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(di Marco Guenzi)

Durante la precedente analisi si è potuto constatare come il mercato dell’arte contemporanea non sia costituito da un blocco monolitico, ma che in realtà possono distinguersi al suo interno quattro segmenti, ognuno caratterizzato da logiche e dinamiche a sé stanti.

Nel presente articolo e nei prossimi si intende analizzare la natura dei diversi comparti del mercato dell’arte in base al livello delle quotazioni raggiunte (relativi cioè rispettivamente agli artisti esclusi dal sistema, emergenti, affermati e celebrità), andando a esaminare le loro caratteristiche e i relativi meccanismi di funzionamento. Si cominci l’analisi da basso, andando ad esaminare il mercato degli artisti esclusi dal mercato.

Analisi degli attori

Tale segmento, anche denominato (non sempre a ragione, come si vedrà) in termini dispregiativi Junk Market (“mercato spazzatura”)[1], rappresenta il comparto inferiore del mercato dell’arte contemporanea in relazione al livello delle quotazioni. Esso è costituito da tutti quegli (aspiranti) artisti agli esordi o che non sono riusciti a trovare rappresentanza da parte di una galleria che si trovano quindi nella condizione di non essere visibili all’interno del sistema, vivendo di fatto ai margini di esso.

Questi artisti non riescono di fatto a sbarcare il lunario con la sola arte, e quindi sono spesso costretti a trovare impieghi collaterali; ne consegue che la produzione di opere più che un mestiere si configura come un hobby. Ciò che quindi denota in primis questo settore è la non professionalità degli attori coinvolti. In secondo luogo bisogna sottolineare che le motivazioni che spesso spingono questo genere di artisti non sono di tipo economico ma piuttosto legate alla passione e al bisogno di comunicazione.

Sebbene mossi da un impeto creativo che porta a sperimentare moltissimo all’interno della loro attività produttiva, il fine che molti di questi artisti si pongono (soprattutto quelli più giovani spinti dal desiderio e dalla speranza di farsi strada) è quello di entrare nel circuito delle gallerie, così da perdere la condizione di apolidi all’interno del sistema.

I mezzi utilizzati nel tentativo di trovare l’appoggio di un gallerista possono essere diversi: cercare di produrre un’arte originale e significativa, in cui si possa distinguere chiaramente la stile personale dell’artista, in modo da essere apprezzabili e vendibili sul mercato; farsi notare da qualcuno partecipando ad esposizioni collettive e organizzando personali in spazi a disposizione; utilizzare lo spazio pubblico come palcoscenico (come fanno ad esempio gli street artist); cercare di mettere in atto una attività di Public Relationship (PR) frequentando gli eventi che si svolgono all’interno del sistema, in modo utilizzare le proprie conoscenze personali come canale per entrare nelle grazie di qualche gallerista o di critico o collezionista (la raccomandazione purtroppo costituisce agli esordi forse la via più facile ed efficiente per entrare in un sistema chiuso basato quasi esclusivamente sui rapporti interpersonali).

Poiché, come si è visto, le opere d’arte sono un bene in partenza senza un valore intrinseco, che viene poi attribuito successivamente in base al riconoscimento da parte del sistema, il valore delle opere risulta a questo stadio indeterminato e fortemente aleatorio. Per questo motivo l’attività che le gallerie mettono in atto è finalizzata a fungere da garante della qualità artistica (e quindi del prezzo), fornendo informazioni al mercato attraverso operazioni di segnalazione e screening[2].

Poiché nel segmento degli aspiranti artisti manca purtroppo la presenza di un intermediario, ciò determina che l’informazione sia distribuita in maniera inefficiente e asimmetrica, creando le premesse perché i potenziali acquirenti divengano disorientati nel dover scegliere un’opera, non avendo essi né le conoscenze né gli strumenti necessari per discernerne il valore e la qualità. Neppure ha senso che i collezionisti si avvalgano di una consulenza a pagamento ad hoc per opere di poca importanza, rendendo per loro preferibile non avventurarsi in acquisti di cui potrebbero presto pentirsi.

Ora, un possibile indicatore della qualità (gratuito e sempre a disposizione) c’è, ed è il prezzo di vendita delle opere sul mercato. Tuttavia si è visto che il prezzo perde di significatività in presenza di asimmetrie informative, poiché viene ad instaurarsi sul mercato un meccanismo di selezione avversa secondo cui non c’è modo di distinguere per l’acquirente tra le opere di qualità e “bidoni” (“lemons”)[3]. La conseguenza è che i migliori artisti di questo segmento, che invece svolgono ricerca e hanno consapevolezza dell’impegno da essi profuso, non vedono riconosciuto il valore simbolico delle proprie opere e sono quindi disincentivati a metterle in vendita. Spesso essi preferiscono non cercare uno sbocco su un mercato che non li premia, ma piuttosto accumulare le proprie opere nel proprio studio, andando avanti nella propria attività di ricerca artistica, nella speranza (che purtroppo non sempre si avvera) di venire un giorno scoperti ed apprezzati da un gate-keeper che gli possa aprire le porte del sistema.

A volte la chiusura di questi artisti nel loro guscio può essere legata più che a una consapevolezza del proprio valore a un loro eccessivo senso critico. Per contro gli artisti emergenti di minor valore spesso hanno una considerazione eccessiva del proprio valore, sovrastimando le proprie capacità in relazione al proprio desiderio narcisistico di essere riconosciuti. Di conseguenza essi tendono a praticare prezzi di vendita talvolta elevati rispetto al proprio valore, il che in ultima analisi riflette la percezione distorta che l’artista ha del proprio talento. Ciò comporta che in generale il livello dei prezzi praticati in questo segmento non rifletta assolutamente le capacità dei giocatori in campo, rendendo la scelta dei collezionisti un’operazione ardua e complessa.

Il meccanismo della selezione avversa determina quindi che nel segmento rimangano in vendita in prevalenza opere di bassa qualità, con il risultato di disincentivare ulteriormente i potenziali collezionisti dal tentare operazioni di avanscoperta (bisogna ricordare che i prezzi a cui è possibile acquistare le opere, in ragione della mancata presenza di intermediari, sono decisamente inferiori rispetto al comparto degli artisti emergenti).

