Economia

Diversity management: la gestione diversificata delle risorse umane

di Ivana Colombo

La gestione della diversità, in Italia sottointesa tradizionalmente come di genere, da tema di pari opportunità (1) è divenuto argomento di interesse economico. Oltre alle riflessioni di carattere macro-economico sull’impatto positivo che una maggior occupazione femminile avrebbe sul PIL, esistono evidenze anche a livello micro-economico di effettivi vantaggi che la diversità apporta nelle organizzazioni, quali minor spreco di talenti e competenze, maggior creatività e performance di risultato dei team, migliore capacità di comprendere clienti variamente complessi. In un’organizzazione del lavoro come quella attuale in cui le persone chiedono di più all’azienda in termini di identificazione, appagamento, realizzazione, aggiornamento professionale e in cui le aziende si aspettano sempre più risultati concreti e prestazioni efficaci e efficienti, il diversity management diventa un fattore di scambio fondamentale nell’incontro tra bisogni organizzativi sempre più sofisticati e complessi e i bisogni dell’individuo (2).

Uno studio recente intitolato Diversity is good for your Business, condotto da Boston Consulting Group in collaborazione con l’Associazione Europea per la Gestione delle Persone (EAPM), dimostra che il valore della diversità all’interno di aziende rappresenta un fattore sempre più rilevante nella considerazione del management. Tra le 40 aziende intervistate, quasi tutte sembrano utilizzare almeno tre strumenti per aumentare la diversità tra i dipendenti assunti.

Vale la pena perciò soffermarsi ad analizzare i motivi del successo di aziende che assumono e creano team di persone con esperienze e background diversi. Lo studio dimostra che le aziende che adottano un approccio strategico per favorire l’aumento della diversità all’interno dei loro staff, possono beneficiare di vantaggi in differenti ambiti:

• migliore capacità di innovare i processi aziendali, con l’aiuto di un team di persone estremamente creative e diversificate in termini di età, sesso, nazionalità, aree di competenza ed esperienza;

• facilità di comunicazione all’interno dei gruppi di persone grazie all’eliminazione di ogni tipo di pregiudizio o preconcetto;

• nuove modalità di reclutamento in cui il datore di lavoro percepisce le donne o i candidati anziani come figure professionali attraenti, apportatori di contributi specifici, unitamente a una percezione dei giovani come forze da incanalare verso il corretto addestramento, ottenibile solo dal mix formazione scolastica-formazione on the job, al fianco di personale più esperto;

• migliore immagine del datore di lavoro, arricchita se tutti i dipendenti godono degli stessi benefici e in uguale misura;

• nuove possibilità di reclutamento di candidati, direttamente da mercati stranieri.

Tra gli altri vantaggi evidenti da non sottovalutare, è interessante citare la flessibilità che caratterizza candidati con esperienze internazionali e multiculturali e le loro conoscenze delle lingue straniere.

1. Age diversity, la differenza di età

Che valore ha avere nel posto di lavoro un mix di persone giovani e meno giovani (3)?

È una questione affrontata anche dal Financial Times, che in un suo recente articolo riporta gli interessanti dati di una ricerca condotta presso McDonald’s. Nel 2009 l’arcinoto fastfood ha commissionato al Prof. Paul Sparrow, docente presso la Lancaster University’s Management School, un’indagine sul valore della diversity nei vari punti vendita della colossale catena. Recentemente a Londra i risultati sono stati presentati per la prima volta per esteso da Mr. David Fairhurst, senior vice-president e chief people officer per McDonald’s in UK e nord Europa. Il team del Prof. Sparrow ha confrontato i risultati dei siti dove non c’era nessun dipendente con più di 50 anni e quelli in cui c’erano soggetti con più di 60 anni. In quest’ultimi la customer satisfaction è risultata più alta del 20% e, fattore collaterale, la presenza di senior sembra anche incoraggiare migliori comportamenti sul lavoro da parte dei più giovani. Le filiali in cui il clima di lavoro era percepito come positivo ricevevano il 66% di visite in più da parte dei clienti rispetto ai posti dove il clima era più negativo. Inoltre le vendite nei negozi “più felici” risultavano almeno il 30% più elevate.

