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(di Alessio Rombolotti)
Il 23 novembre la società farmaceutica americana Pfizer Inc. e la società farmaceutica irlandese Allergan plc comunicano che i rispettivi CdA hanno approvato un accordo di fusione: nel comunicato stampa[1] appare una frase che solleva il furore popolare: “Pfizer anticipates that the combined company will have a pro forma Adjusted Effective Tax Rate of approximately 17%-18%…”[2].
È da tempo che il Congresso e il Dipartimento del Tesoro lottano contro le strategie fiscali delle multinazionali americane[3] senza successo ma questa transazione potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso e convincere il Congresso a riformare il sistema fiscale e cambiare il modo in cui sono tassati i gruppi multinazionali.
La transazione ha un valore di $160 miliardi[4], gli azionisti di Allergan avranno 11.3 azioni della nuova società per ogni loro azione mentre gli azionisti di Pfizer potranno scegliere fra uno scambio 1/1 oppure ricevere un valore monetario per alcune o tutte le loro azioni. La nuova società sarà chiamata Pfizer plc e il suo capitale azionario sarà quindi composto dalla ex-Pfizer Inc. per il 56% e dalla ex-Allergan plc per il 44%.
Le azioni della Pfizer plc saranno scambiate al New York Stock Exchange (NYSE) e il simbolo utilizzato sarà PFE, quello che oggi è di Pfizer Inc. L’azienda avrà il centro operativo a New York City ma risiederà a Dublino, nell’attuale sede di Allergan plc.
Il Consiglio di Amministrazione di Pfizer plc sarà composto da 15 persone, tutti gli attuali 11 amministratori di Pfizer Inc. e quattro amministratori di Allergan. Gli attuali Chairman e Chief Executive Officer di Pfizer Inc. manterranno l’incarico nella nuova società mentre il Chief Executive Officer di Allergan sarà President e Chief Operating Officer di Pfizer plc.
La transazione dovrebbe chiudersi nella seconda metà del 2016, il fee di penalità per ritirarsi dalla fusione è di $3.5 miliardi.
Quindi l’americana Pfizer Inc. ($48 miliardi di ricavi annui) si fonderà con l’irlandese Allergan ($16 miliardi di ricavi annui), manterrà il suo centro operativo negli Stati Uniti[5], sposterà la residenza in Irlanda e questo le permetterà di ridurre il tasso d’imposta al 17/18% (negli Stati Uniti è il 35%).
Le multinazionali americane pagano le imposte sui profitti prodotti all’estero quando questi vengono rimpatriati, Pfizer Inc. ha $137 miliardi di profitti all’estero che produrrebbero un’entrata per il Tesoro americano di circa $48 miliardi, la fusione con Allergan azzera l’aspettativa del Tesoro.
Le fusioni con aziende minori sono spesso state utilizzate per ridurre l’imposizione fiscale e il Tesoro americano si è mosso e si sta muovendo tuttora per limitare la capacità elusiva dei gruppi in cui la proprietà americana sia pari o superiore al 60%, ma nella fusione fra Pfizer Inc. e Allergan, due società di fatto americane, si raggiunge soltanto il 56%.
Sarà interessante seguire le reazioni e le azioni sia del Tesoro che del Congresso americano e verificare se davvero questa sia stata l’ultima goccia.
Note
[1] https://www.premierbiopharmaleader.com/en/media/press-releases/pfizer-and-allergan-to-combine
[2] Negli Stati Uniti il tasso d’imposta sul reddito è 35%.
[3] Vedi il mio articolo dell’1 maggio 2014: “Seed, Grow, Harvest: La Strategia Offshore di Caterpillar Inc.”. https://www.economiaediritto.it/seed-grow-harvest-la-strategia-offshore-di-caterpillar-inc/
[4] Questo numero deriva dal valore delle azioni di Pfizer Inc. pari a $32.18 e dal valore delle azioni di Allergan plc pari a $363.63.
[5] Si noti che anche Allergan era americana e tuttora possiede la maggior parte delle sue operazioni nel New Jersey.
