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La prevalenza delle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto alla perizia stragiudiziale

La Corte Suprema di Cassazione – sezione tributaria – con ordinanza n. 31600 depositata il 4 dicembre 2019 ha chiarito che la perizia stragiudiziale non ha valore di prova, nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato, ma solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo Conseguentemente, la valutazione della stessa è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, che non è altresì obbligato a tenerne conto (Sul punto, si veda l’ Ordinanza n. 33503 del 27/12/2018, sez. 5, Rv. 651998 – 02).

Nella stessa ordinanza, gli Ermellini hanno peraltro evidenziato che alle dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica fiscale debba essere attribuito il carattere di una confessione extragiudiziale. Conseguentemente, risultano maggiormente apprezzabili le dichiarazioni rese dal contribuente in sede di verifica rispetto ad una perizia stragiudiziale, venendo comunque demandata la valutazione al giudice tributario.

Nella fattispecie concreta l’Amministrazione Finanziaria aveva quantificato le percentuali di incidenza dello sfrido basandosi sulle dichiarazione rilasciate nel corso del contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente. La Cassazione ha spiegato che l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico può essere apprezzata come confessione stragiudiziale risultante proprio dal processo verbale sottoscritto e, quindi, tale da legittimare l’accertamento dell’ufficio (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 5628/1990 e n. 1286/2004).

Infine, risulta opportuno evidenziare che ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, bensì diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società (Si vedano le Sentenze della Corte di Cassazione n. 28316/2005, n. 9320/2003, e n. 7964/1999).

(di Andrea Orabona)

In data 27 maggio 2016, le Sezioni Unite della Suprema Corte di cassazione hanno finalmente proceduto al deposito delle motivazioni della sentenza n. 22474/16 – volta a dirimere la contrastata quaestio iuris sull’attuale rilevanza penale del falso valutativo ex artt. 2621 e 2622 c.c. all’indomani dell’abrogazione letterale dell’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” dalle medesime fattispecie di reato ad opera della recente legge di riforma n. 69/2015 -.

Invero, le sezioni semplici della Suprema Corte di cassazione, più volte chiamate a pronunciarsi sul punto, avevano reso pronunce tra loro nettamente contrastanti, escludendo – in un primo momento – la punibilità del “falso valutativo” in relazione alle fattispecie di false comunicazioni sociali, per successivamente affermare (con la pronuncia n. 890/2016) la rilevanza penale delle medesime condotte criminose – tanto da aver reso necessario l’intervento delle Sezioni Unite che, in occasione della pronuncia del 27.5.2016, hanno ritenuto di aderire all’orientamento favorevole alla sussunzione nelle maglie dei reati ex artt. 2621 e 2622 c.c. di azioni e/o omissioni aventi anche ad oggetto false stime o valutazioni di bilancio -. In particolare, con la sentenza n. 22474/2016 la Suprema Corte di cassazione ha respinto l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui l’espunzione dell’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” dalle fattispecie di false comunicazioni sociali avrebbe comportato un’implicita abrogazione parziale del falso valutativo – finendo col sostenere, diversamente, la natura tipicamente concessiva, ovvero, esplicativa dell’inciso stesso, la cui eliminazione non risulterebbe certamente tale da compromettere il nucleo sostanziale dei reati p. e p. ex artt. 2621 e 2622 c.c. -.

Ed, invero, non può certamente revocarsi in dubbio come nella (ridotta) espressione “fatti materiali” di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. rientrino, anche e soprattutto, le valutazioni o stime dei dati indicati nel bilancio, anch’esse, infatti, idonee a costituire oggetto di false comunicazioni sociali – ove contrastanti con i criteri di redazione contabile normativamente disciplinati, nonché tecnicamente condivisi, ovvero, imposti dal Codice Civile, dalla normativa comunitaria, nonché dai principi internazionali direttamente applicabili (artt. 2423 e ss. c.c., nonché principi contabili IAS/FRS) -. Difatti, escludere il “falso valutativo” dal novero delle condotte rilevanti ai sensi delle false comunicazioni sociali equivarrebbe a svuotare in nuce di significato il contenuto del reato p. e p. dagli artt. 2621 e 2622 c.c. – stante la natura valutativa della quasi totalità delle voci iscritte a bilancio e come tali sottese ad un continuo processo estimativo volto a garantire la fedele e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società o Gruppo d’appartenenza -.

Dalla lettura delle motivazioni di cui alla sentenza n. 22474/16 delle Sezioni Unite, appare, dunque, evidente come la ratio sottesa alle nuove fattispecie di falso in bilancio consista nella tutela (sempre e comunque) della veridicità e completezza nella rappresentazione di dati sociali – con conseguente sanzionabilità di ogni condotta consapevolmente volta all’esposizione in bilancio di fatti non rispondenti al vero o di omissioni di fatti rilevanti, al fine di garantire la genuinità dell’informazione (desumibile, appunto, dai dati di bilancio) nei confronti di soci, creditori, nonché del pubblico dei terzi/investitori -. Sotto tale profilo, la recente pronuncia n. 22474/16 delle S.U. della Suprema Corte precisa – altresì – come il riformato testo normativo delle false comunicazioni sociali non vada unicamente interpretato sulla scorta di un criterio ermeneutico/letterale, bensì (e soprattutto) alla luce della ratio legis sottesa alla recente legge di riforma n. 69/2015 – volta, in concreto, alla repressione di qualsivoglia condotta avente ad oggetto la falsificazione di dati di bilancio – vuoi di natura obiettiva vuoi di matrice valutativa e/o estimativa -. Invero, l’eventuale riduzione della portata normativa delle incriminazioni di falso in bilancio (per effetto della non punibilità delle false valutazioni) avrebbe ex adverso determinato l’indicata frustrazione della finalità repressiva dei reati economici auspicata dal legislatore nazionale, contrariamente intervenuto (con la legge di riforma n. 69/2015) per l’inasprimento dell’apparato sanzionatorio delle false comunicazioni sociali, peraltro configurate quali delitti di pericolo – connotati da dolo specifico e perseguibili d’ufficio -.

