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La rassegna stampa giuridica di Economia & Diritto – Febbraio 2023

Cassazione sentenza n  4650 del 14.2.23 
“2. Il secondo motivo, il quale può essere esaminato per primo, trattandosi di una ragione della decisione concorrente, è inammissibile nella parte in cui deduce che il nuovo avviso sarebbe stato emesso sul presupposto dell’emissione della L. n. 147 del 2013art. 1, comma 281, in quanto non coglie pienamente la ratio decidendi. Il giudice del merito ha ritenuto – a dispetto dell’imprecisa indicazione del comma della norma di cui al D.P.R. n. 600 del 1973art. 43 vigente pro tempore (il comma 4 e non il comma 3) – che l’avviso di accertamento impugnato, di natura integrativa, avesse fatto seguito a un analogo avviso di accertamento relativo alle imposte dirette, relativo al medesimo periodo di imposta, fondato sui medesimi elementi di fatto e non anche su nuovi elementi di fatto. Ha osservato, in particolare, che entrambi gli avvisi (quello in oggetto e il precedente avviso) fossero stati fondati entrambi sul medesimo PVC in data 29 luglio 2011. Il giudice di appello ha, inoltre, ritenuto che non potessero considerarsi nuovi fatti la mera rielaborazione degli elementi già conosciuti dall’Ufficio e frutto, pertanto, di “una semplice riconsiderazione di quanto era già noto al momento dell’emanazione del primo avviso, come invece abbia proceduto in previsione della norma contenuta nella legge finanziaria 2014”. Non vi è, pertanto, questione nella sentenza impugnata (in relazione al primo profilo di censura) della corretta o meno applicazione della disciplina del transfer pricing all’IRAP per effetto della norma di interpretazione autentica della legge finanziaria 2014 al caso di specie, bensì il fatto che tale avviso, di natura integrativa, avesse fatto seguito a un precedente avviso fondato sui medesimi elementi di fatto.

3. Infondato è, invece, il motivo nella parte in cui deduce che un avviso di accertamento parziale, ove seguito da un ulteriore avviso di accertamento parziale, possa essere emesso anche sulla base del medesimo corredo documentale e fattuale senza incorrere nel divieto di doppia imposizione. L’avviso di accertamento parziale non esonera l’Ufficio, che intenda procedere con un nuovo avviso di accertamento per il medesimo periodo di imposta, dall’addurre nuovi fatti, dovendo il nuovo accertamento fondarsi su fonti diverse da quelle poste a base del primo o comunque su dati la cui conoscenza, da parte dell’ente impositore, sia ad esso sopravvenuta, in applicazione del generale principio della tendenziale unicità degli accertamenti, di cui gli strumenti previsti da queste due disposizioni costituiscono deroga, altrimenti pregiudicandosi il diritto del contribuente ad una difesa unitaria e complessiva che tale principio garantisce (Cass., Sez. V, 4 dicembre 2020, n. 27788Cass., Sez. V, 1 ottobre 2018, n. 23685).

4. Deve, pertanto, darsi continuità al principio affermato da questa Corte, secondo cui “l’accertamento integrativo, susseguente a quello parziale, non può basarsi su atti o fatti acquisiti e già conosciuti dall’ente impositore fin dall’origine ma non contestati, in quanto ciò pregiudicherebbe il diritto del contribuente ad una difesa unitaria e complessiva, a cui presidio si pone il predetto principio generale, ma deve necessariamente fondarsi su nuovi elementi atti a giustificarlo, non essendo ammissibile un accertamento a singhiozzo, senza che di essi debba darsi indicazione in modo specifico a pena di nullità, come invece sancito dall’art. 43 del citato D.P.R. (cfr. Cass., Sez. 5, 1/10/2018, n. 23685)” (Cass., n. 27788/2020; conf. Cass., Sez. V, 13 ottobre 2011, nn. 21070 – 21073; Cass., Sez. V, 28 gennaio 2010, n. 1817). Principio di cui la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione, osservando che “l’integrazione dell’accertamento originario, presupposto a quello successivo a base dell’odierno contenzioso sarebbe stato possibile solo nell’ipotesi di nuove segnalazioni”)”.

