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Dal lavoro a domicilio allo smart working o…viceversa?

Premessa

Il pressante invito rivolto dal Governo alle Aziende per l’attivazione in maniera sempre più massiccia di posizioni di smart working, durante l’emergenza sanitaria determinata dal Covid-19, ha dato occasione ad esse di apprezzare questa modalità di lavoro, vedendone una possibilità di miglioramento organizzativo e di maggiore controllo della produttività.

Questi vantaggi per l’azienda richiamano alla mente un’altra tipologia di lavoro, il lavoro a domicilio, che sembrava appartenere al passato e che invece potrebbe ritrovare nuova linfa vitale, in quanto la sua struttura consentirebbe di superare più facilmente qualche aspetto che oggi costituisce un punto spinoso che ostacola l’attivazione di situazioni di smart working in un maggior numero di ipotesi.

L’esame della disciplina normativa che regola i due diversi istituti può consentire di dare una risposta a tale ipotesi, nonché di verificare se per il lavoratore potrebbe esser un vantaggio o a quali condizioni potrebbe diventare un vantaggio.

 

Lo smart working in lockdown

Durante il lockdown, e anche dopo perdurando la situazione di dichiarata emergenza sanitaria, è stato fortemente raccomandato alle imprese e alle pubbliche amministrazioni il ricorso allo smart working, ovunque vi fossero attività che potessero essere svolte al domicilio del lavoratore o comunque a distanza, integrando o sostituendo le misure di distanziamento che potessero evitare la sospensione o la limitazione dell’attività aziendale.

Per favorire l’implementazione e lo sviluppo   di tale modalità lavorativa, sono state disposte varie semplificazioni delle norme in vigore, come la temporanea eliminazione dell’accordo scritto e poi anche l’attivazione in assenza degli accordi individuali.

L’Istat ha rilevato che nei mesi immediatamente precedenti il lockdown (gennaio/febbraio 2020), escludendo le imprese che non hanno lavori che possono essere svolti fuori dai locali aziendali, solo l’1,2% del personale era impiegato in lavoro a distanza. Tra marzo e aprile la percentuale è salita all’8% e riguarda soprattutto i servizi di informazione e comunicazione, attività professionali, scientifiche e tecniche, istruzione, fornitura energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata. Dopo la fine del lock down la quota è scesa ma è rimasta comunque alta, un 5,3% (Fonte: Statistiche report Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria covid-19).

Questo dato dimostrerebbe che molti datori di lavoro si sono convinti che questa modalità di lavoro subordinato possa costituire uno strumento di miglioramento organizzativo.

Il lavoro a domicilio del passato

Questo “smart working” fa venire in mente il lavoro a domicilio che, negli anni ’60, ha ben supportato il boom economico; si trattava del lavoro svolto in casa, generalmente da donne (madri, mogli, nonne, figlie), quando la donna era “naturalmente” dedita ai lavori di casa e alla cura di bimbi e anziani.

Questo lavoro veniva svolto nelle cucine, nei garage, negli scantinati, e concerneva lavori su telaio, sulla macchina da cucire (per vestiti ma anche scarpe, borse, ecc.), ma non solo, anche in campo meccanico (ad es. il montaggio dei raggi sulle ruote delle biciclette, il montaggio degli interruttori e spie degli elettrodomestici, ecc.). Era un lavoro pagato, come prevede la legge, a cottimo, con importi così bassi che si lavorava 8-10 ore al giorno (tolte le pause per riordinare un po’ la casa, per mettere in tavola il pranzo e la cena, quando i bambini per lo più andavano e tornavano da soli da scuola), e non di rado venivano coinvolti anche i figli più grandicelli.

Il guadagno, per quanto poco, serviva ad arrotondare il salario-stipendio del capo famiglia, e così si poteva anche esporsi ad acquistare un piccolo appartamento in proprietà, e più avanti una piccola automobile.