La composizione di domanda e offerta

La domanda di opere d’arte di artisti che rimangono esclusi dal circuito delle gallerie risulta quindi essere asfittica, relegata in primis agli acquirenti di opere, sempre che non le si voglia considerare manufatti, di tipo “decorativo” (che facciano cioè pendant con le tende del salotto di casa o con il colore delle pareti di un ristorante), cui si somma uno sparuto gruppo di collezionisti che, con spirito pioneristico e incuranti del rischio, sicuri del proprio giudizio personale, dotati di una buona disponibilità finanziaria e di un certo bagaglio culturale, cercano di scovare la “vera avanguardia” (che purtroppo si è visto rappresentare solo una minima parte delle opere presenti sul Junk Market)[4]. Mentre per i primi l’opera d’arte costituisce integralmente un bene di consumo, mancando l’aspettativa di poterla successivamente rivendere con profitto, e il prezzo costituisce un indicatore fondamentale per la valutazione dell’acquisto, ciò non è vero invece per i collezionisti d’avanguardia. Per questi ultimi è rilevante piuttosto l’aspetto dell’investimento e le loro scelte si basano principalmente sulla selezione della qualità piuttosto che sulla convenienza economica. Essi sono dei veri e propri cacciatori di talenti (talent-scout): spesso riescono a scovare opere di loro gradimento visitando mostre organizzate direttamente dagli artisti o da organizzazioni no profit, oppure su segnalazione di qualche critico d’arte che conosce direttamente il lavoro dell’artista. Tra il collezionista e l’artista d’avanguardia si instaura in genere un rapporto di stima di tipo collaborativo, assumendo le sembianze di un vero e proprio mecenatismo in tempi moderni.

E’ interessante infine rilevare che, in virtù del fatto che i collezionisti non hanno in genere un rapporto continuativo con chi vende (come invece avviene nel caso delle gallerie), la costruzione di un legame di fiducia tra le controparti risulta essere meno determinante.

In relazione a queste considerazioni che forma avrà la curva di domanda del Junk Market?

La domanda di opere di tipo decorativo sarà influenzata negativamente dal prezzo[5], poiché viene ad instaurarsi un effetto convenienza[6], cioè la maggior appetibilità di beni che costano meno. Assumerà invece un’influenza marginale l’effetto qualità di Stiglitz[7], cioè l’importanza data al prezzo come fattore segnaletico della qualità (che come si vedrà risulta essere preponderante nel segmento degli artisti emergenti).

Per le opere d’avanguardia invece il prezzo di vendita non costituisce né tanto un fattore disincentivante (tenuto conto che in genere esso non comprende le commissioni di intermediazione ed è quindi mediamente più basso di quello applicato dalle gallerie) né un fattore segnaletico (i collezionisti di avanguardia hanno le idee ben chiare rispetto al genere di arte che gli interessa). La domanda di opere d’avanguardia, oltre ad essere di marginale importanza, risulta quindi essere maggiormente rigida.

Tuttavia questa diventa quasi nulla quando i prezzi assumono valori importanti, arrivando a raggiungere le quotazioni di base praticate dalle gallerie. Ciò è legato al fatto che, a causa di un elevato grado di rischio, non è conveniente investire somme rilevanti in questo mercato.

La domanda complessiva del settore, costituita dalla somma delle due componenti è rappresentata nelle figure 1 (breve periodo) e 2 (lungo periodo).

Figura18-1Figura18-2

Per contro l’offerta di questo settore è svincolata nel breve periodo in gran parte da fattori economici. Quindi ne consegue che la produzione avviene spesso anche in perdita e che la curva di offerta, risultando quindi parzialmente insensibile al prezzo, divenga particolarmente rigida e spostata più a destra della curva dei costi marginali (vale a dire oltre il livello pareto-efficiente, si veda la figura 1)[8]. La produzione totale sarà di gran lunga superiore alla domanda e nel comparto si verificherà un grande accumulo di stock. Di questo, essendo la produzione artistica non finalizzata alla vendita nella maggioranza dei casi, solo una parte verrà messa sul mercato, e ulteriormente solo una piccola frazione di quest’ultima andrà venduta. La quasi interezza delle opere di artisti esclusi dal circuito delle gallerie nel tempo sarà quindi destinata a perdersi.

Nel lungo periodo invece, a causa dell’accumulo di stock, l’offerta sarà più spostata verso destra e risulterà più elastica che nel breve (figura 2), poiché gli artisti non si trovano nella condizione di avere vincoli di tempo per sviluppare la propria creatività (sebbene essi debbano sottostare alla necessità di trovare una forma continuativa di sostentamento, spesso decidendo di svolgere attività collaterali per finanziare la propria produzione artistica).

Per quanto riguarda il mercato Junk dell’art service, ovvero l’utilizzo di opere d’arte ai fini espositivi, se si esclude il pubblico interessato alle opere degli artisti di avanguardia, la domanda tende a coincidere con quella di art stock. In realtà in corrispondenza del limite superiore del comparto, cioè per quei pochi aspiranti artisti (d’avanguardia) che riescono a vendere a prezzi simili a quelli delle gallerie, viene a crearsi una divergenza tra le due variabili (si veda la figura 3).

Figura18-3

Ciò è dovuto principalmente al fatto che, mentre, al salire delle quotazioni, questi artisti divengono poco appetibili per chi deve comprare, essi invece cominciano ad acquistare interesse per il pubblico. Il divario tra domanda di art stock e di art service, come meglio si vedrà, tende poi a ricucirsi parzialmente quando si passa al segmento degli artisti emergenti.

Anche l’offerta di art service è, se comparata agli altri settori del mercato, piuttosto limitata, sebbene vi siano diversi modi attraverso cui gli aspiranti artisti possono ottenere visibilità al di fuori delle mura domestiche: l’organizzazione eventi espositivi in gallerie negozio (cioè quelle gallerie che non svolgono la funzione di intermediari, pretendendo una percentuale sulle vendite, ma affittano il proprio spazio direttamente agli artisti); l’organizzazione di mostre sia in spazi istituzionali pubblici, sia di enti no-profit o autogestiti dagli artisti; la possibilità di utilizzare lo spazio pubblico come palcoscenico (esempio emblematico è quello della street-art); la partecipazione a premi (spesso con iscrizione a pagamento), che nel caso di selezione alla fase finale danno un diritto all’inserimento delle opere nel catalogo e alla presenza presso una collettiva dove vengono premiati i migliori lavori; la presenza sui diversi portali d’arte su Internet, visitati da un vasto pubblico costituito da altri giovani artisti, da critici e curatori alle prime armi e dai collezionisti d’avanguardia.

