Diritto Diritto civile

In nome dell’ordine pubblico – Parte IV. Ordine pubblico, rapporti familiari e culture orientali

Sommario

  1. La poligamia
  2. Il ripudio
  3. La kafalah
  4. Conclusione

 

Introduzione

L’internalizzazione dei rapporti e l’apertura dei confini, supportata da una normazione europea e sovranazionale propensa in tal senso, permettono l’intensificarsi delle relazioni tra ordinamenti giuridici diversi.

L’evoluzione tecnico-scientifica e il mutamento dei costumi, hanno permesso che si generassero nuovi modelli familiari, dai quali scaturiscono diverse situazioni giuridiche degne di tutela e che proprio per tale necessità di diritto, implicano il bilanciamento della normativa interna, in favore della protezione giuridica delle persone particolarmente vulnerabili e dei diritti fondamentali in generale. A fronte di tale esigenza primaria, a carattere universale, vige chiaramente la parallela necessità di assicurare la tutela dei valori costitutivi interni, propri dello Stato e per tale motivo l’ordinamento giuridico si concerne di mezzi idonei in tal senso.

Il principio di ordine pubblico, da clausola limitativa dell’autonomia contrattuale, è evoluto in un assetto normo-ideale di principi fondamentali predisposti a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo. Tale funzione, diviene quasi indispensabile, proprio nell’incontro tra ordinamenti giuridici diversi, cioè, in tutte quelle situazioni giuridiche che presentano elementi di estraneità, o perché non disciplinati nel diritto interno, o perché non conosciuti, o perché non tollerati e quindi vietati, che necessitano di valutazione, al fine di ricevere l’idoneità ad esplicare  effetti anche nell’ordinamento in cui queste entrano in collegamento.

Se da un lato, vi sono situazioni giuridiche che collidono con il sistema ordinamentale interno, perché presentano elementi diversi, rispetto sia alla fattispecie legali e sia al relativo profilo attuativo, dall’altro, si verificano spesso, situazioni giuridiche del tutto sconosciute o completamente contrapposte a quello che è l’assetto valoriale proprio del nostro Stato. Quest’ultime, costituiscono il prodotto dell’interculturalismo che si sviluppa sia all’interno dello Stato, attraverso la convivenza tra uomini appartenenti a culture diverse e sia all’esterno, tramite elementi di collegamento.

  1. La poligamia

Un fenomeno abbastanza incisivo in tal senso è rappresentato dalla vicinanza della cultura islamica alla nostra, una vicinanza che è da intendersi in lato senso, avendo quest’ultima un assetto normo-valoriale nettamente differente a quello del mondo occidentale. Tali differenze comportano problemi di interpretazione e di applicazione normativa, nell’ottica di assicurare la giustizia e la protezione dei diritti fondamentali. Si comincerà con l’analisi del matrimonio poligamico[i].

L’etimo (greco) del temine “poligamia[ii]” rivela il significato di “matrimonio plurimo”, il quale è propriamente diffuso nella cultura islamica e che, già per tale significato, si pone in netto contrasto con l’istituto del matrimonio interno, improntato sulla monogamia. Nel diritto di famiglia islamico, il matrimonio, sia esso poligamico o monogamico, si fonda sul principio della superiorità del marito, il quale esercita diritti sulla persona della moglie e correlativamente, attribuisce alla moglie il diritto ad un corrispettivo (che può essere inquadrato come atto donativo nuziale e/o mantenimento). Inoltre, mentre l’uomo può sposare anche donne non musulmane, purché siano ebree o cristiane, la donna è obbligata a sposare solo uomini musulmani. La forte limitazione della donna nella sua capacità di autodeterminarsi e nella libertà di scelta, collide con il principio dell’uguaglianza dei coniugi e con il principio di non discriminazione in base al sesso e in base a motivi di carattere religioso. Inoltre, il matrimonio poligamico, oltre a costituire fattispecie tipica di reato ex articolo 556 c.p., risulta contrario a quelli che sono i principi interni connaturati all’istituto del matrimonio stesso, che si evincono dal combinato disposto degli articoli 86, 116 e 117 del c.c. Per tali contrasti di diritto, si può, però, affermare che tale tipologia di matrimonio non possa produrre alcun effetto nel nostro ordinamento giuridico?

