Direttore Scientifico: Claudio Melillo - Direttore Responsabile: Serena Giglio - Coordinatore: Pierpaolo Grignani - Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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agenzia delle entrate

Libro: Compliance Fiscale

Come prevenire i rischi in ambito tributario ai fini della compliance

(di Claudio Melillo)

Ho appena terminato l’ultima mia fatica editoriale (con prefazione del Prof. Avv. Raffaello Lupi) dal titolo:

Compliance Fiscale – Strumenti e soluzioni per la prevenzione dei rischi fiscali.

Il mio libro ha un approccio molto pragmatico e contiene numerosi esempi, check list, schemi, modelli e casi reali tratti dalla mia esperienza professionale (15 anni come funzionario della Guardia di Finanza e 10 come Fiscalista). L’ultimo capitolo descrive un case history tratto da un progetto da me implementato presso un’impresa mia Cliente che spiega come si può realizzare un sistema di gestione e controllo del rischio fiscale sia ai fini dell’adesione alla cooperative compliance (per le imprese più grandi) sia ai fini della gestione virtuosa dei rapporti con il Fisco (per le PMI).

Si tratta di un’opera che testimonia la crescente importanza della cooperazione tra Fisco e Contribuenti e la conseguente necessaria attenzione alla riduzione dei rischi di natura fiscale e penal-tributaria derivanti dalle questioni interpretative. Non a caso, la sua pubblicazione si sovrappone alle recenti direttive sull’analisi dei rischi fiscali e sulla compliance per il triennio 2019-2021 emanate dall’Agenzia delle Entrate guidata dal Gen. Dott. Antonino Maggiore di cui alla circolare nr. 19/E dell’8 agosto 2019.

L’approccio del libro è multidisciplinare poiché l’impresa (principale oggetto della mia indagine) può essere investigata, sotto il profilo fiscale, solo se si comprendono correttamente tutti gli altri profili che la caratterizzano (es., organizzativo, legale, societario, contabile, finanziario, ecc.)

All’interno del libro ci sono anche alcuni preziosi contributi di due brillanti Ufficiali della Guardia di Finanza di Milano, di un manager di una prestigiosa Azienda e di un Avvocato del mio Studio.

Il libro è destinato a: commercialisti, avvocati, consulenti fiscali, responsabili amministrativi e fiscali d’azienda, tax auditor, operatori dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza, tax risk manager, tax compliance officer, ecc.

Per chi volesse acquistare l’opera edita da IPSOA Wolters Kluwer: ACQUISTA IL LIBRO (IN PROMOZIONE)

Per informazioni: compliancefiscale@economiaediritto.

Giudizio

(di Gianluca Floriddia e Serena Giglio)

È recentemente balzata agli onori della “cronaca” la tematica riguardante la possibilità, per l’Agenzia delle Entrate – Riscossione, di difendersi in giudizio solo con personale interno ovvero avvalendosi anche dell’assistenza di avvocati del libero foro. La diatriba non è nuova, infatti, già all’epoca dell’esistenza di Equitalia (attuale Agenzia Riscossione), molti giudici avevano ritenuto illegittima la difesa spiegata dall’Esattore in persona di un avvocato del libero foro.

Analizzando il quadro normativo di riferimento, le suddette inammissibilità discenderebbero dall’art. 11 del D.lgs. 546/92 (cosi come novellato dall’art. 9, co. 1, lett. d), num. 1, del D.lgs. 156/2015, a decorrere dal 1° gennaio 2016), in forza del quale: «Le parti diverse da quelle indicate nei commi 2 e 3 possono stare in giudizio anche mediante procuratore generale o speciale. L’ufficio dell’Agenzia delle entrate e dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al d.lgs. 300/99 nonché dell’agente della riscossione, nei cui confronti è proposto il ricorso, sta in giudizio direttamente o mediante la struttura territoriale sovraordinata (…)».Tale disposizione normativa viene poi esplicitamente riportata anche nel D.L. n. 193/2016, convertito con modificazioni dalla Legge 1° dicembre 2016, n. 225, nel quale, all’art. 1, co. 8, viene previsto che: «per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie continua ad applicarsi l’art. 11, co. 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546».