Tuttavia a questi artisti sono precluse le chiavi di ingresso per le porte principali nel sistema: se è raro che gli artisti non rappresentati dal circuito delle gallerie possano entrare a far parte di collezioni private importanti, è ancora più improbabile essi finiscano esposti in qualche museo.

Le caratteristiche del mercato

Il Junk Market quindi è un “mercato non mercato”, caratterizzato dall’impossibilità della formazione di un prezzo di equilibrio[9], dove pochi artisti riescono fortuitamente a trovare una controparte, mentre una gran parte di essi o non riesce a piazzare le proprie opere, o nemmeno ci prova. Ne consegue che in questo segmento il tasso di vacanza (ovvero le opere invendute sul totale) è molto alto, così come è praticamente nulla la sua liquidità.

Le prospettive degli artisti senza rappresentanza non sono tuttavia così nere. Bisogna rilevare che la diffusione di Internet e del web ha contribuito fortemente a far crescere il peso di questo comparto di mercato. Le nuove tecnologie da una parte infatti hanno creato l’occasione per gli artisti di avere nuove vetrine dove mostrarsi e farsi apprezzare (i propri siti web, i social network, i siti tematici di arte). Dall’altra, attraverso gli strumenti offerti dall’eCommerce e da alcune piattaforme specializzate, si è potuto far incontrare più facilmente domanda ed offerta, con la conseguenza di far diminuire notevolmente i costi di transazione del segmento. Inoltre la presenza di siti tematici d’arte e di social network in cui confrontarsi sul tema forniscono agli utenti del web nuovi strumenti di valutazione, permettendo ai collezionisti di acquisire una maggiore capacità critica che costituisce l’unica arma per fronteggiare il problema delle forti asimmetrie informative che connotano il questo mercato.

Nel Junk Market la domanda e l’offerta tendono ad essere legate al luogo di produzione, in quanto è raro sia che le opere d’arte siano trasportate in luoghi diversi, sia che un pubblico non autoctono entri in contatto con il lavoro di questi artisti. Ne consegue la assoluta località di questo genere di mercato. Lo sviluppo di Internet come canale di intermediazione globale ha tuttavia determinato la possibilità del comparto di assumere una dimensione più globale.

Gli artisti “Junk”, risultando al pubblico come veri e propri sconosciuti, non sono per nulla differenziati tra di loro e la loro firma non viene a costituire una riserva di valore. Il valore aggiunto di un’opera è quindi legato soltanto alle sue qualità intrinseche, a prescindere dal soggetto che l’ha prodotta. Ciò determina in primo luogo che l’opera d’arte può essere rivenduta, ma solo a patto che trovi qualcuno che ne apprezzi le caratteristiche estetiche e creative.

Al giorno d’oggi sostanzialmente per questo genere di opere esiste il solo mercato primario, in quanto, essendo gli autori sconosciuti, il grado di liquidità risulta quasi nullo.

L’introduzione delle nuove tecnologie informatiche e di piattaforme web dove scambiare beni usati (come ad esempio ebay.com), fa però presumere la possibilità dello sviluppo di un vero e proprio mercato secondario di questi lavori, che tuttavia sarà soltanto parzialmente in concorrenza con quello vero e proprio (per intendersi quello intermediato da mercanti d’arte e case d’aste), poiché l’anonimato (di fatto) dell’autore ne rende diversa la finalità: non tanto investimento, status symbol e collezionismo, ma piuttosto pura fruizione estetica.

Poiché gli artisti in questo mercato non hanno un nome (o meglio una “firma”), non possono esistere per essi delle quotazioni di riferimento[10]. Il meccanismo di fissazione dei prezzi delle opere risulta essere quindi fortemente aleatorio (come pure il relativo valore), e il prezzo di vendita sarà risultante da una vera e propria contrattazione tra artista e acquirente.

La distribuzione del surplus sul mercato, oltre a essere soggetta naturalmente all’inclinazione della curva di domanda e di offerta, verrà a dipendere quindi dal fatto che il meccanismo di contrattazione di fatto finisce per pattuire un prezzo finale pari appunto alla disponibilità di spesa del collezionista (sempre che essa abbia appunto una base di partenza superiore al prezzo di riserva di chi compra). Questa meccanismo di formazione del prezzo consente quindi all’offerta (cioè all’artista) di appropriarsi, secondo una discriminazione dei prezzi di primo grado, di gran parte del surplus della domanda (cioè del collezionista).

Il Junk Market risulta poi essere fortemente concorrenziale. Si consideri infatti che il prodotto non risulta essere fortemente differenziato e che non esistono barriere all’entrata (tenuto conto che i costi di produzione sono in genere bassi, che le idee creative e un minimo di tecnica artistica sono appannaggio di molti e che non è necessario alcuna licenza, concorso o titolo di studio per praticare l’attività di artista). Al riguardo è interessante notare che la concorrenza non avviene tanto sul prezzo, ma piuttosto sul fatto di trovare dei potenziali acquirenti che siano in grado di apprezzare la qualità artistica.

Si può quindi concludere che questo mercato offre ben poche possibilità di guadagno sia per gli artisti sia per i collezionisti. Gli artisti si trovano nella condizione di dover praticare prezzi notevolmente inferiori a quelli delle gallerie (pena il rivolgersi dei collezionisti a queste ultime per acquisti più sicuri), e di dover nello stesso tempo sostenere oltre alle spese di produzione anche quelle di promozione. Gli acquirenti d’altro canto si trovano anch’essi ad acquistare opere caratterizzate da un bassissimo, per non dire nullo, grado di liquidità e da un rischio molto elevato, legato al fatto di poter pagare un prezzo non conforme alla qualità dell’opera. A ciò si deve aggiungere che il meccanismo della contrattazione non gli garantisce alcuna partecipazione al surplus sul mercato.

La carriera degli artisti e le politiche economiche

Nella teoria della produzione precedentemente presentata[11] si è visto che gli artisti impiegano i diversi fattori produttivi (tra cui in primis la ricerca artistica e la promozione) al fine di creare un valore culturale delle opere, che l’antropologo francese Bourdieu definisce “capitale simbolico”[12]. Bourdieu analizza il caso delle avanguardie, artisti che, pur rappresentando una porzione numericamente marginale di coloro che non trovano spazio nel sistema, rivestono un vero e proprio ruolo sociale, cioè quello di spingere il mondo dell’arte e la società nel suo complesso verso forme più evolute. Lo studioso mette in evidenza che il capitale simbolico da essi creato spesso non trova una adeguata contropartita in denaro, ovvero non viene tramutato in “capitale economico”.