E’ chiaro che l’istituto del matrimonio si erge su un doppio binario giuridico, l’uno destinato all’atto legale che ne formalizza il vincolo e che sicuramente non può trovare recepimento nel nostro ordinamento, in quanto lesivo del principio di ordine pubblico, l’altro diretto al rapporto che ne costituisce la linfa vitale e la sostanza e che genera diverse situazioni giuridiche, le quali impegnano con le persone a cui si riferiscono i loro diritti fondamentali, che in quanto tali, necessitano di tutela a prescindere dall’atto a monte. Di fronte ad una situazione in cui un minore si venga a trovare privo del rapporto con la propria madre, in quanto il primo risulta residente in Italia con il padre ed una delle sue mogli, mentre la seconda è rimasta nel Paese di origine, la contrarietà dell’atto al principio di ordine pubblico può essere sufficiente a negare il diritto del minore a crescere con il sostegno della propria madre o debba essere garantito al medesimo il diritto di ricongiungimento, sebbene, con le dovute regolazioni? E’ interessante sottolineare, una pronuncia sul punto da parte del Consiglio di Stato. A fronte del disposto emanato tramite circolare dal Ministero di grazia e giustizia, risalente al 1987[iii], in cui si evidenzia il contrasto insanabile fra l’istituto del matrimonio islamico e l’ordinamento dello Stato, da cui deriva la nullità del matrimonio celebrato dal cittadino secondo il rito islamico per contrarietà all’ordine pubblico, l’anno successivo, su richiesta dello stesso Ministero nonché del Ministero degli affari esteri, il Consiglio di Stato si è espresso in senso opposto. Nel parere del 7 giugno 1988[iv], il Consiglio di Stato ha, infatti, affermato che «il diritto islamico collega (al matrimonio) fini di natura ed entità non dissimili da quelli propri del medesimo negozio concluso secondo la legge del nostro ordinamento», sicché il matrimonio celebrato con rito islamico è “in sé” trascrivibile nei registri dello stato civile italiano. Naturalmente l’ufficiale dello stato civile ha il compito di verificare che in concreto non sussistano elementi sostanziali in contrasto con i nostri principi fondamentali: in particolare, occorre verificare lo stato libero di entrambi i nubendi e negare la trascrizione del secondo matrimonio del poligamo. Tale pronuncia segna una prima inversione di marcia da parte del nostro ordinamento che, da una generale ed assoluta chiusura, comincia ad aprirsi nell’ottica di valutare con senso di legalità e giustizia tutti quei rapporti e quelle situazioni giuridiche degne di tutela, se pure connessi ad un sistema normativo diverso e per molti versi, opposto al nostro. Il riordino della normativa relativa al regolamento dei rapporti aventi natura di diritto internazionale privato, ha contribuito ulteriormente a chiarire i limiti della disciplina interna nei confronti del diritto esterno. Le norme di diritto internazionale privato, legge 218/1995, sulla filiazione ed in particolare sul punto l’articolo 33, comma 1, ad esempio stabilisce che: “Lo stato di figlio è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita.”. Seguendo la definizione appena riportata, si può ragionevolmente ritenere che il principio di ordine pubblico non sia in grado di invadere lo status di figlio così come acquisito nell’ordinamento di provenienza, a nulla rilevando la poligamia che dovesse essere pertinente al rapporto a monte. Essendo il soggetto figlio legittimo in base all’ordinamento estero di provenienza, quest’ultimo è titolare di una serie di diritti acquisiti che dipendono dallo status posseduto. Tale norma interna, letta in combinato disposto con l’articolo 3 della Convenzione di New York, che tutela i diritti del fanciullo e che stabilisce: “In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente. Gli Stati parti si impegnano ad assicurare al fanciullo la protezione e le cure necessarie al suo benessere, in considerazione dei diritti e dei doveri dei suoi genitori, dei suoi tutori o di altre persone che hanno la sua responsabilità legale, e a tal fine essi adottano tutti i provvedimenti legislativi e amministrativi appropriati. Gli Stati parti vigilano affinché il funzionamento delle istituzioni, servizi e istituti che hanno la responsabilità dei fanciulli e che provvedono alla loro protezione sia conforme alle norme stabilite dalle Autorità competenti in particolare nell’ambito della sicurezza e della salute e per quanto riguarda il numero e la competenza del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo”, consentono di guidare l’interprete, nel bilanciamento degli interessi nel senso di assicurare la tutela dei diritti fondamentali del figlio e tra questi assume particolare importanza il diritto alla conservazione dello status ed il connesso diritto alla vita privata e familiare, così come disposto dagli articoli 8 CEDU e 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A chiudere ogni dubbio, almeno dal punto di vista legale, sulla necessità di assicurare tutela ai diritti del figlio, l’articolo 29 comma 1 lett. b del testo unico sull’immigrazione del 1998, prevede poi il diritto al ricongiungimento dei «figli minori, anche…nati fuori del matrimonio…a condizione che l’altro genitore…abbia dato il suo consenso e del genitore naturale che dimostri, entro un anno dall’ingresso in Italia, il possesso dei requisiti di disponibilità di alloggio e di reddito». Inoltre, a prescindere dall’impostazione normativa, poc’anzi richiamata, l’istituto interno del matrimonio putativo funge da rimedio giuridico, dal momento che l’eventuale matrimonio poligamico produrrebbe gli stessi effetti di un matrimonio valido esclusivamente a garanzia della tutela dei diritti dei figli, ex articolo 128 del c.c., chiarendo che il requisito della buona fede, imprescindibile alla dichiarazione di efficacia, è palesemente rispettato poiché individuato nella legge nazionale dei nubendi. Ma tali precisazioni normative non sono ancora risolutive. L’excursus giurisprudenziale, sia interno che sovranazionale, dimostra come l’argomento abbia destato visioni opposte da cui poi sono dipese le relative decisioni. A dimostrazione di quanto appena esposto, può essere utile ricordare una decisione[v] della Commissione europea dei diritti dell’uomo risalente al 1992 e relativa alla richiesta di permesso di soggiorno in Olanda, avanzata dal figlio della prima moglie di un marocchino regolarmente residente in codesto Stato con la seconda moglie marocchina da lui ivi sposata. Le autorità olandesi avevano negato il permesso, precisando di intendere il diritto al ricongiungimento familiare limitato ad una sola moglie e ai figli. Padre e figlio ricorrono allora a Strasburgo, lamentando una violazione del diritto al rispetto della loro vita familiare ai sensi dell’art. 8 CEDU. La Commissione riconosce la sussistenza di un’ingerenza nella vita familiare dei ricorrenti, ma rimarca la legittimità di detta ingerenza, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 8. Infatti, dal momento che «les mariages polygames sont contraires a`lale´ gislation ne´ erlandaise… l’ingè rence en question è tait «prevue par la loi». Nel versante interno, una delle primissime pronunce sul tema è una sentenza del TAR Emilia-Romagna del 1994[vi] che dichiarò inammissibile la richiesta di ricongiungimento familiare per due donne al marito comune, poichè la legge personale dello straniero era contraria all’ordine pubblico e al buon costume. In quella vicenda, il Tribunale negò il ricongiungimento di un cittadino marocchino a due mogli, che nel frattempo regolarizzavano comunque il loro soggiorno a titolo diverso, usufruendo di una sanatoria. Sulla riconoscibilità degli effetti al diritto islamico, sebbene, non affronti in modo diretto il problema del ricongiungimento familiare, si esprime la Corte di Cassazione con sentenza 2 marzo 1999, n. 1739[vii]con la quale ha stabilito che il matrimonio contratto da cittadino in Somalia, secondo la legge del luogo (applicazione della legge islamica), se pur prevede istituti contrari al nostro ordine pubblico, quali la poligamia ed il ripudio, è da ritenersi idoneo alla produzione di certi effetti, nella specie si tratta di effetti giuridici a fini ereditari, almeno fino a quando non venga pronunciata una sentenza definitiva e dichiarativa della nullità dello stesso. In senso favorevole alla tutela dei diritti fondamentali del minore e quindi di conseguenza, anche verso il rapporto genitoriale, si esprime la Corte d’Appello di Torino.  Il caso riguardava un cittadino marocchino residente in Italia con due mogli, e i rispettivi due figli. L’istanza presentata dall’uomo di autorizzare la seconda moglie a restare in Italia viene respinta dal Tribunale per i minorenni di Torino: ammettere il diritto al ricongiungimento familiare in base all’art. 29 del testo unico comporterebbe infatti, in questo caso, il riconoscimento di una situazione di poligamia, contraria ai principi dell’ordinamento italiano. Contro il decreto, marito e moglie propongono ricorso, che viene accolto dalla Corte d’Appello di Torino (decreto 18 aprile 2001)[viii], in base alla previsione dell’art. 31 comma 3 del testo unico, per cui, «per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, (si) può autorizzare…la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del…testo unico». Certo tale autorizzazione convaliderebbe una situazione poligamica se concessa ai sensi dell’art. 29 «per consentire ad un coniuge di ricongiungersi all’altro coniuge in una situazione di famiglia poligamica; ma nel caso di specie l’autorizzazione viene concessa nell’interesse del figlio minore, per garantirgli la vicinanza del genitore, indipendentemente dal fatto che questo sia o meno sposato con l’altro genitore del figlio, e che sia sposato in regime monogamico o poligamico». L’ autorizzazione è, quindi, finalizzata a tutelare non una relazione coniugale, in ipotesi, contraria ai principi del nostro ordinamento ma, a realizzare il diritto di un minore “a…non essere…separato dal genitore”. E’ in gioco insomma l’interesse superiore del fanciullo, richiamato dallo stesso testo unico (art. 28 comma 3) e dalla convenzione sui diritti del fanciullo (art. 3). La seconda moglie viene così autorizzata a permanere in Italia ancora per un anno. Nello stesso anno, con propria circolare, il Ministero dell’interno sancisce la trascrivibilità del (solo) «primo matrimonio celebrato secondo il rito islamico tra un cittadino italiano e un cittadino di religione islamica»[ix]. Nel 2005, la Corte di Cassazione è lungimirante sul tema[x]. Una donna marocchina regolarmente soggiornante in Italia ottiene il nulla osta al ricongiungimento del secondo marito e dei figli nati dal primo matrimonio sciolto con atto di ripudio: l’Ambasciata italiana in Marocco tuttavia nega il visto di ingresso dei figli, posto che questi erano stati affidati alla tutela del padre. La donna presenta ricorso al Tribunale di Perugia, che, previo accertamento del fatto, al mantenimento dei bambini provvedeva «a distanza» la madre, accoglie il ricorso in base all’art. 29 comma 1 lett. b del testo unico (che, prima delle modifiche apportare dal d.lgs. n. 5 del 2007, prevedeva il ricongiungimento dei soli figli minori «a carico» del richiedente). I Ministeri dell’interno e degli affari esteri propongono reclamo alla Corte d’Appello di Perugia, invocando il difetto di rappresentanza legale in capo alla donna: secondo la legge marocchina – applicabile ai rapporti tra genitori e figli in base all’art. 36 della legge n. 218/1995 – la rappresentanza infatti spetta in via esclusiva al padre. La Corte rileva la contrarietà all’ordine pubblico di tale normativa, perchè discriminatoria nei confronti della madre, e dichiara applicabile la legge italiana ex art. 16 comma 2 della stessa legge n. 218/1995: di fatto la Corte invoca la convenzione sui diritti del fanciullo e conclude che risponde all’interesse dei minori ricongiungersi alla madre, anzichè restare affidati in Marocco ad una zia nel disinteresse del padre. I Ministeri propongono ricorso per cassazione. La Cassazione conferma il giudizio di secondo grado, ritenendo decisivo il fatto che, l’unico genitore desideroso di convivere con i figli e mantenerli è la madre, come del resto testimonia il consenso all’espatrio dei bambini prestato dal padre. Quanto alla titolarità della potestà genitoriale, la Cassazione fa leva sulla distinzione tra titolarità della potestà ed esercizio della potestà, e sulla possibilità – prevista nell’ordinamento marocchino – che il padre deleghi l’esercizio concreto della potestà di cui è titolare alla madre, che quindi è ammessa a convivere con i figli. In senso conforme a tale pronuncia interna, con Risoluzione del 2006, il Parlamento europeo richiama gli Stati membri “a garantire l’illegalità della poligamia”. Nel 2007 è il Tribunale di Milano a ritrovarsi in un caso simile. Con sentenza 2 febbraio 2007[xi],  ha annullato il provvedimento con cui l’Ambasciata italiana in Pakistan ha negato il visto di ingresso in Italia, alla donna sposata per telefono da un connazionale residente in Italia. Essendo validamente celebrato per la legge pakistana (legge nazionale comune dei coniugi e – aggiunge il Tribunale – legge del luogo di celebrazione), il matrimonio è stato infatti giudicato formalmente valido e dunque titolo per il ricongiungimento familiare relativo al ricongiungimento della seconda moglie di un pakistano. La particolarità del caso è duplice: non solo infatti si tratta di matrimonio poligamico, ma il secondo matrimonio era stato celebrato telefonicamente. A fronte del rifiuto, da parte dell’Ambasciata italiana di Islamabad, del visto di ingresso della donna in Italia, si apre una vicenda giudiziaria che termina davanti alla Corte milanese, secondo la quale «l’esigenza di consentire il ricongiungimento di coniugi stranieri in Italia non può prescindere dall’accertata sussistenza di un vincolo che, al di là della sua certificazione per via documentale, riveste le connotazioni di un’unione matrimoniale stabile ed in concreto contraddistinta da reciproca solidarietà affettiva e materiale». Quanto alla validità del matrimonio, sia dal punto di vista formale – celebrazione telefonica – sia dal punto di vista sostanziale – mancato consenso della prima moglie alle seconde nozze del marito – i giudici milanesi non si pronunciano «dovendo la questione essere altrove ed altrimenti esaminata». Il Tribunale di Roma ha ritenuto opportuno investire del problema la Corte Costituzionale. In riferimento all’art. 2 Cost., è stato chiesto alla Corte di dichiarare illegittimo l’art. 116 cod. civ. nella parte in cui impone allo straniero la presentazione del nulla osta da parte dell’autorità del proprio Paese, ovvero – in subordine – nella parte in cui non prevede che, in assenza di nulla osta, lo straniero possa presentare all’ufficiale dello stato civile documentazione idonea ad attestare la mancanza di impedimenti al matrimonio, secondo la propria legge nazionale. Con ordinanza n. 14 del 30 gennaio 2003[xii] la Corte respinge il dubbio di incostituzionalità in ragione dell’interpretazione data all’art. 116 cod. civ. dal Tribunale di Roma e più precisamente, in ragione del fatto che il Tribunale «considera isolatamente la norma impugnata, senza inquadrarla nel sistema, in particolare senza riferirsi al contesto normativo in cui l’applicazione della legge straniera è esclusa ove i suoi effetti siano contrari all’ordine pubblico». In sostanza, la Corte rimette all’ufficiale dello stato civile l’incombenza di applicare l’art. 116 cod. civ., alla luce delle norme di diritto internazionale privato contenute nella legge n. 218 del 1995: ne consegue, tra l’altro, che laddove l’applicazione della legge straniera produca nel caso concreto effetti contrari ai principi fondamentali del nostro ordinamento, l’ufficiale dello stato civile avrebbe l’obbligo di far scattare il limite dell’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 218. Un recente provvedimento della Corte di Cassazione (Ordinanza 28 febbraio 2013, n. 4984)[xiii] delinea in maniera precisa i termini in cui è possibile assicurare certi effetti prodotti da un matrimonio poligamico, lo fa rimanendo ancorata al dettato normativo interno. Con tale pronuncia, la Corte esclude la possibilità di ricongiungimento familiare del figlio con la madre, se il matrimonio di quest’ultima è poligamico ed il marito risulta convivente in Italia con altra moglie. Come anticipato, tale pronuncia si fonda su quanto è stabilito nel testo unico dell’immigrazione dall’art. 29, così come riformato dall’articolo 1, comma 22, lettera s, della legge 15 luglio 2009, n. 94, “non è consentito il ricongiungimento dei familiari di cui alle lettere a) e d) del comma 1, quando il familiare di cui si chiede il ricongiungimento è coniugato con un cittadino straniero regolarmente soggiornante con altro coniuge nel territorio nazionale“, ma la particolarità del caso sottoposto all’esame della Corte di Cassazione, è rappresentata dal fatto che il ricongiungimento fu richiesto dal figlio. Nella specie, un cittadino marocchino chiedeva il ricongiungimento con la madre, in quanto priva di mezzi di sostentamento e di altri figli nel paese d’origine. Quest’ultima, tuttavia, risultava già sposata con il padre del richiedente sebbene, separata del marito soggiornante in Italia, il quale aveva a sua volta richiesto (e ottenuto) il ricongiungimento familiare in favore di un’altra moglie. A causa della situazione di poligamia, vietata nel nostro ordinamento, che si sarebbe determinata con l’ingresso e il soggiorno nel nostro paese della madre del ricorrente, il Consolato Generale di Casablanca aveva negato il visto. Il cittadino marocchino proponeva allora una azione giudiziaria per ottenere il ricongiungimento con la madre, ottenendolo in primo e secondo grado di giudizio. Secondo la Corte d’Appello di Venezia, infatti, sebbene l’art. 29 espressamente vieti il ricongiungimento del coniuge poligamico se è già presente in Italia altro coniuge, non era questo il caso, poiché nel caso di specie la domanda era formulata dal figlio.
Il Ministero degli Esteri ricorreva in Cassazione evidenziando che: “il divieto introdotto nella norma, peraltro preesistente, in via sistematica nell’ordinamento interno, opera oggettivamente ogni qual volta possa verificarsi una situazione di poligamia, contrastante con il diritto familiare italiano. Risulta, conseguentemente, irrilevante che a formulare la domanda sia stato il figlio e non il coniuge, già soggiornante in Italia con altra moglie”. La Corte di Cassazione ha dato ragione al Ministero ritenendo che l’art. 29 comma primo ter d.lgs. 286 del 1998 “stabilisce un divieto, che opera oggettivamente nei confronti delle richieste di ricongiungimento familiare proposte in favore del coniuge di un cittadino straniero già regolarmente soggiornante con altro coniuge in Italia, non distinguendo soggettivamente la provenienza della domanda, e al contrario mirando ad evitare l’insorgenza nel nostro ordinamento di una condizione di poligamia, contraria al nostro ordine pubblico anche costituzionale; […] il divieto di poligamia non è condizionato da condizioni di fatto quali la coabitazione o la vivenza a carico, ma opera in sé e perdura fino alla cessazione legale di uno dei vincoli coniugali“. Sul punto può anzitutto ricordarsi la comunicazione della  Commissione al Parlamento e al Consiglio del 2 luglio 2009, recante la Guida ad una migliore trasposizione e applicazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente all’interno del territorio degli Stati membri, la quale espressamente afferma che «gli Stati membri non sono tenuti a riconoscere i matrimoni poligami, contratti legalmente in un paese terzo, che possono essere in contrasto con il loro ordinamento giuridico interno». Resta peraltro impregiudicato, secondo il medesimo documento, «l’obbligo di tenere conto dell’interesse superiore dei figli nati da tali matrimoni».

