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Il primo processo interno per i reati commessi dalle truppe russe, in territorio ucraino, ai danni della popolazione civile

 

  1. Inquadramento storico-giuridico del conflitto odierno.

 Il 24 febbraio 2022 la Federazione Russa come noto, in violazione del divieto dell’uso della forza (armata) sancito dall’art. 2 par. 4 della Carta delle Nazioni Unite, ha attaccato militarmente l’Ucraina in diverse località strategiche sia dal punto di vista politico che militare e geografico. L’intervento Russo, ancora in corso, ha portato alla comminatoria di numerose sanzioni da parte della comunità internazionale sin dalle ore immediatamente successive all’aggressione bellica.

Invero, parte della dottrina ritiene che la violazione di cui all’art. 2 par. 4 si sarebbe già configurata nei giorni precedenti al 24 febbraio riscontrando, nelle numerose dichiarazioni del leader russo Putin, una violazione del divieto della minaccia dell’uso della forza. Vengono a tal riguardo in evidenza sia il dispiegamento di massicce operazioni militari sul confine russo-ucraino, sia l’illegittimo riconoscimento delle Regioni separatiste del Lugansk e del Donetsk; configurandosi altresì una violazione del principio di precauzione e non ingerenza.

La «special military operation» russa è stata giustificata dalla stessa, paradossalmente, facendo leva proprio sulla Carta delle Nazioni Unite. Il riferimento alla legittima difesa, di cui all’art. 51 della Carta, si estrinsecherebbe sia nella sua dimensione individuale che in quella collettiva. Con riguardo a quest’ultima, l’argomentazione Russa difetta di un elemento imprescindibile che non consente l’azionabilità della norma: le Regioni secessioniste non possono considerarsi “Stati” a norma del diritto internazionale; precedentemente alla data dell’attacco armato, l’Assemblea Generale delle NU aveva esplicitamente ammonito gli Stati dal riconoscerne tale qualifica.

È da respingersi inoltre l’argomentazione secondo cui la Federazione Russa avrebbe agito in tutela delle pretese “Repubbliche” del Lugansk e del Donetsk per effetto dei “Trattati di amicizia e assistenza” siglati poco prima.

Altrettanto non invocabile appare la legittima difesa individuale da parte della Russia: non risulta, infatti, che in alcun momento la stessa sia stata soggetta ad aggressione armata o minaccia dell’uso della forza da parte di alcuno. Le discusse attività della NATO non costituirebbero un’aggressione in tal senso. Anche qualora si volesse ammettere, come sostenuto da taluni autori, che le azioni della NATO, nell’ultimo ventennio, si possano leggere come “confliggenti” con gli interessi economico-politici della Russia, non vi sarebbe alcun utilizzo della forza; neppure una minaccia “tangibile”.

La possibile adesione dell’Ucraina alla NATO, inoltre, non può intendersi come “ritorsione” o atto inamichevole ai sensi del diritto internazionale; rientra nella signoria di ogni Stato la possibilità di definire l’assetto della propria politica estera presente e futura.

Se si inquadrasse l’illecita invasione russa nella teoria della legittima difesa preventiva, già condannata peraltro proprio dalla Russia quando fu evocata dagli Stati Uniti per giustificare l’intervento in Iraq del 2003, occorre evidenziare che non solo la dottrina prevalente rifiuta tale impostazione, ma non esiste neppure una norma convenzionale o consuetudinaria a sostegno della stessa. Pur volendo ammettere che in taluni casi la legittima difesa preventiva è consentita, il dispiegamento della forza è possibile unicamente quando si è nell’”imminenza di un attacco armato”. Mutatis mutandis, la legittima difesa individuale, preventiva e non, non può ammettersi in capo alle sedicenti “Repubbliche” poiché non hanno, nuovamente, titolo giuridico per invocare tale diritto.

Pare opportuno fare ulteriori precisazioni al fine di meglio comprendere il conflitto armato odierno, che getta le proprie radici nelle gravi tensioni iniziate nel 2014 tra i due Stati.