In concreto, l’intervento di riforma operato dal legislatore in materia di false comunicazioni sociali è stato propriamente quello di realizzare un apparato normativo/sanzionatorio complessivamente e significativamente più ordinato – volto alla repressione delle sole falsificazioni di dati e stime iscritte a bilancio consapevolmente contrastanti con i criteri di valutazione previsti ex lege, ovvero, con quelli eccezionalmente indicati nella nota integrativa propriamente in deroga ai principi di redazione contabile normativamente fissati e, vieppiù, idonee a trarre in errore la fedele percezione dei destinatari/terzi sulla situazione economica, finanziaria e patrimoniale della società o Gruppo d’appartenenza -.

(di Giulia Piva)

Lo scorso 2 settembre 2015 è ufficialmente entrato in vigore il d.lgs. 128/2015 che – in attuazione della delega fiscale ex l. 23/2014 – ha profondamente riformato ed innovato la disciplina dell’abuso del diritto.

In particolare, l’obiettivo perseguito dal legislatore delegato è stato quello di colmare i vuoti normativi permeanti la materia dell’abuso/elusione fiscale e – conseguentemente – ricostruire una disciplina esaustiva ed idonea ad individuare “senza ambiguità i connotati dell’abuso e le modalità dell’uso distorto degli strumenti negoziali”.

Invero, la preesistente normativa – essenzialmente contenuta nell’art. 37-bis del Dpr 600/1973 ed, in minima parte, nell’art. 21-bis del Dpr 131/1986 – era estremamente evanescente, di creazione strettamente giurisprudenziale e – pertanto – assolutamente inidonea ad identificare in modo chiaro e preciso le condotte abusive fiscalmente illecite.

Il recente decreto ha così introdotto nello Statuto del contribuente (l. 212/2000) l’art. 10-bis, che abrogando il predetto art. 37-bis contenuto nel Dpr 600/1973 ha finalmente fornito gli strumenti utili a delineare i confini dell’abuso/elusione fiscale, introducendo – per la prima volta – una nozione generale di “abuso del diritto”, in grado di operare per tutti i tipi di imposte fatti salvi i diritti doganali per i quali restano in vigore le preesistenti normative di riferimento.

Sotto questo profilo, è tuttavia opportuno evidenziare che – a differenza dell’esplicita abrogazione intervenuta per l’art. 37-bis – il recente d.lgs. 128/2015 nulla ha disposto in merito al sopra evidenziato art. 21-bis, lasciando pertanto aperte le porte a possibili contrasti interpretativi che, certamente, si sarebbero potuti e/o dovuti evitare.

Ad ogni modo, fatto salvo l’“empasse” appena evidenziato, bisogna riconoscere che il legislatore delegato ha indubbiamente fornito maggior certezza al quadro normativo della materia, spingendosi – in concreto – molto al di là della mera specificazione della nozione di abuso del diritto, oggi identificata in “una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.

Difatti, da una parte, la recente introduzione dell’art. 10-bis – rubricato “disciplina dell’abuso o elusione fiscale” – ha determinato la parificazione dei concetti di “abuso” ed “elusione” fiscale, unificandoli sotto la medesima nozione onde evitare la delimitazione della condotta antielusiva a mere fattispecie casistiche di creazione meramente giurisprudenziale.

D’altra parte, l’intervenuto decreto ha contemporaneamente riconosciuto in capo al contribuente la libertà di perseguire un risparmio d‘imposta – il cui limite invalicabile è, unicamente costituito dalla realizzazione di indebiti vantaggi fiscali -.

L’aspetto ancor più innovativo, tuttavia, è indubbiamente rappresentato dall’espressa dichiarazione di irrilevanza penale delle condotte elusive contenuta nello stesso art. 10-bis, ove si afferma che “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie”.

Sul punto è intervenuta anche la Suprema Corte che – nella recente sentenza 40272/2015 – ha sottolineato come ad oggi eventuali contestazioni per condotte di elusione fiscale e/o di abuso del diritto non possano determinare in alcun modo incriminazioni tributarie – residuando, pertanto, l’intervento penale unicamente per lesioni frontali alla disciplina contenuta nel D.Lvo 74/2000 -.

Alla luce della specificazione della condotta ex art. 10 bis, la Corte di legittimità ha opportunamente escluso la mutua sovrapposizione tra la condotta elusiva/abusiva e quella configurante ipotesi di reati tributari o di simulazione, ovvero, di frodi o evasioni IVA – fattispecie quest’ultime che dovranno pertanto essere perseguite attraverso gli specifici strumenti sanzionatori già a disposizione dell’ordinamento vigente ai sensi del D.Lvo 74/2000 -.

Ad ogni modo, l’intento del recente decreto 128/2015 non è stato quello di fornire scorciatoie o di escludere qualsivoglia reazione sanzionatoria per i contribuenti responsabili di condotte fiscalmente abusive – bensì quello di optare per una (residuale) sanzionabilità in via amministrativa delle indicate condotte elusive -.