In conclusione, sul punto appena affrontato, si può affermare che a fronte di una norma straniera espressiva di valori contrastanti, non invero con i principi propri al nostro ordinamento interno, ma contrari ai valori comuni posti alla base della tutela giuridica relativa ai diritti fondamentali, il principio di ordine pubblico deve necessariamente trovare mitezza negli effetti e convogliare nella garanzia di giustizia, a seconda della situazione giuridica del caso concreto e delle posizioni giuridiche rilevanti nel contesto storico-normativo. Seguono lo stesso iter procedimentale, le risoluzioni dei casi in cui rilevano, giuridicamente, istituti normo-confliggenti come il ripudio e la kafala.

  1. Il ripudio

Nei paesi di diritto islamico il matrimonio (anche non poligamico) si può sciogliere o per annullamento davanti a un ministro di culto a causa di gravi motivi o per mutuo consenso ovvero per ripudio unilaterale (talaq) da parte del marito. Il ripudio[xiv] (talaq o talalq) quindi è una particolare forma di scioglimento del matrimonio, che si sostanzia in una dichiarazione unilaterale. Infatti, acquisisce effetto giuridico con la semplice pronuncia da parte del marito nei confronti della moglie di una formula rituale, la quale deve contenere espressamente il termine talaq o equivalenti, manifestando, in tal modo, l’inequivocabile intenzione di porre fine all’autorità maritale sulla sposa. Secondo il diritto islamico, il ripudio può essere revocabile (raj’a) e irrevocabile (bid’a). Prima dello scadere del periodo di tre mesi, che costituisce il termine legale che la donna è tenuta ad osservare prima di potersi risposare, il marito ha la facoltà di ritrattare il ripudio pronunciato e riprendere la vita in comune. Trascorsi i tre mesi, senza la ritrattazione o senza la pronuncia di un nuovo ripudio revocabile, il matrimonio si considera sciolto. Il talaq può essere anche ripetuto nelle stesse formule del primo, ma non più di tre volte, comportando, in tal senso, lo scioglimento immediato e definitivo del matrimonio. E’ abbastanza chiaro, come un simile istituto vada a collidere con la normativa generalmente riconosciuta in materia. Proprio sulla base di tale normativa, il Comitato per i diritti umani (Human Rights Committee) delle Nazioni Unite, ha osservato che gli Stati devono assicurare a uomini e donne uguali condizioni per ottenere la dissoluzione del vincolo coniugale[xv]. Senza dubbi interpretativi sulla questione è desumibile che il divorzio (ripudio) unilaterale del marito, contravviene alle norme di diritto internazionale in materia di diritti umani, poiché pone la donna in una posizione di soccombenza, nei confronti della volontà del marito. Tale disuguaglianza, si pensa essere il motivo per cui, nell’ambito di alcuni ordinamenti appartenenti all’area islamica, al nomen iuris ripudio si sia andato nel tempo associando un istituto, in effetti, molto simile al divorzio, consistente in un vero e proprio rimedio avverso il definitivo venir meno dell’armonia familiare, attuato per mezzo di una procedura giurisdizionale, nel cui ambito la moglie ha l’opportunità di difendersi e svolgere le proprie domande. Inoltre, in alcuni ordinamenti di ispirazione musulmana, poi, lo stesso ripudio è stato abbandonato. Ad esempio, l’art. 30 dello Statuto Personale (codice di famiglie) della Tunisia (1956) proibisce il talaq del marito, in quanto dissoluzione unilaterale ed extra-giudiziale. Altri ordinamenti (ad esempio, Marocco, Siria, Algeria, Iran) hanno cercato di limitare i casi di talaq, stabilendo per legge un compenso pecuniario dovuto alla moglie ripudiata. Altri ordinamenti ad ispirazione islamica hanno espressamente stabilito la validità dei soli divorzi registrati in tribunale (Algeria, Libia, Palestina). Significativa al riguardo l’evoluzione del diritto marocchino, specie alla luce della riforma del 2004. L’evoluzione storica e sociologica mostra il passaggio dalla forma di ripudio stragiudiziale concessa al solo marito (talaq) e dalla forma di divorzio per colpa (del marito) concessa alla sola moglie (tatliq), al nuovo istituto del divorzio giudiziale per intollerabilità della convivenza (chiqaq), introdotto nel 2004[xvi]. Certamente, tali evoluzioni normative contribuiscono a ridimensionare il divario, nella tutela dei diritti fondamentali, tra determinati Paesi orientali rispetto ai Paesi occidentali, ma non eliminano le problematiche normo-giuridiche che si presentano ogni volta che un determinato ordinamento entra in rapporto ad un altro che persegue fini e si avvale di fondamenti normo-valoriali diversi e talvolta contrastanti rispetto al primo. A tamponare questo tipo di situazioni, da una parte interviene il ruolo interpretativo del giudice, dall’altra, il complesso delle norme rilevanti nel caso di specie e con esse, il raffronto tra istituti posti a tutela della legge e dei diritti umani. In via generale, possono ritenersi contrari all’ordine pubblico italiano, i divorzi consensuali realizzati dinanzi ad autorità non giurisdizionali (adoul), mentre è sicuramente conforme alle nostre regole la procedura in base alla citata riforma marocchina del 2004 (divorzio c.d. chiqaq). A proposito dell’Italia, in materia di ripudio occorre riferirsi alla Legge del 1995 di riforma del sistema di diritto internazionale privato. In particolare, l’art. 31 della legge n. 218/1995 utilizza, in ordine allo scioglimento del matrimonio, gli stessi criteri di collegamento utilizzati in ordine ai rapporti personali tra i coniugi, ovvero lo scioglimento è sottoposto alla legge nazionale dei coniugi se è comune; altrimenti alla legge dello Stato di prevalente localizzazione della vita matrimoniale. Qualora, pertanto, si tratti di un musulmano straniero e di una italiana, il diritto musulmano assumerà rilievo solo nel caso che i coniugi abbiano prevalentemente condotto la loro vita coniugale in uno Stato islamico. Le norme islamiche sono invece in principio sempre competenti qualora, si tratti di coniugi musulmani aventi la stessa cittadinanza. In entrambe le eventualità si pone il problema degli effetti del ripudio per il nostro ordinamento giuridico, soprattutto in questa ultima ipotesi in cui si pone l’ulteriore dubbio interpretativo sul considerare se e come esso possa compiersi in territorio italiano. In Italia infatti lo scioglimento del matrimonio può avvenire soltanto attraverso l’intervento del giudice, di conseguenza il limite dell’ordine pubblico non solo preclude che si tenga conto di un ripudio effettuato, per esempio davanti alla guida religiosa (islamica), ma impedisce anche al giudice di fondare una decisione di divorzio sulla sola richiesta unilaterale del marito che contenga o configuri un atto di ripudio. Solo di fronte ad una domanda di scioglimento bilaterale sarebbe consentito al giudice italiano di pronunciare il divorzio sulla base della legge dello Stato non islamico nel quale la vita matrimoniale era prevalentemente localizzata o del diritto italiano. La norma islamica potrà essere applicata unicamente laddove configuri il ripudio come fondamento consensuale che sfoci in un atto giudiziale.