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la Russia e l’Ucraina hanno continuato a intrattenere forti legami politici ed economici; la seconda pur essendo diventata indipendente dal 1991 viene percepita dalla Russia come facente parte della propria “sfera d’influenza”. Esempio rilevante, tra gli altri, è la concessione alla Federazione dell’uso del porto di Sebastopoli, dietro il pagamento di un “affitto”, cosicché la flotta russa possa continuare ad occupare la zona strategica del Mar Nero. I primi punti di rottura si ebbero dal 1993 quando Ucraina e Russia vennero coinvolte in una serie di dispute sui prezzi del gas; le asperità si acuirono con la “rivoluzione arancione” del 2004 e il progressivo “avvicinamento” dell’Ucraina alla NATO, che dispiegò, per ampiezza, il terzo maggiore contingente in Iraq nel 2004. Prese inoltre parte ad alcune missioni di peacekeeping e peace-enforcement come l’ISAF in Afghanistan e il KFOR in Kosovo. Sul finire del febbraio del 2014, alcune bande armate presero il controllo della penisola della Crimea ed il governo territoriale dell’Oblast’ annunciò di voler proporre un quesito referendario per la secessione dall’Ucraina. Il referendum è stato largamente contestato circa la sua regolarità ed efficacia; lo stesso governo centrale ucraino si rifiutò di riconoscere la procedura e la successiva annessione russa, dichiarando al contempo la Crimea come un territorio “temporaneamente” occupato dalla Russia.

La stessa è ritenuta internazionalmente responsabile dell’illecita “incorporazione” del territorio della Crimea da parte dell’ONU, dell’Unione Europea, degli Stati Uniti, dell’OSCE e del Consiglio d’Europa.

Quanto sovraesposto consente di effettuare alcune considerazioni.

Pare anzitutto indiscutibile che l’intervento russo in Crimea, per quanto possa ritenersi “peculiare” per certe sue caratteristiche e modalità di attuazione, ricade in numerose e palesi violazioni del diritto internazionale.

In primo luogo, si ribadisce, il referendum che ha condotto all’annessione della Crimea alla Russia è stato svolto sotto il controllo militare russo e dunque vi è una violazione del divieto dell’uso della forza; seppur la natura di questa operazione risulta essere “non cruenta”, è svolta in totale spregio della norma consuetudinaria che impone il divieto di acquisizione di territori con la forza.

In secondo luogo si ravvisa, in ogni caso, un atto di aggressione secondo la definizione data dalla Risoluzione n. 3314 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1974: in particolare nei termini di invasione o occupazione del territorio di un altro Stato e di uso delle proprie forze armate sul territorio statale altrui, seppur il “posizionamento” inoffensivo avviene con il consenso dello Stato territoriale. La Russia disponeva infatti dell’autorizzazione a stanziare presso il porto di Sebastopoli.

In terzo luogo sono significative le reazioni prevalenti della comunità internazionale: in particolare si ricordi la Risoluzione 68/262 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 27 marzo 2014 dove si sottolinea, con decisione, l’invalidità dell’annessione e si invitano gli Stati a non riconoscere qualsiasi alterazione dello status della Crimea e della città di Sebastopoli.

La citata Risoluzione del 1974 qualifica, inoltre, come aggressione anche la cosiddetta “aggressione armata indiretta”, consistente nell’invio di bande armate da parte di uno Stato allo scopo di commettere atti di aggressione “equivalenti” a quelli inclusi delle ipotesi “tipicizzate” dalla Risoluzione. Potrebbe, tuttavia, risultare complessa l’attribuzione alla Russia degli atti dei ribelli promotori della “rivolta” crimeana qualora si seguisse la teoria del «controllo su ogni effettivo atto lesivo» valorizzata della Corte internazionale di giustizia nei casi Nicaragua c. Stati Uniti del 1986 e Bosnia c. Serbia del 2007. Tuttavia, autorevole dottrina ritiene che il sostegno russo ai ribelli assumerebbe comunque i caratteri dell’illecito internazionale dovendosi lo stesso qualificare, almeno, quale: proibito uso della forza (pur non configurante un atto di aggressione), indebita interferenza negli affari interni di un altro Stato e divieto di soccorso agli insorti.