Si pensi ad esempio al caso di Vincent Van Gogh, che da vivo non trovò praticamente nessuno disposto a comprare le sue opere, mentre una volta scomparso il suo successo divenne planetario. Quello di Van Gogh rappresenta naturalmente un caso limite, ma in realtà la storia dell’arte è costellata da altri artisti che per secoli non hanno trovato un adeguato posto in relazione al loro valore, per non parlare degli innumerevoli altri artisti di talento che sono rimasti e tuttora sono dimenticati.

Nel caso delle avanguardie vengono quindi a crearsi sul mercato esternalità positive, cioè non viene loro riconosciuto economicamente il ruolo che esse hanno nel sistema (naturalmente ciò è sempre vero ai loro esordi, ma spesso anche nel prosieguo della loro carriera nel caso questa rimanga ancorata alle prime fasi di sviluppo). Urge quindi un intervento pubblico nel Junk Market a sostegno di questa categoria, in modo da premiare la qualità artistica.

In quest’ottica le politiche economiche e sociali in questo comparto devono andare nella direzione della meritocrazia più che assistere nel suo complesso la categoria degli artisti esclusi dal mercato, il cui valore aggiunto dal punto di vista artistico risulta in media molto basso. Allo stato attuale invece è possibile assistere spesso a misure di tipo assistenzialistico, come i sussidi o bonus fiscali concessi agli artisti del comparto in maniera indiscriminata (si ricordi ad esempio nel nostro paese le agevolazioni IVA per le vendite senza intermediazione[13]).

Il problema che gli artisti di avanguardia hanno agli inizi della loro carriera è che tendono ad essere più propensi ad investire le loro risorse nella ricerca artistica, trascurando invece quell’attività relazionale e promozionale che diventa un fattore strategico per entrare nel circuito delle gallerie, finendo per essere by-passati da artisti di mercato e sensazionalistici che invece hanno nella strategia di marketing il loro punto di forza[14].

Secondo quest’ottica politiche socio-economiche di stampo meritocratico possono ottenersi ottemperando diverse misure che vanno dall’istituzione di premi gratuiti che diano visibilità e ricompensino economicamente i migliori artisti senza rappresentanza; l’organizzazione di mostre tematiche in musei e istituzioni pubbliche che siano realmente aperte a tutti nella loro partecipazione (in questo caso la selezione va effettuata non sulla base di inviti da parte dei curatori, ma attraverso un vero e proprio concorso, la cui giuria deve risultare composita al fine di garantire l’imparzialità del processo selettivo); l’istituzione dell’obbligo per i musei e le maggiori istituzioni culturali pubbliche di impiegare una parte delle proprie risorse nell’acquisto di opere di artisti non riconosciuti da esporre periodicamente nelle proprie sedi (alla stregua delle quote rosa per la selezione dei candidati politici); la creazione di nuovi canali alternativi attraverso cui il pubblico possa fruire dell’arte di avanguardia (che vanno dalla creazione di portali artistici sul web, all’utilizzo di spazi pubblici per la diffusione del lavoro di giovani artisti); l’istituzione di centri di aggregazione e confronto per artisti apolidi; l’elargizione di borse di studio e residenze che premino gli artisti più originali.

Se si pensa poi che uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo di questo comparto di mercato è costituito dalla presenza di asimmetrie informative, una possibile misura potrebbe essere quella di comprendere nel programma di storia dell’arte che viene insegnata nelle scuola dell’obbligo e alle superiori anche l’arte contemporanea fino al giorno d’oggi. Naturalmente per applicare tale misura bisognerebbe prevedere costanti corsi di aggiornamento per gli insegnati di storia dell’arte.

Infine un punto interessante della questione delle politiche economiche risiede nel cambiamento di alcune dinamiche di mercato che determinano un meccanismo di selezione avversa degli artisti, per cui le gallerie di scoperta, che fungono da gate-keeper nel sistema, preferiscono investire le loro risorse nei confronti di artisti dalle dubbie capacità artistiche, ma di facile vendibilità sul mercato, piuttosto che aprire le loro porte ad artisti di qualità. Di questa questione e più in generale del mercato degli artisti emergenti (Alternative Market) si parlerà nel prossimo articolo.

Note

[1] Cfr. Zorloni A. (2011), L’economia dell’arte contemporanea, Mercati, strategie e star system, Franco De Angeli, Milano.

[2] Sebbene la qualità artistica sia comunque un fattore soggettivo, legato ai gusti e alle conoscenze individuali, essa tuttavia trova pur sempre degli elementi oggettivi nella condivisione di misure di giudizio comuni. Per un’analisi delle asimmetrie informative cfr. Guenzi (2014), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: le asimmetrie informative nel processo di contrattazione”, Economia e Diritto, n.10.

[3] Akerlof G. A. (1970), “The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism”, Quarterly Journal of Economics, Vol. 84, n.3, pp. 488-500.

[4] E’ interessante notare che la domanda istituzionale sul Junk Market è praticamente nulla.

[5] Oltre che dal prezzo la domanda i opere decorative è influenzata da altri fattori quali la configurazione del gusto in un determinato periodo storico, la numerosità degli acquirenti (quindi della popolazione), il livello di reddito pro-capite, il grado di istruzione medio e la dimensione media delle abitazioni.

[6] Nella teoria microeconomica classica l’effetto convenienza viene scomposto effetto reddito ed effetto sostituzione. Cfr. Varian H. R. (2007), Microeconomia, Cafoscarina, Venezia.

[7] Stiglitz J. (1987), “The causes and consequences of the dependence of quality on price”, Journal of Economic Literature, Vol. 25, n. 1 , pp. 1-48.

[8] Inoltre l’elasticità della curva di offerta dipende dalla composizione anagrafica degli artisti (e quindi dallo stadio assunto dalle opere nel ciclo di vita del prodotto). I giovani artisti infatti hanno una curva di offerta più elastica, avendo prodotto poco in passato, mentre essa risulta essere mediamente più rigida per quegli artisti di una certa età che non hanno trovato sbocchi sul mercato e hanno accumulato un notevole stock di opere invendute.

[9] Situazione che alcuni economisti definiscono “fallimento del mercato”.

