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prezzo

(di Alessio Abbate)

La classificazione proposta nell’articolo precendente in merito alle leve marketing del retailer può essere utile ai fini della comprensione del vantaggio competitivo (marketing-based) del distributore.
Di seguito è mostrato un esempio per il caso di Poundland, il principale retailer a ‘prezzo fisso’ in Europa .

1. Assortimento
La gamma dei prodotti in Poundland comprende circa 3.000 referenze, afferenti a 17 categorie merceologiche che spaziano dal Food, ai prodotti per la cucina, alle idee regalo, alla cura della persona, alla detergenza, agli articoli di cartoleria e cancelleria, alle bevande, alle batterie, al pet care, ai libri, CD e DVD, giocattoli, prodotti per la cura dei bambini, farmaci, articoli stagionali, DIY (articoli per il fai da te), e articoli per feste. In Poundland i prodotti alimentari occupano orientativamente il 15% di spazio espositivo a scaffale e generano circa il 30% del fatturato.
In realtà, dei 3.000 articoli, circa 1.000 sono grandi marche, spesso importate dall’estero. Questo rapporto di un terzo tra grandi marche e assortimento complessivo è sempre preservato, nonostante l’assortimento sia in continua evoluzione e le stagionalità e festività fortemente enfatizzate sul punto vendita – dal Natale, alla Pasqua, ai prodotti per il giardinaggio in primavera, agli articoli per il campeggio e ai giocattoli estivi per bambini. Non è difficile capirne il motivo: il consumatore medio ha una profonda fiducia nelle grandi marche e queste in Poundland hanno un ruolo di ‘traffico’ e un potente ‘effetto cross-selling’. In altri termini, la gente entra in Poundland attratta dalle grandi marche vendute a un pound e poi acquista anche altro. Ma se tutto questo è fonte di un’incredibile rotazione e genera traffico nei negozi Poundland, quali sono le categorie/marche che procurano margine ‘sostenendo’ la vendita delle grandi marche e delle promozioni? E soprattutto, come è possibile generare un adeguato margine vendendo tutto a un pound? In effetti gli altri due terzi delle referenze in assortimento sono a marchio proprio e quindi ad elevato margine percentuale. Il Prodotto a Marchio Poundland è stato in realtà sostituito da una serie di marchi di fantasia come Beauty Nation, Kitchen Corner e Toolbox. Quando Poundland individua un gap di vendite nel mercato, introduce il marchio proprio o un marchio di fantasia. La gamma Sweet Heaven, per esempio, è stata una risposta diretta alla perdita di mercato di Woolies nelle High Street.

2. Prezzo
Il prezzo fisso (tutto a un pound) facilita sia il retailer nella definizione dei criteri espositivi (non esiste una ‘scala prezzi’), sia il cliente nella selezione dei prodotti: a parità di prezzo, la scelta ricade sulle combinazioni marche/varianti/formati. Uno dei principali punti di forza di Poundland è proprio la coerenza dei prezzi tra tutti i prodotti in base alle quantità di prodotto contenuto nella confezione: per un pound è possibile acquistare, ad esempio, una confezione da 11 pile Kodak, oppure una da 5 pile Sony, ovviamente più longeve.
Come fa il prezzo a restare fisso a un pound a distanza di oltre 20 anni dall’apertura del primo negozio? Quali sono le aree di eccellenza della catena del valore di Pondland che permettono questo successo? Una prima risposta è riconducibile alla proattività e alla forza contrattuale dell’ufficio commerciale di Poundland. Mentre la maggior parte dei retailer aspetta che i fornitori si propongano, Poundland analizza nel dettaglio chi contattare per avviare una trattativa commerciale. Se per un prodotto in assortimento gli sforzi commerciali non riescono a garantire il mantenimento del margine necessario, il prodotto va fuori assortimento: in questo modo l’assortimento evolve, ma il modello resta fisso. Talvolta, per preservare il margine e tenere fisso il prezzo finale di un prodotto, occorre cambiarne il confezionamento. Questo non sempre significa ridurne la dimensione del packaging e, di conseguenza, la quantità di prodotto che vi è normalmente contenuto: accade anche che il retailer riesca ad abbattere i costi di confezionamento riducendo il numero di imballi (spesso ridondanti) normalmente contenuti in una confezione. La crescita di Poundland dimostra che il consumatore è a caccia del ‘valore’ e i produttori ne sono consapevoli: sono in molti i fornitori che riconfigurano il proprio prodotto e il packaging per Poundland in modo che, ad esempio, la confezione di 170 grammi di After Eights si possa acquistare per un pound da Poundland, e Poundland è anche l’unico posto in cui sia possibile acquistarne una di quelle dimensioni. Attraverso questa strategia inoltre i fornitori, oltre ad assicurarsi livelli record di rotazione, possono monitorare esattamente il percorso dei propri prodotti, le quantità vendute e il prezzo finale di vendita applicato dal retailer.