 

L’interesse delle Aziende per lo smart working

Molti datori di lavoro, forzati dal lockdown a organizzare in fretta e furia il  lavoro fuori dall’azienda, hanno potuto accertare i benefici dello smart working in termini di riduzione dei costi della postazione di lavoro in Azienda, nonché l’aumento della possibilità di controllo della produttività, forse al momento non ancora ben definita  nel come e nel quanto ma chiara nell’obiettivo, legato alla necessità di collegare a tale elemento la retribuzione, non più strutturabile, o non sempre, a un dato impegno orario del lavoratore.

Il problema più rilevante che si pone con lo smart working è, infatti, la verifica della prestazione lavorativa dovuta, la cui retribuzione ha come parametro l’orario di lavoro; se si rimane ancorati a tale criterio, come verificare l’orario dedicato all’attività lavorativa e come deve essere impiegato detto orario, vale a dire quale quantità di lavoro dovrà essere realizzata in detto orario e anche come misurare l’attività resa?

ln molte situazioni, l’attività che il lavoratore deve rendere potrà essere determinata su base oraria, verificabile attraverso i collegamenti informatici, come per esempio le attività di call center, servizi telefonici, supporto informatico telefonico e online, o anche dichiarata dal lavoratore, nei casi in cui la quantità di attività/tempo risulti misurabile.

È possibile che alcune modalità di applicazione di smart working si traducano, nel tempo, per le difficoltà sopra evidenziate, in una reviviscenza del lavoro a domicilio?

È possibile che il datore di lavoro, verificato che determinate attività lavorative della propria azienda possono essere svolte fuori dall’Azienda, anziché assumere lavoratori subordinati e poi disciplinare la loro prestazione in modalità smart working, attivi contratti di lavoro a domicilio retribuito a cottimo, assicurandosi così una maggiore produttività o, almeno, un costo del lavoro direttamente collegato a livelli di produttività per egli più funzionali?

Cosa impedirebbe al nostro imprenditore, man mano che cessano gli attuali dipendenti, o a fronte di aumenti di produzione, instaurare direttamente nuovi rapporti di lavoro subordinato ricorrendo all’istituto del lavoro a domicilio in questione?

È il caso allora di vedere quali sono le differenze tra i due istituti.

La disciplina normativa dello smart working

Lo Smart working, divenuto “famoso” in tempo di lockdown, è il “lavoro agile” regolato dalla legge 81/2017, artt. 18 e ss., quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, finalizzato, come dice espressamente il legislatore all’art. 1, a incrementare la competitività delle aziende e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

La modalità di lavoro agile si attiva previa stipulazione di un accordo scritto tra datore di lavoro e lavoratore, si caratterizza per l’assenza di vincoli di orario o di luogo di lavoro, il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa, che deve eseguirsi in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Dovranno essere rispettati i limiti di orario massimo di lavoro giornaliero e settimanali, fissati dalla legge e dai contratti collettivi.

Gli strumenti tecnologici vengono assegnati dal datore di lavoro.

L’accordo disciplina anche le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, i tempi di riposo, le modalità di sconnessione degli strumenti tecnologici.

Tale accordo può essere a termine o a tempo indeterminato ma con possibilità di recesso.

Il lavoratore ha diritto ad un trattamento economico e normativo complessivo non inferiore a quello applicato ai lavoratori che lavorano all’interno dell’azienda.

Smart working in “telelavoro”

Lo smart working ha avuto una prima anticipazione nella forma del “telelavoro”, introdotto dall’art. 4 della legge 191/ 98 la quale, ancorché si intitoli “telelavoro”, espressamente si riferisce genericamente a forme di lavoro a distanza, quale modalità di impiego flessibile delle risorse umane, finalizzate a razionalizzare l’organizzazione del lavoro e realizzare economie di gestione nella Pubblica Amministrazione.

In attuazione di tale legge è stato emanato il D.P.R. 70/99, il quale, all’art. 2 “definizioni”, precisa che, ai fini del decreto,  il lavoro a distanza è il telelavoro svolto in conformità alle norme del decreto stesso, e per telelavoro la prestazione lavorativa svolta in qualsiasi luogo ritenuto idoneo, collocato al di fuori della sede di lavoro, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che consentano il collegamento con l’amministrazione di appartenenza.

