Economia

Il transfer pricing come operazioni di ordine valutativo

(a cura della Redazione)

Le imprese multinazionali strutturano i loro business “sfruttando le distorsioni esistenti nei vari ordinamenti nazionali, al fine di eliminare o ridurre in modo significativo il livello di imposizione sul reddito”.

E’ quanto emerso dal rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, pubblicato dall’OCSE il 12 febbraio dello scorso anno.

Indiscutibile, insomma, che la variabile fiscale sia divenuta ormai una costante nell’elaborazione di schemi di international tax planning ad opera dei contribuenti.

Il problema risiede nel fatto che, spesso, l’ottimizzazione del carico fiscale, perseguita soprattutto  dai gruppi multinazionali attraverso politiche di tax arbitrage, si distanzia da ciò che può pacificamente definirsi un lecito risparmio d’imposta (tax saving).

La confusione, anche normativa, con la quale si è soliti affrontare tali tematiche produce l’effetto di rendere maggiormente appetibili politiche di pianificazione fiscale aggressive rispetto a legittimi schemi di pianificazione fiscale, idonei al raggiungimento di risultati, evidentemente, meno “gratificanti” dal punto di vista della riduzione del carico tributario.

A ciò si aggiunga il non sempre facile inquadramento di talune complesse operazioni che ne derivano nell’ambito delle fattispecie penalistiche previste nel nostro ordinamento.

Tra le tante modalità, a sfondo evasivo o elusivo, di sfruttamento della variabile fiscale cui il contribuente ci ha abituato nel corso degli anni, riveste una notevole importanza il fenomeno del transfer pricing, sia perché in questa materia le attività dei verificatori fiscali producono consistenti rettifiche del quantum dichiarato, sia per i possibili risvolti penali che ne consentono di tratteggiare talune indubbie peculiarità rispetto ad altre operazioni di erosione della base imponibile internazionale (base erosion).

In altri termini, pur rientrando il fenomeno del transfer pricing nel più generale tema dell’elusione fiscale, consentendo con operazioni di per sé lecite e reali di modulare secondo le esigenze – anche fiscali – di un gruppo societario il risultato dell’imponibile soggetto ad imposizione tributaria, la questione è però parzialmente diversa rispetto a quella dell’elusione.

Pacifico che il fenomeno in argomento non possa essere sussunto nella fattispecie di cui all’art. 3 del D.lgs n. 74 del 2000: l’eventuale violazione della specifica disciplina prevista dall’art. 110 del d.p.r. n. 917 del 1986 che, nei trasferimenti infragruppo, impone di prendere in considerazione il “valore normale” dei beni  o dei servizi, anziché quello effettivamente pattuito, non integra di per sé, il carattere della fraudolenza necessario per l’applicazione del citato articolo 3, dal momento che l’operazione rimane reale; si porrà tutt’al più il problema della rilevanza ex art. 4 dello stesso decreto legislativo, alla cui contestazione normalmente perviene la prassi delle verifiche fiscali di Guardia di Finanza ed Agenzia delle Entrate.

La questione è estremamente delicata perché l’applicazione dell’articolo 4 ad operazioni di transfer pricing impone ai verificatori uno sforzo aggiuntivo che raramente è dato riscontrare nella prassi degli Uffici Finanziari. Oltre ad un’ovvia analisi circa l’integrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie è, altresì, necessario scontrarsi con quanto disposto dall’art. 7 del D.lgs 74/2000, posto che l’operazione di transfer pricing è tipicamente una ipotesi di estimazione. Si potrà, pertanto, evitare il reato se la divergenza tra il dichiarato e l’accertato (differenza tra valore normale e corrispettivo pattuito) risulti inferiore alla percentuale del 10%. Se ciò avviene, anche se il fatto è stato compiuto dolosamente, non si è punibili.

A ben vedere, anche laddove la suddetta franchigia venga superata, l’impunibilità è fatta salva se i criteri valutativi adottati sono stati comunque indicati nella nota integrativa del bilancio di riferimento. La previsione è di indubbio spessore perché apre alla logica secondo cui la frode rileva penalmente solo nel caso in cui il verificatore non sia stato posto nella condizione di poter conoscere l’iter formativo, nel caso in esame, del prezzo di trasferimento, fatta ovviamente salva la discutibilità della scelta valutativa del contribuente in Commissione Tributaria.