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(di Sabrina Polato)
Esattamente un anno fa si è esaminato ed approfondito in questa rubrica il tema della TTIP, l’accordo oggetto di negoziati tra USA ed Unione Europea che, se attuato, porterebbe ad una maggiore armonizzazione degli standard commerciali e finanziari tra le due sponde dell’Atlantico.
In questo numero verrà analizzato un altro importantissimo accordo, la TPP “Trans Pacific Partnership”, di cui inspiegabilmente si parla poco, anche tra gli addetti ai lavori, nonostante il ruolo primario nell’Economia e nel Commercio Internazionale ricoperto dalla maggior parte delle Nazioni coinvolte in tale intesa.
Infatti, la TPP, firmata lo scorso 5 ottobre ad Atlanta (Georgia – Usa) dopo 5 anni di trattative, sancisce un’alleanza senza precedenti tra gli Stati Uniti da una parte e ben 11 potenze economiche, asiatiche e non, che si affacciano sul Pacifico dall’altra, tanto che si può indubbiamente parlare del più grande trattato commerciale di libero scambio firmato negli ultimi decenni, dal momento che riguarderà una quantità di scambi pari al 40% dell’Economia mondiale.
Al momento, i Paesi coinvolti sono Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam, anche se sono già pronte all’adesione altre Nazioni come Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Colombia.
L’Accordo si pone come obiettivo principale quello di abolire progressivamente le barriere commerciali tra gli Stati firmatari e di stabilire regole comuni in materia di tutela dei lavoratori, dell’ambiente e dell’e-commerce.
La TPP riguarda il libero commercio di moltissimi prodotti: la maggior parte delle trattative si è svolta sui prodotti derivati del latte e sui medicinali “biologici” (derivati da organismi viventi), in particolare sui tempi di brevetto di questi ultimi. Il trattato include anche l’industria automobilistica, quella cinematografica, l’accesso a internet e la protezione delle specie naturali. Per poter divenire operativa a tutti gli effetti la TPP dovrà essere ratificata entro 90 gg. dal Congresso Usa e dai governi dei rispettivi Paesi.
La TPP è stata duramente contestata e criticata negli Stati Uniti come negli altri Paesi firmatari da una platea molto variegata di soggetti (professionisti della salute, ambientalisti, attivisti di Internet, organizzazioni sindacali, avvocati, governatori e sindaci) che hanno protestato contro l’eccessiva segretezza dei contenuti dei negoziati, la portata troppo ampia dell’accordo e la controversia delle clausole contenute nelle bozze che, solo per una fuga di notizie, sono state rese pubbliche ai cittadini. In sintesi, gli oppositori della TPP lamentano una sostanziale mancanza di informazione al pubblico, nonostante molti aspetti contenuti nell’accordo riguardino da vicino i consumatori.
E’ evidente che la TPP ha un valore non solo commerciale, ma anche politico. Innanzitutto, perché si tratta del primo Accordo mai firmato tra Stati Uniti e Giappone, rispettivamente la prima e la terza Economia mondiale. In secondo luogo, perché la Cina è stata deliberatamente lasciata fuori dai negoziati (anche se non è da escludersi un suo coinvolgimento in un prossimo futuro) con il preciso intento, in primis degli Stati Uniti, di raggiungere un’intesa commerciale capace di arginare e contenere il dilagare delle esportazioni cinesi. Infine, perché con la firma di questo Trattato il presidente americano Barack Obama raggiunge un altro importante obiettivo nell’ambito della propria strategia di politica internazionale (dopo l’accordo sul nucleare con l’Iran e la riapertura dell’ambasciata a Cuba), mantenendo quanto promesso al proprio elettorato nel 2012 in sede di campagna elettorale per il rinnovo del mandato presidenziale, ma lasciando al contempo un’eredità “notevole” al suo successore (democratico o repubblicano che sia).
Dal punto di vista europeo, la firma del TPP non può lasciare indifferenti né a livello politico né a livello industriale: l’accordo potrebbe agevolare le trattative e velocizzare i tempi di negoziazione della TTIP, attualmente fermi in una situazione di “stallo” che non giova innanzitutto alle aziende europee. Infatti, per le imprese europee il TPP costituisce un potenziale strumento di penalizzazione nei confronti dei propri competitors che operano nei mercati firmatari dell’accordo, dal momento che le loro merci possono entrare nel mercato americano a tariffe agevolate se non addirittura azzerate, rendendo quindi tali prodotti più convenienti rispetto a quelli provenienti da uno Stato membro della UE.