Al riguardo, la stessa Suprema Corte ha evidenziato come un’eventuale esclusione tout court di ogni genere di risposta sanzionatoria rispetto alle condotte antielusive risulterebbe certamente inidonea a fronteggiare l’esigenza di “prevedere un deterrente rispetto ad operazioni che, come quelle elusive, realizzano risultati comunque “indesiderati” dal punto di vista dell’ordinamento fiscale”.

Invero, appare evidente che – come recentemente avvenuto per il d.lgs. 158/2015 in materia tributaria – la finalità perseguita dal legislatore sia stata, in particolare, quella di tracciare i confini tra le condotte maggiormente dannose e quelle ritenute meno pregiudizievoli, ovvero, di operare una netta differenziazione tra le condotte (e le rispettive conseguenze sanzionatorie) di elusione e/o di abuso del diritto da quelle di evasione fiscale – anche al fine di una più efficace lotta alle evasioni e frodi IVA -.

Tuttavia, da un’accurata analisi della novellata disciplina anti/abusiva, emerge chiaramente come l’intervenuto decreto legislativo 128/2015 abbia introdotto principi e disposizioni normative che – in realtà – avrebbero già dovuto essere intrinseci ed immanenti all’ordinamento tributario stesso.

Il legislatore avrebbe, da tempo, dovuto seguire le indicazioni fornite dalla giurisprudenza in materia antielusiva – anticipando, così, le conclusioni di cui all’intervenuto d.lgs. 128/2015 (e successivamente confermate dalla stessa Corte di cassazione nella recentissima sentenza n. 40272 del 2015), ovvero, l’introduzione di una causa di non punibilità in sede penale per le condotte di elusione/abuso del diritto fiscalmente rilevanti -.

Difatti, la Suprema Corte, già nella famosa sentenza n. 43809 del 24 ottobre 2014, nel caso c.d. “Dolce&Gabbana”, aveva decretato l’irrilevanza penale della condotta di abuso del diritto, assolvendo con la formula piena del “perché il fatto non sussiste” i due celebri stilisti dal delitto di evasione fiscale realizzato mediante un’operazione di estero-vestizione, ovvero, di elusione fiscale.

Da tempo, infatti, si lamentava la necessità di riempire la nozione di “abuso del diritto” con contenuti puntuali per renderla idonea sia a rappresentare una valida alternativa alla fattispecie di evasione fiscale, che – conseguentemente – a costituire un indice di riferimento per l’eventuale configurazione (o meno) di condotte penalmente rilevanti.

Ne consegue che, se il legislatore fosse stato più attento e pronto a colmare i vuoti normativi in materia – disciplinando in modo chiaro gli elementi e pilastri fondamentali della normativa antiabusiva – si sarebbero certamente evitati numerosi e contrastanti interventi giurisprudenziali che, in numerosi casi – come in quello c.d. “Dolce&Gabbana” – hanno comportato reali calvari giudiziari per i contribuenti.

Infine, un ulteriore aspetto rilevante dell’intervenuto d.lgs. 128/2015 è sicuramente rappresentato dagli inevitabili effetti dirompenti che – a seguito della recente riforma – interesseranno i futuri procedimenti e, ancor più, quelli ancora pendenti in sede penale per le condotte abusive o elusive del diritto.

In particolare – sulla scia della pronuncia di legittimità n. 43809 del 24 ottobre 2014 recentemente intervenuta per i suddetti stilisti italiani – all’indomani dell’entrata in vigore del decreto 128/2015, numerosi procedimenti pendenti per condotte di abuso del diritto o di elusione fiscale verranno, in concreto, definiti con una sentenza di assoluzione piena per insussistenza del fatto.

Nello specifico, il nuovo d.lgs. 128/2015 – unitamente alla Corte di cassazione tramite la recente pronuncia di legittimità n. 40272 del 2015 – ha sancito l’applicabilità dell’art. 10-bis dello Statuto dei contribuenti a decorrere dalla data del 1° ottobre 2015 – precisando che sarà, tuttavia, applicabile – con effetto retroattivo a tutti i procedimenti penali (per condotte antielusive e/o antiabusive) già pendenti al 1.10.2015 – la depenalizzazione delle stesse condotte ai sensi dell’art. 10-bis, comma 13, dello Statuto del contribuente.

Invero, le disposizioni relative all’irrilevanza penale delle condotte antielusive e/o antiabusive si applicheranno anche a quei fatti di penale rilievo perfezionati antecedentemente alla data del 1.10.2015 – ed, in particolare, anche se entro la medesima siano già intervenuti atti impositivi di rilievo fiscale -.

Se così non fosse, all’indomani dell’intervenuta riforma antiabusiva, vi sarebbero infatti alcuni contribuenti condannati ed altri assolti, anche per i medesimi fatti di reato – in netto contrasto con la disciplina del favor rei secondo cui il giudice in caso di successione di leggi penali nel tempo è tenuto ad applicare la disciplina più favorevole all’imputato ex art. 2 C.p. -.

(di Paolo Ceresa e Francesco Zappia)

Il caso esaminato nel presente articolo prende spunto dalla verificabile circostanza secondo cui un’impresa, che nel proprio processo produttivo impieghi un bene strumentale il cui ammortamento fiscale è già in corso, decide di dotarsi di un altro bene strumentale identico o assimilabile (sotto il profilo tecnico) al primo, non perché intenda farlo entrare in funzione dal preciso istante in cui lo ha a disposizione, ma perché, ad esempio, reputa ragionevole che tale bene, per circostanze non prevedibili (es., guasti tecnici), potrebbe essere necessario per sostituire quello già in funzione.