Per tali motivi, la giurisprudenza italiana fino a poco tempo fa si era sempre rifiutata, in nome dell’ordine pubblico, di riconoscere il ripudio effettuato all’estero, a causa della sua unilateralità e del mancato intervento di organi giurisdizionali e della discriminazione ai danni della donna. Sotto quest’ultimo profilo, si può richiamare l’art. 5 del protocollo n. 7 addizionale alla convenzione europea sui diritti dell’uomo, secondo cui i «coniugi godono di uguaglianza di diritti e di responsabilità di carattere civile tra loro e nelle relazioni con i loro figli in merito al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento». Analoga norma è contenuta nell’International Covenant on Civil and Political Rights, approvato dall’O.N.U. nel 1966, il cui art. 23.4 stabilisce che «States Parties to the present Covenant shall take appropriate steps to ensure equality of rights and responsibilities of spouses as to marriage, during marriage and at its dissolution»[xvii]. Riconoscere l’istituto del ripudio, nella sua accezione principale (dichiarazione unilaterale del marito) comporterebbe ammettere non solo un istituto contrario ai principi interni, ma allo stesso tempo una serie di violazioni normative avente rango internazionale. L’indissolubilità del matrimonio, sebbene non sia più vigente, conferisce all’intervento del giudice il ruolo di temperare le parti e di regolare lo svolgimento della procedura, in modo tale da assicurare la ponderatezza delle volontà e la giustizia nei rapporti normo-fattuali.

A fronte del principio appena espresso e riguardante l’attività del giudice nell’atto di fare giustizia, ci si deve domandare se la contrarietà del ripudio all’ordine pubblico, possa intendersi come assenza di riconoscimento o come ponderatezza degli effetti giuridici prodotti, in base al caso concreto esaminato. In sostanza, ci si deve chiedere se la condizione giuridica di un soggetto, debba essere negata o notevolmente limitata, sulla base di un contrasto tra istituti normativi diversi e contrapposti. Se al centro della tutela vi sono i diritti fondamentali, di conseguenza l’ordine pubblico deve intendersi nell’ottica di realizzare tale tutela e quindi essere ricondotto alla nozione di ordine pubblico attenuato, così come delineato dalla cultura giuridica francese. Appurato ciò, risulta del tutto inaccettabile l’esito di una pronunzia come quella del Tribunale di Milano[xviii] che, nel 21 settembre del 1967, ha rigettato la richiesta di riconoscimento dello stato libero, in conseguenza di un ripudio intervenuto secondo la legge iraniana, benché fosse stata presentata dalla stessa moglie ripudiata. Negare gli effetti giuridici sulla base della sola contrarietà dell’istituto del ripudio al principio di ordine pubblico vuol dire, infatti, negare la tutela dei diritti della donna.

La giurisprudenza italiana, in merito, si assesta su una posizione rigida. Nel 1948 la Corte d’Appello di Roma[xix], richiesta di riconoscere effetti in Italia a un atto di ripudio intervenuto in Siria tra due siriani, concludeva che il ripudio «ripugna alla mentalità morale e giuridica dei popoli che hanno raggiunto un maggior grado di civiltà e che del matrimonio hanno un concetto etico e sociale ben più elevato di quello che ne hanno i popoli orientali». Nel 1969 la Cassazione ha valutato il ripudio di un iraniano verso la moglie italiana[xx], come contrario all’ordine pubblico e al buon costume, in quanto discriminatorio per la donna, mentre i giudici di merito hanno censurato l’assenza di organi giurisdizionali nella procedura e la unilateralità della dichiarazione, ritenendo contrario all’ordine pubblico internazionale “l’art. 1133 del codice civile iraniano il quale, consentendo al marito di divorziare secondo il suo arbitrio senza che la moglie possa paralizzare la volontà di quest’ultimo, prevede un vero e proprio ripudio unilaterale”. Più di recente, la Corte di Appello di Torino[xxi] ha dichiarato intrascrivibile, disponendone la cancellazione dai registri anagrafici dello stato civile, la “dichiarazione di accertamento dell’irrevocabilità del ripudio” emessa dal Tribunale di Khouribga (Marocco), poiché tra le alte cause, non considera i doveri assistenziali verso il coniuge e verso la prole. Per la Corte torinese la pronuncia di ripudio-divorzio emessa su istanza di un cittadino italiano ivi residente, ma nato in Marocco, contro la moglie parimenti marocchina per nascita, ma cittadina e residente in Italia, non viola in tal caso l’ordine pubblico internazionale bensì quello interno  “a cagione della sua unilateralità e potestatività mera”; poiché “contrasta con i principi di parità ed uguaglianza tra uomo e donna …e di non discriminazione per sesso”; “mancando di disposizioni a protezione della prole minore contrasta insanabilmente con il  principio dell’art. 30, comma 2 Cost., in base a quale è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, ed infine, “sottraendo l’uomo a  qualsiasi dovere verso la donna, prescinde dalla necessità di regolare i rapporti economici tra i coniugi, violando i principi di solidarietà familiare desumibili dall’art. 29 Cost. e dalle disposizioni civilistiche in tema di mantenimento e  alimenti”. Come l’Italia anche il Regno Unito si è mostrato indisponibile ad un riconoscimento del talaq. Fin dal 1973, il Domicile and matrimonial Proceedings Act ha espressamente previsto che “no extra-judicial divorce shall be recognized in English law”, tuttavia la shari’a ha trovato in Inghilterra ampi canali non ufficiali di applicazione. Come già rilevato, si è infatti formata e consolidata nel tempo una giustizia arbitrale che fa capo all’Islamic Shari’a Council (ISC), il quale dal 1982 esercita funzioni conciliative su vari aspetti della legge familiare islamica. Le decisioni così adottate non hanno ovviamente esecutività nel sistema legale del Regno Unito, tuttavia esse “are generally honoured and implemented trough a mix of sanction and ostracism[xxii]. Alla ricezione, se pure non formale, di tale istituto nell’ordinamento inglese, si deve associare la tendenza, da parte di molti Paesi europei, ad ammettere nel proprio ordinamento, forme di divorzio consensuale stragiudiziale e contemporaneamente la centralità della volontà espressa anche nell’ambito dei procedimenti giudiziali. Diviene, quindi, difficile continuare a sostenere che il divorzio privato sia in quanto tale, sempre incompatibile con l’ordine pubblico, è necessario invece ponderare le varie situazioni giuridiche. Su tale scia, si allinea il provvedimento della Corte d’appello di Cagliari del 16 maggio 2008[xxiii], secondo cui è efficace nell’ordinamento italiano e deve essere trascritto nel registro dello stato civile il provvedimento di divorzio ottenuto in Egitto attraverso la procedura del talaq (ripudio), pur in assenza della moglie. Tale procedura non sarebbe contraria all’ordine pubblico, né violerebbe il diritto del contraddittorio, in quanto in essa sarebbe stata salvaguardata la possibilità della moglie di intervenire (la mera possibilità, si badi, non già la presenza). Significativo il fatto che, sul punto relativo all’ordine pubblico in relazione al principio d’uguaglianza la Corte abbia motivato come segue: «Peraltro è utile ricordare che nel diritto civile egiziano la moglie ha un uguale diritto (unilaterale) di sciogliersi dal vincolo matrimoniale anche in mancanza del consenso del marito, secondo la procedura del cd. khola, per cui non vi sarebbe violazione neppure del principio di uguaglianza tra i generi». A sostegno della graduale apertura verso procedure di divorzio degiurisdizionalizzati, possiamo fare riferimento alla pronuncia della Corte di giustizia UE, 20 dicembre 2017, C-372/16, S. Sahyouni c. R. Mamisch[xxiv], secondo la quale: “l’articolo 1 del regolamento (UE) n. 1259 del 2010 del Consiglio, del 20 dicembre 2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale va interpretato nel senso che il divorzio risultante da una dichiarazione unilaterale di uno dei coniugi dinanzi a un tribunale religioso, come quello oggetto del procedimento principale, non ricade nella sfera di applicazione ratione materiae di detto regolamento[xxv].

  1. La kafalah

Il diritto islamico, nell’ambito dell’assetto normativo dedicato alla filiazione, si dimostra ancora una volta lontano da quelli che sono i principali istituti riconosciuti dagli Stati occidentali. Esso infatti conosce un unico tipo, la filiazione legittima e si conforma alla leggi coraniche che fanno espresso divieto di ricorrere all’adozione, dal momento che quest’ultima crea legami parentali fittizi. Infatti, la concentrazione del sistema islamico sulla sola filiazione legittima, si giustifica nell’ottica della tradizione islamica, la quale si fonda sull’importanza di assicurare il legame di sangue tra genitori e figli, declassando in tal modo ogni altro tipo di legame. La kafalah[xxvi], istituto dedicato alla protezione dei minori in stato di necessità, attraverso il quale un kafil (o meglio, di solito, una coppia di kafil) si assume l’obbligo (alla presenza di un giudice o di un notaio) di provvedere alle cure del minore (makful) fino al raggiungimento della sua maggiore età, non raffigura alcun tipo di legame tra i soggetti poc’anzi menzionati. La kafalah, non costituendo alcun rapporto di filiazione, non interrompe il legame giuridico del minore con la famiglia d’origine e perciò stesso, non comporta in capo a quest’ultimo, un cambiamento di status personale. Tale istituto acquisisce rilievo giuridico-interpretativo, quando si debba valutarne la qualificazione, al fine di regolarne gli effetti, nei casi in cui tale azione è necessaria nell’ottica di assicurare tutela giuridica al minore coinvolto. Una situazione diffusa è sicuramente quella in cui si tratta di ricongiungimento familiare. E’ bene precisare che, in materia di immigrazione, gli Stati godono tuttora di ampia libertà e soprattutto non hanno l’obbligo giuridico di garantire sempre e comunque il ricongiungimento familiare, essendo quest’ultima riservata al margine di apprezzamento statale, così come affermato dalla Corte EDU nei casi rilevanti in materia, Harroudj c. France nel 2012 e Chibhi Loudoudi et Autres c. Belgio nel 2014[xxvii]. La questione si rende più complicata, quando in contrapposizione a tale libertà (margine di apprezzamento statale e tutela dell’ordine pubblico), vi siano coinvolti diritti fondamentali, specialmente quelli ricollegati alla tutela del minore. La domanda sul punto è retorica e lo è anche la risposta. Il fatto di trovarsi di fronte ad un istituto straniero non conosciuto e contrario al proprio assetto normo-valoriale, è sufficiente a negare la produzione in toto degli effetti ad esso ricollegati?

