseguenze sociali. È importante considerare dunque due aspetti differenti, ma che dovrebbero cooperare largamente, nel quadro della divulgazione: la libertà giuridica di stampa e la responsabilità morale. Regolamentare quali notizie vengono scelte dai media e le modalità con cui vengono trasmesse risulta infatti fondamentale per una corretta acquisizione delle informazioni trasmesse e per le conseguenze che queste possono avere sul comportamento dei cittadini.

L’assenza di censura, un pilastro del sistema democratico, non implica però che la trasmissione delle notizie avvenga in modo neutrale: per poter garantire alla società un funzionamento quanto più corretto possibile servirebbe dunque un’informazione libera, ma al contempo anche completa ed equilibrata. Se si seguisse un’etica dell’informazione meno sistematica, ripetitiva e categoriale, trascendendo dal raggiungere fini economici, di marketing e di propaganda, potremmo godere di uno scenario sociale liberato da tutti quegli stereotipi e preoccupazioni che una divulgazione scorretta infondono nei cittadini.

Se non praticata correttamente, dunque, la pratica dell’informazione rischia di ottenere risultati opposti rispetto a quelli per i quali dovrebbe essere impiegata: educare con esattezza, stimolare un cambiamento sociale positivo e svolgere una funzione di vigilanza nei confronti del potere.

Conclusione

Una riflessione sull’uso morale della libertà di stampa, e più in generale sulla divulgazione di notizie, appare necessaria, dal momento in cui l’informazione rappresenta sia un diritto che un vero e proprio dovere. Una buona soluzione per ovviare la problematica proposta in questa riflessione potrebbe dunque essere, più realisticamente di una regolamentazione dall’alto non conveniente a chi detiene il potere, una maggiore educazione critica del pubblico per decodificare le narrazioni mediatiche e non lasciarsi influenzare da ogni genere di informazione.

Bibliografia

Orrù, A. Gatekeeping. Alice Orrù | Copywriting inclusivo e accessibile.

Wikipedia. Gatekeeping. Disponibile su: Gatekeeping – Wikipedia.

Valerio Rosso. Cosa uccide di più? I fattori di rischio per la vita in ordine di pericolosità. [YouTube]. Disponibile su:https://www.youtube.com/watch?v=u-xA3k2DXZk.

Governo Italiano. Titolo I – Rapporti civili. Disponibile su: www.governo.it.

Arianna La Groia

 

Con la sentenza n. 7215/4/2024, depositata in data 28 novembre 2024, la Corte tributaria romana sovraordinata torna ad occuparsi di credito alla ricerca e sviluppo; tematica, ormai da qualche anno, al centro dei dibattiti degli operatori specializzati quanto ai requisiti di spettanza.

Il caso, già risolto a favore del contribuente dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado, riguardava una società operante nel mondo dei distillati e dei liquori, che aveva finanziato un progetto nel corso del periodo d’imposta 2016 e calcolato il relativo credito nella dichiarazione dei redditi 2017.

Sulla base delle indicazioni interpretative fornite dall’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 5/E del 2026, coeva alla “nascita” del credito, lo stesso risultava spettante per l’impresa che avesse realizzato un processo, un prodotto, un software che avesse comportato un’innovazione scientifica o tecnologia a beneficio dell’impresa stessa, alla luce delle indicazioni fornite con il “Manuale di Oslo”.

Soddisfacendo a tale criterio, la società appellante aveva fruito del suddetto credito d’imposta e si era resa, successivamente, destinataria dell’atto di recupero da parte dell’Ente impositore.

A partire, infatti, dal 2018, a seguito dell’emanazione di una circolare del MISE, l’Agenzia delle Entrate aveva mutato in itinere  il proprio indirizzo interpretativo, stabilendo che la valutazione delle attività di ricerca e sviluppo idonee a far maturare il diritto al relativo credito d’imposta avrebbe dovuto essere condotta in base al “Manuale di Frascati”, ai sensi del quale l’investimento agevolabile deve comportare un superamento scientifico o tecnologico che apporti un beneficio per l’intera comunità scientifica

Nonostante il cambio di indirizzo interpretativo fosse successivo ai comportamenti fiscalmente rilevanti posti in essere dai contribuenti, con riferimento all’annualità d’imposta 2016, l’Ente impositore aveva provveduto al recupero dei crediti d’imposta dagli stessi fruiti in contrasto con i criteri fissati dal citato Manuale di Frascati, scatenando la critica di tutti gli operatori (oltreché della stampa) specializzati.