Cassazione sentenza  n  3854 del 08.2.23
“Va osservato, tuttavia, che l’accertamento con adesione vincola sia il contribuente che l’Amministrazione finanziaria e, in particolare, preclude a quest’ultima una ulteriore attività accertatrice (salve le deroghe previste dal D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 2, comma 4) solo per il periodo di imposta interessato dall’accordo, che costituisce il limite oggettivo della definizione concordata fra le parti, definizione che peraltro, nel caso di specie, ebbe ad oggetto soltanto il quantum debeatur della pretesa impositiva, essendo in discussione unicamente la plusvalenza derivante dalla cessione. Al contrario, per gli altri periodi d’ imposta, l’accertamento con adesione non ha carattere vincolante per le parti, non potendo certo essere paragonato ad un giudicato, con gli effetti esterni tipici di questo, con particolare riferimento ai presupposti fattuali posti a fondamento della pretesa impositiva.
Sul punto, va evidenziato che, in materia tributaria, l’accertamento con adesione, pur essendo il risultato di un accordo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente, costituisce una forma di esercizio del potere impositivo, non assimilabile, in quanto tale, ad un atto di diritto privato, sicchè esso non ha natura di atto amministrativo unilaterale, nè di contratto di transazione, stante la disparità delle parti e l’assenza di discrezionalità in ordine alla pretesa tributaria, ma configura un accordo di diritto pubblico, il quale, in ragione di ciò, non è soggetto alle disposizioni del codice civile in tema di transazione, ma alla speciale disciplina pubblicistica contenuta nel D.Lgs. n. 218 del 1997, avente carattere cogente siccome afferente all’obbligazione tributaria, ai suoi presupposti e alla base imponibile (in tal senso Cass. 26 maggio 2021, n. 14568; v. anche Cass. 24 maggio 2022, n. 16675). Proprio il profilo dell’accordo, tuttavia, l’atto di adesione limita l’efficacia dell’accertamento entro i
confini (contenutistici e temporali) in cui tale accordo si è formato, non potendosi quindi estendere l’efficacia di tale accordo, con riferimento ai presupposti ed al periodo dell’ imposta, oltre i termini ed i limiti in esso indicati. In ragione di ciò, non può certo affermarsi che l’Amministrazione finanziaria, procedendo all’accertamento per gli anni successivi, abbia violato il canone di correttezza di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, (c.d. statuto del contribuente), non potendosi certo considerare
l’accordo raggiunto per un determinato periodo d’ imposta ostativo con riferimento ad accertamenti relativi a periodi d’ imposta successivi, tanto più che, essendosi in presenza di comportamenti elusivi, il contribuente non può considerarsi sorpreso dall’attività accertatrice dell’Amministrazione finanziaria”.
Cassazione Ordinanza n 5586 del 23.2.23
“12.1. Secondo l’orientamento espresso da questa Corte “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del D.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (da ultimo, Cass. n. 34996 del 2022).
12.2. Tale opzione interpretativa deve essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte costituzionale 31 gennaio 2023, n. 10.

12.3. Va premesso che la Commissione tributaria provinciale di Arezzo, con ordinanza del 26 aprile 2021, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario. In particolare, la CTP assumeva che, in mancanza di giustificazione, un prelievo dal conto può essere attribuito, altrettanto ragionevolmente, a costi d’impresa quanto a spese personali, specie nell’ipotesi di piccoli imprenditori individuali che abbiano optato per il regime di contabilità semplificata. Sosteneva che la giurisprudenza di legittimità non consente una deduzione automatica dei costi presuntivamente sostenuti per conseguire i ricavi ottenuti grazie alle somme prelevate senza giustificazione.

12.4. La Corte costituzionale, con sentenza 31 gennaio 2023, n. 10, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma.

Ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o “puro”), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio – cui ha fatto riferimento la stessa Corte nella sentenza n. 225 del 2005 – secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi. L’accertamento analitico-contabile (che aveva ha originato l’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza – invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o “misto” è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza. Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole “poste” della stessa, implica che ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 t.u.i.r., in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente.

Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli perchè finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Pertanto, la disposizione censurata intanto si sottrae alle censure di illegittimità costituzionale in quanto si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi “occulti”, scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la “incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati” (Corte Cost. n. 225 del 2005).

12.5. L’Agenzia delle entrate, con circolare n. 32/E/2006 (capitolo quinto, punto 5.5), aveva già affermato, con riguardo agli accertamenti induttivi “puri”, che “il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo” di cui all’art. 32, comma 1, n. 2), del D.P.R. n. 600 del 1973. A seguito della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, tale principio deve ritenersi estensibile anche al caso di utilizzo del metodo analitico o “misto”.

12.6. In conclusione sul punto, alla stregua dell’interpretazione adeguatrice fornita dal giudice delle leggi, si rivela dunque errata la decisione impugnata nella parte in cui afferma che non è possibile riconoscere, in mancanza di idonea documentazione, una incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi.

Il motivo va dunque accolto.

In sede di rinvio la Corte di giustizia tributaria dovrà quindi rideterminare il reddito imponibile del contribuente riconoscendo una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi in relazione ai ricavi accertati, avvalendosi anche – se del caso – dell’ausilio di consulenza tecnica d’ufficio”.

(A cura di Michele Vanadia)


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