La questione, dunque, si incardina intorno all’incertezza che il bene strumentale acquisito ma temporaneamente non utilizzato, possa legittimamente generare un componente negativo fiscalmente deducibile già a partire dall’esercizio in cui esso entra nella disponibilità dell’impresa, anche se come costo stesso non è atto a produrre i correlati ricavi d’esercizio (si ricorda, in proposito, che dal principio generale di correlazione tra costi e ricavi deriva la necessità che il costo di un bene strumentale possa essere ammortizzato fiscalmente nell’esercizio in cui i relativi ricavi vengono prodotti).

Innanzitutto va fatto cenno al concetto di ammortamento (che, come è noto, si distingue in civilistico e fiscale) quale procedimento tecnico-contabile che ha ad oggetto i beni materiali a fecondità ripetuta ed il cui valore è ripartito in più esercizi, in proporzione al loro deterioramento ed al consumo.

La disciplina civilistica differisce da quella fiscale nell’individuare i presupposti in base ai quali si può dare inizio all’ammortamento. Infatti:

  • per quel che riguarda l’ambito civilistico, il Principio Contabile n. 16 prevede che il processo di ammortamento inizi nel momento in cui il cespite è disponibile o pronto all’uso e che “L’ammortamento è calcolato anche sui cespiti temporaneamente inutilizzati”.
  • per quanto riguarda l’ambito fiscale, invece, il processo di ammortamento ha inizio nel momento in cui il cespite entra materialmente in funzione.

L’ammortamento fiscale, con riferimento ai beni materiali posseduti dall’impresa, è regolamentato dall’art. 102 del D.P.R. 917/86 che, al primo comma, stabilisce che “Le quote di ammortamento del costo dei beni materiali strumentali per l’esercizio dell’impresa sono deducibili a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene”, a nulla apparentemente rilevando che un bene sia potenzialmente idoneo all’utilizzo anche in un momento anteriore.

In generale, dunque, dalla lettura asettica della norma fiscale, a nulla sembrerebbe rilevare (ai fini dell’ammortamento) che il bene è disponibile e pronto all’utilizzo nell’anno x (esercizio in cui avrà senza dubbio inizio il processo di ammortamento civilistico) se esso entrerà in funzione (in senso tecnico) nell’esercizio x+1.

In questo ambito argomentativo, tuttavia, esaminando l’art. 102, comma 1 del D.P.R. 917/86, ci si trova di fronte ad un concetto più ampio di “entrata in funzione del bene”, non solo riferito all’aspetto puramente tecnico (es., montaggio meccanico del bene nell’impianto) ma anche al momento in cui l’ammortamento stesso diviene un onere “riconoscibile” – e, quindi, deducibile – in quanto derivante dalla partecipazione (anche passiva) del bene al ciclo produttivo.

“In generale, questo momento, coincide con l’esercizio in cui il cespite entra fiscalmente nel processo produttivo, ma non può escludersi un’anticipazione dell’ammortamento (…)” La Relazione governativa di accompagnamento al progetto di Testo Unico spiegava la modifica definendo “equivoca” la vecchia formula; secondo la precedente formulazione dell’art. 102 del TUIR, infatti, si menzionava, quale momento nel corso dell’esercizio in cui veniva ammesso l’ammortamento fiscale del bene, “l’esercizio nel quale è stato o avrebbe potuto essere utilizzato”. Diversamente, la successiva formulazione, pur nell’intento di eliminare possibili strumentalizzazioni della norma, “(…) è tra l’altro intesa a chiarire che non è richiesto l’effettivo impiego nel processo produttivo per quei beni la cui funzione è quella di essere pronti ad essere impiegati in caso di necessità (ad es., motori di ricambio).” (cfr. A. Blasi, G. Minucci, “TUIR 2013″, Maggioli, p. 673).

Le citata dottrina, che assume principi già emanati da autorevole giurisprudenza di legittimità e di merito, mette in luce come il momento di entrata in funzione del bene materiale non coincida necessariamente con quel momento in cui il bene inizia a produrre costi e, correlativamente, ricavi. O meglio, ci si potrebbe spingere a concepire che il bene acquisito produca costi, ammortizzabili per quota imputabile sin dall’esercizio in cui esso resta meramente nella disponibilità dell’impresa, già solo per il fondamentale fatto che l’imprenditore se ne è dotato per uno scopo specifico.

Ed infatti, la motivazione dell’imprenditore, che al di là dell’effettiva messa in funzione di uno o più beni anticipatamente acquisiti (eventualmente si potrebbe parlare anche di un unico bene “smembrabile” in parti che lo compongono le quali, singolarmente, si qualificano come “autonome” parti di ricambio utili a garantire vitalità produttiva al bene strumentale già in uso ), decide di porli nella disponibilità propria e del processo produttivo, è ben precisa ricorrendo all’acquisizione di tali beni –“la cui funzione – ricordiamolo – è quella di essere pronti ad essere impiegati in caso di necessità” – perché considera tutto ciò, evidentemente, una circostanza immancabile per non incorrere nel rischio di cessare la continuità del processo produttivo in atto.

Dunque, più che un momento nell’ambito dell’esercizio, il concetto di entrata in funzione di un bene è da considerarsi come reperibile nell’analisi della funzione che il bene produce per un processo produttivo continuo, la cui interruzione, evidentemente, risulta assolutamente dannosa per l’impresa, che si troverebbe ad affrontare una contrazione violenta e imprevista dei ricavi per non aver provveduto a dotarsi di impianti/parti di ricambio dell’impianto pronti a sostituire quelli in funzione.