La firma dell’accordo TTIP diventa a questo punto una questione di primaria importanza per le aziende europee e, di conseguenza, italiane. Senza questo accordo si rischia una perdita di competitività per i nostri prodotti che si traduce in un’erosione delle quote di mercato faticosamente conquistate negli ultimi due anni dalle nostre imprese nel mercato americano: un mercato importantissimo per le aziende italiane, ove le nostre esportazioni hanno fatto registrare nel 2015 performance di crescita a doppia cifra, contribuendo a bilanciare le contrazioni subite su altri mercati attualmente in sofferenza quali Russia, Brasile ed in parte anche Cina.
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(di Sabrina Polato)
Gli Stati Uniti rappresentano il primo partner commerciale Extra-Ue delle aziende italiane produttrici di salumi ed insaccati. Nel 2014 le nostre esportazioni verso il Paese hanno registrato un aumento, in termini di fatturato, di oltre il 18%, raggiungendo quota 86,8 milioni di euro. Un risultato che, se da un lato sorprende in considerazione delle numerose restrizioni con le quali i nostri produttori hanno dovuto da sempre confrontarsi (su tutte il provvedimento 100% reinspection), dall’altro fa ben sperare in un ulteriore miglioramento delle performance di export verso il mercato statunitense, a seguito delle novità introdotte dalle autorità americane con il mese di maggio 2015.
Export del settore.[1]
Le esportazioni italiane di salumi stanno registrando un aumento costante ormai da diversi anni, sia in termini di volumi che di fatturato. Il 2014 ha di fatto confermato questo trend positivo: 148.830 tonnellate (+4,7%) per un fatturato record di 1,260 miliardi di euro (+6,3%).
All’interno della UE, un contributo positivo è arrivato in termini di fatturato da tutti i principali partner commerciali italiani (Germania, Regno Unito ed Austria in particolare). La Germania si conferma il mercato più importante per i nostri salumi con un fatturato export di 280 milioni di euro, derivante principalmente dalla vendita di prosciutti crudi, salami, pancette e insaccati cotti. Ottimo 2014 anche per le esportazioni verso il Regno Unito (+10,7% in valore per 141,9 mln di euro), grazie agli incrementi di domanda di tutte le principali categorie di salumi con l’unica eccezione dei salami.
Molto bene anche l’ Austria (+8,4% per 72,3 mln di euro), la Croazia (+20,2% per 19,5 mln di euro) e la Spagna (+12,8% per 20,3 mln di euro). Fra i mercati più piccoli da evidenziare gli incrementi a 2 cifre di Paesi Bassi (+33,4%) e Slovenia (+37,5%).
In ambito Extra-UE, si sono registrati aumenti di fatturato export a doppia cifra con Giappone (+17,8%), Canada (+18%), Repubblica Sudafricana (+17,8%) e Norvegia (+7,3%).
Unica nota dolente la Russia: – 42,7% in quantità e – 32,1% in valore per 12,7 milioni di euro, a causa dell’embargo.
Export verso gli Stati Uniti.
Con il mese di maggio 2015 sono state introdotte due importanti novità destinate a modificare (in meglio) le relazioni commerciali tra Italia e Stati Uniti per quanto concerne i salumi ed i prodotti insaccati.
Infatti, le Autorità statunitensi hanno da un lato revocato il provvedimento denominato 100% reinspection (ovvero il controllo sistematico di tutte le partite di salumi provenienti dall’Italia che arrivavano in dogana) e, dall’altro, rinnovato la possibilità per il ministero della Salute di abilitare nuove aziende italiane all’esportazione negli Usa.