2. Differenze di genere

 Altri studi di settore dimostrano che, a livello dirigenziale, la diversità all’interno dei team di persone diminuisce notevolmente. Il 93% dei dirigenti che compongono i consigli di amministrazione sono maschi e l’86% di questi proviene dall’Europa. In questo scenario, le donne non vengono rappresentate (4). Il motivo che spiega questo tipo di organizzazione del personale sta nel fatto che la cooptazione segue le proprie reti, il manager tende a scegliere i suoi partner all’interno di ambienti sociali a lui comuni, finora nell’ambito di “cordate” sviluppatesi nelle reti sociali maschili, in aziende strutturate secondo i tempi di attività e di modello elaborate nel tempo dagli uomini.

Al fine di produrre e diffondere modelli femminili di comportamento professionale, alcune aziende si sono attivate verso alcuni accorgimenti:

● corsi di women leadership e programmi di tutorship per supportare le donne nel percorso di affermazione e avanzamento di carriera;

● corsi di formazione di cultural change, rivolti alla popolazione maschile e femminile, per prendere consapevolezza delle differenze di genere e della maggiore efficacia di un modello di leadership integrata;

● diffusione della cultura del gender balance, ovvero rendere complementare l’approccio differente che uomini e donne hanno al lavoro;

● iniziative di work-life balance per favorire un miglior utilizzo del tempo libero e facilitare ad esempio la gestione delle piccole commissioni quotidiane, argomento di cui si parla molto, ma si applica poco.

● implementare il ruolo di facilitatore della tecnologia nei tempi e nei luoghi di svolgimento del lavoro;

● facilitazione o incremento di un miglior clima aziendale tendente a eliminare le discriminazioni (5).

3. Disabilità e malattia

La direttiva UE n. 78/2000 stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, lottando contro le discriminazioni, anche contro quelle fondate sugli handicap. La norma prevede la nozione di «discriminazione indiretta», che si ha quando «una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio» persone portatrici di un particolare handicap. L’art. 5 della direttiva prevede che il datore di lavoro debba adottare soluzioni ragionevoli, prendendo «provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere a un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, quanto più possibile adeguata, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».

I passi da compiere sono nel senso della creazione di un ambiente organizzativo pervaso dai valori della fiducia, della cooperazione e dell’impegno, in grado di supportare la responsabilità effettiva del disabile o del malato (6).

4. Differenze di cultura, religione, nazionalità e orientamento sessuale

Ultimamente la guerra tra i generi si è trasformata in guerra tra generazioni (7) probabilmente a causa dell’elevatissima disoccupazione giovanile, che si è cercato di interpretare con la teoria dell’eccessiva protezione degli insider, coloro che hanno un posto di lavoro fisso e tutelato. In realtà l’alto tasso di disoccupazione giovanile presente in Paesi dove la protezione del mercato del lavoro è molto bassa (quali la Gran Bretagna), smentisce l’ipotesi che il difficile ingresso dei giovani nel mercato del lavoro sia da imputarsi al cosiddetto presidio degli adulti. In Germania il tasso di disoccupazione giovanile è invece molto basso, grazie alla dualità del sistema scolastico che prevede periodi di apprendistato in azienda durante il corso di studi, ambito nel quale le imprese hanno modo e agio di conoscere le potenzialità di un futuro lavoratore.

5. Il diversity management può essere conveniente per le imprese?

Comprendere e gestire le differenze per conciliare sempre più efficacemente i bisogni organizzativi con i bisogni dell’individuo. Promuovere il diversity management diventa una prassi volta alla costruzione di una serie di strumenti coerenti che possano dare dei risultati efficaci sia sul versante delle organizzazioni in termini di efficacia, che sul versante delle persone in termini di benessere. Ma anche la definizione di una cultura aziendale che può rivelarsi vincente, basata su una sinergia che passa attraverso la multiculturalità nella complessa e spietata corsa alla distinzione dalla concorrenza.