[10] Si rileva a proposito che la mancata importanza della firma dell’artista determina un’assenza del fenomeno dei falsi nel segmento, che invece caratterizza i mercati dove la riconoscibilità dell’artista è la determinante per la quotazione di un’opera. Al contrario su questo mercato (soprattutto per quanto riguarda le opere d’avanguardia) sussiste il rischio del plagio, poiché gli artisti risultano avere pochi mezzi per difendere la loro proprietà intellettuale (soprattutto nei confronti dei loro colleghi più affermati).

[11] Guenzi (2015), “La teoria della produzione del valore artistico”, Economia e Diritto, n. 15-16.

[12] Bourdieu P. (1996), The Rules of Art, Stanfort University Press, Stanfort, e Bourdieu P. (1993), The Field of Cultural Production. Essay on Art and Literature, Polity Press, Cambridge.

[13] Nel nostro ordinamento è infatti previsto che gli artisti che vendano un’opera direttamente ad un collezionista siano soggetti ad un’IVA ridotta del 10%, mentre le vendite delle gallerie devono scontare un’imposta del valore aggiunto pari all’aliquota normale del 22%. Cfr. Pirrelli M., Barrilà S. (2011), “Dove conviene comprare? Confronto del tax rate in 20 paesi del mondo”, in ArtEconomy24, Plus24, supplemento de “Il Sole 24Ore” del 29 gennaio 2011 e Rossi E. (2014), “Le tasse nel mondo”, Il giornale dell’arte, n. 342, maggio 2014.

[14] Cfr. Guenzi (2015), Op. Cit..

(di Marco Guenzi)

Si è iniziato a presentare nello scorso numero il sistema dell’arte, ovvero quella comunità di individui e istituzioni che, operando sul mercato e intessendo relazioni sociali, costituiscono un vero e proprio mondo a sé stante, in grado di influenzare non soltanto il livello delle quotazioni delle opere, ma anche gli artisti che sono rappresentati, il gusto del pubblico e la concezione stessa di arte.

In questo articolo si approfondiranno ulteriormente questi aspetti, andando ad analizzare altre figure del sistema dell’arte: dopo aver considerato artisti, collezionisti, accademie, mercanti d’arte e musei si vedranno (secondo una scala indicativamente cronologica) nell’ordine le case d’asta, le gallerie, i curatori, le riviste e i critici d’arte, rimandando al prossimo numero la trattazione di art broker e consulenti d’arte, delle biennali, di fiere, di premi, dei nuovi spazi espositivi fuori dal circuito tradizionale, degli Internet Art Hub, e, in conclusione della rassegna, del ruolo del pubblico.

Le case d’asta

Le case d’asta (auctioneer) sono istituzioni che si occupano della vendita di opere d’arte tramite meccanismo d’asta. Questo genere di istituzioni è nato nel XVIII secolo in Inghilterra. Originariamente gli auctioneer erano specializzati nella vendita di libri pregiati. Ben presto allargarono l’orizzonte della loro attività mettendosi a trattare anche dipinti. Nel secolo successivo notevole fu lo sviluppo delle case d’asta parigine (i cosiddetti commissaires priseurs), che dominarono il mercato fino alla metà del novecento[1]. Ai giorni d’oggi il mercato dell’arte battuta all’asta è di tipo oligopolistico, in cui le due case inglesi  Christie’s e Sotheby’s fanno la parte del leone (nel 2012 insieme hanno prodotto oltre il 70% del fatturato mondiale, escluse le transazioni in Cina)[2].

Le case d’asta operano esclusivamente sul mercato secondario[3], dove determinano le quotazioni degli artisti. Il fatto di avere una propria opera venduta all’asta è un primo punto di arrivo per l’artista, poiché le sue quotazioni da ufficiose (cioè stabilite e tenute riservate dalle gallerie) divengono pubbliche e quindi ufficiali. Al giorno d’oggi esistono diversi database (come artprice o artnet) che contengono in tempo reale tutte le ultime quotazioni degli artisti battuti nelle diverse aste mondiali, e divengono parametri per la valutazione delle opere nei segmenti più alti del mercato.

Le case d’asta ottengono i loro profitti grazie ad un onere sulle transazioni da loro intermediate, sia a carico del venditore che del compratore. A carico del compratore si applica un “premio” generalmente pubblico, mentre sul venditore si applica una “commissione”, in genere tenuta segreta. Sia i premi che le commissioni sono espressi in percentuale e variano in funzione dell’importo finale[4].

Le case d’asta, per evitare l’insorgere di conflitti di interesse in seno alla loro attività di intermediazione, sono dichiaratamente dalla parte del venditore[5], cui offrono tutta una serie di servizi accessori, ufficiali e non ufficiali, alla vendita. Oltre al trasporto, l’immagazzinamento, le perizie sull’autenticità e il valore delle opere, la realizzazione di cataloghi e il controllo della solvibilità dei potenziali acquirenti, esse sono in grado di assicurare che il prezzo bandito non risulti inferiore a una determinata soglia (prezzo minimo garantito), prestando al venditore una serie di garanzie, offerte da loro stesse direttamente o indirettamente (tramite una cordata di finanziatori che si impegnano a comprare l’opera in cambio di una commissione)[6]. Le opere di fatto rimaste invendute vengono poi talvolta rimesse sul mercato tramite il meccanismo della trattativa privata, facendo concorrenza alle gallerie usando le loro stesse armi[7].

Purtroppo il meccanismo del prezzo minimo garantito comporta che i prezzi battuti in asta non siano un indice realistico della domanda e del valore delle opere di un artista, in quanto sono spesso assoggettate ad operazioni speculative da parte di chi vende. Grandi collezionisti, dealer (e a volte gli artisti stessi) hanno tutto l’interesse nel mantenere alte le quotazioni perché su queste basi (uniche quotazioni ufficiali) poi viene calcolato il valore del loro intero portafoglio. Essi quindi decidono di intervenire (spesso in cordata) per sostenere artificiosamente un gioco al rilancio, condizionando i prezzi di vendita. Nel caso manchi la domanda per l’opera bandita, in accordo con la casa d’aste, finiscono essi stessi per ricomprarla, garantendo così un adeguato livello delle quotazioni[8].

Per quanto riguarda gli acquirenti, essi sono in gran parte collezionisti, mercanti d’arte e musei, che cercano di contendersi sul mercato i pezzi di un determinato artista, senza la certezza di avere altre occasioni per acquistarne uno. Ciò instaura spesso una spirale al rialzo, che le case d’asta cercano di favorire offrendo ai compratori prestiti e dilazioni nel pagamento, naturalmente a tassi non agevolati.