La Corte europea dei diritti dell’uomo nel gennaio 2021 ha dichiarato ammissibile il ricorso presentato dall’Ucraina per le gravi violazioni russe dei diritti umani avvenute in Crimea; ha altresì ritenuto che i fatti denunciati dal Governo ucraino rientrassero nella “giurisdizione” della Russia sulla base del «controllo effettivo» che questa esercitava sul territorio a partire dal 27 febbraio 2014, prima che annettesse illegalmente la penisola il 18 marzo dello stesso anno. La pronuncia, si configura come la prima decisione internazionale significativa nel caso Ucraina c. Russia (riguardante la Crimea).

La guerra nel Donbass del 2014, sfociata nell’attuale guerra Russia-Ucraina, ebbe origine, seppur con dinamiche e motivazioni parzialmente diverse, “parallelamente” agli eventi in Crimea. Il 6 aprile 2014 le Regioni separatiste del Lugansk e del Donetsk si autoproclamarono “repubbliche”; soltanto nel Febbraio 2022 saranno però riconosciute ufficialmente dalla Federazione Russa. All’epoca i secessionisti, volendo emulare quanto successo in Crimea, chiesero anch’essi un referendum per l’indipendenza che fu negato dal governo centrale ucraino. Tra il 22 e il 25 agosto 2014 la NATO segnalò l’ingresso, nei territori predetti, di reparti d’artiglieria e “convogli umanitari” russi. Posto che a livello internazionale le due entità non erano riconosciute come indipendenti nemmeno dalla Russia stessa, l’Ucraina denunciò il fatto come violazione della propria sovranità nazionale.

Rispetto a quanto avvenuto in Crimea, per le fulminee tempistiche di sviluppo dei rapporti tra la stessa e la Russia, nonché per la stipula del Trattato tra la Federazione Russa e la Repubblica di Crimea sull’annessione territoriale, la qualificazione della situazione del Donbass appariva maggiormente complessa. Non vi erano infatti, ad esempio, le medesime “evidenze” del controllo militare russo del territorio come nel caso crimeano. Formalmente la Corte penale internazionale nelle sue indagini potrebbe ravvisare una responsabilità dei gerarchi russi nel Donbass anche nel periodo antecedente al 24 febbraio 2022. È invece precluso pronunciarsi sulla “questione Crimea” poiché L’Ucraina ha accettato la giurisdizione della Corte solo dopo l’illecita l’annessione del 2014; ricordando che ne Russia ne Ucraina sono parti dello Statuto di Roma. Ove si configurasse l’ipotesi del diretto coinvolgimento russo anche nel conflitto del Donbass, la situazione odierna andrebbe valutata, dal punto di vista dottrinale, come un “illecito internazionale continuato”: iniziato in Crimea e sfociato nell’attuale «special military operation».

  1. La giurisdizione domestica come valida alternativa/integrazione alle attività dei tribunali internazionali.

La possibilità di processare, per eventuali crimini internazionali commessi, uno o più individui potrebbe formalmente spettare a ciascuno Stato laddove venisse esercitata la giurisdizione penale universale. In tal senso, seppur cautamente, si è espresso qualche Stato europeo.

Risulta tuttavia complesso il poter pensare che attraverso questo meccanismo i maggiori gerarchi, presunti responsabili di atroci crimini a norma del diritto internazionale, possano effettivamente essere processati. I problemi sono molteplici e ben noti: la previsione all’interno dell’ordinamento nazionale di norma penale sostanziale che “ricalchi” le previsioni dello Statuto di Roma, la possibilità di estradare o consegnare il soggetto da processare, la possibilità di condurre indagini in territorio straniero e ancora.