Ciò posto, resta il fatto che di tali analisi  deve rinvenirsene traccia nel PVC degli organi preposti al controllo tanto da ritenersi che, laddove ciò non venga compiuto dai verificatori, sia onere del contribuente sottoposto a verifica quello di far muovere detta constatazione.

E’ chiaro che, in tema di transfer pricing, non può essere contestato il prezzo in sé, bensì il prezzo se non rispettoso della franchigia posta dal legislatore del 2000 o se non è dato rinvenire i criteri seguiti per la determinazione dello stesso in bilancio. Occorre cioè valutare non profili di economicità o illogicità dell’operazione, le cui valutazioni è bene che restino prerogativa di chi si assume il rischio dell’impresa.

Non si comprende, del resto, il motivo per cui le scriminanti previste dal legislatore del 2000 restano pressoché ignorate nella prassi.  E’ dato constatare, a tal riguardo, che le aziende assai raramente scelgono di motivare in nota integrativa le decisioni circa le valutazioni estimative adottate, prevalendo il timore di svelare politiche aziendali o industriali sulla possibilità di agganciarsi preventivamente ad un’ancora di salvataggio che potrà, ex post,  rivelarsi decisiva.

Passando al versante dei soggetti verificatori, come già sopra accennato, si registra un anomalo meccanismo in virtù del quale, “nel dubbio” viene, di norma, comunque trasmessa la denuncia alla Procura della Repubblica competente.

In altre parole, la Guardia di Finanza sente l’esigenza di attivare rapidamente il Pubblico Ministero – rischiando di abusare dell’art. 220 Disp. Att. c.p.p. – e tale circostanza sembrerebbe dovuta a due ragioni fondamentali:

  • per i reati tributari è prevista la confisca obbligatoria, anche per equivalente;
  • si sollecita il PM ad assumere la direzione delle indagini e ad adottare strumenti investigativi più efficaci (lo strumento delle intercettazioni è senza dubbio tra i mezzi di ricerca della prova più importanti).

In questo contesto, la sensazione è che il passaggio da un diritto tributario penale ad un diritto penale tributario sia avvenuto con una fiducia nelle possibilità dello strumento repressivo penale che pare francamente eccessiva: si è pensato – e si continua a pensare – che la deterrenza penale valga a far pagare le imposte dovute.

Sul punto, le conclusioni che precedono dovrebbero far riflettere il Legislatore.

L’Amministrazione Finanziaria, d’altro canto, dovrebbe sviluppare una più attenta attività di identificazione delle principali aree di rischio, in un’ottica di risk assessment.

Quanto ai contribuenti, dato lo scenario tutt’altro che rassicurante, sarebbe opportuno dotarsi di efficaci modelli di tax compliance, usando la trasparenza come difesa preventiva generale per evitare di incappare in spiacevoli inconvenienti; ciò a valere ovviamente per l’onesto soggetto d’imposta il quale, in mancanza di riforme strutturali e di decise prese di posizione dei governi nazionali, rischia di venirsi a confondere con i professionisti del crimine tributario, che dell’illecito risparmio d’imposta fanno, in sostanza, la propria ragion d’essere.

Il rischio è più elevato di quanto possa sembrare e, allo stato attuale, non sembrano esclusi da anomalie di sistema anche coloro i quali, pur avendo nascosto al Fisco porzioni di base imponibile, si potrebbero trovare a rispondere di reati costruiti senza che se ne potessero ravvisare i reali presupposti.

L’anomalia è tutta italiana: è oggettivo che insieme alla contestazione dei reati tributari viene quasi “naturale”, nel nostro ordinamento, contestare anche l’associazione per delinquere (art. 416 c.p.).. Una “particolare modalità di trasmissione della notitia criminis per eventuali responsabilità penali relative ad illeciti tributari di natura penale, non priva di conseguenze: l’effetto è che si avrà il sequestro al fine di confisca sia per l’imputato persona fisica, sia per l’imputato persona giuridica, con il benestare della Cassazione che, espressamente, li ammette entrambi.

Tuttavia, la forzatura del sistema, attraverso un improprio utilizzo dell’espediente di cui all’art. 416 del Codice Penale, provocando un aggiramento delle norme proprio da parte di quei poteri che alla legge dovrebbero rifarsi, provoca una tensione innegabile con il principio di legalità.

Si auspica che di certe prassi il Legislatore prenda presto contezza.