Il provvedimento 100% reinspection , introdotto nel settembre 2013 a causa della mancata corrispondenza normativa tra UE e USA per quanto riguarda la tolleranza di Listeria Monocytogenes (patogeno per il quale negli Stati Uniti vige la regola della “tolleranza zero”), ha causato notevoli disagi alle aziende italiane esportatrici, le quali hanno subito una vera e propria perdita di competitività rispetto a produttori di altri Paesi concorrenti (Messico in primis…). Le aziende italiane hanno dovuto sopportare un aumento dei costi di sdoganamento, ma anche uno slittamento dei tempi di consegna al cliente americano (i salumi italiani erano costretti a stazionare molti giorni presso i magazzini doganali prima di essere campionati ed autorizzati alla vendita).
In termini di export è quindi realistico aspettarsi un ulteriore miglioramento delle performance di fatturato nel mercato, dal momento che verrà data la possibilità di accedere al mercato statunitense ad un numero sempre maggiore di aziende ma, soprattutto, verrà resa finalmente possibile l’esportazione di tutti quei prodotti di salumeria a breve stagionatura (quali salami, coppe, pancette), ufficialmente autorizzata già dal maggio 2013, ma di fatto resa impossibile a seguito dei controlli imposti dal provvedimento 100% reinspection.
La revoca di tale provvedimento è un chiaro segnale di distensione tra le Autorità americane ed il Sistema Istituzionale italiano (in conclusione, viene considerato degno di fiducia il sistema dei controlli italiano). Il risultato è stato raggiunto a seguito di un’intensa trattativa sviluppatasi nel 2014 con l’impegno di più parti (Ministero della Salute, Ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Ambasciata d’Italia negli USA, servizi veterinari regionali, associazioni industriali di settore).
La decisione è arrivata a seguito del completamento della valutazione dei risultati di un Audit condotto sulle strutture produttive italiane da parte di alcuni ispettori del FSIS (Food Safety and Inspection Service), l’agenzia americana per la sicurezza alimentare. In particolare, l’Amministratore del FSIS, Alfred Almanza, ha comunicato ufficialmente che e’ stata sbloccata la lista degli impianti autorizzati ad esportare negli Stati Uniti e che i controlli ispettivi ai punti di ingresso (POE) in USA saranno dimezzati immediatamente, per poi essere riportati allo stato pre-crisi di controlli a campione, in assenza di casi di positività entro 45 giorni ai punti di entrata nel Paese (POE)[2].
Come esportare salumi negli Stati Uniti: documentazione ed autorizzazioni richieste. [3]
Con la revoca del provvedimento 100% reinspection vengono ristabilite le condizioni e le regole in vigore dal maggio 2013 (periodo a partire dal quale si è attuata la reale apertura del mercato americano alle carni crude stagionate italiane). Dal 28 maggio 2013 è difatti permessa negli Stati Uniti l’importazione dell’alta salumeria italiana prodotta in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e nelle province di Trento e Bolzano (l’importazione di prosciutti crudi, prosciutti cotti e mortadelle era, invece, già ammessa da tempo). Tali territori sono stati considerati dall’Animal and Plant Health Inspection Services (APHIS) a rischio basso per quanto riguarda la malattia vescicolare del suino.
Più che di una vera e propria “apertura” del mercato si dovrebbe però parlare di una serie di “concessioni all’importazione”, dal momento che le regole imposte dalle Autorità americane continuano ad essere molto restrittive.
I salumi italiani destinati all’esportazione negli USA devono infatti possedere le seguenti caratteristiche:
- provenire solo dastabilimenti che siano stati preventivamente autorizzati dalle autorità statunitensi (l’impianto di macellazione degli animali non deve essere venuto a contatto con animali o carni provenienti da Regioni nelle quali la malattia vescicolare del suino sia ancora presente, ovvero che carni e/o animali non abbiano attraversato Regioni non indenni);
- essere provvisti di uno specifico certificato sanitario e di attestazione veterinaria;
- essere a base di carne cotta e sottoposti a trattamento termico che raggiunga i 69°C al cuore del prodotto, oppure sterilizzati (cotechino), oppure a base di carne cruda (con stagionatura superiore a 400 giorni), oppure essere carni a bassa stagionatura (dal 28 maggio 2013).