In tal caso, il costo sostenuto per il bene strumentale è da ritenere ammortizzabile fiscalmente già dall’esercizio in cui è stato acquisito, ancorché non venga tecnicamente impiegato nella produzione (entrando materialmente in funzione), perché, sebbene indirettamente, riflette la continuità di un processo produttivo utile e, quindi, produttivo di ricavi.

Dunque, in tal senso, l’acquisizione del bene si rende un costo necessario, certamente strumentale (si potrebbe metaforizzare un “costo imminentemente in produzione” pronto, dunque, a sostituire un “costo già in produzione”) ed ammortizzabile, già producendo il bene acquisito la propria utilità sin dal primo esercizio in cui esso garantisce la correlazione/continuità con i ricavi prodotti nel corso dell’esercizio stesso. E tale concetto viene ribadito dalle successive sentenze citate, in termini di condizione di continuità tra un bene in funzione ed un altro pronto per la sostituzione; per cui il concetto di entrata in funzione del bene, al di là dell’effettiva messa in funzionamento dello stesso, resta ancorato ad un tempo coincidente con quello del bene già in uso; e resta, dunque, ancorato ad un preciso ruolo di detto bene all’interno dell’impresa.

Tutto ciò in ragione di peculiari processi produttivi e, chiaramente, dell’esistenza, nel contesto produttivo stesso, di fattori valutativi che l’imprenditore, informato ad una logica economico/produttiva calzante con la realtà d’impresa, ritiene come fondamentali quali, ad esempio, la ragionevole probabilità che il bene materiale in funzione deperisca, anche in parte, nel corso della lavorazione, e che il processo produttivo debba necessariamente essere caratterizzato dall’elemento dell’improrogabile continuità. In modo certamente singolare, dunque, si potrebbe attribuire già alla fase di preventiva dotazione del bene un vero e proprio carattere di “strumentalità“, perchè sin da questa fase si realizza quel “legame funzionale” tra la preventiva decisione della dotazione di un bene e la sostituzione imminente di quello in uso.

A questa impostazione si richiama la giurisprudenza della Corte di Cassazione quando stabilisce che “l’espressione “entrata in funzione di un bene” di immediata e necessaria sostituibilità rispetto ad un bene in uso necessariamente continuativo deve essere intesa come coincidente con quella del bene che si usa e che, in quanto sia soggetto a imprevedibile deperibilità o rottura, è da considerarsi funzionalmente inseparabile dal bene disponibile per l’immediato ricambio” (cfr. Cassazione, 11 aprile 2008, n. 9497 e Cassazione, 4 aprile 2008, n. 8773; si veda anche Boll. Trib. 2008, p. 1613, Roberto Antonelli e Raffaele D’Alessio, “Dai conti alla dichiarazione dei redditi 2014”, Maggioli 2014, p. 388; Carlo Oneto, “Contabilità fiscale e bilancio d’esercizio”, Maggioli 2013, p. 385).

Da ultimo, “È vero infatti che, in tema di redditi di impresa, le quote di ammortamento del costo dei beni materiali strumentali sono deducibili, ai sensi dell’art. 67, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, a partire dall’esercizio di entrata in funzione del bene, espressione quest’ultima che, se riferita a beni di immediata e necessaria sostituibilità rispetto ad un bene in uso necessariamente continuativo, va intesa come coincidente con quella del bene che si usa e che, in quanto soggetto ad imprevedibile deperibilità o rottura, è funzionalmente inseparabile dal bene disponibile per l’immediato ricambio. Così la S.C. (8773/2008) ebbe a ritenere che questa relazione di congiunta funzione si realizzi tra gli erogatori dei carburanti usati nelle stazioni di servizio e quelli destinati al loro ricambio, per i quali ultimi, quindi, è da ritenersi legittima la deduzione di quote di ammortamento anche se lasciati in deposito presso le stazioni di servizio e non ancora utilizzati”. (cfr. Cass., 4 giugno 2014, n. 12502).

(di Marco Cardillo)

La Sezione V della Cassazione Civile, con la sentenza n. 17646 del 06/08/2014, ha ribadito che la   procedura   di   accertamento,   mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto ai valori ‘standards’. Infatti quest’ultimi sono solamente degli strumenti di ricostruzione statistica finalizzati alla determinazione della redditività normale, quindi è obbligatorio instaurare un contraddittorio tra l’Amministrazione Finanziaria ed il contribuente, pena la nullità dell’accertamento1.

Il contribuente in contraddittorio deve provare la presenza di condizioni che motivano la sua esclusione dall’applicazione degli studi di settore. A tutela del contribuente è previsto l’obbligo per l’Amministrazione Finanziaria di motivare l’avviso di accertamento.

La motivazione dell’atto deve:

¨      spiegare lo scostamento,

¨      dimostrare l’applicabilità in concreto dei parametri o degli studi di settore,

¨      illustrare le ragioni per le quali sono stati disattesi i chiarimenti del contribuente.

Da questa pronuncia giurisprudenziale si rileva che nell’attività istruttoria basata su parametri o studi di settore:

1.      è una presunzione semplice l’applicazione degli ‘standards’;

2.      l’A.F. è obbligata ad invitare il contribuente al contraddittorio;

3.      il contribuente ha il diritto di giustificare lo scostamento in sede di contraddittorio;

4.      la motivazione dell’avviso di accertamento deve illustrare le ragioni che hanno portato l’ufficio a non ritenere sufficienti i chiarimenti del contribuente.