Certamente la diffusione del diversity mangement richiede una precisa volontà organizzativa (8) e investimenti di tempo e di denaro. Che impatto può avere investire e che ritorno economico è possibile ottenere oltre alla migliorata qualità delle risorse? Misurare la performance dei risultati ottenuti in termini economici, oltre che culturali, in relazione agli investimenti impegnati, è importante per capire quale utilità in termini concreti di business possa apportare questo tipo di orientamento organizzativo (8).

L’importanza della diversità all’interno delle aziende è ormai ben nota ai responsabili Risorse Umane e agli head hunter che, prima con passo incerto, ormai sempre più spesso, creano strategie di reclutamento per aumentare la diversificazione all’interno delle aziende, nonché la loro produttività. Purché le aziende comincino a farsi sempre più persuase di questo tipo di approccio, un rivoluzionario ritorno alla struttura del personale articolata come in passato, sia nelle botteghe artigiane sia nei colossi di impresa che hanno caratterizzato tutto il ‘900.

Note

(1)     “[…] Dipartimento delle pari opportunità – Il Dipartimento per le Pari Opportunità viene istituito con D.P.C.M. n. 405 del 28 ottobre 1997, modificato con i D.P.C.M. del 30 novembre 2000 e D.P.C.M. del 30 settembre 2004.

Le competenze – il Dipartimento provvede agli adempimenti riguardanti:

– l’indirizzo, la proposta e il coordinamento delle iniziative normative e amministrative in tutte le materie attinenti alla progettazione e alla attuazione delle politiche di pari opportunità;

– l’acquisizione e l’organizzazione di informazioni, anche attraverso la costituzione di banche dati, nonché la promozione e il coordinamento delle attività conoscitive, di verifica, di controllo, di formazione e informazione nelle materie della parità e delle pari opportunità;

– l’adozione e il coordinamento delle iniziative di studio e di elaborazione progettuale inerenti le problematiche della parità e delle pari opportunità;

– la definizione di nuove politiche di intervento, di studio e promozione di progetti ed iniziative, nonché di coordinamento delle iniziative delle amministrazioni e degli altri enti pubblici nelle materie della parità e delle pari opportunità;

– l’indirizzo e il coordinamento delle amministrazioni centrali e locali competenti, al fine di assicurare la corretta attuazione delle normative e degli orientamenti governativi nelle materie della parità e delle pari opportunità;

– la promozione delle necessarie verifiche in materia da parte delle amministrazioni competenti, anche ai fini della richiesta, in casi di particolare rilevanza, di specifiche relazioni o del riesame di particolari provvedimenti ai sensi dell’art. 5, comma 2, lettera c), della legge 23 agosto 1988, n. 400;

– l’adozione delle iniziative necessarie all’adeguamento dell’ordinamento nazionale ai principi ed alle disposizioni dell’Unione europea e per la realizzazione dei programmi comunitari nelle materie della parità e delle pari opportunità;

– la cura dei rapporti con le amministrazioni statali, regionali, locali, nonché con gli organismi operanti in materia di parità e di pari opportunità in Italia e all’estero, con particolare riguardo all’Unione europea, all’Organizzazione mondiale delle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa e all’ OCSE;

– l’adozione delle iniziative necessarie alla rappresentanza del Governo italiano, in materia, nei rapporti internazionali e in organismi nazionali e internazionali, anche mediante la designazione di rappresentanti;

– l’organizzazione ed il funzionamento della segreteria della Commissione per le pari opportunità tra uomo e donna;

– l’acquisizione e l’organizzazione di informazioni, anche attraverso banche dati, nonché la promozione di iniziative conseguenti, in ordine alle materie della prevenzione, assistenza e tutela dei minori dallo sfruttamento e dall’abuso sessuale dei minori oggetto della delega di funzioni al Ministro di cui all’art. 2, comma 1, del D.P.C.M. 14 febbraio 2002;

– lo svolgimento delle funzioni di cui art. 7 del decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215 e all’art. del D.P.C.M. 11 dicembre 2003, recanti disciplina dell’ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni di cui art. 29 della legge comunitaria 1 marzo 2002, n. 39 […]”. Fonte: www.pariopportunita.gov.it.