3. Display-Layout
La struttura dei negozi Poundland è piuttosto spartana, con corridoi ‘larghi’ quanto quelli di un normale convenience store.
Il prezzo fisso facilita sicuramente il retailer nella definizione dei criteri espositivi: non esiste una scala prezzi ‘nominale’: esistono in realtà diversi formati, per cui una scala prezzi ‘per unità di misura’ è comunque presente per alcune categorie merceologiche, in particolare nella detergenza e nella pulizia della casa. Gli altri retailer devono continuamente ragionare sulla scala prezzi e monitorarla nel corso del tempo – in base ai nuovi inserimenti, ai delisting e al pricing dei competitor – e devono poi assicurarsi che la scala prezzi sia leggibile opportunamente sui display dei negozi. Poundland invece deve semplicemente ‘spostare’ merce dai magazzini ai punti vendita, senza preoccuparsi dei criteri di lettura dei display per prezzo – in quanto i clienti sanno sempre quanto costa ciascun prodotto – e avendo cura di posizionare opportunamente a scaffale il prodotto a marchio. In Poundland l’acquisto di impulso dei prodotti a marchio proprio è infatti una fondamentale fonte di valore ed è pertanto opportunamente stimolato attraverso la leva display.

4. Promozioni e Comunicazione
La meccanica promozionale di Poundland non può che essere ‘2 prodotti a 1 pound’, oppure ‘3 a 1 pound’, talvolta addirittura ‘4 a 1 pound’. Le categorie maggiormente coinvolte dalle promozioni ‘folli’ sono patatine in busta, cioccolata e bevande analcoliche, e si trovano spesso in testata di gondola. Nel non food la vendita di più prodotti (2 o 3) a un solo pound avviene normalmente in continuativo e riguarda principalmente categorie come i deodoranti per ambienti e i farmaci generici, come ibuprofene e paracetamolo. Quanto alla comunicazione, Poundland ricorre raramente alla comunicazione esterna al punto vendita: i principali strumenti di comunicazione adottati dal retailer riguardano la cartellonistica interna al negozio e il passaparola. I sacchetti per la spesa, a differenza di altri discount come Lidl, sono gratuiti e, a differenza dei competitor minori, contengono elementi di comunicazione dell’insegna.

 

(di Alessio Rombolotti)

La normativa italiana ed europea sul transfer pricing, che ricalca le Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE), indica tre metodi transazionali per la determinazione dei prezzi di trasferimento: a) il Comparable Uncontrolled Price Method (CUP), che confronta il prezzo utilizzato in una transazione indipendente con quello applicato ad una transazione intra-gruppo; b) il Cost Plus Method, che applica un mark-up ad una base costituita dai costi del prodotto o servizio venduto; c) il Resale Price Method, che applica uno sconto ad una base costituita dal prezzo di mercato della controparte. Le Transfer Pricing Guidelines indicano che lo sconto applicato nel metodo resale price e il mark-up del metodo cost plus devono prendere in considerazione le funzioni, gli assets impiegati e i rischi assunti. Ad esempio, il metodo cost plus nelle Guidelines è definito come segue:

 “A transfer pricing method using the cost incurred by the supplier of property (or services) in a controlled transaction. An appropriate cost plus mark-up is added to this cost, to make an appropriate profit in light of the functions performed (taking into account assets used and risk assumed) and the market conditions. What is arrived at after adding the cost plus mark-up to the above costs may be regarded as an arm’s length price of the original controlled transaction.”