Neppure la c.d. “sanatoria” consistente nella possibilità di riversamento spontaneo del credito d’imposta considerato non in linea con le indicazioni fornite dal Manuale di Frascati aveva sedato gli “animi”, costringendo, comunque, i contribuenti a riversare un’agevolazione (sebbene senza patire le pesanti sanzioni previste per l’utilizzo del credito non spettante o, peggio ancora, inesistente) fruita ponendo legittimo ed incolpevole affidamento nello status quo normativo ed interpretativo al tempo vigente.

Solo nel 2020, con la Legge di Bilancio (i.e. Legge 27 dicembre 2019, n. 160) che ha introdotto il “nuovo” credito alla ricerca e sviluppo, si supera quell’incertezza normativa  che era derivata dal richiamato mutamento di indirizzo , stabilendo, in maniera chiara che: (i) la spettanza del credito risulti stabilita in base alle indicazioni del Manuale di Frascati (e non di quelle del Manuale di Oslo; con la sola deroga dell’innovazione tecnologica 4.0); (ii) ma che, tuttavia, tali indicazioni possano essere applicabili con decorrenza solo a partire dai periodi d’imposta successivi al 2019.

I Giudici romani, dopo aver ricostruito tutta stratificazione normativa ed interpretativa, per come anzi sintetizzata, si pronunciano, anche in sede di gravame, con statuizioni lapidarie, finalizzate a fare salvo il principio dell’affidamento incolpevole e, quindi, c.d. legittimo, alla luce del quale “il mutamento dell’indirizzo interpretativo di una norma tributaria non può essere utilizzato retroattivamente a carico del contribuente, che ha legittimamente operato secondo le disposizioni vigenti all’epoca della presentazione della dichiarazione dei redditi”.

La sentenza di primo grado viene, quindi, confermata, con la citata sentenza di appello e la tutela di un principio garantista per il contribuente (il più importante, forse, unitamente alla buona fede) risulta presidiata.

Non ci resta che attendere di vedere se così la pensa – come ci si augura – anche il giudice delle Leggi!

Avv. Serena Giglio

Avvocato patrocinante in Cassazione

Jarosław Wenancjusz Przybytniowski Ph.D
Institute of Management
The Jan Kochanowski University in Kielce,
ul. Uniwersytecka 21, 25-406 Kielce, Poland,
email: j.w.przybytniowski@wp.pl; ORCID: 0000-0001-6164-2953

Łukasz Wróbel Ph.D
Dean of the Branch of the Social Academy of Sciences in Kielce,
Kielce Business Center,
Al. Solidarności 34, 25-323 Kielce, 5th floor, room 505, Poland,
e-mail: lukaszwrobel.ilza@gmail.com; ORCID: 0000-0002-5715-6239

Abstract
The primary aim of this paper is to study and thoroughly analyse the assessment of customer satisfaction with the provided insurance service quality using the Servqual method in practical terms.
The study is the second part of the study with a similar title, where the authors introduced the essence of knowledge in insurance. Based on the above aim, the Authors adopted the thesis that knowledge and, what follows, the awareness of the knowledge possessed, are important elements mutually influencing the increase in service quality provided in the insurance sector. In the article the Authors and conducted the analysis of statistical data on a selected group of respondents in the area of England (UK) and Poland in the years 2022-2023.
The article is a continuation of research related to improving the quality of voluntary insurance service, presented in publications [Przybytniowski, 2010-2023].

Key words: knowledge, customer awareness, Insurance service quality

Introduction
The second part of the study is devoted to the empirical analysis of the examined issue. The development of knowledge awareness among customers has an impact not only on the ability to use and shape it properly, but to a large extent contributes to the improvement of service quality provision. Service quality is one of the fundamental guarantees of implementing positive solutions which fosters appropriate relations with customers [Brandt, 1987, pp. 61-65; Kant, Jaiswal, 2017, pp. 411-430; Boonlertvanich, 2019, pp. 278-302]. Satisfaction with the quality of provided services contributes to the growth in customer loyalty [Alnaser, Abd Ghani, Rahi, 2018, pp. 63-72], by fulfilling their expectations, which improves the image of an organisation. The degree of conscious use of knowledge in quality processes has a considerable impact on achieving a high competitive position of the company [Porter, 1990], thus, contributing to the acquisition of trust among customers. This process needs constant improvement, learning about the changing needs and requirements of customers, as well as conducting current insurance market analyses [Anand, Ward, Tatikonda, Schilling, 2009, pp. 444-461; Przybytniowski, 2019, pp. 105-110; 2022, pp, 71-136; 2023, pp. 57-108]. Such an approach guarantees conscious actions of customers, which influences the success or the failure of an organisation. This aspect has been subjected to empirical research, where the essence is to study and analyse the assessment of customer satisfaction with the quality of services provided in the insurance sector, using the Servqual method. The article uses the results of the statistical survey on a selected group of customers using the service offer of insurance institutions on the territory of UK and Poland in the years 2022-2023.