La documentazione richiesta per l’export dei prodotti ammessi (identificati con il codice doganale tariffa armonizzata SA 0210 “meat and edible meat offal, salted, in brine, dried or smoked; edible flours and meals of meat or meat offal ”) è la seguente:
- Registrazione di stabilimento alimentare. Documento attestante che lo stabilimento o gli stabilimenti in cui è stata effettuata la produzione, trasformazione, confezionamento e conservazione di alimenti destinati al consumo per il mercato statunitense è/sono stati registrati presso la Food and Drug Administration (FDA). La normativa americana ammette anche aziende che, pur non operando presso uno stabilimento autorizzato, si sono avvalse, per la produzione di salumi a proprio marchio, dello stabilimento di un’altra azienda il cui impianto sia stato autorizzato, previo accordo commerciale tra le parti.
- Licenza per la fauna selvatica. Si applica nel caso di alimenti in cui, tra gli ingredienti, figurino anche prodotti di animali in via di estinzione. Tale documento attesta che il titolare è autorizzato ad esportare specie di fauna selvatica ed è necessario per lo sdoganamento e l’accesso al mercato.
- Preavviso di importazione di prodotti alimentari. Altro documento necessario per lo sdoganamento. Pre-annuncia l’importazione di alimenti alla Food and Drug Administration (FDA). Deve essere presentato, per via elettronica o attraverso la dogana, a: Automated Broker Interface (ABI) – Sistema Commerciale ACS, solo dopo la registrazione alla lista degli stabilimenti autorizzati. Inoltre, devono essere rispettati dei termini per la presentazione del preavviso (entro 15 giorni prima della data prevista di arrivo, per invii effettuati tramite il PNSI -Prior Notice Systems Interface – sistema per la richiesta della notifica preventiva – introdotto nel 2003 a seguito atti di bioterrorismo; entro 30 giorni prima della data prevista di arrivo, per la presentazione fatta attraverso l’ABI/ACS).
- Certificato sanitario per i prodotti animali. Documento rilasciato dalla ASL, attestante che i prodotti di origine animale per l’esportazione non sono infetti e non sono portatori di alcuna malattia infettiva. E’ necessario per sdoganamento e accesso al mercato. Deve essere scritto in inglese e presentato in originale.
- Certificato di origine. Facoltativo, secondo le indicazioni dell’importatore americano. Nel caso venisse richiesto è necessario rivolgersi alla CCIAA provinciale dove ha sede il produttore, organo competente per il rilascio.
- Codice di Identificazione Produttore (MID). Codice che identifica il produttore (non statunitense) di un bene, in conformità con le disposizioni di legge. L’autorità responsabile è la Customs and Border Protection (CBP). Il MID deve essere predisposto dall’importatore in conformità con le disposizioni di legge statunitense di cui al19 CFR 102. Il codice MID contiene fino a 15 caratteri senza spazi:
– Codice ISO del paese (due caratteri)
– Nome del fabbricante (primi tre caratteri di ciascuno delle prime due parole)
– Indirizzo del fabbricante (prime quattro cifre del numero maggiore nel tratto di strada di indirizzo)
– Nome della città (prime tre lettere).
Per articoli aventi più di un produttore, il codice MID va indicato per ciascun produttore, separatamente.
Inoltre, va ricordato che tutti i salumi esportati negli Stati Uniti devono avere idonea etichettatura (rigorosamente in lingua inglese), la quale dovrà riportare almeno le seguenti informazioni:
– Nome del prodotto
– Paese di origine (“Made in…” o “Product of …”)
– Nome e indirizzo del produttore
– Peso netto (“Net content…“)
– Stato fisico del prodotto (intero, in cubetti, porzionato…)
– Elenco degli ingredienti
– Informazioni nutrizionali (calorie, grassi totali, grassi saturi, grassi idrogenati, colesterolo, sodio, carboidrati totali, fibre, zuccheri, proteine, vitamina A, vitamina C, calcio, ferro)
– Eventuale presenza di allergeni alimentari (vicino alla lista degli ingredienti va riportata la parola “Contains” seguita dal nome dell’allergene).
Infine, in caso di utilizzo di imballaggi in legno (casse di legno, gabbie, pallets) questi devono essere trattati e marchiati secondo la normativa fitosanitaria NIMP n. 15.