Questa premessa non deve al contempo sminuire l’indubbio valore che tali procedimenti possono rivestire; maggiormente se questo avviene nel Paese ove i crimini sono stati commessi. In questo senso è da accogliersi con estremo favore il processo che ha avuto inizio lo scorso 13 maggio nei confronti del sergente russo V.S. chiamato a rispondere dell’omicidio volontario di un civile nel villaggio di Chupakhivka, dinanzi alla Corte penale del distretto di Solomianskyi(Ucraina nordorientale).  Data simbolica se si considera che, la Procuratrice Generale ucraina, Iryna Venediktova, ha annunciato di aver aperto un fascicolo su oltre diecimila casi di crimini di guerra commessi nel territorio ucraino durante le ostilità, potendo disporre di una già precisa lista di sospettati.

Su questo punto si rimarca l’importanza del sostegno di Paesi terzi per le indagini preliminari. Stati Uniti e diversi Paesi membri dell’Unione Europea stanno infatti fornendo assistenza agli inquirenti ucraini nelle attività di indagine. In particolare l’Agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione giudiziaria penale, insieme a Ucraina e Polonia hanno dato vita, grazie anche al supporto di Eurojust,  ad una squadra investigativa congiunta, a cui il 25 aprile scorso si è unito il Procuratore della Corte penale internazionale.

In particolare la celebrazione di processi per crimini internazionali (nel caso di specie per crimini di guerra) dinanzi a tribunali interni non è in contrasto con l’accettazione da parte dell’Ucraina della giurisdizione della CPI, poiché la stessa è complementare ai tribunali nazionali. L’avocazione alla Corte di un caso presuppone che lo Stato che ha giurisdizione nell’ipotesi concreta non intenda o non sia in grado di condurre le indagini o esercitare l’azione penale.

Si ricordi inoltre che pur non essendo Parte dello Statuto della Corte, l’Ucraina ha accettato ex post la sua competenza, il 2 marzo scorso, per i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi sul suolo ucraino fin dal 21 novembre 2013.

Il divieto di attaccare i soggetti non belligeranti, e quindi non partecipanti direttamente alle ostilità, è un principio fondamentale del “diritto dei conflitti armati” e dunque la sua violazione si configura come un crimine di guerra. Il Codice penale ucraino prevede per l’omicidio volontario di civili da un minimo di dieci anni di reclusione all’ergastolo (art. 438, par. 2).

La seconda udienza, fissata per il 18 maggio, sarà un “termometro giuridico” per comprendere se l’accusa avrà sufficienti elementi per poter condannare l’imputato e al contempo garantire i diritti corollario del diritto umano all’equo processo; nonché con riferimento alle prerogative di cui debbono godere i prigionieri di guerra, ovvero i diritti previsti dalla III Convenzione di Ginevra del 1949 sul trattamento dei prigionieri di guerra, di cui sia l’Ucraina che la Federazione Russa sono parti.

La Convenzione impone che le indagini siano condotte con la massima rapidità consentita dalle circostanze (art. 103, par. 1) e che il prigioniero di guerra abbia il diritto di essere processato (celermente) da un tribunale che presenti garanzie di indipendenza e imparzialità, potendo essere assistito da un avvocato qualificato e un interprete competente (artt. 84, 99, 105).

(A cura di Matteo Bassetti)

 

Bibliografia e Approfondimenti:

Peters, Russia’s Threat to Ukraine a Violation of International Law, Max Planck Law, 2022

Leanza – U.Caracciolo, Il diritto internazionale: diritto per gli Stati e Diritto per gli Individui, Giappicchelli Editore, 2008

M.Wood – M.Jamnejad, The Principle of Non-intervention, Leiden Journal of international law, Cambridge University Press, 2009

Ronzitti, Diritto Internazionale, Giappichelli Editore, 2019

Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli Editore, 2019

https://www.eurojust.europa.eu/news/eurojust-supports-joint-investigation-team-alleged-core-international-crimes-ukraine


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