In materia di ricongiungimento familiare, l’art. 29 del T.U. sull’immigrazione, equipara i figli adottati, affidati o sottoposti a tutela, ai figli naturali o legittimi. Tale disposizione obbliga i giudici italiani a valutare in concreto la singola situazione giuridica, nell’ottica di categorizzare l’istituto estraneo, poiché è fuori di ogni dubbio la consapevolezza che il fatto vada in qualche modo riconosciuto, onde assicurare la tutela del minore coinvolto. Si deve considerare che la kafala è contemplata dalla Conv.di N.Y. del 1989 sui dir. del fanciullo (art. 20, III) e, da ultimo è stata ricompresa fra le misure di protezione previste dalla Conv. Aja 1996 (art. 3, lett. e). Si deve, quindi, procedere in tal senso, attraverso un’interpretazione sostanzialistica, capace di andare oltre al nomen juris e di ricercare analogie tra l’istituto straniero e le misure previste dal nostro ordinamento giuridico. Sul punto appena esposto, si è pronunciato il Tribunale di Biella nel 2007, il quale ha affermato che “ai fini del T.U. sull’immigrazione, i concetti di adozione, affidamento e sottoposizione del minore a tutela, esigono di essere intesi alla stregua di strumenti atti a permettere che istituti di diritto straniero, ancorché diversi da quelli nazionali, possano, comunque, venire in rilievo nel nostro Paese, purchè produttivi di effetti omologhi agli effetti prodotti da quelli di quest’ultimo”, e ciò soprattutto “in considerazione del superiore interesse del minore all’unità familiare[xxviii]”. Sulla tematica è intervenuta anche la Corte di Cassazione, che con le sentenze n. 7472/2008, n. 18174/2008 e n. 19374/2008[xxix], ha concesso il rilascio del permesso di soggiorno al fine di assicurare il ricongiungimento familiare, attribuendo all’istituto della kafalah valore giuridico, perché idoneo a tutelare la posizione del minore. Nella sua valutazione, la Corte, nel bilanciamento dei valori contrapposti nel caso concreto, ha dato rilevanza alla protezione del minore, affermando che “il rifiuto a priori del visto vorrebbe dire «penalizzare tutti i minori, di paesi arabi, illegittimi, orfani o comunque in stato di abbandono, per i quali la kafalah è l’unico istituto di protezione previsto dagli ordinamenti islamici». La differenza sostanziale tra le pronunce poc’anzi richiamate risiede nella nazionalità dei soggetti coinvolti. Se, infatti, nella medesima situazione vi si trovi un cittadino italiano, l’orientamento della Corte resterà immutato o subirà un cambiamento? Le contraddizioni sul punto non mancano a presentarsi. Da una prima posizione di rifiuto[xxx], fondata sulla non applicabilità ai cittadini italiani dell’art. 29, essendo quest’ultimo dedicato specificamente a beneficio del cittadino extracomunitario (con il solo limite della regolarità del soggiorno), stabilendo, per quest’ultime, l’applicazione della diversa disciplina di cui al D.lgs. 30/2007 in materia di ingresso, circolazione e soggiorno dei cittadini dell’UE e dei loro familiari (da intendersi come discendenti diretti ovvero adottati anche ai sensi dell’adozione internazionale), si è spostata verso un orientamento positivo[xxxi] determinando la validità del nulla osta all’ingresso del minore straniero in kafalah per ricongiungimento a italiano (convivente o che debba assistere il minore) sulla base dell’interpretazione estensiva, analogamente per quanto avviene nell’applicazione dell’articolo 29, della nozione di “altri familiari” di cui all’art. 3, II, lett. a D.lgs. n. 30/2007, al fine di garantire una duplice ratio antidiscriminatoria: la tutela dei minori cittadini stranieri da paesi che disconoscono l’adozione (rispetto ai minori italiani); la tutela dei cittadini italiani rispetto ai cittadini stranieri ai quali il ricongiungimento con minori affidati in kafalah è da sempre consentito, ma non può mai essere riconosciuta come adozione legittimante[xxxii].  Sull’ultimo punto, la giurisprudenza si è dimostrata abbastanza incerta. Infatti, mentre per la Corte di Appello di Bari, la kafalah può essere equiparata ad un affidamento, in quanto provvedimento straniero di volontaria giurisdizione in materia di diritto di famiglia e delle persone, che ha efficacia ex lege nel nostro ordinamento in forza dell’art. 66 della l. n. 218 del 1995[xxxiii], per il Tribunale dei minori di Trento, la kafalah non è in alcun modo equiparabile né all’adozione legittimante, né all’affidamento a questa preordinato, concludendo, per tale ragione, che “non può essere dichiarato efficace in Italia un provvedimento marocchino che ai sensi e per gli effetti dell’istituto della Kafalah, abbia disposto l’affidamento ad una coppia di coniugi italiani di un minore marocchino abitante con gli affidatari, in territorio italiano.” Appare, infatti, “evidente l’impossibilità di pronunciare l’efficacia di un provvedimento che non ha corrispondente nel diritto nazionale[xxxiv]”. E’ doveroso precisare che il Tribunale di Trento, nel negare la ricezione dell’istituto islamico su detto, ha provveduto ad individuare una forma di tutela diversa nei confronti del minore e specificamente ha ritenuto idoneo a tale fine, l’istituto delle adozioni in casi particolari, disciplinato dall’articolo 44 ex legge 184/1983, rispettando in tal modo, il disposto dell’art 20 della Convenzione ONU sui diritti del bambino, il quale stabilisce che il minore temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare ha diritto a una protezione sostitutiva da parte degli Stati contraenti. E’ dello stesso avviso il Tribunale di Torino, il quale ha decretato[xxxv] lo stato di abbandono e di conseguente adottabilità di un minore marocchino, irregolarmente introdotto nel nostro territorio da cittadini italiani, cui era stato affidato con provvedimento di kafalah dal Tribunale di Rabat. Per la Corte, pur essendo il provvedimento marocchino efficace nel nostro ordinamento e paragonabile “al contenuto del nostro affidamento familiare”, tuttavia non può ritenersi attributivo della tutela, poiché così pronunciando “verrebbe contraddetto il principio, cui quella legislazione tiene particolarmente, che non debba mai essere perduto il legame del minore con le proprie origini”, tale conclusione giustifica la decisione su esposta. Quasi risolutoria della diatriba giurisprudenziale sul punto, è la più recente pronuncia della Corte di Cassazione, che con sentenza del 2 febbraio 2015, ha stabilito “che non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse del minore straniero affidato a cittadino italiano residente in Italia con provvedimento di kafalah pronunciato dal giudice straniero, qualora il minore sia a carico o conviva con il cittadino italiano ovvero quando gravi motivi di salute impongano che sia da questo personalmente assistito”[xxxvi]. A confermare la ragionevolezza di tale interpretazione, sopraggiunge una della più recenti pronunce sul tema, la sentenza della Corte di Giustizia (Grande Sezione) del 26 marzo 2019[xxxvii], la quale in occasione di analizzare e controllare la corretta applicazione del principio della libera circolazione e libertà di soggiornare nel territorio degli Stati membri, ex Direttiva 2004/38/CE, ha palesemente negato all’istituto della kafalah la capacità di produrre qualsiasi legame giuridico-legale, tra il “tutore” ed il bambino, confermando la non corrispondenza del tipo all’istituto dell’affidamento e di conseguenza, negando, ai fini della direttiva su menzionata, la persistenza di un vincolo di discendenza diretta. Tuttavia, nel proseguo dell’iter motivazionale, la Corte di Giustizia afferma che, la valutazione della situazione giuridica del caso concreto deve necessariamente essere incentrata sulla tutela del minore ed in tal senso, quanto emerge dal sistema normativo, non può in alcun caso minare la prima, anzi, nonostante l’assenza di  legame naturale e giuridico, al fine di garantire il best interest del minore, si deve procedere nel senso di riconoscere il rapporto tra il primo ed il tutore ed acconsentire quindi, all’ingresso ed al soggiorno del minore, presso il domicilio del tutore. Una conclusione perfettamente corrispondete con quanto esposto dalla Corte di Cassazione, nella sentenza a Sezioni Unite n. 21108 del 2013, già esaminata.

L’armonia delle Corti, è un fattore positivo, il quale è in grado di tradurci, non solo la sintonia tra giudici interni e sovranazionali, ma soprattutto la comune certezza di incentrare il proprio sistema normativo, sulla tutela dei diritti fondamentali e nel bilanciamento tra quest’ultimi e gli interessi propri di uno Stato, compresa l’Unione europea, dare rilievo ai primi.

