Diritto

Le ricadute dell'overruling sull'abuso del diritto italiano

di Debora Mirarchi

Con la formula “abuso del diritto” si intende l’uso distorto di schemi giuridici apparentemente legittimi, finalizzato a porre in essere operazioni che, prive di qualsivoglia spessore economico, hanno quale unico obiettivo un indebito risparmio di imposta. L’illegittimità non è, quindi, intrinseca agli strumenti giuridici ma deriva da una valutazione complessiva degli stessi che, singolarmente considerati, appaiono, invece, perfettamente legittimi.

L’abuso del diritto in ambito tributario è un istituto di matrice giurisprudenziale.

Come molto spesso accade nel nostro ordinamento, la Corte di Cassazione, sostituendosi, ancora una volta, al legislatore, ha colmato, seppur con qualche ritardo rispetto ai vicini paesi europei[1], la singolare lacuna normativa in ordine alla clausola antielusiva generale tale da colpire fenomeni elusivi in qualsiasi forma realizzati.

Un primo parziale tentativo in tal senso è stato realizzato con l’inserimento, nel D.P.R. n. 600/73, dell’articolo 37 bis ad opera dell’art. 7, comma 1, del D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 358.

Con tale norma è stato introdotto e disciplinato l’istituto della elusione fiscale identificato nell’aggiramento di uno specifico obbligo o divieto, previsto dalla legge, al fine di ottenere un risparmio di imposta altrimenti non previsto.

La portata innovativa dell’art. 37 bis è, però, limitata.

Il predetto articolo, infatti, disciplina un numerus clausus di ipotesi in cui è possibile ravvisare gli estremi di un comportamento potenzialmente elusivo[2] e, quindi, applicare la fattispecie normativa.

Da qui la necessita di delineare una clausola antielusiva generale applicabile in tutti i casi in cui gli stretti limiti dell’art. 37 bis non consentono di colpire fenomeni elusivi.

Il lungo percorso giurisprudenziale è iniziato, in maniera più convinta, nel 2005[3] quando la Corte di Cassazione ha ritenuto di poter contrastare comportamenti elusivi realizzati in assenza di valide ragioni economiche, mutuando dalla disciplina civilistica concetti generali quali nullità per difetto di causa. La Corte di Cassazione aveva utilizzato l’escamotage di considerare le operazioni poste in essere con finalità elusive come affette da vizio di nullità privandole, in quanto tali, di qualsiasi effetto pratico.

Con la sentenza n. 10353/06, applicando i principi dettati in ambito comunitario[4], la Corte di Cassazione, ha affermato l’indetraibilità dell’IVA assolta in caso di comportamenti abusivi volti, quindi, a conseguire solo un vantaggio fiscale.

Ma è solo con le sentenze nn. 30055, 30056 e 30057 del 2008 che i giudici di legittimità definiscono il concetto di abuso del diritto come quel comportamento predeterminato al raggiungimento di “indebiti vantaggi fiscali” mediante un “utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio”.

Alle predette pronunce, oltre al pregio di aver definito il concetto di abuso del diritto, attraverso una definizione ampia, suscettibile di altrettanto ampie applicazioni pratiche, deve riconoscersi l’indubbio valore di aver superato la fonte comunitaria[5] (a cui deve comunque attribuirsi il ruolo di promotrice), costruendo una disciplina dell’abuso del diritto tutta italiana in quanto fondata sui principi costituzionali.

Questo, sinteticamente, il ragionamento dei giudici di legittimità: “la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi di capacità contributiva che informano nell’ordinamento tributario italiano. Ed in effetti, i principi di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.) e di progressività dell’imposizione (art. 53, secondo comma, Cost.) costituiscono il fondamento sia delle norme impositive in senso stretto, sia di quelle che attribuiscono al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere, essendo anche tali ultime norme evidentemente finalizzate alla più piena attuazione di tali principi”.

I giudici, quindi, hanno affermato l’esistenza del divieto di utilizzare in modo distorto le norme interne per un non dovuto vantaggio fiscale e, più in generale, per scopi diversi da quelli per cui le stesse norme sono state previste.

Definito il concetto dell’abuso del diritto, i giudici sono andati oltre chiarendo che la radice del divieto dell’abuso del diritto deve essere ricercata nei nostri principi costituzionali e, in particolare, nel principio della capacità contributiva quale limite alla attività impositiva.

Di immediata evidenza è l’effetto di tale derivazione voluto dai giudici di legittimità.

Facendo discendere il divieto dell’abuso del diritto da principi immanenti nell’ordinamento giuridico ne deriva che esso può legittimamente essere applicato anche a fattispecie poste in essere prima della sua effettiva previsione seppur giurisprudenziale.