Nonostante queste contraddizioni il mercato delle opere vendute all’asta risulta essere comunque più trasparente ed efficiente rispetto a quello gestito da altri generi di intermediari. Questa osservazione risulta essere vera tanto più l’asta è pubblicizzata e vi partecipa una ampia rosa dei possibili acquirenti sul mercato. Per questo per le sessioni che riguardano le opere di maggior pregio le case d’asta operano una comunicazione a livello internazionale, rendendo di fatto il mercato globale.

Si può dire in generale che le case d’asta abbiano un conflitto di interessi di fondo con le gallerie (di cui si parlerà a breve). Innanzitutto queste istituzioni, sebbene impiegate in operazioni come la stampa del catalogo e la presentazione delle opere, non hanno interesse nella promozione culturale degli artisti: esse hanno come unico obiettivo la massimizzazione delle quotazioni dell’opera nell’immediato. Se mai ci fosse un interesse nel far conoscere un artista, ciò sarebbe per pure ragioni speculative, secondo un ottica di breve periodo (e non di lungo come per le gallerie)[9].

Un altro fattore di conflitto è che il meccanismo d’asta, oltre a rendere i prezzi ufficiali, permette al il venditore di accaparrarsi tutto il surplus presente sul mercato poiché mette in atto una discriminazione dei prezzi di primo grado. Ne risulta che i prezzi all’asta sono quindi naturalmente più alti di quelli praticati dalle gallerie, offrendo ai collezionisti e ai dealer la possibilità di manovre speculative e di arbitraggi sul mercato secondario.

Le gallerie

Le gallerie di arte contemporanea sono istituzioni guidate da imprenditori, appunto i galleristi, che svolgono una funzione di promozione degli artisti a 360 gradi, sia dal punto di vista commerciale che su un piano culturale.

L’origine di questa categoria risale alla seconda metà del XIX secolo a Parigi, allora centro mondiale dell’arte, dove accanto all’arte ufficiale accademica esposta nei Salon e all’Esposizione Universale del 1855 cominciarono a farsi strada gli artisti delle avanguardie, che esposero per la prima volta nel 1863 nel Salon des Réfusés. Questi artisti, esclusi dai circuiti ufficiali, cercarono di diffondere la propria arte attraverso canali alternativi, facendosi aiutare da figure di rifermento che organizzassero per loro gli eventi[10]. Nasce così la figura del gallerista moderno, che si differenzia da quella del mercante o del collezionista per il ruolo attivo nella promozione dell’artista. I galleristi in senso moderno avranno pieno sviluppo solo nel dopoguerra del XX secolo, con centro New York e le maggiori città europee, Londra in primis.

Al giorno d’oggi le gallerie, come appunto i musei, formano un sistema internazionale, costituito da una rete di relazioni interpersonali secondo una stretta struttura gerarchica[11]. In cima alla piramide vi stanno pochi galleristi di punta (gallerie di brand) che hanno come riferimento altre gallerie in diversi paesi per collaborazioni e alleanze (gallerie tradizionali). Poi vi sono gallerie che operano strettamente in un ambito locale, con artisti agli esordi e poche entrature nel sistema (gallerie commerciali). Infine vi sono delle pseudo-gallerie (gallerie negozio), assolutamente marginali, che offrono all’artista la possibilità di esporre in cambio di un corrispettivo. Questa struttura, come meglio si vedrà, oltre a costituire una rete di relazioni che regge l’intero sistema commerciale dell’arte, influisce direttamente sulla segmentazione del mercato[12].

Come si è accennato, la funzione di mediazione delle gallerie risulta essere articolata, venendo ad assumere una duplice finalità: da una parte quella di promozione culturale, attuata attraverso l’organizzazione di mostre, la redazione di cataloghi monografici, l’ottenimento di recensioni da parte di riviste e di critici; dall’altra quella di promozione commerciale, dove i lavori dell’artista vengono trattati alla stregua di prodotto da vendere seguendo le leggi del marketing aziendale. Sotto questo ultimo aspetto l’obbiettivo principale della galleria non risulta essere quello del profitto immediato, ma piuttosto del rafforzamento del proprio brand, che si configura nella capacità della galleria di presentare artisti di valore superiore rispetto al mercato. Le gallerie di brand sono infatti in grado di vendere le opere di un artista anche a tre volte il prezzo di una galleria commerciale poiché il solo fatto che un artista sia da esse rappresentato costituisce una garanzia per il collezionista[13].

E’ interessante  notare che il rapporto tra galleria e artista può assumere diverse nature. In genere esso si configura come un mandato a vendere, in cui il gallerista risulta essere il mandatario che agisce per conto dell’artista. In questo caso, spesso accade che il mandato sia senza rappresentanza, cioè il gallerista agisce in nome proprio, con la conseguenza che la vendita farà capo a lui stesso e che si preoccuperà poi di trasferirne gli effetti, tolta la dovuta provvigione, al mandante, cioè l’artista.

Non è raro tuttavia che i galleristi vogliano avere un rapporto più stretto con gli artisti (specie quelli emergenti), e offrano quindi a questi ultimi un compenso forfettario (che assume la forma di un vero e proprio stipendio) in cambio della produzione artistica di un determinato periodo, fissando un numero minimo di opere eseguite e dei limiti in termini di contenuti proposti e tecniche utilizzate. Questo genere di rapporto, benché rappresenti per l’artista una sicurezza economica e una garanzia dell’interesse della galleria a promuovere i suoi lavori, in realtà spesso ne riduce notevolmente la libertà espressiva e ne esaurisce la creatività, compromettendone a lungo andare anche lo sviluppo della carriera.

Eccezion fatta quindi per quest’ultimo caso, le gallerie d’arte contemporanea si distinguono dai mercanti d’arte in quanto non assumono su di sé il rischio della transazione, ma svolgono solo una funzione di intermediazione tra l’artista e il collezionista con l’intento di far concludere l’affare. Un’altra differenza fondamentale risulta essere che le gallerie operano prevalentemente sul mercato primario, occupandosi di vendere direttamente le opere d’arte realizzate dall’artista e tenendo in portafoglio artisti emergenti e non affermati, le cui quotazioni non sono pubbliche. In questo modo esse sono in grado di attuare politiche dei prezzi più flessibili e personalizzate per fidelizzare la propria clientela. I mercanti d’arte (come anche le case d’asta) invece operano principalmente sul mercato secondario, comprando e rivendendo le opere di artisti quotati e già in parte storicizzati secondo un’ottica puramente speculativa. Come già accennato, in realtà questa distinzione di ruoli è molto labile, perché molte gallerie svolgono in realtà entrambe le attività: l’attività speculativa serve allora a finanziare quella a più alto profilo di rischio nel lancio degli artisti d’avanguardia e l’attività sul mercato primario diviene funzionale all’acquisizione di nuovi clienti.