  1. Conclusione

In quest’ultima parte del lavoro che ne costituisce la conclusione, affronterò il tema dell’ordine pubblico da un duplice ed in certi versi divergente punto di vista, rispondendo cioè alle domande espresse che possono rinvenirsi nella produzione dello scritto e a quelle implicite che da esso possono essere estrapolate, sia attraverso un approccio logico-giuridico, che da un approccio propriamente personale. Dopo aver introdotto e ripercorso la nascita del concetto di ordine pubblico, così come lo stesso è inteso in termini giuridici nel corso dell’evoluzione storica e giuridica fino a giungere ai tempi “moderni”, si può cercare di vagliare quelle che sono state le tappe evolutive fondamentali dello stesso. La ricostruzione giuridica del concetto di ordine pubblico, ci ha condotto infatti, di fronte a diversi “momenti” che poi sembrano essere approdati con l’evolversi delle situazioni giuridiche in qualcosa di più stabile e quindi tendente alla certezza. Una domanda implicita, sebbene azzardata, è sicuramente quella che pone l’ordine pubblico in discussione, minandone la veridicità: “L’ordine pubblico esiste?”. Ai giuristi che prenderanno visione di questo scritto, probabilmente gli si alzerà un sopracciglio e gli distorcerà la bocca. E se questa domanda non fosse così insensata come sembra? Questo è un semplice invito a riflettere sulla possibilità di non esistenza del concetto. Qualcuno si domanderà, ma cosa si intende per inesistenza? L’esistenza è tutto quello che può essere percepito dai sensi, sia esso qualcosa di esteriorizzabile nel mondo concreto, sia esso appartenente al mondo dell’interiorizzazione a prescindere che possa o meno trovare corrispondenza nel mondo della materialità. Se allora esistere vuol dire quanto poc’anzi detto, se ne deduce che certamente l’ordine pubblico esiste. Correlata alla prima domanda, ve ne è un’altra quasi gemella, l’ordine pubblico è sempre esistito? Scorrendo in modalità retrograda l’evoluzione giuridica del concetto, si può ragionevolmente rispondere che l’ordine pubblico non è esistito in quanto tale da sempre, ma è senz’altro un costrutto giuridico-sociale generato da un qualcosa di giuridico antecedente allo stesso e che si è evoluto con l’evolversi del pensiero giuridico stesso ed in correlazione al mutare delle esigenze proprie della società a cui esso si riferisce. Se ad esempio, si valuta comparativamente ciò che era ordine pubblico nel periodo dell’egemonia fascista e ciò che invece ha cominciato a significare con l’attuazione dei principi costituzionali ed il lavoro interpretativo della Corte Costituzionale, ci si rende conto della netta contrapposizione di significato giuridico. Infatti, da oggetto esecutivo dispotico e autoritario, l’ordine pubblico diviene espressione pratica dei principi fondamentali costituzionali, siano essi riferiti propriamente ai diritti fondamentali della persona in quanto tale, siano essi riferiti al regolare funzionamento dello Stato democratico. Tra i due poli opposti, vi è un buco di principio, l’esclusione dell’espressione in quanto tale dalla Carta Costituzionale, ad opera dell’Assemblea Costituente. E si giunge alla prima domanda: perché nel progetto e nel testo definitivo della Costituzione, dove si trovano espressi principi generalmente riconosciuti e principi di attuazione dei primi, l’ordine pubblico viene non semplicemente tacciato, ma addirittura condannato all’oblio? La risposta, che vede congiunti sia la giuridicità, che la personalità dell’approccio finale al tema, si rinviene, facilmente, analizzando le motivazioni rese in sede di progettazione e di approvazione del testo costituzionale. Il malessere generale insito nelle considerazioni dei costituenti, traduce una duplice certezza storica, la labilità del concetto e la sua amara conseguenza, la manipolazione dello stesso. Tale accaduto storico, ci permette di realizzare una prima considerazione conclusiva. Il fatto che un concetto esista, non vuol dire che esso venga fatto esistere per quello che è ed allora, com’è avvenuto, può esistere per quello che si voglia che esso sia, in un particolare momento storico e per uno o più motivi estranei al suo significato. Tale conclusione, può oltretutto spiegare, la ratio normo-valoriale alla base del lungo e laborioso iter interpretativo della Corte Costituzionale riguardante proprio l’ordine pubblico. Ed ecco che si presenta una nuova domanda: in sostanza, la Corte Costituzionale, in merito all’ordine pubblico che cosa fa? La Corte, inizia il suo lavoro di reinterpretazione da tre punti chiave:

  • il passato storico-politico e quindi la manipolazione del concetto per la realizzazione del dominio;
  • la mancanza di un riferimento espresso nel testo Costituzionale;
  • la contestuale presenza del concetto nei testi normativi, su cui non si è preveduto e voluto intervenire nel senso di dare continuità alla scelta effettuata da parte dell’assemblea costituente e quindi di eliminare concretamente lo stesso.