Nel caso in cui il contribuente invitato al contraddittorio non si presenti, ovvero si astenga dall’illustrare le condizioni che motivano la sua esclusione dall’applicazione degli studi di settore, l’Agenzia delle Entrate ‹non è tenuta   ad   offrire   alcuna   ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata con l’applicazione dei parametri›2.

Note

1 Principio già enunciata dalla Suprema Corte di Cassazione nelle sentenze 26635/09, 7181/12, 6929/13 e 10040/14.

2 Suprema Corte di Cassazione, sentenza n. 17646 del 06/08/2014

(di Debora Mirarchi)

Che gli atti dell’Amministrazione finanziaria debbano essere motivati è cosa nota.

Tale obbligo è disciplinato, in primis, dal combinato disposto dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 3 della L. n. 241/90.

L’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 prevede che l’avviso di accertamento deve “essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato”. Ancora l’art. 3 della L. n. 241/90 stabilisce un generale obbligo di motivazione per gli atti della Pubblica amministrazione, stabilendo che “ogni provvedimento amministrativo […] deve essere motivato”. Questo dovere è stato poi ulteriormente esplicitato, con specifico riguardo agli atti dell’Amministrazione finanziaria, dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/00) il cui art. 7 sancisce, a pena di nullità, che “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto disposto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 […] indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.

L’obbligo di motivazione è indubbiamente un principio cardine che regola e al contempo limita il potere della Pubblica Amministrazione.

La presente disamina non vuole analizzare in quali casi e in quali termini sia possibile riscontare un difetto di motivazione dell’avviso di accertamento tale da legittimare la declatoria di nullità dello stesso in un eventuale giudizio, bensì stimolare una riflessione critica sul governo che l’Amministrazione finanziaria, in alcuni casi, fa di tale principio, con particolare attenzione alle ipotesi in cui l’atto impositivo si limiti ad un acritico recepimento delle risultanze contenute in altri atti allegati o riportati pedissequamente negli atti impositivi.

Non si può non ammettere che spesso gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate licenzino i propri atti impositivi omettendo di motivare le ragioni fondanti la propria pretesa impositiva, rendendo difficoltosa anche la stessa difesa per il contribuente.

E non si può nemmeno negare che la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, non sia, in parte, responsabile. In più occasioni i giudici della Suprema Corte hanno avallato l’operato degli Uffici, ritenendo soddisfatto l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento ogniqualvolta “abbia un contenuto minimo che consenta al contribuente di risalire alle ragioni giuridiche che hanno determinato l’emanazione dell’accertamento medesimo e che realizzi l’esercizio del diritto alla difesa” (Cass. SS.UU. n. 5787/88 Cass. n.1915/08 – Cass. n. 14700/01 – Cass. 4061/01 – Cass. 7149/01). Il riferimento al “contenuto minimo”, ribadito dalla giurisprudenza, ha sempre fornito l’assist all’Agenzia delle Entrate per poter emettere atti impositivi il cui contenuto motivazionale palesava non trascurabili lacune. Per nulla isolate sono le pronunce della Suprema Corte con cui è stato affermato il rispetto dell’obbligo di motivazione anche nei casi in cui le ragioni del provvedimento siano motivate in maniera estremamente contratta e semplificata, in quanto, “la motivazione deve dare conto della sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma non ha l’obbligo di dimostrare, anche sul piano probatorio, l’effettiva esistenza di quanto l’ufficio afferma. È sufficiente che essa indichi i fatti ipotizzati dall’Ufficio in guisa tale che il contribuente possa comprendere se, e in quale misura, rispondono alla realtà” (Cass. n. 7991/96 e conformemente Cass. n. 1915/08).

In senso analogo si è espressa la Suprema Corte che con la sentenza n. 658/00 ha affermato che “l’art. 42, comma 2, del D.P.R. esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa”.

È noto anche che l’Amministrazione finanziaria possa motivare i propri atti impositivi riportando il contenuto o allegando un altro atto relativo ad un giudizio il cui oggetto può anche essere ben diverso dall’accertamento di un comportamento non conforme alla normativa tributaria.

In questi casi si parla di motivazione per relationem normativamente prevista dall’ultimo periodo dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Forti perplessità sorgono quando gli Uffici, nel tentativo di giustificare la pretesa impositiva contenuta in un avviso di accertamento carente da un punto di vista motivazionale, difendono il proprio operato trincerandosi dietro all’istituto della motivazione per relationem.

Il confine fra l’istituto della motivazione per relationem e l’acritico recepimento delle risultanze contenute in un altro atto sia esso di natura impositiva o no, a parere di chi scrive censurabile, è, infatti, molto sottile e spesso, dagli Uffici, travalicato.

Si parla di acritico recepimento quando gli Uffici emettono, ad esempio, avvisi di accertamento senza né verificare né controllare la correttezza e la fondatezza dell’atto a cui rinviano.

In questi casi, ovvero quando la motivazione si risolve in un mero rinvio o in una acritica ricezione di un altro atto, a parere di chi scrive, non si può negare la violazione del principio di motivazione.

Di diverso avviso è, in parte, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in più di una occasione, ha ribadito il fermo principio in base al quale “la motivazione degli atti di accertamento «per relationem», con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Cass. n. 211195/11 e conformemente Cass. n. 10205/03 – Cass. n. 15379 del 2002).

Non si possono nascondere le perplessità che una simile posizione solleva, soprattutto perché foriera di non peregrini effetti distorsivi dell’attività accertativa.

Non di rado ci si imbatte in atti impositivi c.d “copia e incolla” dai quali non emerge l’espletamento di una particolare attività istruttoria ma solo mere affermazioni di stile circa una generica condivisione dei risultati e del complessivo contenuto dell’atto a cui rinvia.