Il dipendente lavora in una postazione fissa, esterna alla sede aziendale e di solito (ma non necessariamente) coincidente con la propria abitazione; non è previsto alcun accordo tra azienda e lavoratore e ciò si spiega con il fatto che egli rimane a tutti gli effetti un dipendente dell’azienda, per cui gli è garantita parità di salario rispetto all’occupazione in Azienda. È prevista la previa determinazione delle modalità per la verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa.

L’assegnazione del dipendente al telelavoro è effettuata dall’Azienda in base a criteri definiti in sede di contrattazione collettiva e il dipendente può chiedere per iscritto di esse reintegrato nella sede originaria trascorso il tempo previsto nel progetto di avvio del telelavoro. I costi di installazione della postazione lavorativa, i collegamenti, le successive manutenzioni, gravano interamente sulla Amministrazione datore di lavoro. Il progetto individua le modalità di verifica dell’adempimento della prestazione lavorativa, orientata alla verifica dei risultati.

Le norme citate si riferiscono al settore pubblico, anche se la norma base, l’art. 4 della l. 191/98 sopracitato, è applicabile anche al settore privato.

Per il settore privato non c’è una normativa specifica, ma il 23.2. 2002 è stato siglato a livello europeo, tra CES (sindacato europeo), UNICE (Confindustria europea), UEAPME (associazione europea artigianato e PMI), CEEP (associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse generale), un “accordo-quadro europeo sul telelavoro”.

La definizione di telelavoro adottata in sede di accordo mira a ricomprendere la gamma di situazioni e di prassi esistenti e per questo si dice che il telelavoro è una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione, e l’attività lavorativa, che potrebbe essere svolta anche nei locali all’interno dell’azienda, viene svolta all’esterno della stessa, si basa sul consenso del datore di lavoro e del lavoratore. Devono essere fornite per iscritto al lavoratore una serie di informazioni, relativamente ai contratti collettivi applicabili, la descrizione della prestazione lavorativa, l’indicazione del suo superiore diretto ecc.

Nell’accordo si stabilisce che, nell’ambito della legislazione, dei contratti collettivi e delle direttive aziendali applicabili, il telelavoratore gestisce l’organizzazione del proprio tempo di lavoro; il carico di lavoro ed i livelli di prestazione del telelavoratore devono essere equivalenti a quelli dei lavoratori comparabili che svolgono attività nei locali dell’impresa. I telelavoratori hanno gli stessi diritti collettivi dei lavoratori che operano all’interno dell’Azienda.

Questo accordo non è immediatamente applicabile nei singoli Stati membri, ma nello stesso si precisa che esso mira a stabilire un quadro generale a livello europeo al quale i membri aderenti alle parti firmatarie daranno attuazione conformemente alle prassi e procedure nazionali proprie delle parti sociali e le parti firmatarie invitano le organizzazioni dei paesi candidati loro aderenti a darne attuazione. In Italia, l’Accordo Europeo è stato recepito in data 9.6.2004 con la sottoscrizione dell’Accordo interconfederale per il recepimento dell’Accordo quadro europeo sul telelavoro, tra le maggiori organizzazioni datoriali e le rappresentanze dei lavoratori CGIL, CISL, UIL.

 

La disciplina normativa del lavoro a domicilio

Il lavoro a domicilio progressivamente è stato attratto nell’orbita del lavoro subordinato, dapprima con la legge 13 marzo 1958 n. 264 e poi con la legge 18 dicembre 1973, n. 877 “nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio”, nella quale la definizione del lavoratore a domicilio rimane praticamente inalterata.

Il lavoratore a domicilio è definito come colui che esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature fornite dall’imprenditore. Il lavoro che ne deriva è sempre attribuito a tale lavoratore a domicilio, anche se si avvale dell’aiuto di membri della sua famiglia e a carico, purché non si tratti di terzi che egli paga appositamente.