Nella mia esperienza ho sempre visto interpretare questa definizione nel senso di parziale dipendenza dei prezzi dai rischi, in pratica una transazione in cui i rischi del venditore sono particolarmente elevati giustificherebbe un prezzo particolarmente elevato e viceversa.

Un semplice ragionamento dimostra che includere una componente di rischio nei prezzi pone dei problemi dovuti alla variabilità che i prezzi assumerebbero, specialmente alla luce del fatto che non esiste una regola unica di stima del rischio e quindi la componente di rischio sarebbe quantificata in modo soggettivo e arbitrario.

In una transazione la tipologia di rischio di maggior peso è il rischio di credito, quindi proviamo ad usare questa tipologia di rischio nel ragionamento che segue. Abbiamo due opzioni per gestire il rischio di credito nei prezzi: A) valutiamo il rischio di credito del cliente e aumentiamo il prezzo per coprirlo; B) valutiamo il rischio di credito medio del portafoglio clienti e aumentiamo tutti i prezzi di conseguenza.

Opzione A

Se differenziassimo i prezzi in funzione del rischio di credito di ogni controparte, nel caso del cost plus definiremmo il prezzo al cliente K nel modo seguente:

PK(cp) = C + mark-up + xK · (C + mark-up)

Dove C rappresenta i costi e xK il rischio di credito derivante dal cliente K.

Nel caso del resale price definiremmo il prezzo del cliente K analogamente al caso precedente:

PK(rp) = M – sconto + xK · (M – sconto)

Dove M rappresenta il prezzo di mercato del cliente.

Opzione B

Se invece non differenziassimo i prezzi in funzione del rischio di credito dei diversi clienti definiremmo il prezzo cost plus e resale price con le seguenti rispettive espressioni:

PK(cp) = C + mark-up + x · (C + mark-up)

PK(rp) = M – sconto + x · (M – sconto)

Dove x rappresenta il rischio medio del portafoglio clienti.

Ora possiamo fare alcune considerazioni. Nell’opzione B, dove i prezzi non sono differenziati in funzione del rischio, abbiamo una situazione in cui i prezzi non dipendono dal rischio, perché la componente di rischio è una costante, e quindi non potremmo giustificare una differenza di prezzo con la necessità di coprire un rischio particolarmente elevato e non potremmo procedere a rettifiche di comparabilità utilizzando il minor o maggior rischio assunto nella transazione. Nell’opzione A invece, in cui i prezzi dipendono parzialmente dal rischio, i prezzi sarebbero soggetti a variazioni molto elevate. Se utilizzassimo la probabilità di insolvenza per definire il rischio di credito potremmo avere differenze di prezzo fino al 70/75%, ad esempio fra un cliente con rating Aaa/Aa1 e uno con rating Caa1/Ca. Il rischio è una componente che sposta i prezzi verso l’alto e quindi tutto l’arm’s length range subisce una variazione verso l’alto. Al di la di considerazioni commerciali pensiamo al caso in cui vi siano transazioni con uno o più clienti ad alto rischio, se praticassimo prezzi sufficientemente elevati da coprire il rischio questi prezzi sarebbero comunque considerabili come dei confronti indipendenti (metodo CUP) e ci troveremmo quindi davanti alla possibilità di vedere i prezzi applicati alle transazioni intra-gruppo fuori dall’arm’s length range.

In conclusione, il rischio, anche quello di natura più diretta rispetto alle transazioni commerciali, il rischio di credito, ha un difficile rapporto con i prezzi e nonostante la sua influenza sui prezzi sia dichiarata leggittima in pratica pone dei problemi di significativa entità.

 

(a cura della Redazione)

Le imprese multinazionali strutturano i loro business “sfruttando le distorsioni esistenti nei vari ordinamenti nazionali, al fine di eliminare o ridurre in modo significativo il livello di imposizione sul reddito”.

E’ quanto emerso dal rapporto “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, pubblicato dall’OCSE il 12 febbraio dello scorso anno.

Indiscutibile, insomma, che la variabile fiscale sia divenuta ormai una costante nell’elaborazione di schemi di international tax planning ad opera dei contribuenti.

Il problema risiede nel fatto che, spesso, l’ottimizzazione del carico fiscale, perseguita soprattutto  dai gruppi multinazionali attraverso politiche di tax arbitrage, si distanzia da ciò che può pacificamente definirsi un lecito risparmio d’imposta (tax saving).