(2)     Per diversity management si intende secondo la definizione di Barabino, Jacobs, Maggio (2001) “un approccio integrato alla gestione delle risorse umane, finalizzato alla creazione di un ambiente lavorativo inclusivo, in grado di favorire l’espressione del potenziale individuale e di utilizzarlo come leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi organizzativi”. Possiamo definire il diversity management come una modalità di gestione delle persone che, partendo dalla consapevolezza delle diversità esistenti in ciascuno, tenta di mettere in atto un cambiamento culturale diffuso e progettare strumenti di gestione che consentono di accogliere le diversità compatibili con l’organizzazione.

(3)     Ballerini L. (3 marzo 2010), Age diversity – Dove ci sono colleghi over 50 il clima lavorativo è migliore, www.il sole24ore.it.

(4)     Per ovviare a questo inconveniente dal 12 agosto 2013 è operativa la legge Golfo-Mosca (legge n. 120/2011, sulle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società pubbliche e delle società quotate); organi sociali di società quotate in Borsa e statali dovranno essere composti per almeno un quinto dal genere sotto rappresentato. Il testo prevede vari passaggi da compiersi entro il 2022, quando il testo esaurirà la propria efficacia di applicazione. L’auspicio delle due parlamentari promotrici è di riuscire a creare, nell’arco di un decennio, un contesto più favorevole all’ascesa delle donne ai vertici aziendali, sì che negli anni successivi non si renda più necessario intervenire forzatamente nel riequilibrare le forze in campo. Un’applicazione maggiormente prolungata potrebbe provocare reazioni contrarie allo scopo che la legge si propone di ottenere, creando una <<discriminazione al contrario>>, in contrasto peraltro con le disposizioni generali dell’Unione Europea.

(5)     “[…] Le discriminazioni che rendono ostile l’ambiente secondo un’indagine condotta dai ricercatori dell’Osservatorio della SDA Bocconi, attraverso la compilazione di un questionario diffuso ai dipendenti di un certo numero di aziende nel 2012: Percorso educativo 50% – Età (essere anziano) 40% – Famiglia professionale   34% – Età (essere giovani) 34% – Orientamento politico   33% – Look 32% – Sesso 31%. Nota: erano possibili risposte multiple. (Fonte: SDA Bocconi). Cercando di capire di più questo fenomeno i ricercatori hanno proseguito con un’indagine di clima e hanno rilevato come la presenza di lavoratori senior generi migliori rapporti interpersonali; in particolare un maggior senso di familiarità, come sentirsi a casa, risiede dietro queste migliori performance […]”. Fonte: SDA Bocconi.

(6)     Bombelli, Finzi (a cura di), 2008, Oltre il collocamento obbligatorio: la gestione della disabilità e della malattia in azienda, Guerini & Associati, Milano; 16 agosto 2013, Anche la malattia invalidante è un handicap: il datore, se può, deve ridurre l’orario di lavoro, www.dirittoegiustizia.it, segnalato da www.LaStampa.it. L’Unione Europea ha lanciato il 15 novembre 2010 la nuova Strategia Europea per la Disabilità 2010-2020 [COM (2010) 636 definitivo, Strategia europea sulla disabilità 2010-2020: un rinnovato impegno per un’Europa senza barriere], con l’intento di integrare la Strategia di Lisbona. Nasce come ideale prosecuzione del precedente Piano di Azione per la Disabilità 2004-2010, il cui monitoraggio ha fatto emergere come le attività e le strategie mirate all’inclusione delle persone con disabilità producano positive ricadute nella vita economica, politica, sociale.

(7)     Querzè R. (7 febbraio 2013), La vecchiaia sul lavoro comincia a 45 anni, La 27ora, www.corriere.it.