La legge del ’73 introduce la nozione di subordinazione, come carattere specifico di questa tipologia di lavoro, che ricorre quando il lavoratore è tenuto a osservare le direttive dell’imprenditore concernenti le modalità di esecuzione, le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere sui prodotti oggetto dell’attività dell’imprenditore.

Il domicilio del lavoratore o comunque un posto di sua pertinenza, quale luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, è elemento qualificante di tale modalità lavorativa, in assenza della quale il lavoratore assume la caratteristica tradizionale di lavoratore subordinato all’interno dell’azienda, come viene precisato dall’ultimo comma dell’art. 1, che  esclude la qualità di   lavoratore a domicilio, e quindi è soggetto alla disciplina ordinaria, colui che esegue le attività in questione, con rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in locali di pertinenza dello stesso imprenditore, anche qualora per l’utilizzo degli stessi e per l’utilizzo dei mezzi di lavoro che sono presenti, corrisponde al datore di lavoro un compenso di qualsiasi natura.

In base alla legge 264/58, i lavoratori a domicilio devono essere retribuiti con tariffe a cottimo pieno risultanti da contratti colletti di categoria o, in mancanza, da pattuizioni preventive tra le parti approvate da un’apposita Commissione provinciale presso l’ufficio provinciale del lavoro (art. 6).

Il lavoro urgente che richieda di essere espletato in orario notturno o in giornate festive da diritto ad una maggiorazione della retribuzione.

L’imprenditore deve tenere un apposito registro per i lavoratori a domicilio.

È prevista la corresponsione di una maggiorazione complessiva della retribuzione a titolo di indennità per le festività, ferie, gratifica natalizia.

Il lavoratore a domicilio ha diritto a tutte le assicurazioni sociali previste per i lavoratori interni. Il successivo DPR 16.12.59 n. 1289, con cui sono state dettate norme di attuazione della legge in questione, ha individuato dette assicurazioni in quelle per l’invalidità vecchiaia e superstiti, contro le malattie e maternità, disoccupazione, infermità e malattie professionali

La nuova legge 877/73 aggiorna in funzione di maggiori garanzie l’impianto disegnato dalla legge precedente che viene espressamente abrogata; l’art. 8 mantiene la retribuzione a cottimo pieno secondo tariffe previste dai contratti collettivi di categoria, ma in caso di mancanza le stesse dovranno essere determinate da una commissione regionale da nominarsi appositamente; vengono inasprite le sanzioni per la violazione delle disposizioni a tutela del lavoratore.

Al lavoro a domicilio non si applicano le norme ordinarie valevoli per il lavoro in azienda, in materia di riposo settimanale, festività, ferie, lavoro notturno ecc.

La legge 877/73 è stata successivamente modificata dall’art. 39, comma 9, del decreto legge 112/2008, convertito in legge 133/2008, in funzione di semplificazione degli strumenti di gestione dei rapporti di lavoro, in particolare facendo venir meno l’obbligo per i datori di lavoro che intendono instaurare lavoro fuori dell’Azienda  di iscriversi in apposito registro di committenti, modificando le disposizioni che prevedevano l’obbligo di istituzione e tenuta del registro dei lavoratori a domicilio e del libretto personale di controllo.

 

Smart working versus lavoro a domicilio

Dopo aver passato in rassegna le principali disposizioni che regolano le due tipologie di lavoro ‘ lavoro agile e lavoro a domicilio –  si può affermare che l’unica vera scriminante e ‘ data dal fatto che nel secondo la retribuzione avviene obbligatoriamente a cottimo, come dispone l’art. 2100 c.c. “ obbligatorietà del cottimo”, quando, in conseguenza dell’organizzazione del lavori, il lavoratore è vincolato all’osservanza di un determinato ritmo produttivo, oppure quando la valutazione della sua prestazione è fatta in base al risultato delle misurazioni dei tempi di lavorazione.