La confusione, anche normativa, con la quale si è soliti affrontare tali tematiche produce l’effetto di rendere maggiormente appetibili politiche di pianificazione fiscale aggressive rispetto a legittimi schemi di pianificazione fiscale, idonei al raggiungimento di risultati, evidentemente, meno “gratificanti” dal punto di vista della riduzione del carico tributario.

A ciò si aggiunga il non sempre facile inquadramento di talune complesse operazioni che ne derivano nell’ambito delle fattispecie penalistiche previste nel nostro ordinamento.

Tra le tante modalità, a sfondo evasivo o elusivo, di sfruttamento della variabile fiscale cui il contribuente ci ha abituato nel corso degli anni, riveste una notevole importanza il fenomeno del transfer pricing, sia perché in questa materia le attività dei verificatori fiscali producono consistenti rettifiche del quantum dichiarato, sia per i possibili risvolti penali che ne consentono di tratteggiare talune indubbie peculiarità rispetto ad altre operazioni di erosione della base imponibile internazionale (base erosion).

In altri termini, pur rientrando il fenomeno del transfer pricing nel più generale tema dell’elusione fiscale, consentendo con operazioni di per sé lecite e reali di modulare secondo le esigenze – anche fiscali – di un gruppo societario il risultato dell’imponibile soggetto ad imposizione tributaria, la questione è però parzialmente diversa rispetto a quella dell’elusione.

Pacifico che il fenomeno in argomento non possa essere sussunto nella fattispecie di cui all’art. 3 del D.lgs n. 74 del 2000: l’eventuale violazione della specifica disciplina prevista dall’art. 110 del d.p.r. n. 917 del 1986 che, nei trasferimenti infragruppo, impone di prendere in considerazione il “valore normale” dei beni  o dei servizi, anziché quello effettivamente pattuito, non integra di per sé, il carattere della fraudolenza necessario per l’applicazione del citato articolo 3, dal momento che l’operazione rimane reale; si porrà tutt’al più il problema della rilevanza ex art. 4 dello stesso decreto legislativo, alla cui contestazione normalmente perviene la prassi delle verifiche fiscali di Guardia di Finanza ed Agenzia delle Entrate.

La questione è estremamente delicata perché l’applicazione dell’articolo 4 ad operazioni di transfer pricing impone ai verificatori uno sforzo aggiuntivo che raramente è dato riscontrare nella prassi degli Uffici Finanziari. Oltre ad un’ovvia analisi circa l’integrazione di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie è, altresì, necessario scontrarsi con quanto disposto dall’art. 7 del D.lgs 74/2000, posto che l’operazione di transfer pricing è tipicamente una ipotesi di estimazione. Si potrà, pertanto, evitare il reato se la divergenza tra il dichiarato e l’accertato (differenza tra valore normale e corrispettivo pattuito) risulti inferiore alla percentuale del 10%. Se ciò avviene, anche se il fatto è stato compiuto dolosamente, non si è punibili.

A ben vedere, anche laddove la suddetta franchigia venga superata, l’impunibilità è fatta salva se i criteri valutativi adottati sono stati comunque indicati nella nota integrativa del bilancio di riferimento. La previsione è di indubbio spessore perché apre alla logica secondo cui la frode rileva penalmente solo nel caso in cui il verificatore non sia stato posto nella condizione di poter conoscere l’iter formativo, nel caso in esame, del prezzo di trasferimento, fatta ovviamente salva la discutibilità della scelta valutativa del contribuente in Commissione Tributaria.

Ciò posto, resta il fatto che di tali analisi  deve rinvenirsene traccia nel PVC degli organi preposti al controllo tanto da ritenersi che, laddove ciò non venga compiuto dai verificatori, sia onere del contribuente sottoposto a verifica quello di far muovere detta constatazione.

E’ chiaro che, in tema di transfer pricing, non può essere contestato il prezzo in sé, bensì il prezzo se non rispettoso della franchigia posta dal legislatore del 2000 o se non è dato rinvenire i criteri seguiti per la determinazione dello stesso in bilancio. Occorre cioè valutare non profili di economicità o illogicità dell’operazione, le cui valutazioni è bene che restino prerogativa di chi si assume il rischio dell’impresa.

