Economia

Marketing: si può ancora crescere liberi di essere se stessi?

(di Glenda Cappello)

Gli adulti si domandano spesso perché, per le nuove generazioni, sia così facile farsi conquistare dalla moda, dalla corsa al dispositivo elettronico di ultima generazione o dall’eccentrico taglio di capelli copiato dal calciatore di turno. Le motivazioni sembrano essere tutt’altro che banali e meritano una riflessione complessa su più livelli, ridistribuendo equamente responsabilità, colpe e meriti alle generazioni in gioco.

L’essere umano, ad un certo punto del suo sviluppo psicologico, si rende conto di non trovarsi più al centro del mondo. Realizza che gli altri non sono attorno a sé come comparse del “film” della sua vita ma esistono a prescindere. Il bambino inizia così ad uscire dal suo naturale “egocentrismo”. Ciò normalmente avviene in concomitanza con l’entrata nel mondo della scuola, attorno ai 6 anni, anche se la presa di coscienza del venir meno della propria centralità avviene nella fascia di età che va dai 7 agli 11 anni (G. Petter, Dall’infanzia alla preadolescenza, Giunti, Firenze 1992). E’ proprio in questa fase che si iniziano a fare confronti e paragoni con i propri “pari” e che si cerca di ricollocare sé stessi nella società, che è stata appena scoperta. Il bisogno fondamentale di ogni individuo diviene allora quello di tornare al centro. In altre parole, è quello di sentirsi nuovamente importante, preso in considerazione, amato, così come si sentiva quand’era bambino. Questo cambiamento di punto di vista, è talmente radicale da creare spesso una grande insicurezza, tanto da mettere i ragazzi in condizioni di non sapere nemmeno più chi e cosa vogliono essere. Inizia allora una estenuante ricerca di sé ed un incessante operare alla propria costruzione, processo che durerà per tutto il periodo adolescenziale ed oltre.

Anche se difficile, impegnativo e, spesso, doloroso, tale processo ha un lato estremamente affascinante: la percezione di poter diventare qualsiasi cosa si desideri, “potenza pura”. Ma è davvero così? Ogni ragazzo è veramente libero di diventare ciò che vuole? Spesso, nella migliore delle situazioni, si sente dire dai propri educatori frasi come: “devi essere tè stesso”, “sii ciò che desideri”. Ma anche quando le condizioni educative di base sono le migliori, anche quando gli adolescenti hanno la fortuna di essere circondati da adulti che hanno a cuore la loro felicità e li esortano a capire quali siano i loro reali bisogni e quali le esigenze, non è facile essere davvero padroni della propria libertà.

“Scelta” diventa allora la parola chiave: decidere cosa ci piace, cosa desideriamo, anzi cosa ci serve per poi avere ed essere ciò che davvero vogliamo. Alla base di questo processo di scelta ci sono dunque i bisogni. Kurt Lewin, nel tentativo di spiegare quali fossero le forze che muovono il comportamento umano, aveva introdotto il concetto di “valenza” ovvero l’aspetto qualitativo di un oggetto, una persona, una attività (K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, Giunti, Firenze 1965). Tale valenza diviene per noi polo di attrazione o repulsione e ci fa muovere verso o lontano da quella data cosa. Tutto ciò che ci circonda, quindi, ha una valenza che va intesa non in modo assoluto ma relativo a noi e al nostro stato di quel preciso istante. E’ ovvio, ad esempio, che la valenza di un oggetto come una pizza fumante sarà direttamente proporzionale al nostro livello di fame. Bisogni e valenze sono, quindi, strettamente connessi all’interno del processo di scelta.

E’ sufficiente quindi analizzare i propri bisogni per capire quale sia la scelta giusta da fare in totale ed autentica libertà?