In altre parole la derivazione dai principi costituzionali consentirebbe di derogare al principio sancito dall’art. 11 delle Preleggi secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire.

La legittimità della applicazione retroattiva della clausola generale antielusiva è stata consacrata dalla recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Si pensi alla sentenza n. 21930/2012 con cui gli Ermellini si sono pronunciati in ordine alla natura antielusiva del pagamento, avvenuto nel 1999, di un parte degli interessi in favore di soci.

L’elusività di tale operazione è stata inserita nel corpus dell’art. 37 bis dal D.L.vo 30 maggio 2005, n. 143.

La Corte di Cassazione, malgrado l’inserimento dell’operazione fra la le ipotesi elusive sia avvenuto diversi anni dopo la realizzazione della stessa, ha rigettato il ricorso del contribuente ritenendo assolutamente irrilevante che il comportamento antielusivo sia stato posto in essere prima della previsione di elusività della fattispecie fra le ipotesi di cui all’art. 37 bis.

Ciò in virtù di un principio generale antielusivo la cui fonte deve essere rinvenuta nella Costituzione.

A fortiori, prosegue la Corte “non contrasta con l’individuazione nell’ordinamento di un generale principio antielusione la constatazione del sopravvenire di specifiche norme antielusive, che appaiono anzi […] mero sintomo della esistenza di una regola generale”.

Secondo i giudici, se il divieto di realizzare un vantaggio fiscale per il tramite di un uso distorto di schemi giuridici trae la propria origine da principi codificati nella Costituzione ed entrati in vigore, di fatto, con la nascita del nostro ordinamento, nulla vieta di applicare la clausola antielusiva generale anche a fatti verificatesi in un tempo in cui non solo non erano previsti come contrari a norme di diritto ma addirittura non erano neppure considerate punibili.

Seguendo il ragionamento dei giudici di legittimità si potrebbe, per assurdo, ipotizzare l’applicazione della clausola antielusiva generale a fattispecie verificatesi a partire dal 1 gennaio 1948.

È evidente la portata dirompente di un simile ragionamento soprattutto per gli effetti distorsivi sugli stessi principi costituzionali invocati a sostegno dell’esistenza di una clausola elusiva di carattere generale, e sui principi sanciti dalla stessa Corte di Cassazione.

In primis l’applicazione retroattiva della clausola antielusiva generale si pone in netto contrasto con i principi dettati dalla stessa Corte di Cassazione in tema di mutamento improvviso della giurisprudenza comunemente detto “overruling”. Sul punto la Corte di Cassazione con le sentenze n. 15144 e n. 22282 del 2011 ha stabilito che, in caso di mutamento della giurisprudenza in ordine alla interpretazione di una determinata disposizione normativa, devono essere neutralizzati i conseguenti effetti qualora dall’applicabilità ex tunc degli stessi discendano conseguenze negative per il contribuente.

In buona sostanza per i giudici di legittimità il cambiamento della giurisprudenza in ordine alla interpretazione ed applicazione di una determinata norma non può pregiudicare diritti del contribuente che “abbia confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità della pronuncia nomofilattica correttiva, da verificarsi in concreto) nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa” (Cass. n. 22282/11).

Quanto sancito dalla Corte di Cassazione in tema di overruling si colloca in perfetta sintonia con il principio del legittimo affidamento ma, viceversa, confligge sino ad entrare in netta contraddizione con l’applicazione retroattiva dell’abuso del diritto.

Non può dimenticarsi che anche in tema di abuso del diritto vi sia stato un mutamento della giurisprudenza che da un atteggiamento di totale indifferenza è passata a “legiferare” una disciplina fondata sul dettato costituzionale.

Questa contraddizione è stata evidenziata dalla più autorevole dottrina che ha sottolineato come la necessità di colpire fenomeni elusivi, soprattutto in difficili contesti economici, ha indotto la giurisprudenza a sacrificare principi ormai consolidati.

Violazione del principio di irretroattività della norma tributaria

L’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/00) dispone che, salvo espressa e specifica previsione contraria, “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”.

La predetta norma prevede che eventuali applicazioni retroattive della disciplina tributaria devono essere espressamente normate.

L’applicazione retroattiva della clausola generale dell’abuso del diritto viola tale importante disposto e solleva numerosi interrogativi.

La citata violazione è ancor più evidente se si pensa che l’istituto dell’abuso del diritto non è disciplinato da alcuna norma legislativa, ma dalla recente giurisprudenza che, oltre ad aver fornito una definizione dell’abuso del diritto, ne ha ricercato la fonte nei principi costituzionali, sino ad arrivare a ritenere applicabile tale clausola a fattispecie pregresse in netta contraddizione con un principio che è, invece, sancito nello Statuto dei diritti del contribuente.