Non si comprende, del resto, il motivo per cui le scriminanti previste dal legislatore del 2000 restano pressoché ignorate nella prassi.  E’ dato constatare, a tal riguardo, che le aziende assai raramente scelgono di motivare in nota integrativa le decisioni circa le valutazioni estimative adottate, prevalendo il timore di svelare politiche aziendali o industriali sulla possibilità di agganciarsi preventivamente ad un’ancora di salvataggio che potrà, ex post,  rivelarsi decisiva.

Passando al versante dei soggetti verificatori, come già sopra accennato, si registra un anomalo meccanismo in virtù del quale, “nel dubbio” viene, di norma, comunque trasmessa la denuncia alla Procura della Repubblica competente.

In altre parole, la Guardia di Finanza sente l’esigenza di attivare rapidamente il Pubblico Ministero – rischiando di abusare dell’art. 220 Disp. Att. c.p.p. – e tale circostanza sembrerebbe dovuta a due ragioni fondamentali:

  • per i reati tributari è prevista la confisca obbligatoria, anche per equivalente;
  • si sollecita il PM ad assumere la direzione delle indagini e ad adottare strumenti investigativi più efficaci (lo strumento delle intercettazioni è senza dubbio tra i mezzi di ricerca della prova più importanti).

In questo contesto, la sensazione è che il passaggio da un diritto tributario penale ad un diritto penale tributario sia avvenuto con una fiducia nelle possibilità dello strumento repressivo penale che pare francamente eccessiva: si è pensato – e si continua a pensare – che la deterrenza penale valga a far pagare le imposte dovute.

Sul punto, le conclusioni che precedono dovrebbero far riflettere il Legislatore.

L’Amministrazione Finanziaria, d’altro canto, dovrebbe sviluppare una più attenta attività di identificazione delle principali aree di rischio, in un’ottica di risk assessment.

Quanto ai contribuenti, dato lo scenario tutt’altro che rassicurante, sarebbe opportuno dotarsi di efficaci modelli di tax compliance, usando la trasparenza come difesa preventiva generale per evitare di incappare in spiacevoli inconvenienti; ciò a valere ovviamente per l’onesto soggetto d’imposta il quale, in mancanza di riforme strutturali e di decise prese di posizione dei governi nazionali, rischia di venirsi a confondere con i professionisti del crimine tributario, che dell’illecito risparmio d’imposta fanno, in sostanza, la propria ragion d’essere.

Il rischio è più elevato di quanto possa sembrare e, allo stato attuale, non sembrano esclusi da anomalie di sistema anche coloro i quali, pur avendo nascosto al Fisco porzioni di base imponibile, si potrebbero trovare a rispondere di reati costruiti senza che se ne potessero ravvisare i reali presupposti.

L’anomalia è tutta italiana: è oggettivo che insieme alla contestazione dei reati tributari viene quasi “naturale”, nel nostro ordinamento, contestare anche l’associazione per delinquere (art. 416 c.p.).. Una “particolare modalità di trasmissione della notitia criminis per eventuali responsabilità penali relative ad illeciti tributari di natura penale, non priva di conseguenze: l’effetto è che si avrà il sequestro al fine di confisca sia per l’imputato persona fisica, sia per l’imputato persona giuridica, con il benestare della Cassazione che, espressamente, li ammette entrambi.

Tuttavia, la forzatura del sistema, attraverso un improprio utilizzo dell’espediente di cui all’art. 416 del Codice Penale, provocando un aggiramento delle norme proprio da parte di quei poteri che alla legge dovrebbero rifarsi, provoca una tensione innegabile con il principio di legalità.

Si auspica che di certe prassi il Legislatore prenda presto contezza.

di Marco Guenzi

Ad ognuno di noi sarà capitato di trovarsi davanti a qualche opera d’arte contemporanea, come ad esempio i conosciutissimi “tagli” di Fontana, e di domandarsi non solo quale sia il significato di tale opera, ma soprattutto perché essa sia tanto preziosa (una constatazione che spesso ricorre nella mente dello spettatore è quella di dire: “lo potevo fare anch’io..!”).

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