Nel giovane che cresce, questa fase di comprensione dei propri bisogni è certamente molto complessa ed estremamente confusa. Innanzi tutto, non è sempre facile capirne la natura. Dietro alla richiesta di tingersi i capelli di rosa, ad esempio, potrebbe celarsi il desiderio di piacere a qualcuno che adora il rosa. Ciò pare avere che fare con l’esigenza di tornare al centro come si diceva, piuttosto che con la voglia di vedersi allo specchio con i capelli tinti. In realtà, questa difficile ricerca ha probabilmente radici molto più profonde. Alice Miller, a tal proposito, scrive di come i bambini abbiano una tale sensibilità nel cogliere i bisogni dei propri genitori e nel tentare di compiacerli per assicurarsi il loro amore, da rinunciare a sé stessi. (A. Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri, Torino 1996)

A questo punto, sembra davvero che la libertà di essere ciò che vogliamo inizi a vacillare. A dare il cosiddetto “colpo di grazia” sono alcuni aspetti della società moderna nella quale questi ragazzi si ritrovano a crescere. Non intendiamo riferirci a questioni relative a valori morali, che secondo le vecchie generazioni non ci sono più e vengono sostituiti da effimere superficialità, benché sia un argomento affatto scontato e che certamente meriterebbe di essere sviluppato. Piuttosto il punto sul quale vorremmo porre l’attenzione è quello relativo al marketing. Cosa ha a che fare il mondo del marketing con la libertà di essere sé stessi?

Una delle definizioni più utilizzate in ambito economico è quella di Philip Kotler: “Il marketing è quel processo sociale e manageriale diretto a soddisfare bisogni ed esigenze attraverso processi di creazione e scambio di prodotti e valori. È l’arte e la scienza di individuare, creare e fornire valore per soddisfare le esigenze di un mercato di riferimento, realizzando un profitto” (Philip Kotler, Marketing Management, Prentice Hall, London 1967). Si parla prima di tutto di “processo sociale”: è dunque qualcosa che sta dentro la società, che in qualche modo le appartiene. In secondo luogo è “diretto a soddisfare bisogni ed esigenze“. Ma di quali bisogni stiamo parlando? Del bisogno di un capo di abbigliamento? Di un PC di ultima generazione? O di qualcosa di diverso?

Dal ’67 ad oggi, l’evoluzione delle strategie di marketing studiate per raggiungere il massimo profitto è stata notevole. Tutto ciò ha prodotto addirittura discipline quali “Psicologia del Marketing“, “Neuromarketing” e molte altre, grazie alle quali il potere manipolativo dei venditori sulla libertà di scelta di tutti noi è cresciuto a dismisura. Gli esperti di questa materia sono usciti dal loro tradizionale campo d’azione, hanno esplorato la Psicologia, le Scienze della Comunicazione, le Neuroscienze cercando di entrare nella testa del “cliente” in maniera sempre più intima, alla scoperta dei suoi bisogni più profondi. Ma che bisogno c’è di fare tanta fatica, di analizzare il cliente così a fondo ed in maniera così invasiva, se è sufficiente seguire la logica della domanda e dell’offerta? In realtà non è tutto, gli studiosi del settore si sono spinti molto oltre e sono giunti alle Scienze dell’Educazione: fin dai primi anni di vita l’uomo moderno cresce grazie agli amorevoli consigli del marketing che si pone come educatore preparato, affascinante e capace di far sentire i propri figli adottivi compresi, accettati dalla società ed unici. Il marketing non consiglia oggetti utili, piuttosto insegna come si fa a ritornare al centro, come devi essere per piacere agli amici, a mamma e papà. A questo punto non serve pensare, non ha senso perdere tempo cercando di ascoltare i propri bisogni, indagando dentro di noi per capire chi siamo e cosa vogliamo diventare. Molto più comodo è, semplicemente, chiederci a chi vogliamo “assomigliare”. Il desiderio di sentirsi unici non è più un problema perché il maestro riesce a farti sentire unico pur omologandoti. Vale la pena ricordare uno degli slogan più riusciti di una famosissima campagna pubblicitaria che recitava così: “Think different!” (Apple Computer Inc., 1997). Come possiamo pensare che un adolescente in crescita, pieno di dubbi e di fragilità, possa tenere testa ad un educatore così potente e riesca a capire cosa vuole davvero?