(8)      “[…] Ma quali sono i fattori critici di successo per implementare una strategia di diversity management in azienda? – 1) Sponsorship da parte del top management – Le organizzazioni che decidono di avvicinarsi al diversity management devono essere consapevoli che produrranno un cambiamento organizzativo. Tuttavia la tematica non deve essere considerata solo un tema HR, come, ad esempio, un’esigenza di formazione. Alla base ci deve essere un forte coinvolgimento da parte del top management che ponga questo obiettivo come un imperativo strategico per la crescita e la sostenibilità dell’azienda. 2) Collegamento agli obiettivi di performance del management – Come per qualunque obiettivo strategico, al fine di assicurare che alle lodevoli dichiarazioni d’intenti segua un impegno pragmatico, è opportuno collegare il raggiungimento dell’obiettivo alla performance individuale. Il manager sarà dunque valutato non solo, ad esempio, su obiettivi di fatturato, ma anche sulla sua capacità di favorire e valorizzare la diversità all’interno del proprio team.  3) Role models all’interno dell’azienda – Quando si parla di gestione delle diversità, è molto facile creare slogan accattivanti da inserire nelle comunicazioni istituzionali dell’azienda, ma questo può avere un effetto boomerang se gli stakeholders maturano l’impressione che, nei fatti, tali principi vengano disattesi. Applicare quanto si dichiara e proporre dei role models credibili è, nella sua semplicità, vincente. (segue)

(9)     4) Misurare il successo delle iniziative – Stiamo parlando di un processo di cambiamento organizzativo: come qualunque iniziativa di change management l’organizzazione deve porsi degli obiettivi SMART (Specific-Measurable-Achievable-Realistic-Time limited), tenerli monitorati nel tempo, implementare azioni correttive ove necessario. (Es: percentuale di donne nelle nuove assunzioni, percentuale di donne in pipeline per una promozione, tempo medio congedo maternità, retention post-maternità). La gestione e la valorizzazione della diversità nelle organizzazioni diventerà sempre più un punto di attenzione cruciale per le organizzazioni, per raggiungere una serie di obiettivi tra i quali: riflettere le evoluzioni del mercato, attrarre e trattenere gli alti potenziali, aumentare il numero di donne manager, contenere i costi di turnover del personale, creare sinergie in seguito a operazioni di merger & acquisition, aumentare la creatività e l’innovazione, migliorare la gestione degli expatriate. «I lavoratori dipendenti dopo i 45 anni mostrano un’evidente difficoltà. Si sentono inascoltati. E sempre più esclusi. Difficile dar loro torto: le nostre verifiche ci dicono che le carriere si fanno entro i 40 anni. Dopo i 45 anni le imprese smettono di investire sui dipendenti. Stop agli incentivi alla valutazione della persona. Basta programmi di sviluppo dedicato», è la spietata constatazione di Simona Cuomo, a capo dell’osservatorio sul Diversity Management della Sda Bocconi. «Eppure parliamo di persone che rappresentano oltre il 30% degli occupati del nostro Paese, continua Cuomo. Le politiche del lavoro del governo e quelle delle singole aziende dovrebbero tenerne conto. Anche perché si tratta di gente che ha ancora voglia di dare». 5) Perché questa tendenza ha subìto un’accelerazione negli ultimi due-tre anni? – Ha una spiegazione il presidente di Gidp, associazione dei direttori del personale, Paolo Citterio: «La crisi ha contribuito. Prima della riforma delle pensioni targata governo Monti si sono utilizzate dosi massicce di prepensionamenti. Con “scivoli” verso il ritiro. Così i 45enni si sono resi conto in un colpo solo di aver perso il treno della carriera e di avere il fiato sul collo di giovani trentenni valorizzati per la disinvoltura con le tecnologie». Ed eccoci alla seconda motivazione del fenomeno. Le tecnologie, appunto. «Spesso si tratta di un alibi, osserva Enrico Finzi, sociologo e presidente di AstraRicerche. Le nostre indagini constatano ogni giorno come l’utilizzo di Internet stia diventando familiare anche in classi d’età elevate, ben oltre i quarant’anni. La ragione non detta spesso è un’altra. Gli stipendi dei lavoratori maturi sono più pesanti. E le imprese si fanno tentare. Ma quello a cui stiamo assistendo è un fenomeno drammatico e iniquo. Per di più dannoso per il Paese: si sprecano risorse professionali». La situazione delle donne merita una postilla. «Qui la frustrazione è massima – aggiunge il sociologo. Perché spesso si tratta di signore che hanno faticato per guadagnarsi un posto al sole, poi hanno gestito la difficile fase della maternità in azienda. E quando cominciano a sentirsi un po’ più libere perché hanno i figli preadolescenti vengono messe da parte» […]”. Fonte: SDA Bocconi.