Fisco Fiscalità internazionale

La deducibilità dei costi black list

(di Massimiliano Sammarco)

L’art. 110, commi 10, 11 e 12 del D.P.R. n. 917/1986, detta la disciplina sostanziale relativa ai costi sostenuti dalle imprese nazionali per gli acquisti effettuati da fornitori residenti in Paesi extra UE, aventi un regime fiscale privilegiato (cosiddetti paradisi fiscali).

La disposizione prevede, nello specifico, che non sono ammessi in deduzione dal reddito d’impresa le spese e gli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con imprese residenti in Stati o territori diversi da quelli individuati nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’art. 168-bis del D.P.R. n. 917/1986 (c.d. Black list).

Per effetto della disposizione contenuta nell’art. 110, comma 10, del T.U.I.R., in linea di principio non sono deducibili, dal reddito d’impresa, i seguenti costi:

  • spese relative a transazioni economiche e commerciali, (ovvero gli acquisti di beni e/o servizi dal fornitore estero);
  • ogni altro componente negativo di reddito (ad esempio le svalutazioni; le perdite su crediti; gli ammortamenti; gli interessi e altri oneri finanziari derivanti da transazioni aventi causa finanziaria, le minusvalenze su cespiti ammortizzabili).

L’art. 110, comma 11, del D.P.R. n. 917/1986, consente al contribuente di disapplicare il regime di indeducibilità sancito dal comma 10. Infatti, la disciplina dell’indeducibilità dei costi black list, non si rende applicabile quando le imprese residenti in Italia, ai sensi del successivo comma 11 dell’art. 110 del D.P.R. n. 917/1986, forniscono la prova che «le imprese estere svolgono prevalentemente un’attività commerciale effettiva, ovvero che le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione».

Si tratta di esimenti tra loro alternative la cui dimostrazione può essere fornita dal contribuente in sede di controllo, oppure, sempre secondo l’Agenzia, in via preventiva, cioè prima di porre in essere l’operazione, inoltrando all’Amministrazione finanziaria apposita istanza di interpello.

L’Agenzia delle entrate ha elencato, a titolo esemplificativo e non esaustivo, alcuni documenti idonei a dimostrare l’effettiva attività commerciale, quali il bilancio di esercizio, l’atto costitutivo, un prospetto descrittivo dell’attività esercitata, i contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività, la copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche relative agli uffici e agli altri immobili utilizzati, i contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa e le mansioni svolte, i conti correnti bancari aperti presso istituti locali, estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle attività esercitate, copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici, autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali. L’esperienza ha dimostrato come alcuni di questi documenti sono impossibili da ottenere, soprattutto dai fornitori esteri appartenenti a gruppi multinazionali, in quanto a volte contengono delle informazioni riservate. Malgrado sia ragionevole sostenere questo, potrebbe succedere che i verificatori ritengano non provata la relativa esimente in quanto la società non ha fornito la documentazione sopracitata, ma documentazione diversa, anche se sostanzialmente equipollente.

In merito, all’esimente dell’interesse economico, si evidenzia come l’Agenzia delle entrate ritiene necessario un confronto comparativo tra il prezzo al quale è stata conclusa l’operazione e quello potenzialmente raggiungibile nel mercato italiano o in altri mercati a fiscalità ordinaria, mentre la giurisprudenza ha al contrario sostenuto che tale interesse può derivare da un’analisi della sussistenza dell’effettivo interesse economico nell’operazione in sé. Qualche volta infatti mancano operazioni comparabili, perché si tratta di royalties, di marchi, di provvigioni, e di altre prestazioni non fungibili, e quindi non confrontabili col prezzo praticato da terzi, che in genere sarà addirittura mancante.

Da quanto fino ad ora esposto, emerge chiaramente come la verifica in merito alla violazione o meno della normativa si debba basare sui fatti e una loro valutazione potrebbe essere soggetta a diverse interpretazioni da parte delle parti.