Le gallerie ben si differenziano anche dalle case d’asta: esse infatti hanno tutto l’interesse che le quotazioni degli artisti da loro rappresentati salgano in maniera graduale e continuativa, in modo che si crei un costante interesse degli investitori nell’acquisto di lavori che si apprezzano costantemente. Risulta quindi evidente l’innato conflitto di interesse con gli auctioneer, le cui quotazioni sono generalmente più alte, i cui margini di intermediazione sono ben più bassi e il cui obiettivo è la massimizzazione delle quotazioni nel breve. Il problema che si pone è che si crea sul mercato la possibilità di speculare tramite arbitraggio sulle differenze di prezzi che vengono a crearsi nei due circuiti.

Le gallerie, sebbene partano svantaggiate nella competizione, hanno alcune frecce al loro arco. Se da una parte le case d’asta, come si è visto, sono essenzialmente alleate con i venditori, le gallerie tendono a fare gli interessi dei compratori, per la natura stessa della loro intermediazione. Innanzitutto i prezzi intermediati risultano essere più bassi rispetto a quelli banditi. Inoltre le transazioni all’asta rendono difficile mantenere l’anonimato, mentre ciò risulta molto più facile nelle trattative riservate. Poi la trattativa privata garantisce una minore volatilità e incertezza dei prezzi, oltre a permettere di reperire i fondi con tutto il tempo necessario e nelle condizioni ottimali. Ma il circuito delle gallerie può essere interessante anche per quei clienti che non ottengono condizioni favorevoli sulle garanzie di vendita da parte delle case d’aste: un’opera che rimane invenduta in una galleria non viene marchiata come non voluta da nessuno[14].

L’arma fondamentale che le gallerie posseggono per contrastare il dominio degli auctioneer è rappresentato dalle liste d’attesa. Le liste d’attesa sono un meccanismo attraverso cui esse “collocano” le opere in portafoglio secondo una loro preferenza, e non secondo il principio di matching temporale (first coming first served), che caratterizza i mercati più evoluti. Come meglio si vedrà attraverso tale meccanismo da una parte riescono a razionare l’offerta sul mercato, che risulta così essere di tipo oligopolistico o monopolistico, spuntando quindi prezzi più alti che in condizioni di concorrenza perfetta; dall’altra riescono ad attuare una moral suasion in grado di selezionare gli acquirenti (collezionisti e dealer) secondo una loro “propensione morale”[15], mettendo al bando i clienti speculatori. Il sistema delle liste d’attesa ha inoltre il pregio di fidelizzare la clientela, che sente di godere dell’opportunità di poter attingere alle opere dell’artista prima degli altri e a prezzi esclusivi[16]. Infine esso permette, secondo un meccanismo definito dai galleristi di “collocamento”, di piazzare le opere più significative degli artisti in collezioni (quelle dei musei e quelle private) dove esse abbiano una maggiore visibilità al pubblico e diano lustro all’artista stesso.

Oltre a quello dell’espansione delle case d’asta un altro fenomeno sta erodendo il potere delle gallerie. E’ quello delle fiere, frontiera obbligata dove essere presenti per vendere, dove le gallerie spesso, pur di partecipare, si trovano a dover sottoscrivere condizioni capestro. Ma di ciò si parlerà nel prossimo numero.

I curatori

I curatori sono professionisti indipendenti che offrono le loro competenze culturali e manageriali per l’organizzazione di mostre per conto di musei, gallerie, associazioni culturali e artisti. Questa professione si è sviluppata a partire dalla seconda metà dell’ottocento quando nacquero e cominciarono a farsi largo le prime avanguardie, facendo sì che prima spazi espositivi ad hoc, poi musei e gallerie, esponessero raccolte di lavori artistici sulla base di una tematica comune.

Nel suo lavoro il curatore si trova ad assumere da un punto di vista relazionale un ruolo centrale nel sistema dell’arte, in quanto deve interfacciare con diverse tipologie di operatori, dai direttori dei musei (a volte i due ruoli tendono a coincidere) agli artisti, dai collezionisti e dai mercanti ai critici/giornalisti e al pubblico.

La figura del curatore oggi trova una notevole rilevanza anche dal punto di vista culturale, poiché si trova nella posizione di dover scegliere a quali opere e artisti dare visibilità, escludendo inevitabilmente dal panorama dell’arte la grande maggioranza della produzione artistica. Essa ha inoltre effetti diretti sul mercato poiché le mostre, come meglio si vedrà, rappresentano per il mercato delle selling out situation, cioè degli eventi che legittimano un aumento delle quotazioni degli artisti.

Non c’è quindi da stupirsi se al giorno d’oggi queste figure, che si proclamano indipendenti, siano invece a volte condizionate dalle logiche e dai poteri forti del sistema, determinando una politica culturale delle istituzioni non esule da condizionamenti e interessi di parte.

Le riviste e i critici d‘arte

Le riviste d’arte contemporanea sono periodici specialistici che parlano di quello che succede nel mondo dell’arte, trattando di tendenze, fatti, eventi, prezzi e recensioni di mostre, su cui scrivono giornalisti ed esperti della materia, i critici per l’appunto.

Le recensioni sull’arte contemporanea nascono nel XIX secolo all’interno di rubriche specializzate di periodici a più ampio raggio. Esse divengono vere e proprie pubblicazioni all’inizio del novecento, divenendo testimonial delle nascenti avanguardie. Le riviste d’arte contemporanea in senso moderno (sul modello Artforum), cioè periodici specializzati ad ampia diffusione in vendita nella catena distributiva della stampa, nascono e i sviluppano intorno agli anni ’60 e ’70 dell’ultimo secolo. Nell’ultimo decennio molto forte è stato lo sviluppo di testate d’arte on-line, che hanno preso in buona parte il posto della carta stampata.