Una non continuità, quest’ultima, che ha fatto giustamente credere alla Corte Costituzionale ed alla maggioranza dei cultori del diritto, che tale assenza non sia poi da considerare tale, ma che corrisponda più tosto ad una mera cautela formalistica. Da tale considerazione, nasce quindi l’esigenza giuridica di legittimare quel concetto, attestatene la presenza viva nel corpus normativo. Tali elementi quindi, hanno giustificato il lavoro re-interpretativo della Corte Costituzionale, la quale, nel corso dell’evoluzione del lavoro è giunta a ridefinire il concetto di ordine pubblico in chiave costituzionale. Nel continuo processo di costruzione dei principi-valori, nell’ottica finalistica di raggiungere e realizzare, sul piano concreto delle situazioni giuridiche, il fine primario di garantire la tutela dei diritti fondamentali, la Corte ha elaborato un concetto di ordine pubblico garante di tali diritti, elevando il contenuto normativo-valoriale della Costituzione a base legittimante lo stesso, che quindi opera all’interno dell’ordinamento giuridico, non più con il ruolo di garante di fini esclusivamente politici e propriamente protezionistici dello Stato inteso come apparato ma, quello di tutelare la persona in tutti gli aspetti della vita privata e sociale che la riguardano. Sul piano logico e cognitivo, un simile traguardo, alla luce dell’internalizzazione dei rapporti, dell’evoluzione socio-economica e medico-tecnologica e l’evoluzione dei bisogni e delle stesse situazioni giuridiche degne e necessitanti di tutela, appare come il miglior risultato che nel mondo attuale avrebbe potuto essere raggiunto. In realtà, nel mondo dei diritti, l’esigenza di giustizia necessita di un continuo lavoro evolutivo e di livellamento tra le diverse situazioni giuridiche, le quali, molto raramente agiscono in solitudine. La morfologia delle stesse situazioni giuridiche e dei relativi diritti da quest’ultime generate, porta a continui processi di interpretazione e di valutazione comparativa, perché nel piano della sostanzialità dei rapporti, risulta improbabile la realizzazione di una giustizia assoluta, al contrario, proprio la tendenza a volere realizzare quest’ultima, comporta nel caso concreto all’esatto opposto, cioè, a realizzare l’ingiustizia e tale dualismo opposto, dipende appunto dalla multidimensionalità delle situazioni giuridiche, le quali prospettano una contemporanea contrapposizione tra soggetti agenti e diritti ad essi spettanti. Tale esigenza di giustizia relativa, costituisce la forza propulsiva che anima gli attori politici e giuridici che rivestono un ruolo incisivo nella scelta degli indirizzi normo-valoriali da ergere e custodire, al fine di guidare l’azione di tutti i soggetti coinvolti nella convivenza sociale. Nel mondo socio-politico contemporaneo, dove i confini tra le Nazioni, ormai, corrispondono a meri punti territoriali, dove al contrario si evolve verso la multiculturalità, la poliedricità, la globalizzazione dei diritti, il rispetto e la reciprocità, è necessario garantire una base normativa sicura e comune, che sia in grado di guidare al giusto. Il principale attore dedito per costituzione, a lavorare in tal senso, è sicuramente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, la quale svolge un continuo ruolo di assistenza nella verifica del rispetto dei diritti fondamentali e che richiama al giusto gli Stati e tutti i soggetti coinvolti nel processo esecutivo. Con le su dette argomentazioni, ci si confronta con una nuova questione, che cosa può fare l’ordine pubblico? L’esigenza di tutela del principio di ordine pubblico fin dove può ritenersi legittima? Questi interrogativi, possono ragionevolmente essere ricondotti alla “famigerata” dualità del concetto di ordine pubblico interno ed internazionale. E’ infatti, in base alla funzione esercitata dal concetto, in relazione al campo d’azione, che ci si riferisce all’uno o all’altro. In dottrina ed in giurisprudenza, si è dibattuto molto, quasi fino all’esasperazione del concetto, sulla natura della dualità dello stesso e senza mai giungere ad un’univocità di senso e di significato. In questa sede, si evita di affrontare nel merito la questione, cioè, se si possa parlare di un ordine pubblico in senso univoco, che a seconda delle situazioni subisca delle diversificazioni nell’estensione del significato proprio o se invece, si possa ritenere valida la tesi che tende a considerare vero il dualismo concettuale, a seconda che nelle situazioni giuridiche concrete siano coinvolti o meno diritti fondamentali. Ciò che va invece indagato, è l’essenza dell’ordine pubblico, che può essere valutata solo attraverso l’analisi delle situazioni giuridiche nel caso concreto. Se, infatti, l’ordine pubblico costituisce il riflesso dei diritti fondamentali, è sufficiente verificare l’effettività dello stesso nei casi concreti. A proposito di tale questione, si è discusso dell’approccio giurisprudenziale interno ed esterno, in merito al ruolo ed alla funzione dell’ordine pubblico in relazione ad alcuni diritti fondamentali, animati da specifiche situazioni giuridiche, le quali impegnano la sfera propriamente intima delle persone. Si è parlato infatti, non a caso, di alcuni rapporti propri al diritto di famiglia e dei connessi diritti, quali il diritto al matrimonio, il diritto alla genitorialità ed il diritto del minore a nascere e a crescere con i propri genitori. In merito a tali diritti, non vi è alcun dubbio ormai, che costituiscano, in quanto assumono la qualifica di diritti fondamentali, una fonte di legittimazione di tutela per i soggetti a cui si riferiscono e dai quali derivano tutta una serie di diritti ed interessi che vanno a completare la sfera giuridica-sociale nella quale l’individuo, come singolo o come parte di un rapporto giuridicamente rilevante, esplicita e realizza il proprio sviluppo personale. Ragionando in termini strettamente giuridici e normativi, si è rilevato che, tali diritti fondamentali, certamente non possono intendersi come diritti assoluti e che necessitano di una continua valutazione nel caso concreto, essendo gli stessi in relazione e molte volte in contrapposizione ad altri diritti aventi lo stesso peso normo-valoriale. Ad esempio, si è discusso sull’efficacia interna di un atto matrimoniale costituito all’estero e riguardante coniugi dello stesso sesso, rilevando una distinzione in base al criterio della cittadinanza. Seguendo una logica propriamente nazionalista, infatti, l’ordinamento giuridico interno regola e tutela tutti quei rapporti che hanno un collegamento giuridico con lo Stato, di converso nulla può statuire in relazione a tutti quei rapporti estranei e che non presentano quindi, alcun collegamento giuridicamente legittimo. In merito, rilevano le norme sul diritto internazionale privato e la legge interna, legge 218/2019, che ha provveduto al riordino ed alla modifica della disciplina, individua quali sono i criteri di collegamento validi, tra i quali riveste un ruolo predominante, il criterio della cittadinanza. La logica sottesa alla scelta di tale criterio è che, l’ordinamento giuridico interno essendo appunto interno, non possa estendere la propria efficacia fino a regolare rapporti esterni, essendo quest’ultimi regolati a loro volta dal proprio ordinamento giuridico di riferimento. In caso contrario, si verificherebbe un’ingerenza ingiusta nell’ordinamento giuridico di un altro Stato, proprio perché ogni Stato conserva le propria nazionalità e quindi la propria storia, le proprie radici, la propria evoluzione, che sebbene possa essere comune agli altri Stati, rimane un bagaglio di esperienze e modus vivendi specifico ed unico. Tale unicità nazionale, costituisce la ratio giuridica che è insita nel più volte citato principio di margine di apprezzamento, un criterio quest’ultimo rivolto ad individuare l’area di competenza Statale. Sia la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sia la Corte Europea dei diritti fondamentali, riconoscono l’esigenza di controbilanciare nel caso concreto, la tutela di un diritto fondamentale o di un interesse meritevole di tutela, con il rispetto della competenza nella particolare materia e del campo d’azione. Si parla di margine di apprezzamento, ogni qual volta una certa situazione giuridica, impegna principi e valori propri di uno Stato e di questioni etiche e sociali che per la loro importanza, possono e devono essere affrontate dallo Stato stesso (legislatore). L’ordine pubblico, in tale contesto multidisciplinare ed inter-relazionale, come si è avuto modo di vedere, svolge il ruolo di parametro legale in base al rispetto del quale ne deriva l’espletamento dell’efficacia giuridica di un atto e/o di un rapporto all’interno dello Stato. Rammentando, che in tale sede si esula dalla valutazione del concetto di ordine pubblico interno in contrapposizione al concetto di ordine pubblico internazionale, ciò che riveste un ruolo chiave è il grado di effettività del concetto stesso, in relazione ad uno o a più diritti fondamentali. Si precisa inoltre, che per grado di effettività, in tale contesto, si intende il grado di aderenza alla giustizia, cioè quanto sia efficace il concetto di ordine pubblico nella realizzazione della giustizia nel caso concreto. Analizzando tale questione dal punto di vista prettamente giuridico, attraverso la disamina dei vari casi di giurisprudenza più noti e più importanti per la definizione di un orientamento normo-giurisprudenziale equo e coerente, si è giunti alla consapevolezza che un ordinamento giuridico positivo, quale è il nostro, necessita di criteri ordinamentali che siano in grado di tutelare la specificità dello stesso e che allo stesso tempo non precluda l’interconnessione con gli ordinamenti giuridici esterni. Non esistendo un valore assoluto di giustizia e di conseguenza non esistendo un significato assoluto di diritto fondamentale, sia esso riferito alla protezione della vita, o alla tutela dei diritti di cui si è trattato, il concetto di ordine pubblico ben può assumere un ruolo di criterio di legittimazione ed esercitare una funzione ordinatrice. Tale criterio, svolge quindi la funzione che più si presta a realizzare il senso di legalità che in un determinato momento storico viene ritenuto necessario per il normale svolgimento della vita personale e personale-relazionale-sociale. In tema di matrimonio same-sex, ad esempio, si è potuto apprendere, dall’analisi normo-giurisprudenziale affrontata, che nel nostro ordinamento giuridico non può dirsi idoneo a produrre effetti, non in via assoluta, ma in relazione a tutti i cittadini, perché lo stesso è ad essi che si riferisce. L’istituto delle Unioni civili, a seguito di una lunga e sofferta diatriba politica, assolve attualmente, il compito di tutelare tali soggetti, che grazie a tale legge, non sono più esclusi dal godere di protezione giuridica relativa al rapporto da quest’ultimi posto in essere. Il problema continua però a sussistere, perché tale istituto non è il matrimonio e di conseguenza, non produce ne gli stessi effetti legali, ne assume la stessa valenza. L’ordine pubblico, in tale contesto, realizza l’esigenza di giustizia? Se, si parla di uguaglianza e non discriminazione, applicare una legge apposita per le coppie omosessuali, la dove per le stesse, non esiste un divieto espresso al matrimonio, non comporta già di per se una forma di discriminazione? Sostenere che non lo sia, fornendo a favore di tale tesi, l’esistenza di un testo normativo che riconosce i principali diritti e doveri inerenti al rapporto e non valutare nella sostanzialità dei diritti che a quest’ultimi sono effettivamente riconosciuti, è utopia. Esiste un diritto alla genitorialità? La Corte EDU, come si è già appreso, ha espressamente riconosciuto il diritto fondamentale ad essere genitori, perché insito nel diritto a formare una famiglia e a vivere una vita familiare. Tale diritto, essendo fondamentale, esiste per tutti? In ambito internazionale, l’ordine pubblico si connota di un particolare significato, che diviene unico, quello di espressione della tutela dei diritti fondamentali, perché giammai può la particolarità di un ordinamento interno, affievolire o annullare, la tutela di un diritto fondamentale. Se si assiste ad una tale restrizione di significato e quindi di efficacia, se ne deduce che le norme interne di uno Stato, essendo tali, non sono idonee a fungere da parametro valutativo di un diritto fondamentale. Ciò che è propriamente particolare non può dirsi universale. E perché mai, l’utilizzo del sostantivo universale, per connotare la dichiarazione Onu sui diritti fondamentali del 1948? E’ evidente, che tale utilizzo ha un fine, quello di rendere universale determinati diritti, in modo che a tutto il mondo sia chiaro, quali essi siano, al fine ultimo di non commettere più ingiustizie e soprusi. Il giurista clinico, potrà affermare che l’universalità è un monito generico e che poi nella realizzazione della tutela, le modalità della stessa rientrano nel potere di scelta di chi fa le leggi. Corretto. E’ il legislatore che interpreta i bisogni sociali, almeno nel nostro ordinamento ed in base a quest’ultimi che poi attua un piano normativo d’intervento. Il legislatore agisce nel giusto? Tutto ciò che è legale dovrebbe tendere al giusto, ma di fatto legge e giustizia costituiscono due funzioni diverse. La paura insita nell’assemblea costituente è già una possibile risposta a tale interrogativo. La triplicità delle funzioni, ne costituisce un’altra, così come la diversità degli ordinamenti giuridici, la diversità di ciò che viene considerato giusto in un dato momento storico ed in uno specifico luogo della terra. Che cos’è quindi l’ordine pubblico? L’ordine pubblico può essere. E’ un parametro ordinamentale, che per funzione, è destinato a mutare, con il mutare della società e quindi anche in relazione al mutamento del legislatore.

[i] Colaianni N., Poligamia e società policulturale: quale diritto, in federalismi.it, |n. 10/2020;

Campiglio C., Matrimonio poligamico e ripudio nell’esperienza giuridica dell’occidente europeo, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1990;

Rizzuti M., Ordine pubblico costituzionale e rapporti familiari: i casi della poligamia e del ripudio, Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 10, febrero pp. 604-627.

[ii] Def. in enciclopedia Treccani, “Forma di matrimonio per la quale un uomo o una donna possono avere più consorti contemporaneamente…”.

[iii] Circolare n.1/54/FG/3(86)1395 del Ministero di Grazia e Giustizia;

Cit. Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, edizione Cedam, 2008; anche in Federica di Pietro, La poligamia e i ricongiungimenti di famiglie poligamiche in Spagna e Italia, quadernos de derecho transnacional (marzo 2015), Vol. 7, nº 1, pp. 56-70.

[iv] Cit. in Benigni R., Identità culturale e regolazione dei rapporti di famiglia tra applicazioni giurisprudenziali e dettami normativi, Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it) Novembre 2008.

[v] Commissione europea diritti dell’uomo, decisione 6 gennaio 1992, ric. n. 14501/89, A. e A. c. Paesi Bassi,in De´cisions et Rapports 72, p. 118 ss. La prima moglie risiedeva in Marocco con altri figli. Il ricorso è stato giudicato inammissibile.

[vi] TAR Emilia-Romagna – sede di Bologna, sez. I, 14 dicembre 1994 n. 926 – Galoppini, Ricongiungimento e poligamia, Dir. Famiglia 2000, 02, p. 739 ss.

[vii] Corte di Cassazione sezione I civile; sentenza 2 marzo 1999, n. 1739; Pres. Corda, Est. Verucci, PM Raimondi (concl. Conf.); Prola (Avv. Sinibaldi, Manni) c. Salada Nur Ibrahaim (Avv. Amici, Motta). Conferma App. Milano 13 maggio 1994, Il Foro Italiano Vol. 122, n. 5 (MAGGIO 1999), pagg. 1457 / 1458-1461 / 1462, Societa Editrice Il Foro Italiano ARL, https://www.jstor.org/stable/23193464; Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Riv. dir. int. priv. proc., 1999, p. 613;

Nota a sentenza, di G. Balena; in Giust. civ., 1999, 2695 ss.; Nota di Di Gaetano L., «I diritti successori del coniuge superstite di un matrimonio poligamico. Questione preliminare e validità nel nostro ordinamento dell’unione poligamica», ha riconosciuto la rilevanza a fini successori del matrimonio contratto da un italiano in Somalia secondo il diritto locale, rigettando le argomentazioni in senso contrario proposte dai parenti del de cuius, secondo i quali sarebbe stato inaccettabile riconoscere valore a tale coniugio, retto da un ordinamento che ammette la poligamia ed il ripudio.

[viii] Corte di App. Torino, 18 aprile 2001, in Rep. Foro it., 2002, Straniero, n. 101; App. Torino, 18 aprile 2001, in Dir. fam. pers., 2001, p. 1492; Valentina Petralia, Ricongiungimento familiare e matrimonio poligamico.  Il riconoscimento di valori giuridici stranieri e la tutela delle posizioni deboli, Università di Catania – Online Working Paper 2013/n. 49.

[ix] Circolare MIACEL (Ministero dell’Interno) 26 marzo 2001 n°2.