A conferma e chiarimento dell’indirizzo giurisprudenziale di merito consolidatosi nel tempo nei sensi anzi chiariti, è finalmente intervenuta – a mettere un punto fermo alla querelle – la Suprema Corte di Cassazione che, con recentissime pronunce n. 28684 del 10.10.2018 e n. 28741 del 23.10.2018, ha stabilito che: «il nuovo ente può anche avvalersi di avvocati del libero foro sulla base di specifici criteri definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5 del presente articolo e secondo i parametri selettivi di affidamento di cui al d.lgs. 50/16 (codice dei contratti pubblici). La norma ha esteso, dunque, l’inammissibilità della rappresentanza processuale volontaria, oltre che espressamente agli uffici dell’Agenzia delle entrate ed a quelli dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli ed alle cancellerie o segreteria dell’ufficio giudiziario, anche all’ufficio dell’Agente della riscossione, il quale quindi deve stare in giudizio direttamente (o mediante la struttura territoriale sovraordinata), cioè in persona dell’organo che ne ha la rappresentanza verso l’esterno o di uno o più suoi dipendenti dallo stesso organo all’uopo delegati, e non può farsi rappresentare in giudizio da un soggetto esterno alla sua organizzazione, tranne che nelle ipotesi in cui può avvalersi della difesa dell’avvocatura dello Stato, come espressamente previsto dall’art. 1, co. 8 del citato decreto-legge (…). Salva la suddetta ipotesi di conflitto di interessi, le Amministrazioni e gli enti suindicati possono decidere di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato soltanto “in casi speciali” e previa adozione di “apposita e motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza”. Si tratta, quindi, di una facoltà esercitabile in casi di carattere eccezionale, come è stato espressamente confermato nel parere del Consiglio di Stato, sez. II, 29 ottobre 1986, n, 2025 e nella deliberazione della Corte dei Conti 6 aprile 1984, n. 1432» (sottolineatura ed enfasi di chi scrive).

In virtù delle disposizioni della Suprema Corte, a parere di chi scrive, sembra potersi ritenere che la scelta di un avvocato del libero foro in luogo dell’Avvocato dello Stato non sia discrezionale, poiché, in base alla succitata normativa – in particolare alla luce dell’art. 4 del D.lgs. 50/2016 (i.e. “Codice dei contratti pubblici”) – l’Agenzia deve operare nel rispetto dei principi costituzionali di trasparenza, efficienza ed economicità.

La citata disciplina normativa, infatti, ha disposto che l’affidamento dell’incarico difensivo ad avvocati del libero foro è condizionato ai medesimi criteri di selezione di cui al Codice dei contratti pubblici e soprattutto agli specifici criteri definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5 del citato articolo 4 del suddetto Codice dei Contratti pubblici vale a dire, nello Statuto ed in quegli atti appunto di carattere generale, di competenza del comitato di gestione, che disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dell’ente e che devono individuare i casi di accesso al patrocinio del libero foro, in alternativa a quello dell’Avvocatura dello Stato.

Pertanto, la decisione di avvalersi di avvocati del libero foro per la difesa in giudizio per essere valida presuppone, in via generale:

a) che si sia in presenza di un caso speciale;

b) che intervenga una preventiva, apposita e motivata delibera dell’organo deliberante;

c) che tale delibera sia sottoposta agli organi di vigilanza;

d) che sia prodotta in giudizio idonea documentazione in merito alla sussistenza dei due suddetti elementi.

Inoltre, il Regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, deliberato dal Comitato di Gestione il 26 marzo 2018, ed approvato dal MEF il 19 maggio 2018, nel disciplinare l’aspetto relativo al patrocinio legale, all’art. 4 stabilisce chiaramente che «l’ente può, altresì, continuare ad avvalersi di avvocati del libero foro ma soltanto in via residuale, nei casi in cui l’Avvocatura dello Stato non ne assuma il patrocinio»; in tal caso, potendo solo delegare avvocati del libero foro iscritti nell’elenco degli avvocati dell’Ente.

In conclusione, quindi – alla luce dei criteri più condivisibili sanciti dal dictat della Suprema Corte, che, come noto, è diritto vivente – laddove il mandato all’avvocato del libero foro sia stato rilasciato senza il vaglio dell’organo di vigilanza e non ricorra un caso di urgenza oppure non si sia in presenza di un documentato conflitto di interessi reale, tale atto sarebbe nullo; infatti, la delibera dell’organo deliberante si configura come un requisito indispensabile per la validità del mandato difensivo conferito all’avvocato del libero foro imposto dalla normativa speciale sul patrocinio autorizzato e per tale ragione la sua mancanza determina la nullità del mandato del suddetto avvocato, il quale rimane sfornito dello ius postulandi in nome e per conto dell’ente pubblico.

E’ il caso di concludere che i principi sanciti dal Massimi Giudicante vadano salutati con favore, sottoponendo anche l’Ufficio Erariale a quelle imprescindibili regole, di matrice costituzionale, di efficienza e trasparenza senza le quali, come già accennato, non sarebbe possibile garantire, a tutti i livelli, l’imparzialità e la legalità che devono contraddistinguere sempre il rapporto d’imposta.

(di Giulia Piva e Andrea Orabona)

Il Decreto Legge n. 193/2016 ha recentemente introdotto una nuova versione della procedura di collaborazione volontaria (o voluntary disclosure 2.0) – così riaprendo i termini per l’emersione dei capitali illegittimamente detenuti all’estero o in Italia da parte dei singoli contribuenti -. 

La nuova procedura di collaborazione spontanea consente al contribuente, che non abbia già usufruito della vd1, di denunciare i capitali detenuti all’estero in violazione degli obblighi di monitoraggio ex D.L. n. 167/1990 ed i redditi nazionali – così beneficiando dell’applicazione di sanzioni ed interessi in misura notevolmente ridotta, oltre a all’esclusione della responsabilità penale per numerosi fatti di reato sottesi all’illegittima detenzione dei capitali mai dichiarati -.