1. Methodology
The methodology part of this paper is devoted to the research and analysis of the assessment of insurance service quality using the Servqual method. The Servqual method is used to examine the level of service quality and customer expectations, and their sensitivity to change while providing a certain service. It is used as a universal measure in the examination of quality of all kinds of services. The application of Servqual method lets us know customer expectations and examine the gap between what a customer expects and what a customer is given by a service provider [Hamrol, Mantura, 2008, pp. 92-93]. The purpose of the research is to analyse the relation between the buyer’s expectations and mental representations, and the way the service is perceived by the buyer, bearing in mind the optimal level of possessed knowledge and awareness, using five Servqual factors (areas). In order to reach the assumed aim and achieve objective research results, the Authors uses the results of statistical data and the literature, which allows to adopt definite factors (areas) in the service quality assessment by means of the Servqual method. In order to establish the attributes of insurance service quality and express the opinion on the analysed issue, a questionnaire survey was conducted among individual customers using the services of insurance institutions in UK and Poland from October to December in the years 2022-2023. The survey was conducted by insurance agents being in direct and indirect contact with customers of an insurance institution. Customers of insurance institutions were supposed to present their subjective opinion on the service offered to them. Moreover, they presented their opinions in two areas: the service expected and the assessment of the service experienced. By means of the Servqual method the level of customer knowledge and satisfaction was examined, with the use of services provided by insurance institutions in the two countries: Poland and England. In order to determine the assessment of importance of five attributes of quality (service tangibility, reliability, empathy, professionalism and confidence, and the reaction to customer expectations), the Authors applied a 6-point scale, where: 1 – represents a very unsatisfactory level to the respondent, and 6 – represents a very satisfactory level to the respondent . The assessment of insurance service quality was to calculate the difference between customer expectations and the service perception. It allowed the Authors to find the gap between these values and to indicate the areas in which it is necessary to introduce additional changes and remedial actions. The analysis of the research results was divided into three stages:
1. Establishing the differences between consecutive expectations and experiences expressed in points.
2. Calculating the average difference in points in each of the analysed areas.
3. Using the Servqual method to calculate the total arithmetic measure of quality of the service examined.
The questionnaire consisted of 12 questions, 4 of which referred to general and sociodemographic issues. Stratified sampling was applied. The base for the strata were statistical data of the Main Statistics Office from the 2022 and 2023 census, related to the residence of the customers polled.
The survey was conducted on a group of 150 respondents, of whom, following the initial verification:
1) in England in 2022 – 118 (79,3%) respondents were qualified, while in 2023 the number of respondents was 124 (82%);
2) in Poland in 2022 – 136 respondents (91,3%) were qualified, while in 2023 – 135 respondents (89,3%) were qualified.
The detailed data on the groups of respondents are included in Table 3.
Table 3. The structure of respondents in England and Poland in the years 2022-2023 (in numbers\%)

Criterion England Poland
Years 2022 2023 2022 2023
No. of respondents 118 124 136 135
Place of residence Town Village Town Village Town Village Town Village
71 (59.7%) 48 (40.3%) 69 (56.1%) 54 (43.9%) 82 (59.9%) 55 (40.1%) 85 (63.4%) 49 (36.6%

Source: Based on statistical data

4. Research and analysis of the assessment of insurance service quality in England
Insurance service quality in UK was examined by means of the 5-factor scale of the Servqual method, in which the factors (areas) are used to assess the level of insurance service quality in the opinion of customers of insurance institutions (Figure 1). For customers of UK, in 2023 the average result for all the areas of insurance service quality was at the level of (-2.15), in comparison with 2022, where the total average in all the quality areas was (-2.12), which means that customer preferences, influencing the increase in expectations in terms of insurance service provision, were not fully met, while the service quality level was unsatisfactory. The data acquired in during the first stage of the survey indicate a gap between expectations and experiences of customers of insurance institutions in all the dimensions of quality.

