Economia

Guido Dorso e la ‘questione meridionale’

(di Nicola Sguera)

Un giovane studioso di filosofia politica, Raffaele Molisse, ha curato per la Aras, la ripubblicazione dell’Appello ai meridionali che Guido Dorso scrisse nel 1924, edito da Gobetti su «La rivoluzione liberale».

Figura di spicco del meridionalismo e dell’autonomismo meridionale, Dorso può essere ancora proficuamente utilizzato per comprendere la “questione meridionale”, pur essendo alcuni elementi della proposta inevitabilmente datati. A completare l’agile libretto alcuni articoli di Dorso, di tematica affine, seguiti da una postfazione di Francesco Saverio Festa.

Preziosa appare la categoria (ripresa da Colajanni) di “conquista regia” per spiegare il Risorgimento italiano, così come il giudizio sprezzante sulla borghesia meridionale, che volle ereditare i privilegi degli antichi baroni, impedendo la nascita di un movimento contadino evoluto. Dorso batte continuamente sul male strutturale dell’Italia meridionale, il “trasformismo”, alimentato da quel patto che volle insieme le leggi speciali per il Sud e il protezionismo per tutelare la nascente industria italiana.

Dorso sprona a rinnovata attenzione verso il fenomeno del brigantaggio: «episodio politico degno di profondo studio e non manifestazione volgare di criminalità».

Lo studioso avellinese elogia il Risorgimento meno fumoso, quello di Cattaneo (contro Gioberti), che ebbe peraltro il merito di prospettare per primo una soluzione federalista, adeguata alle profonde differenze geografiche, culturali e storiche della penisola.

Da un punto di vista squisitamente filosofico appare molto stimolante, anche per il presente, l’invito a non temere il conflitto. Scrive Polito, Direttore del Centro studi Piero Gobetti di Torino nella Prefazione: «Le soluzioni unitarie hanno paura della lotta aperta e forniscono le sintesi prima di aver fatto nascere le antitesi».

Appare, invece, problematica l’esaltazione della guerra mondiale (comune a molti intellettuali democratici), vista come possibilità utilizzata male per il Sud di sanare un Risorgimento contraddittorio, così come si cercherà invano nel testo una condanna netta del fascismo, criticato sì ma solo perché perpetuava atteggiamenti (trasformistici) delle vecchie classi dirigenti.

A mio avviso, invece, ad apparire inutilizzabile è il liberalismo economico. Davvero il liberalismo può funzionare da volano di trasformazione dell’intera società? Il XXI secolo, con la radicale trasformazione, avviata negli anni Ottanta del XX e la globalizzazione definitiva dei processi economici, non ci dice che esso, lungi dall’essere fattore di liberazione, riproduce, oramai sia su scala nazionale che planetaria, diseguaglianze moralmente (sottolineo la parola) inaccettabili? Sono problematiche con le quali Dorso non poteva e non doveva confrontarsi, ovviamente. Ma, riprendendo i termini della sua riflessione, oggi, come allora, non può essere lo Stato l’unico argine ad un’economia opaca e priva di controllo democratico? Non può e non deve essere lo Stato nazionale, senza venature identitarie, il perimetro entro il quale difendere i cittadini dall’orrore economico? Il nostro problema non è più modernizzare l’economia. L’Italia è uno dei dieci paesi più industrializzati del pianeta, malgrado la crisi. Il problema è ridurre le diseguaglianze.

Ancora. L’individualismo dorsiano è attuale? Non è anch’esso inevitabilmente superato da problematiche che nella prima metà del secolo non erano prevedibili? Ossia, nella società “liquida”, per dirla con le parole di un recente illustre ospite della nostra città, il problema non è ricostruire il “legame sociale” (il difficile, ovviamente, è capire come)?

È possibile ancora riproporre in maniera feconda la questione delle classi dirigenti, in particolari meridionali? Qualche mese fa, mi è capitato di far infuriare Massimo Cacciari, che aveva appena pronunziato una dotta lectio sulla paradosso della democrazia che produce inevitabilmente “oligarchie” (uso volutamente il termine di Robert Michels), auspicando che tali oligarchie fossero le migliori possibili e rimpiangendo i vecchi partiti degli anni Cinquanta, capaci di formare, appunto, classi dirigenti. A mio avviso le post-democrazie pongono problemi nuovi che non possono essere affrontati con strumenti novecenteschi, se non a costo di ricadere in problemi ancora più gravi (oggi ci ritroviamo sedicenti oligarchie che sono tali non per la capacità di affrontare problemi ma solo per quella di gestire il consenso che diventa funzionale all’uso sfacciato di risorse pubbliche per la costruzione di potere personale). Da questo punto di vista, Dorso mi pare inutilizzabile, al pari di tutta la tradizione non solo liberale ma anche social-comunista del Novecento.

Oggi si parla ancora di questione meridionale? L’ultimo libro importante, assolutamente eretico rispetto alla storia del meridionalismo, è Il pensiero meridiano di Franco Cassano, uscito nel 1996. Vi si prospettava una “rivoluzione” in nome della “tradizione”, scegliendo come numi tutelari Albert Camus e Pierpaolo Pasolini, una rivoluzione che rigettasse i miti del produttivismo, calvinisti e nordici, scegliesse la lentezza (la decrescita si sarebbe potuto dire) e mirasse a mettere l’Italia al centro di un’Europa mediterranea piuttosto che accettarne la perifericità in un’Europa “carolingia”, strutturata sull’asse Parigi-Berlino.

Riattivando tutta la nobile tradizione del meridionalismo, in cui Dorso occupa un posto di tutto rilievo, io credo che quel progetto vada ripreso con maggiore energia, rivendicando l’alterità del Sud, la sua specificità culturale e storica che possa essere la base di un “risorgimento” originale e non subalterno a modelli culturali “stranieri”.