In ultima analisi c’è da considerare il fattore tempo. La frenesia della nostra epoca non agevola il processo di “inventare sé stessi”. Non c’è tempo, siamo sempre di fretta e le cose accadono sempre prima, come se ci fosse il desiderio di dilatare la vita. Ecco che allora pensare diventa un lusso che non ci possiamo permettere, ascoltare e ascoltarsi è solo una perdita di tempo. La regola d’oro è allora il “copia e incolla” di qualcuno che ci sembra già bello, bravo e, soprattutto, accettato. Personalità liofilizzate alle quali basta aggiungere dell’acqua ed il gioco è fatto.

La grande paura sembra derivare dal crollo dell’individualità. Immaginiamo un mondo futuro popolato da automi in divisa svuotati di ogni originalità. Viviamo questa angoscia e ci sentiamo piccoli e impotenti di fronte a tutto ciò: che fare allora?

Alcuni nostalgici, forse un po’ integralisti, auspicano il ritorno al passato, cercando di contrastare idealmente e a volte anche fisicamente, l’avanzare del tempo e delle innovazioni, convinti che si possa ancora “salvare il salvabile”. Ecco allora la scomparsa della televisione da alcuni salotti, la comparsa di anacronistici divieti di accesso ad internet, l’imposizione di capi di abbigliamento improbabili. Ma sono davvero utili queste azioni volte a voler chiudere fuori dalla porta questo nuovo, cattivo e sconosciuto mondo? E’ davvero possibile tornare indietro? Forse no: Il mondo che ci circonda non sarà mai più come prima, una volta che le cose si evolvono, non possono involvere ma solo evolvere ancora.

Ecco il punto: non si torna indietro, ma si va avanti. Il marketing, così come la tecnologia, il progresso in generale, è cresciuto e si è sviluppato grazie all’essere umano che ha studiato sé stesso e il mondo. Tocca dunque proprio all’uomo trovare il modo per “salvarsi” dalle sue stesse trappole senza necessariamente rinnegare l’evoluzione degli ultimi anni.

Agli adulti va il primo compito, quello di rimettersi in gioco. Non sarebbe onesto delegare completamente la soluzione del problema alle nuove generazioni nascondendosi dietro all’alibi di mancate competenze tecniche e a discutibili definizioni di “nativi più o meno digitali”. Vale la pena di osservare con nuova curiosità dove ci troviamo e di conseguenza dove stanno crescendo i nostri figli. Non fuggire, limitandosi a criticare e a confrontare presente e passato. Questo nuovo mondo va affrontato con coraggio, anche se tutto ciò richiede ancora fatica e duro lavoro. Dobbiamo farlo per noi e per loro, perchè possano usare la nostra esperienza come un ponte tra il vecchio e il nuovo. E’ vero, la partita della vita ora la stanno giocando loro, ma in questa metafora sportiva i genitori non sono seduti sugli spalti come impotenti spettatori. Il loro posto è a bordo campo, il loro ruolo quello di allenatori non solo durante la sfida finale ma tutti i giorni, ad ogni allenamento. Stimoliamo i nostri figli ad osservare il loro ambiente, a farsi delle domande, ma sopratutto, invitiamoli ad ascoltarsi con attenzione per insegnargli a cogliere i messaggi del loro corpo e della loro anima. Sensazioni ed emozioni superano ogni manipolazione e vengono a noi se siamo preparati ad accoglierle e a dare loro importanza e significato. Agio e disagio, benessere e dolore devono diventare il timone della nostra e della loro nave. Possiamo diventare grandi compagni di viaggio delle giovani generazioni in un mondo che è sempre nuovo e da esplorare, crescendo con loro e mai al posto loro altrimenti il rischio è quello di diventare l’ennesimo e subdolo limite alla loro libertà di essere. In questo coraggioso atto di rimettersi di nuovo in gioco, seppur con nuovi ruoli e competenze, possiamo esser per loro un grande esempio.