Figure 1. The level of insurance service quality in the opinion of customers of insurance institutions in England in 2022
Source: Based on statistical data

The above figure shows that of the above quality dimensions, an important attribute in direct contact with customers during the process of service provision is the tangible dimension of the activity of insurance institutions (-1,27). During the studied period, of all the studies areas, the lowest level showed such factors as: reaction to customer expectations, professionalism and confidence, and reliability. These areas of quality recorded the greatest differences, which lets us claim that the level of quality of insurance service provision is at a low level, while customer expectations towards the studied insurance are not fulfilled. Analysing statistical data in terms of the weighted average for each of the dimensions of insurance service quality and the weighted average of insurance service quality, it can be considered that the most important area for the respondents was the reaction to customer expectations, while the least important was the tangible area. Bearing in mind the importance of the analysed quality dimensions for the customers in UK in 2023, the total weighted average of the level of quality amounts to (-0,42), which indicates a low service quality and, consequently, the lack of fulfilment of customer expectations during the process of buying the service. Similar results were acquired in arithmetical average – in 2022 the highest weighted result: the reaction to customer expectations (-0,69) and the lowest result in the tangible area (-0,24), show the low level of service provision and also the dissatisfaction of customers with the insurance offered. The results of the analysis of the weighted average of the Servqual areas are presented in Figure 2.

Figure 2. The level of quality of insurance services provided by insurance institutions in England in 2023, according to the measures: gap and weighted average
Source: Based on as in Figure 1

While assessing the insurance service quality in the opinions of customers, the Authors also included the criterion of place of residence of studied respondents (see: Table 1). The place of residence has a considerable impact on the accessibility of knowledge in terms of getting to know the insurance services provided by insurance institutions, thus, it contributes to the increase in customer awareness. In all the research groups, the arithmetic average reached a negative result. Moreover, the total result in all the areas of insurance service quality provided by insurance institutions was at a negative level, which is presented in Figure 3.

Figure 3. Assessment of insurance service quality among people residing in towns and villages in England in 2023
Source: Based on as in Figure 1

Analysing the group of respondents residing in towns in UK in 2023, the arithmetic average in all the studied areas was (-2,01), compared to 2022 when the average was (-2,00). The above results clearly confirm the opinions of respondents living in towns. In the opinions of the studied group of customers residing in towns in UK the following factors: professionalism and confidence, reaction to customer expectations, reliability and empathy were at the lowest level (in 2022).
In case of people residing in towns in UK, the average Servqual result in 2022 was (-2,00) and in 2023 was (-2,01), which is lower than the general average which reached in 2022 (-2,12) and in 2023
(-2,15). It shows that studied respondents feel the lack of satisfaction with the service bought and confirms the fact that the level of insurance service provision is at a low level and does not meet customer expectations.
Analysing the next group of respondents residing in villages in UK, the average difference of dissatisfaction between customer experiences and expectations in terms of offered insurance services was assessed in 2022 at the level of (-1,90), and in 2023 (-1,76), which shows that, like in case of people residing in towns, the level of insurance service offered brings unsatisfactory results. Assessing the process of service quality provision, the arithmetic average for both studied groups (town and village) in UK was (-2.00) in 2022 and in 2023 (-1,88). This situation indicates a growing dissatisfaction with the quality of offered services among the respondents residing in villages in UK. Comparing the two studied groups in the years 2022-2023, in terms of experience and expectations of the service provided, only in the area of “reliability” the results are similar. The greatest differences were recorded in the area of “service tangibility”.
In order to compare the results of the research conducted in UK, the Authors analysed and examined the customers using the service offer of insurance institutions in Poland. As indicated in Figure 4, in 2022 the average value of individual areas of quality reached (-2,15) while in 2023 the total result amounted to (-2,28).

Figure 4. The level of insurance service quality in the opinion of customers of insurance institutions in Poland
Source: Based on as in Figure 1

The most favourable result of all the studied quality areas was achieved by the service tangibility
(-1,42) in 2022. It indicates that insurance institutions generally think that the tangible aspect of their activity (employees’ attractive appearance) is the main attribute in contacts with customers and it determines whether the insurance contract is executed. In the opinions of studied respondents, the lowest quality was shown in the following areas: reliability, professionalism and trust, and the reaction to customer expectations. In the listed areas, there were the greatest differences noted, which allows to claim that the level of insurance service quality is at a low level, and customer expectations are still not fulfilled.
The next stage of the research was to calculate the weighted average of the level of the insurance service quality in each of the studied areas. An important area for the studied respondents was the reaction to customer expectations, while the tangibility of the service was of slight significance. Bearing in mind the importance of studied dimensions, in 2023 the total average measure of insurance service quality amounted to (-0,49). To compare, the weighted average of the level of insurance service quality was (-0,54) in 2022, which indicates a low level of services, as well as the failure to meet expectations of potential customers (Figure 5).

Figure 5. The level of quality of insurance services provided by insurance institutions in Poland in 2023, according to the measures: gap and weighted average
Source: Based on as in Figure 1

Studying the respondents in towns in Poland, the arithmetic average was (-2.96) in 2023, while in 2022 the average value in all the studied areas was (-1.99), which seems to be justified by a clear growth trend in the quality of service provided by insurance institutions (Figure 6).