L’applicazione retroattiva del divieto di abuso del diritto offusca il principio del legittimo affidamento e le esigenze di certezza del diritto per far prevalere l’interesse fiscale.

Non sembra rilevare, in senso opposto, la natura statutaria delle disposizioni contenute nella L. n. 212/00 poiché, in essa, sono codificati veri e propri principi applicabili in materia tributaria.

Ciò in ragione del rinvio operato dalla clausola c.d. rafforzativa dell’art. 1, comma 1 dello Statuto in base al quale “le disposizioni della predetta legge, in attuazione degli art. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario e possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali”.

Il principio della irretroattività costituisce un fondamentale “valore di civiltà giuridica e principio generale dell’ordinamento cui il legislatore deve, in linea di principio, attenersi” (Cass. sent. n. 419/00), la cui deroga necessita di una specifica previsione normativa poiché, diversamente, si comporterebbe una intollerabile situazione di incertezza per il contribuente che si vedrebbe ipoteticamente sempre soggetto alla potestà impositiva.

Un approccio più mite della Corte di Cassazione sarebbe stato più consigliabile.

Seguendo l’esempio della più saggia Corte di Giustizia, i giudici di legittimità avrebbero, forse, fatto un uso più attento della clausola antielusiva generale limitandola la sua applicazione a fattispecie ex nunc.

 

Violazione del principio della capacità contributiva

Ma ancor più singolare è che l’applicazione retroattiva del principio dell’abuso del diritto violi, a sua volta, lo stesso principio posto a fondamento della clausola antielusiva generale, ovvero il principio della capacità contributiva.

Tale principio costituisce un rigoroso limite alla potestà impositiva dello Stato e nello stesso tempo un valido strumento di tutela per il contribuente il quale deve contribuire alla spesa pubblica solo in ragione e limitatamente alla propria capacità economica.

Immediata conseguenza è che la capacità contributiva deve essere effettiva, attuale e concreta[6].

Ma, applicando retroattivamente la clausola generale dell’abuso del diritto vi è il rischio di colpire fattispecie o presupposti che all’epoca dei fatti non erano ritenuti indicatori della capacità economica.

Immediata conseguenza è la violazione del principio costituzionale di cui all’art. 53 Cost.

Peraltro, in tale circostanze, non soccorre neppure l’eventuale ricorso innanzi al giudice delle leggi poiché l’abuso del diritto, come detto, è un principio introdotto e disciplinato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e, quindi, non rientra nella categoria delle leggi o degli atti aventi forza di legge per i quali è possibile ricorrere innanzi alla Corte Costituzionale.

Pertanto, vi è la possibilità che nei confronti di un contribuente sia ripresa a tassazione materia imponibile sulla base di un presupposto che, all’epoca dei fatti, era del tutto irrilevante ai fini impositivi, senza, inoltre, la facoltà concessa dal Legislatore di attivare il giudizio innanzi alla Corte Costituzionale quale forma di tutela.

Non si possono nascondere le perplessità sollevate dalla posizione della giurisprudenza in tema di abuso del diritto in relazione anche al principio della capacità contributiva.


[1] Si pensi alla vicina Francia dove la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’abuso del diritto a partire dalla fine del 1800. Ancora senza andare troppo lontano, si segnala che la legge tedesca ha già legiferato sull’abuso del diritto da diversi anni.

[2] L’art. 37 bis considera potenzialmente elusive le seguenti operazioni: i) trasformazione, fusione, scissione, liquidazione volontarie, distribuzione ai soci; ii) conferimenti in società; iii) cessioni di crediti; iv) cessione di eccedenza di imposta; v) operazioni di valutazione e classificazioni di bilancio; vi) cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate fra soggetti ammessi alla tassazione di gruppo; vii) pagamenti di interessi e canoni in regime di esenzione da ritenuta di cui all’art. 26-quater del DPR n. 600/73; viii) pattuizioni intercorse fra società controllate e collegate quando una di queste ha sede in un paradiso fiscale.

[3] Cfr. Corte di Cassazione, sent. n, 20398/05 e conformemente sent. n. 22932/05.

[4] La Corte di Giustizia con la sentenza del 21 febbraio 2006, causa C-255/06, Halifax, ha applicato in materia di IVA l’ormai consolidato principio in base al quale il divieto dell’abuso del diritto è un principio immanente dell’ordinamento comunitario. In senso analogo si segnalano anche le sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia nella causa C-223/03, e causa C-419/02.

[5] Ci si riferisce soprattutto alla sentenza della Corte di Giustizia resa nella causa C-255/02.

[6] Cfr Corte Costituzionale sent. del 26 giugno 1965, n. 50