[x] Corte di Cassazione, 9 giugno 2005 n. 12169, in Fam. dir., 2005, p. 354.

[xi] Tribunale di Milano, Sentenza 02 febbraio 2007, in olir.it.

[xii] Corte Costituzionale, ordinanza n. 14 anno 2003, in giurcost.org.

[xiii] Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 4984/13; depositata il 28 febbraio, in diritto e giustizia.it; entrambe citate in Morozzo della Rocca P., Ordine pubblico matrimoniale e poligamia nella disciplina del ricongiungimento familiare, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2019, fasc. 2 pag. 417 – 439.

[xiv] Virgadamo P., Ripudio islamico e contrarietà all’ordine pubblico tra unitarietà del limite e corretta individuazione dei principi, (Nota a App. Roma 12 dicembre 2016), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2017, fasc. 2 pag. 353 – 364;

Vanin O., Ripudio islamico, principio del contraddittorio e ordine pubblico italiano (Nota a App. Venezia 9 aprile 2015), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, fasc. 11  pag. 1031 – 1038.

[xv]   HRC, General Comment 28, Par. 26.

[xvi]  Cit. Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, edizione Cedam, 2008.

[xvii] Patto internazionale sui diritti civili e politici, in ohchr.org.

[xviii] In Riv. dir. int. priv. proc., 1968, p. 403.

[xix]  Corte di App. Roma, 29 ottobre 1948, in Foro pad., 1949, I, 348 ss; Cit.Campiglio C., Il Diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam, 2008.

[xx]   Cit.Campiglio C., Il diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam,2008. Sulla rapporto tra diritto di famiglia islamico e principi di diritto internazionale si veda: Clerici R., La compatibilità del diritto di famiglia mussulmano con l’ordine pubblico internazionale, (Relazione al Convegno “Questioni attuali in materia di famiglia”, Verona 29 febbraio 2008), in Famiglia e diritto, 2009, fasc. 2 pag. 197 – 211; Sul rapporto tra il diritto islamico e l’ordinamento giuridico nazionale si prenda visione di: D’Arienzo M., Diritto di famiglia islamico e ordinamento giuridico italiano, in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2004, fasc. 1 pag. 189 – 219.

[xxi]  Corte di App. Torino, 9 marzo 2006, in Dir. fam., 2007, p. 156 ss; Sinagra A., Ripudio-divorzio islamico ed ordine pubblico, (Nota a App. Torino 9 marzo 2006) in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2007, fasc. 1 pag. 163 – 168; Sull’applicazione del principio di ordine pubblico nelle situazioni giuridiche in cui vi sono casi di ripudio, si veda, Nencini G., L’ordine pubblico e le sentenze straniere di divorzio nella legge 218/95, in Lo Stato Civile Italiano, 2009, fasc. 4  pag. 248 – 252; Cit. Cristina Campiglio, Il Diritto di famiglia islamico nella prassi italiana, Rivista di diritto internazionale privato e processuale, Cedam, 2008.

[xxii] Cit. Benigni R., Identità culturale e regolazione dei rapporti di famiglia tra applicazioni giurisprudenziali e dettami normativi, Rivista telematica (www.statoechiese.it), Novembre 2008.

[xxiii] Barbu A., Brevi note in materia di riconoscimento del ripudio-divorzio islamico nell’ordinamento italiano, (Nota a App. Cagliari 24 maggio 2008, n. 198), in Rivista giuridica sarda, 2009, fasc. 2 pag. 311 – 321.

[xxiv] Cit. De Meo R., Il divorzio islamico e i diritti delle donne in europa, in giustiziacivile.com, 2018, fasc. 11.

[xxv] Sul punto, De Meo R., Il divorzio islamico e i diritti delle donne in europa, in giustiziacivile.com, 2018, fasc. 11.  La questione era stata sollevata dall’Oberlandesgericht München, di fronte al caso di una famiglia immigrata dalla Siria, ove vige il ripudio islamico, in Germania, dove non è prevista nessuna forma di divorzio privato: il rimettente chiedeva alla Corte Europea “se il consenso al divorzio prestato dal coniuge discriminato – anche mediante la sua accettazione di prestazioni compensative – costituisca già un motivo per disapplicare” il ricordato art. 10 del reg. 1259 del 2010, proponendo in sostanza di ritenere accettabile in siffatte circostanze l’efficacia del divorzio privato siriano, e nel procedimento in sede comunitaria il governo tedesco, nonché ovviamente il marito ripudiante (che in Siria aveva già versato alla donna accettante circa ventimila dollari americani), argomentavano in favore di una risposta affermativa al quesito, mentre la Commissione, i governi francese, ungherese e portoghese, nonché l’Avvocato Generale della stessa Corte, nelle conclusioni rassegnate il 14 settembre 2017, si esprimevano in senso contrario.

[xxvi] Cit. Amisano P., Riconoscimento ed esecuzione delle decisioni: questioni in materia di famiglia, struttura di formazione decentrata della corte di cassazione, Lo spazio giudiziario europeo in materia civile nella giurisprudenza italiana ed europea, Roma, 3-5 maggio 2017, Corte di Cassazione, Aula Giallombardo.

[xxvii] Corte europea dei diritti dell’uomo, del 4 ottobre 2012, Harroudj c. France (ric. n. 43631/09);

Corte europea dei diritti dell’uomo, del 16 dicembre 2014, Chibhi Loudoudi et Autres c. Belgio, Seconda Sezione (ric. n. 52265/10) entrambe in Ruggeri A., europeanrights.eu ed in Di Pietro F., La kafalah islamica e le sue applicazioni alla luce della giurisprudenza della corte europea dei diritti dell’uomo, Ordine internazionale e diritti umani, (2016), pp. 91-99;

Per un approfondimento sul punto si veda anche,  Long J., Corte europea dei diritti dell’uomo e “kafalah”: un’esortazione alla flessibilità del diritto civile minorile, (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. V 4 ottobre 2012 (Harroudj c. Francia), in Minorigiustizia, 2013, fasc. 1 pag. 304 – 310.

[xxviii] Tribunale di Biella, 26 aprile 2007, in Dir. Fam. e delle pers., 2007, 4, 1810 con note di Long J., Il ricongiungimento familiare del minore affidato con kafala;

Conformi, cfr. Corte di Appello di Torino, decreto 28 Giugno 2007, in Dir. imm. citt., 2007, 3, 142;

Tribunale di Firenze, decreto 9 novembre 2006, ibidem, 2007, 4, 169;

Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, 10 ottobre 2006, in Fam. e min,. 2006, 2, 86. Contra cfr. Tribunale di Reggio Emilia, ordinanza 9 febbraio 2005, in Dir. imm. citt., 2005, 2, 183, per il quale “deve essere ogni volta verificata  in concreto la compatibilità dell’atto di kafalah … con l’ordine pubblico (espresso anche dal riconoscimento dei fondamentali diritti all’unità familiare ed alla tutela del diritto del minore alla propria famiglia), compatibilità che nella specie va esclusa”.

[xxix] Corte di Cassazione, sentenze n. 7472/2008, n. 18174/2008 e n. 19374/2008, tutte in olir.it.

[xxx] Cass., 1/3/2010, nn. 4868 e 4869; id. 19450/1, in ricerca giuridica.com;

Venchiarutti A., No al ricongiungimento familiare del minore affidato con kafalah: i richiedenti sono cittadini italiani!, (Nota a Cass. 1 marzo 2010, n. 4868), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2010, fasc. 4  pag. 1629-1639;

Ardita C. M., Riflessioni sull’istituto della kafalah nell’ordinamento italiano: tra antinomie giurisprudenziali e inerzia legislativa, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2010, fasc. 16 pag. 1641–1653;

Long J., Kafalah: la cassazione fa il passo del gambero, (Nota a Cass. sez. I civ. 1 marzo 2010, n. 4868), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2010, fasc. 7-8  pag. 835 – 839.

[xxxi] Corte di Cassazione S.U. 16/9/13, n. 21108, in ricerca giuridica.com;

Sul punto, Avezzù E., Problemi relativi alla giurisdizione italiana e agli affetti della “kafalah” in italia, (Relazione al convegno internazionale “Il diritto di famiglia in Marocco e in Italia”, Reggio Emilia, 18 aprile 2015), in Minorigiustizia, 2015, fasc. 4 pag. 55–64;

Marotta A., Italia e “kafala”: reinventare le prospettive tradizionali per accogliere la diversità? (Nota a Cass. sez. un. civ. 16 settembre 2013, n. 21108), in The Italian Law Journal, 2016, fasc. 1.

[xxxii] Cass., 23/9/2011, n. 19450, in ricerca giuridica.com;

Long J., La kafalah come banco di prova per un diritto “interculturale”, (Nota a Cass. sez. I civ. 23 settembre 2011, n. 19450), in Minorigiustizia, 2012, fasc. 2 pag. 254 – 261.

[xxxiii] Corte d’Appello di Bari, decreto del 16 aprile 2004, IN OLD ASGI.IT;

Cit. Amisano P., Riconoscimento ed esecuzione delle decisioni : questioni in materia di famiglia, Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione, 2017.

[xxxiv] Long J., nota a Trib. min. Trento 5.03.2002 e Trib. min. Trento 10.09.2002, in Nuova giur. civ. comm., 2003, Parte I, 151 e Ordinamenti giuridici occidentali, kafala e divieto di adozione: un’occasione per riflettere sull’adozione legittimante, ibidem, Parte Seconda, 175.

[xxxv] Long Joëlle, Il ricongiungimento familiare con un bambino affidato, (Nota a App. Torino sez. persona e famiglia 21 luglio 2011), in Minorigiustizia, 2012, fasc. 2 pag. 267 – 269.

[xxxvi] Corte di Cassazione, sezione I civile, sentenza 2 febbraio 2015, n. 1843, in EIUS.IT;

Di Masi M., La cassazione apre alla “kafalah” negoziale per garantire in concreto il “best interest of the child”, (Nota a Cass. sez. I civ. 2 febbraio 2015, n. 1843), in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2015, fasc. 7-8 pag. 717 – 724.

[xxxvii] Corte di Giustizia, causa C-129/18), in dirittoegiustizia.it;

Commento di Giuseppe Buffone, in gnewsonline.it.

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