Figure 6. Assessment of insurance service quality among people residing in towns and villages in Poland in 2023
Source: Based on as in Figure 1

Among customers residing in towns in Poland region, the greatest differences were noted in the following areas: reliability, professionalism and trust and the reaction to customer expectations. The average result reached by people residing in towns in 2023 is higher than the general average result, which indicates that town residents feel more dissatisfied with the insurance studied and the level of the service provided is still at the low level, Studying the people residing in villages, the average difference between customer experiences and expectations in terms of the service provided was in 2022 (-2.53) and in 2023 (-2.52), which indicates that the quality of the service provided still brings unfavourable results. Assessing the process of service quality provision, the arithmetic average for both studied groups (town and village) in Poland was at the level of (-2.26) in 2022 and (-2.74) in 2023. This situation shows dissatisfaction of the respondents living in villages. Comparing both research groups in the years 2022-2023, in terms of experience and expectations of the service provided, only in the area of “empathy” and “reliability” the results are similar. The greatest differences were noticed in the area of “the reaction to customer expectations” and “professionalism and trust”.

5. Analysis of knowledge in studying the level of service quality on the basis of England and Poland
The growing customer awareness [Al-Rousan, Mohamed, 2010, pp. 202-208], the increasing possibilities of migration and the quickly-changing trends, cause that the key factor enabling to achieve success is meeting the expectations, adjusting the standards and quality of customer service to customer requirements. Building loyalty among customers and actions intended to reduce retention to keep the customer pose quite a challenge. Customers form their requirements on an ongoing basis, therefore, the information on their preferences should be regularly collected, then skilfully selected, as well as limited to the number under control and translated into technical parameters. This results from the acquired communications and knowledge about customer requirements. Knowledge is a structural element of modern institutions, which emphasises its key character in management processes [Bartnicki, 2000, s. 13-20]. The revision of knowledge about customer expectations enables to adjust the quality of service provided to the current standards. The overriding factor developing the level of knowledge and key competencies of customers in the processes of service quality provision is “professionalism and trust”, one of the key areas of Servqual which reflects the staff’s professional knowledge and their ability to create the atmosphere of trust and confidence among customers. This factor has been analysed against other studies areas, which is presented in Table 4.
Table 4. The analysis of knowledge in England and Poland in the years 2022-2023, including the area of “professionalism and trust”.

 

Servqual areas

England Poland
2022 2023 2022 2023
Reaction to customer expectations -2.87 -2.92 -2.96 -2.66
Professionalism and trust -2.48 -2.52 -2.49 -2.51
Reliability -2.26 -2.22 -2.31 -2.43
Empathy -1.76 -1.86 -2.25 -2.21
Service tangibility -1.27 -1.26 -1.42 -0.94

Source: Based on the analyses conducted

On the basis of the conducted analysis of the level of insurance service quality among the customers of insurance institutions in UK and Poland, it can be concluded that customer expectations in terms of the insurance offer are insufficient, while the quality of service provision is unsatisfactory. The professionalism and trust factor is the second important in the process of service provision, which indicates a low level of customer satisfaction, as well as the low consciousness of the staff response to customer needs. In UK and Poland, the area of professionalism and trust does not show significant differences, although its slight growth trend may continue in the next years. It may be stated that in the areas in which there is easier access to new technologies, where the sector is dynamically developing, the value of services, as well as the level of knowledge, is reaching the level satisfying potential customers. The above results indicate a moderate difference between customer expectations and the perception of services offered in terms of individual quality areas. Thus, it may be stated that the existing discrepancies in the studied areas show a low level of satisfaction of customers with the quality of service provision. Insurance institutions, by taking action to improve insurance service quality, should possess basic knowledge about how to adjust customer expectations to the process of service quality implementation, which will allow for a positive perception of the service bought by customers.

Conclusion
The research conducted lets form the following conclusions:
1. The tangible aspect in the activity of insurance institutions is the main attribute in direct contacts with customers during the process of service provision. However, the greatest differences can be noted in such areas as: professionalism and trust, reaction to customer expectations and reliability, which indicates a low level of service quality in an insurance institution and the failure to adjust the service offer to basic customer needs.
2. In the studied provinces the average Servqual result and the weighted average in the studied areas were at a low level, which confirms that the level of insurance service provision is at a moderate level, which is connected with the failure to meet customer expectations.
3. Developing a positive image of an insurance institution in its environment without respecting customers’ rights is impossible. Failure to respect customer needs creates a negative opinion in the environment of the customer.

Bibliography
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