Note
[1] Fonte: Assica (Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi aderente a Confindustria) – ed. 2015.
[2] Fonte: Ansa.it – dichiarazione del Ministro della Salute Beatrice Lorenzin del 14 maggio 2015.
[3] Fonte: Monica Perego – Newsmercati.it – numero 157/2013.
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(di Sabrina Polato)
Nel luglio 2013 si è svolta a Washington la prima sessione negoziale per la conclusione di un accordo di libero scambio economico Usa‐UE, il Partenariato transatlantico su commercio ed investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP). La TTIP si presenta come il più ambizioso progetto transatlantico di cooperazione degli ultimi dieci anni, volto ad affrontare:
– la questione delle barriere tariffarie e non‐tariffarie al commercio di beni e servizi;
– l’accesso alle commesse pubbliche;
– gli investimenti;
– la definizione di nuovi e più ambiziosi standard in alcuni settori industriali.
I BENEFICI
Secondo alcune stime, la TTIP porterebbe a ricadute estremamente positive su occupazione e crescita da entrambe le sponde dell’Atlantico. I benefici della TTIP possono essere così sintetizzati:
- Economia più forte. Grazie all’eliminazione delle barriere all’ingresso (principalmente tariffarie), le attività economiche aumenterebbero, si stima, di 119 miliardi di euro/anno nella UE e di 95 miliardi di euro/anno negli USA, mentre la produttività aumenterebbe di 107 miliardi di euro/anno nella UE e di 71 miliardi di euro negli USA.
- Minore burocrazia. La cooperazione in materia doganale porterebbe ad una semplificazione delle procedure amministrative necessarie per esportare prodotti e servizi, con una conseguente maggiore efficienza, sia in termini di costi, sia in termini di tempo.
- Armonizzazione degli standard e protezione dei consumatori. Mediante la cooperazione su standard e regolamenti, ove possibile, si assicurerebbe da un lato un’elevata protezione nei confronti dei consumatori e, dall’altro lato, si renderebbe il “fare business” molto più semplice e veloce in entrambe le sponde dell’Atlantico.
- Aumento del reddito dei consumatori. Si stima che la famiglia media europea potrebbe beneficiare di un aumento del proprio reddito pari a circa il 5% annuo.
- Diminuzione dei prezzi al consumo. L’eliminazione delle tariffe, lo snellimento delle procedure doganali, l’uniformarsi delle norme, renderebbe i beni esportati più economici, favorendo al contempo l’introduzione di nuovi prodotti nei rispettivi mercati.
- Benefici per grandi e piccole aziende. Agevolando l’export e riducendo i costi del “fare business” a livello internazionale, la TTIP porterebbe concreti benefici sia alle grandi, sia alle piccole imprese.
LA GENESI
La prima ipotesi di un accordo di libero scambio tra UE e USA risale agli anni novanta. Da allora, ci sono voluti circa vent’anni per arrivare alla prima sessione negoziale del 2013. A rendere possibile l’avvio dei negoziati, sono stati in particolare i seguenti fattori[1]:
– La crisi economica. La grave crisi che ha colpito USA ed UE a partire dal 2008 ha fatto percepire diversamente l’esigenza di un accordo tra le due parti considerato, prima della crisi, un argomento non urgente.
– L’ascesa dei Brics. Una delle ragioni che rende la TTIP più interessante oggi rispetto al passato è che grazie ad essa USA e UE potrebbero recuperare l’iniziativa sul piano della definizione degli standard e delle regole del commercio internazionale. Infatti, oggi il primato economico dell’Occidente non è più incontrastato. Grazie ad anni di sviluppo continuo Cina, India, Brasile, Russia ed altri sono ora in grado di opporsi con maggiore successo ad iniziative di governance occidentale.
– Largo consenso trasversale da entrambe le parti. Sia in USA sia in UE il numero dei sostenitori della TTIP è ben superiore al numero degli oppositori. In USA il consenso sfiora il 50%, in UE si arriva addirittura al 56%. Si tratta di un consenso trasversale che coinvolge la popolazione, ma anche le cosiddette elite socio-economiche e politiche.