Timidi temperamenti ad una così rigida impostazione sono stati offerti dalla stessa Corte di Cassazione che precisa che quando l’atto impositivo sia “il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali” (Cass. n. 211195/11).

In tale contesto degno di nota è l’orientamento espresso da alcune attente Corti di merito (Comm. trib. prov. di Bologna del 5 gennaio 2006, n. 216 – Comm. trib. prov. Macerata del 23 novembre 1999, n. 289 – Comm. trib. prov. Rovigo n. 92/1/2013) che, pur riconoscendo la facoltà degli Uffici di motivare gli atti impositivi rinviando al ragionamento e agli elementi contenuti in un altro atto, pongono a tale potere un necessario limite.

Secondo questo condivisibile orientamento dei giudici di merito, gli Uffici, nell’emettere un avviso di accertamento il cui contenuto rinvii ad un altro e diverso atto, sono in ogni caso tenuti a valutare autonomamente e acriticamente l’atto di cui condividono il percorso logico.

Occorre precisare che non si vuole certo negare la facoltà degli Uffici “costruire” la propria pretesa impositiva su elementi raccolti in altro atto.

Ma, poiché è solo agli Uffici dell’Amministrazione finanziaria che compete l’esercizio del potere accertativo non si possono non manifestare dubbi quando si consente agli stessi Uffici di emettere un avviso di accertamento espressione del potere impositivo omettendo di valutare autonomamente gli elementi recepiti da altri atti e di motivare le ragioni che hanno indotto a condividerli.

 

(di Mariella Orlando)

Ad oggi non esiste ancora un orientamento  univoco sulla legittimità all’impugnazione dell’estratto di ruolo. In particolare una parte della giurisprudenza ritiene l’estratto di ruolo non impugnabile dal contribuente in quanto atto interno all’amministrazione finanziaria; differentemente l’altra parte qualifica l’estratto di ruolo come una parziale riproduzione del ruolo e conseguentemente basta la semplice ricezione della notizia dell’esistenza di una pretesa tributaria per far sorgere, in capo al contribuente, un interesse ad agire tendente a chiarire la sua posizione con il fisco.

Il presente lavoro vuole  mettere in luce  le diverse interpretazioni della giurisprudenza.

1.L’impugnabilità dell’estratto di ruolo

Di recente la Corte di Cassazione (Cass. civ, ord 6 luglio 2010 n. 15946) ha ammesso nell’ambito del processo tributario il gravame avverso il c.d. estratto di ruolo, ovvero di quella certificazione rilasciata dall’agente di riscossione al contribuente a seguito di una sua richiesta allo sportello informativo.

La pronuncia in questione appare condivisibile nella misura in cui aumenta la possibilità di tutela giudiziale nei confronti di  un atto potenzialmente lesivo per il contribuente. Emerge però un contrato di questo orientamento giurisprudenziale di legittimità rispetto alle ultime novità legislative, tese ad assicurare una sempre maggiore speditezza alla riscossione delle imposte, prevedendo in alcune ipotesi la soppressione dell’iscrizione a ruolo, in favore dell’inserimento diretto, nell’atto di accertamento, dell’exquatur proprio del ruolo esattoriale.

Ammettere l’impugnabilità dell’estratto di ruolo si pone in contrasto con la politica perseguita dal legislatore producendo l’effetto avverso, ossia rallentare, potenzialmente, la procedura di riscossione, esponendola a liti pretestuose con finalità soltanto dilatorie.

Per altro se appare inconfutabile che le regole della riscossione definiscono il ruolo come atto interno dell’amministrazione , che assume fisionomia giuridica di provvedimento amministrativo soltanto attraverso la notifica della cartella di pagamento (che diviene definitiva trascorsi sessanta giorni dalla sua notifica, in assenza di ricorso nei termini indicati dall’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992), a maggior ragione deve essere inteso come improduttivo di effetti giuridici il suo estratto, ossia la semplice certificazione dei risultati scaturenti dalla interrogazione del sistema informatico dell’agente di riscossione.

In termini generali, l’intendo della Cassazione di adeguare il complesso di garanzie e delle tutela accordate al contribuente, proprio in questa fase storica nella quale la produzione normativa è impegnata a potenziare l’attività di riscossione, non controbilanciando tale maggiore forza coattiva con la previsione di adeguati mezzi di tutela per il cittadino pe evitare inevitabilmente effetti distorsivi del sistema.

In questo senso devono essere interpretate le regole che lo stesso Legislatore ha imposto al concessionario con le nuove disposizioni previste dal Decreto n. 70/2011.

Nella recente pronuncia della Cassazione n. 2248 del 2014, i giudici – nel confermare quanto detto pocanzi-  hanno ritenuto che nonostante il ruolo rappresenti un atto interno dell’amministrazione, costituisce comunque uno strumento fondamentale della riscossione poiché contiene l’indicazione del periodo d’imposta, cui l’iscrizione si riferisce, dell’imponibile, dei versamenti e dell’imposta effettivamente dovuta, oltre che degli interessi e delle sanzioni pecuniarie eventualmente irrogabili al contribuente: tale iscrizione costituisce, il valido e legittimo titolo per la riscossione del tributo, mentre la cartella esattoriale costituisce lo strumento mediante il quale la pretesa esattoriale viene portata a conoscenza del debitore d’imposta. Ne deriva che il momento determinante per l’instaurazione del rapporto giuridico di riscossione è quello della formazione del ruolo e non già quello della notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

In pratica, l’estratto di ruolo consegnato dal concessionario della riscossione al contribuente è impugnabile se questi è venuto a conoscenza della cartella esattoriale per la prima volta grazie a tale atto. Infatti- come ripreso nelle sentenze della Cassazione n. 724 del 2010 e n. 27385 del 2008 –  si riconosce “ la possibilità di ricorrere alla tutela del Giudice Tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore senza necessità di attendere che la stessa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili”.