Sta di fatto, però, che nel caso in cui l’operatore non riesca a documentare una delle esimenti previste dalla normativa, ma sia abbastanza chiaro che l’operazione abbia un senso economico per la sua impresa, questo dovrebbe essere sufficiente per evitare l’irrogazione delle sanzioni, anche quelle di carattere penale quando dovessero superarsi le soglie previste di punibilità.

In tale caso, infatti, la violazione della normativa, consistente nella mancata produzione della documentazione richiesta sarebbe sanzionata solamente con l’indeducibilità del costo.

L’applicazione anche di una specifica sanzione risulterebbe alquanto eccessiva, dal momento che non verrebbe posto il dubbio in merito all’inerenza del costo alla produzione del reddito, ma solamente non sarebbe considerata sufficiente la documentazione prodotta a giustificazione del suo sostenimento.

E come già esposto precedentemente, i motivi per cui la documentazione richiesta dalla norma possa essere ritenuta insufficiente possono essere molteplici.

Si pensi, ad esempio, ad un operatore italiano che è costretto ad acquistare ad un prezzo elevatissimo un determinato bene necessario alla propria produzione da un determinato fornitore residente in Paese a fiscalità privilegiata, il quale è l’unico produttore mondiale che permette di ottenere determinate performances, ma non ha nessuna intenzione di fornire documenti in merito alla sua attività.

In tale caso, potrebbe essere eccepito in capo al soggetto nazionale di avere posto in essere un’operazione economicamente ingiustificata, visto l’elevato prezzo di acquisto, e di non avere dimostrato le esimenti richieste dalla normativa, se non quella che l’operazione è stata effettivamente posta in essere.

A meno che non venga dimostrato che il soggetto italiano abbia ricevuto indietro una parte del maggiore prezzo pagato, la sanzione non dovrebbe essere irrogata.

Per concludere, si ritiene che l’indeducibilità del costo per quegli operatori che intrattengono rapporti con soggetti residenti in Paesi black list sia una sanzione eccessiva, nel caso in cui sia evidente che l’operazione ha un senso economico, ma non si è giunti a fornire la prova suddetta.

Quanto detto ci costringe a fare una brevissima considerazione. fermo restando il doveroso impegno che l’amministrazione finanziaria deve manifestare nella lotta all’evasione fiscale, non si può non considerare il tessuto sociale economico e politico in cui le nostre imprese operano; un sistema globalizzato in cui gli scambi commerciali non necessariamente avvengono tra imprese appartenenti allo stesso stato, ne tantomeno si può obbligare un’impresa ad instaurare rapporti commerciali con imprese residenti in stati non aventi una fiscalità privilegiata (scelta per altro giustificata da ragioni economico/imprenditoriali) ecco, proprio quest’ultimo aspetto (cioè quello del “obbligo”), comporta una ulteriore riflessione: chiedere ad un’impresa di dimostrare che il rapporto commerciale con la società black list non sia stato instaurato al solo scopo di evadere le imposte in italia (con relativo dispendio di costi e tempo), significa, a nostro avviso, “obbligare” un’impresa a scegliere la controparte commerciale esclusivamente in base alla residenza di quest’ultima, piuttosto che sulla base di una valutazione di convenienza economica; tutto ciò al fine di evitare accertamenti fiscali per difendersi dai quali, dimostrare la buona fede rischia di diventare “diabolico”.

Continuando, ad esempio, qualora una società italiana volesse investire in latino-america, con headquarter in Uruguay, magari in JV con una società spagnola, si verificherebbe la seguente situazione:

Per la Spagna l’Uruguay non è paradiso fiscale e i due paesi hanno ratificato la convenzione contro le doppie imposizioni; per l’Italia, invece, l’Uruguay è un paradiso fiscale, il che comporterebbe tutte le conseguenze di cui sopra, a discapito della concorrenza delle nostre imprese a livello globale.

Non basterebbe invertire l’onere della prova … ?

(fonte: www.corriereinfromazione.it)