Nessuna differenza tra le due tipologie può essere vista in funzione delle attrezzature/tecnologia utilizzata, perché entrambe le leggi parlano di attrezzature fornite dal datore di lavoro, non la flessibilità di orario perché il lavoro a domicilio non prevede alcun vincolo di orario. In entrambi i casi, il datore di lavoro deve fare uno sforzo più o meno rilevante per individuare le attività o le fasi di esse che possono essere eseguite fuori dall’Azienda, e che possano essere oggetto di valutazione a fronte di una determinata retribuzione, a prescindere o meno dall’orario impiegato per eseguirle.

Quando l’orario di impiego è determinante per la valutazione, allora forse siamo in presenza della fattispecie in cui il lavoro può essere agile ma non a cottimo.

La legge 877/73, all’art. 2, comma 1, fa divieto di affidare lavoro a domicilio lavorazioni che comportino l’impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi per la salute o l’incolumità del lavoratore e dei suoi familiari; il comma 2 dello stesso articolo fa divieto di affidare lavoro a domicilio alle imprese che hanno attuato licenziamenti o sospensione dell’attività, per un anno dall’ultimo licenziamento o dalla cessazione della sospensione delle attività.

È venuto meno invece, per effetto dell’art. 39, comma 9, del decreto legge 112/2008 sopracitato, il divieto di attivare lavorazioni a domicilio in caso di cessione di macchinari e attrezzature trasferite fuori dell’Azienda, con lo scopo di proseguire l’attività a domicilio, con dismissione di propri reparti con lavoratori da essa dipendenti.

E così, dopo l’era di “tutti imprenditori” con il Popolo delle Partite Iva, è forse in arrivo l’era del Popolo dei Conciliatori dei Tempi di Vita e Lavoro, anche laddove non c’è nulla da conciliare se non l’interesse dell’imprenditore a pagare il lavoro che si conta o si pesa?

 

Conclusioni

Un eventuale reviviscenza del lavoro a domicilio non costituirebbe necessariamente un’ipotesi negativa, se essa fosse l’unica modalità che consentisse un’implementazione ad ampio raggio di situazioni lavorative flessibili al di fuori dell’Azienda.

Potrebbero avvantaggiarsene tutti coloro che devono prendersi cura di figli e /o genitori anziani, ma anche coloro che per raggiungere il luogo di lavoro sono costretti a tempi lunghi di percorrenza.

È necessario però che vengano salvaguardati alcuni aspetti.

Le tariffe dovrebbero essere  fissate in modo da garantire,  per una quantità di lavoro a domicilio pari a quella mediamente resa, per la stessa lavorazione o lavorazioni similari,  per una giornata di lavoro in presenza della durata prevista dai Contratti Collettivi di categoria, parità di compenso; inoltre, le maggiorazioni delle tariffe destinate a compensare le   ferie   dovrebbero essere eliminate e sostituite con la corresponsione della relativa indennità per l’obbligatorio fermo attività, in proporzione al volume di attività mediamente resa nell’anno, perché anche per questi lavoratori valga quanto stabilito più volte dalla Corte Costituzionale riguardo al diritto irrinunciabile al godimento delle ferie.

In ogni caso, sia che si pervenga alla costruzione della retribuzione dello smart working in modo tale che la misurazione della produttività assuma un ruolo predominante, sia che venga ridata nuova linfa al lavoro a domicilio in senso stretto con il corrispettivo a cottimo, sta alle Rappresentanze dei lavoratori vigilare affinché la remunerazione non perda quel carattere che le è inscindibile, in quanto stabilito dall’art. 36, comma 1,  della nostra Carta Costituzionale,  per cui essa deve essere sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa.

La battaglia delle forze sindacali  sarà comunque solo di retroguardia, volta a salvare il salvabile, se non avrà il supporto della politica, o se addirittura questa dovesse fornire giustificazioni agevolative  per un lassez faire,  a partire da un supposto entusiasmo per una ritrovata o ricreata maggiore produttività del paese , in uno con il motivo della necessità di supportare le imprese  per uscire dalla crisi in cui versa l’economia, soprattutto, ma non solo, del nostro paese.

(A cura di Valeria Gobbin)


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