D’Altronde, si può facilmente comprendere il forte interesse all’impugnabilità delle cartelle attraverso gli estratti di ruolo, in quanto basti pensare che nel caso in cui il contribuente avesse ricevuto un atto esecutivo da parte di Equitalia per quelle pretese tributari – si pensi al pignoramento sul conto corrente bancario o ad un pignoramento mobiliare – sarebbe stato totalmente privo di tutela e non avrebbe avuto la possibilità di opporsi. Infatti, ai sensi dell’art. 57 del DPR 602/73 per i debiti tributari “non sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 cpc”.

In pratica, per legge e solo per i debiti tributari se il contribuente riceve uno degli strumenti esecutivi sopra citati non ha più la possibilità di contestare il debito (attraverso una normale opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc) poiché ciò è escluso dallo stesso legislatore.

Il contribuente, dunque, nel caso di specie si sarebbe trovato nella situazione paradossale di venire a conoscenza del debito tributario solo a seguito del ricevimento di un pignoramento ma non di poter contestare la mancata notifica delle precedenti cartelle esattoriali. Ovviamente una situazione del genere sarebbe palesemente incostituzionale e per questo motivo si ritiene saggia la scelta di ritenere impugnabili gli estratti di ruolo.

A chi sostiene che il ruolo non abbia un vero e proprio contenuto impositivo, la Corte risponde che, comunque, è compito del giudice valutare il contenuto sostanziale impositivo, inteso quale attitudine a rappresentare e rendere conoscibile la pretesa tributaria negli elementi essenziali e sufficienti per adire la tutela amministrativa o giudiziale. Di contro è  evidente poi che la ricorribilità dell’estratto di ruolo consentirebbe a chiunque di predeterminare a proprio piacimento i termini a quo di proposizione del gravame, ovvero di eludere quelli riguardanti la cartella esattoriale.

Non si ravvisa assenza di tutela per il contribuente per la quale è necessario l’intervento interpretativo fornito dalla Corte di Cassazione. Infatti anche nella circostanza di accertata nullità della notifica della cartella esattoriale, il rimedio processuale per accertarne la sua inesistenza o contestarne l’iscrizione a ruolo è garantito dalla diretta impugnabilità dei successivi atti esecutivi, come l’avviso di mora, il pignoramento o gli altri strumenti cautelari quali il fermo amministrativo e l’ipoteca. Il loro eventuale accoglimento determinerebbe la nullità anche della procedente cartella di pagamento, non notificata correttamente.

Pertanto in tale ipotesi, la giurisprudenza prevalente constata la nullità del precedente atto impositivo riconosce la possibilità, attraverso l’atto successivo ritualmente notificato e impugnato, di contestare le ragioni del credito evidenziate nell’atto precedente, dal momento che manca la regolare notifica del provvedimento impositivo autonomo (Cass. Se. Un. Sent. 25 luglio 2007 n. 16412)[1].

2. L’estratto di ruolo come un atto interno dell’amministrazione e pertanto non impugnabile.

In aperta antitesi si pongono altre pronunce giurisprudenziali, le quali ritengono l’estratto di ruolo non impugnabile dal contribuente perché  atto interno all’amministrazione finanziaria[2].  Nello specifico l’estratto di ruolo non può essere oggetto di autonoma impugnazione davanti al giudice tributario, e questo perché senza la notifica di un atto impositivo non c’è alcun interesse concreto e attuale ex art. 100 c.p.c. a radicare una lite tributaria[3]; l’estratto di ruolo, quindi, può essere impugnato soltanto unitamente alla cartella di pagamento che sia stata notificata e ciò è altresì confermato dalla struttura oppositiva del processo tributario, che non ammette preventive azioni di accertamento negativo del tributo[4].

La recente sentenza della Cassazione n. 6395 del 2014 ha chiarito che l’estratto di ruolo – essendo un atto interno dell’amministrazione – non può essere oggetto di autonoma impugnazione, ma deve essere impugnato sempre insieme alla cartella (nella quale il ruolo viene trasfuso). Altrimenti, il ricorso contro il ruolo non è possibile, per mancanza di interesse concreto ed attuale del contribuente ad istaurare una lite tributaria: il ruolo, infatti, non costituisce una vera e propria pretesa tributaria, ossia una intimazione o un avviso a pagare (questi ultimi , invece, sono contenuti tipici solo della cartella ed è contro quest’ultima che, invece, il contribuente deve ricorrere davanti al giudice).

Ciò significa che l’estratto di ruolo può essere impugnato soltanto unitamente alla cartella  che sia stata notificata. Ciò  che è altresì confermato dalla struttura oppositiva del processo tributario, che non ammette preventive azioni di accertamento negative del tributo.

 

 


[1] La decisione della Suprema Corte risulta conforme all’univoco orientamento interpretativo che ritiene impugnabile “tutti quegli atti con cui l’amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definitiva (Cass., sen 15 ottobre 2010 n. 14373).

[2] Cass. sent. n. 6395 del 19.03.2014

[3] Cass. sent n. 6610 del 15 marzo 2013.

[4] Sentenza n. 89/02/07 la Commissione Tributaria Provinciale di Siracusa.

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