– Il rafforzamento della relazione transatlantica. L’effetto simbolico della TTIP non è da trascurare. Infatti, la positiva conclusione di un accordo tra USA ed UE testimonierebbe da un lato che l’Europa rimane il partner privilegiato per gli USA e, dall’altro, che i due partner vogliono rafforzare il proprio ruolo nell’economia mondiale, a dispetto ovviamente dei nuovi player asiatici.
LO STATO DELL’ARTE
Ad oggi, si sono svolte sette sezioni negoziali:
I. 7-12 luglio 2013, Washington DC
II. 11-15 novembre 2013, Brussels
III. 16-21 dicembre 2013, Washington DC
IV. 10-14 Marzo 2014, Brussels
V. 19-23 Maggio 2014, Arlington (USA)
VI. 13-18 Luglio 2014, Brussels
- 29 settembre-03 ottobre 2014, Chevy Chase, USA
Di seguito, gli argomenti trattati durante l’ultimo meeting.
1. Pilastro normativo
Durante l’ultima sessione di negoziati bilaterali gran parte del focus è stato indirizzato verso il pilastro normativo del futuro accordo: tutti gli elementi regolatori della TTIP sono stati discussi, sia in termini di discipline orizzontali (coerenza normativa in primis), sia con riferimento a specifici settori individuati nei meeting precedenti, quali prodotti farmaceutici, automobili, prodotti chimici, ingegneria.
Tre, i temi oggetto delle discussioni negoziali sul pilastro normativo: standard, dimensione strategica e compatibilità.
1.1 Standards
E’ stato preso dai partecipanti un impegno inequivocabile e fermo: nulla sarà fatto che possa abbassare o mettere in pericolo la tutela dell’ambiente, della salute, della sicurezza dei consumatori o di altri obiettivi di politica pubblica perseguiti dalla regolamentazione dell’UE o degli Stati Uniti.
1.2 Dimensione strategica
La Cooperazione normativa rafforzata è essenziale se l’UE e gli USA vogliono svolgere un ruolo di primo piano nello sviluppo di norme e standard internazionali secondo i più elevati livelli di protezione. Il programma di regolamentazione è quindi di dimensione strategica chiara.
1.3 Compatibilità
La TTIP deve produrre risultati concreti in termini di maggiore compatibilità regolamentare.
2. Regole del pilastro
Si è deciso di concentrare le discussioni e gli scambi di opinione su quattro aree tematiche:
• Energia e materie prime
• dogane e commercio
• i diritti di proprietà intellettuale (DPI)
• piccole e medie imprese (PMI).
3. Servizi
Stati Uniti ed Unione europea hanno messo sul tavolo dei negoziati le rispettive offerte di accesso al mercato, attualmente al vaglio dei singoli negoziatori. Questo è un passo fondamentale della trattativa, dal momento che si possono fare ulteriori progressi solo dopo che ciascuna parte ha capito la portata di ciò che l’altro ha messo sul tavolo.
Va comunque sottolineato che l’approccio ai negoziati di servizi esclude qualsiasi impegno sui servizi pubblici: resta quindi salvo il principio che i governi sono liberi di decidere in qualsiasi momento che alcuni servizi debbano essere forniti dal settore pubblico.
Note
[1]Fonte:Osservatorio di Politica Internazionale “Il partenariato transatlantico su commercio ed investimenti” n. 83 – dicembre 2013
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di Mauro Merola
E’ stato firmato, il 10 gennaio 2014, dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, e dall’ambasciatore Usa in Italia, John R. Phillips, l’accordo tra Italia e Stati Uniti per applicare la normativa del Foreign Account Tax Compliance Act (i.e., FATCA) e migliorare la tax compliance internazionale.
La piattaforma normativa e tecnologica FATCA, strutturata sullo scambio reciproco e automatico delle informazioni tra amministrazioni finanziarie dei Paesi aderenti, è destinata, peraltro, nei prossimi mesi a fungere da architrave alle nuove regole per lo scambio multilaterale dei dati, volute dall’Ocse, ed a quelle promosse in sede Ue, che
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