Sebbene il compito delle riviste sia quello di informare il pubblico di ciò che è in atto nel mondo dell’arte, il loro obbiettivo è invece (naturalmente) di natura reddituale. Per questo esse concedono le loro pagine a inserti pubblicitari a pagamento, di cui usufruiscono gallerie e musei. Esse inoltre recensiscono eventi in corso o scrivono testi critici su artisti e movimenti, attività che in teoria dovrebbe essere giornalisticamente indipendente e non lucrativa, ma che di fatto spesso costituisce un’importante fonte di reddito (nonché una forma di pubblicità occulta).

Le riviste sono gestite da direttori (che spesso coincidono anche con la proprietà stessa) che ne curano i contenuti e le linee editoriali. I direttori risultano essere quindi influenti figure all’interno del sistema dell’arte in quanto custodi di una delle principali casse di risonanza, quella dei media, in grado di far breccia nel pubblico e risultano essere corteggiati da direttori di musei e galleristi in cerca di pubblicità.

Per quanto riguarda i critici d’arte essi costituiscono (oltre ai citati direttori delle riviste) un punto nodale nel circuito dei periodici, poiché dalla loro competenza e dalla loro fama spesso viene a dipendere direttamente il successo delle riviste stesse.

Se l’attività di critico d’arte ha origini antichissime (si pensi agli scritti di Plinio il vecchio sulla pittura e sulla scultura greca), il riconoscimento della sua figura è più recente e si fa risalire al XVIII secolo[17].  Solo alla fine del XIX secolo i critici tuttavia cominciano ad avere impatto sul mondo dell’arte, attraverso articoli su periodici e la pubblicazione di saggi monografici. Oggi il critico d’arte utilizza, oltre alla carta stampata, altri media per la comunicazione: dalle trasmissioni televisive e radiofoniche, alle conferenze, ai blog e ai social network su Internet. La sua attività inoltre si allarga attraverso collaborazioni dirette con gallerie private, musei e case d’asta, nonché tramite l’insegnamento nelle università e nelle accademie.

Sebbene nel sistema dell’arte la distinzione tra le diverse figure risulta essere al giorno d’oggi sempre più lieve, i critici occupano un ruolo distinto rispetto ad altri esperti come gli storici dell’arte, i curatori e i consulenti d’arte. Rispetto agli storici dell’arte i critici non hanno l’imperativo di assumere un occhio imparziale: il loro compito infatti non è quello di riportare come si siano evolute le forme artistiche nel corso dei secoli, ma piuttosto (pur mantenendo una visione storicistica) di influenzare con le proprie idee il pubblico e gli operatori del sistema, prestando sostegno a quelle che si ritengono le sperimentazioni più interessanti e rilevanti presenti nel mondo dell’arte contemporanea.

Come la storia insegna, tuttavia, i vari critici del momento non sempre sono stati capaci di vedere le tendenze in atto (più tardi raccolte invece dagli storici dell’arte: si veda il caso degli impressionisti). Ciò evidenzia la necessità di una netta distinzione tra le figure del critico e dello storico dell’arte. Purtroppo al giorno d’oggi va delineandosi una commistione di ruoli, per cui spesso i critici, seppur parte in causa, tendono ad voler assumere (di comune accordo con i direttori dei musei, che sempre più spesso si assurgono al ruolo stesso di critici) una funzione di storicizzazione delle tendenze in atto, proclamandosi come arbitri imparziali della partita che si gioca tra gli artisti emergenti, quando in realtà la figura che meglio rappresenta il loro compito è quella dell’allenatore.

Sebbene non possa per definizione essere imparziale, il critico dovrebbe comunque essere indipendente, cioè avere un pensiero libero e sincero, non condizionato da interessi di parte. Questa indipendenza risulta ahimè nella realtà dei fatti molto rara e difficile, poiché spessissimo i critici  traggono profitto e dipendono economicamente dall’attività prestata a riviste e gallerie private, con l’invitabile conseguenza che difficilmente possono esimersi dal mettere la propria voce (e la propria faccia) alla mercé degli interessi sottostanti.

I critici si distinguono anche dai curatori, il cui ruolo, come si è visto, è quello di offrire un servizio culturale più che una speculazione intellettuale, e dai consulenti d’arte, che non si occupano di analizzare i processi culturali e creativi degli artisti ma di valutare le opere d’arte da un punto di vista prettamente economico. Proprio da questi ultimi si riprenderà il discorso nel prossimo numero.

                                                                                                        (continua nel prossimo numero)



[1] De Marchi N. – Van Miegroet H.J. (2008), in Handbook of the Economics of Arts and Culture, Vol. I , pp. 69-122., Elsevier, Amsterdam.

[2] Cfr. www.artprice.com

[3] C’è un solo recente caso di una vendita all’asta di opere direttamente da parte dell’artista: Damien Hirst ha organizzato nel settembre 2008 un’asta per vendere direttamente al pubblico le sue opere, riuscendo a piazzare (a detta dell’artista) 223 lavori per un controvalore di 111 milioni di sterline inglesi. Lewis B. (2009), The Great Contemporary Art Bubble, BBC (DVD), Londra.

[4] Per un riferimento sui premi e sulle commissioni d’asta cfr. Horovitz N. (2011), Art of the Deal, Contemporary Art in a Global Financial Market, pp. 172-173, Princeton, Princeton University Press.

[5] I venditori sono generalmente collezionisti (o mercanti d’arte) che vendono per eventi eccezionali (4 d’s): divorzio (divorce), morte ( death), morosità (debt) o ristrutturazione del portafoglio (discretionality). Thomson D.  (2009), Lo squalo da 12 milioni di dollari: la bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, Mondadori, Milano.

[6] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[7] Si veda il paragrafo successivo.

[8] Cfr. Lewis B. (2009), Op. Cit..

[9] Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.

[10] F. Poli (2011), Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Bari

[11] Poli F. (2011), Op. Cit..

[12] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[13] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[14] Thomson D.  (2009), Op. Cit..

[15] Velthuis (2008), Op. Cit..

[16] I meccanismi di determinazione dei prezzi sul mercato dell’arte contemporanea saranno approfonditi in futuro in un apposito articolo sull’argomento.

[17] Il primo riferimento alla critica d’arte come disciplina è del pittore Jonathan Richardson nel 1719. Cfr. James E. (1996), “Art Criticism”, in Turner J. (1996), Grove Dictionary of Art, Oxford University Press, Oxford.

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