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motivazione

(di Debora Mirarchi)

Che gli atti dell’Amministrazione finanziaria debbano essere motivati è cosa nota.

Tale obbligo è disciplinato, in primis, dal combinato disposto dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 e dell’art. 3 della L. n. 241/90.

L’art. 42 del D.P.R. n. 600/73 prevede che l’avviso di accertamento deve “essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato”. Ancora l’art. 3 della L. n. 241/90 stabilisce un generale obbligo di motivazione per gli atti della Pubblica amministrazione, stabilendo che “ogni provvedimento amministrativo […] deve essere motivato”. Questo dovere è stato poi ulteriormente esplicitato, con specifico riguardo agli atti dell’Amministrazione finanziaria, dallo Statuto dei diritti del contribuente (L. n. 212/00) il cui art. 7 sancisce, a pena di nullità, che “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto disposto dall’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241 […] indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che determinano la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.

L’obbligo di motivazione è indubbiamente un principio cardine che regola e al contempo limita il potere della Pubblica Amministrazione.

La presente disamina non vuole analizzare in quali casi e in quali termini sia possibile riscontare un difetto di motivazione dell’avviso di accertamento tale da legittimare la declatoria di nullità dello stesso in un eventuale giudizio, bensì stimolare una riflessione critica sul governo che l’Amministrazione finanziaria, in alcuni casi, fa di tale principio, con particolare attenzione alle ipotesi in cui l’atto impositivo si limiti ad un acritico recepimento delle risultanze contenute in altri atti allegati o riportati pedissequamente negli atti impositivi.

Non si può non ammettere che spesso gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate licenzino i propri atti impositivi omettendo di motivare le ragioni fondanti la propria pretesa impositiva, rendendo difficoltosa anche la stessa difesa per il contribuente.

E non si può nemmeno negare che la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, non sia, in parte, responsabile. In più occasioni i giudici della Suprema Corte hanno avallato l’operato degli Uffici, ritenendo soddisfatto l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento ogniqualvolta “abbia un contenuto minimo che consenta al contribuente di risalire alle ragioni giuridiche che hanno determinato l’emanazione dell’accertamento medesimo e che realizzi l’esercizio del diritto alla difesa” (Cass. SS.UU. n. 5787/88 Cass. n.1915/08 – Cass. n. 14700/01 – Cass. 4061/01 – Cass. 7149/01). Il riferimento al “contenuto minimo”, ribadito dalla giurisprudenza, ha sempre fornito l’assist all’Agenzia delle Entrate per poter emettere atti impositivi il cui contenuto motivazionale palesava non trascurabili lacune. Per nulla isolate sono le pronunce della Suprema Corte con cui è stato affermato il rispetto dell’obbligo di motivazione anche nei casi in cui le ragioni del provvedimento siano motivate in maniera estremamente contratta e semplificata, in quanto, “la motivazione deve dare conto della sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma non ha l’obbligo di dimostrare, anche sul piano probatorio, l’effettiva esistenza di quanto l’ufficio afferma. È sufficiente che essa indichi i fatti ipotizzati dall’Ufficio in guisa tale che il contribuente possa comprendere se, e in quale misura, rispondono alla realtà” (Cass. n. 7991/96 e conformemente Cass. n. 1915/08).

In senso analogo si è espressa la Suprema Corte che con la sentenza n. 658/00 ha affermato che “l’art. 42, comma 2, del D.P.R. esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione di fatti astrattamente giustificativi di essa”.

È noto anche che l’Amministrazione finanziaria possa motivare i propri atti impositivi riportando il contenuto o allegando un altro atto relativo ad un giudizio il cui oggetto può anche essere ben diverso dall’accertamento di un comportamento non conforme alla normativa tributaria.

In questi casi si parla di motivazione per relationem normativamente prevista dall’ultimo periodo dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dall’art. 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Forti perplessità sorgono quando gli Uffici, nel tentativo di giustificare la pretesa impositiva contenuta in un avviso di accertamento carente da un punto di vista motivazionale, difendono il proprio operato trincerandosi dietro all’istituto della motivazione per relationem.

Il confine fra l’istituto della motivazione per relationem e l’acritico recepimento delle risultanze contenute in un altro atto sia esso di natura impositiva o no, a parere di chi scrive censurabile, è, infatti, molto sottile e spesso, dagli Uffici, travalicato.

Si parla di acritico recepimento quando gli Uffici emettono, ad esempio, avvisi di accertamento senza né verificare né controllare la correttezza e la fondatezza dell’atto a cui rinviano.

In questi casi, ovvero quando la motivazione si risolve in un mero rinvio o in una acritica ricezione di un altro atto, a parere di chi scrive, non si può negare la violazione del principio di motivazione.

Di diverso avviso è, in parte, la giurisprudenza della Corte di Cassazione che, in più di una occasione, ha ribadito il fermo principio in base al quale “la motivazione degli atti di accertamento «per relationem», con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Cass. n. 211195/11 e conformemente Cass. n. 10205/03 – Cass. n. 15379 del 2002).

Non si possono nascondere le perplessità che una simile posizione solleva, soprattutto perché foriera di non peregrini effetti distorsivi dell’attività accertativa.

Non di rado ci si imbatte in atti impositivi c.d “copia e incolla” dai quali non emerge l’espletamento di una particolare attività istruttoria ma solo mere affermazioni di stile circa una generica condivisione dei risultati e del complessivo contenuto dell’atto a cui rinvia.

Timidi temperamenti ad una così rigida impostazione sono stati offerti dalla stessa Corte di Cassazione che precisa che quando l’atto impositivo sia “il risultato dell’esercizio di un potere frazionato anche in poteri istruttori attribuiti, in proprio o per delega, ad altri uffici amministrativi, è legittimamente adottato quando, munendosi di un’adeguata motivazione, faccia propri i risultati conseguiti nelle precedenti fasi procedimentali” (Cass. n. 211195/11).

In tale contesto degno di nota è l’orientamento espresso da alcune attente Corti di merito (Comm. trib. prov. di Bologna del 5 gennaio 2006, n. 216 – Comm. trib. prov. Macerata del 23 novembre 1999, n. 289 – Comm. trib. prov. Rovigo n. 92/1/2013) che, pur riconoscendo la facoltà degli Uffici di motivare gli atti impositivi rinviando al ragionamento e agli elementi contenuti in un altro atto, pongono a tale potere un necessario limite.

Secondo questo condivisibile orientamento dei giudici di merito, gli Uffici, nell’emettere un avviso di accertamento il cui contenuto rinvii ad un altro e diverso atto, sono in ogni caso tenuti a valutare autonomamente e acriticamente l’atto di cui condividono il percorso logico.

Occorre precisare che non si vuole certo negare la facoltà degli Uffici “costruire” la propria pretesa impositiva su elementi raccolti in altro atto.

Ma, poiché è solo agli Uffici dell’Amministrazione finanziaria che compete l’esercizio del potere accertativo non si possono non manifestare dubbi quando si consente agli stessi Uffici di emettere un avviso di accertamento espressione del potere impositivo omettendo di valutare autonomamente gli elementi recepiti da altri atti e di motivare le ragioni che hanno indotto a condividerli.

 

di Ivana Colombo

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