(di Serena Giglio e Roberta Dorotea Roscigno)

Con il presente contributo ci proponiamo di approfondire alcuni aspetti concernenti il contratto di leasing immobiliare, il quale è stato analizzato dalle Corti di merito romane, con particolare riguardo agli Avvisi di Accertamento, sempre più frequenti, emessi dall’Agenzia delle Entrate per contestare la deducibilità dei canoni di locazione finanziaria, ai fini delle imposte dirette e la detraibilità della correlativa IVA, in relazione a quelle fattispecie caratterizzate da una doppia e contestuale cessione del bene immobile a valori crescenti, seppur di mercato, con concessione finale dello stesso in leasing ad un’impresa utilizzatrice.

Per inquadrare la questione e prima di analizzare le conclusioni a cui sono pervenute la Commissione Tributaria Provinciale di Roma e la Commissione Tributaria Regionale del Lazio nelle diverse sentenze meglio specificate di seguito, occorre, anzitutto, definire cosa sia un’operazione di leasing immobiliare, prima, secondo la disciplina del codice civile, e poi, secondo il legislatore tributario. Tale analisi, a parere di chi scrive, è tanto più interessante considerata la rapidissima diffusione del contratto in esame dovuta alla grande convenienza che questo strumento di finanziamento presenta nei confronti di altri più tradizionali e la possibilità per l’impresa utilizzatrice di dedurre sia ai fini Ires sia ai fini Irap i costi relativi ai canoni di locazione sostenuti nonché di beneficiare della detrazione ai fini IVA.

Ci si limita a ricordare, ai fini che qui ci occupano, che la figura contrattuale del leasing, introdotta negli Stati Uniti per poi essere importata in Europa, risulta dal combinato disposto degli artt. 1523 (cd. vendita con patto di riservato dominio) e 1523 (cd. contratto di locazione) del codice civile. In particolare, il leasing immobiliare è un contratto di leasing finanziario avente ad oggetto beni immobili, con il quale una banca o un intermediario finanziario (concedente), su scelta ed indicazione del cliente (utilizzatore), acquista o fa costruire da un terzo fornitore i beni de quo, al solo fine di concederli in uso al cliente stesso per un determinato periodo di tempo e dietro il pagamento di un canone periodico. Alla scadenza del contratto è prevista per l’utilizzatore la facoltà di acquistare il bene stesso, previo l’esercizio dell’opzione di acquisto, con il pagamento di un prezzo che nel linguaggio comune prende il nome di prezzo di riscatto oppure può decidere di restituirli al concedente. Nel contratto di locazione finanziaria il fornitore e l’utilizzatore potrebbero anche coincidere: in tal caso si parla di operazione di sale and lease-back, con la quale un’impresa vende un bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore.

Sotto il profilo fiscale, l’ unica definizione del contratto in esame è quella prevista dall’art. 17, comma 2 della legge n. 183 del 2 maggio 1976, a mente del quale “Per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili e immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”. Peraltro, si deve rammentare che ai sensi dell’art. 102, comma 7, del d.P.R n. 917 del 1986 “Per i beni concessi in locazione finanziaria l’impresa concedente che imputa a conto economico i relativi canoni deduce quote di ammortamento… Per l’impresa utilizzatrice che imputa a conto economico i canoni di locazione finanziaria…. la deduzione è ammessa…”. Secondo quanto testè riportato ne consegue, quindi, che i canoni di locazione finanziaria rappresentano per l’utilizzatore (impresa o lavoratore autonomo) un costo deducibile in sede di dichiarazione dei redditi.

Vale la pena evidenziare che nella sentenza n. 9944 del 2000, gli Ermellini hanno chiarito che il contratto in esame “risponde ad una specifica esigenza di finanziamento”, stante la ratio sottesa, che è quella di “fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo”[1].

Chiarito cosa sia un’operazione di leasing immobiliare ed i tratti essenziali, bisogna ora interrogarsi se sia legittima la deducibilità integrale dei canoni di locazione sostenuti dall’impresa utilizzatrice nell’ipotesi in cui l’Amministrazione contesti una sproporzione tra il prezzo di acquisto del complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato.

Giova, al riguardo, analizzare un particolare caso sottoposto all’esame della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, riguardante un accertamento in materia di Irpef, Iva e Irap, emesso proprio in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto di un complesso immobiliare da parte della società di leasing ed il suo valore di mercato, che, ad avviso dell’Amministrazione finanziaria, faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare un finanziamento.

In specie, l’Amministrazione finanziaria riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto che, a proprio dire, attraverso una simulazione relativa oggettiva, le parti avessero dissimulato i seguenti rapporti: i) una cessione del bene immobile tra i soggetti X ed Y al valore Z (ii) una seconda cessione contestuale tra i soggetti Y e L (società di leasing) al valore Z+W (iii) la concessione da parte della stessa concedente (i.e. società di leasing) di un finanziamento nei confronti della società utilizzatrice finale K per l’importo pari a W (coincidente con la differenza tra il prezzo della seconda cessione tra Y e L concedente e quello della prima cessione tra X e Y). In altre parole, secondo l’Amministrazione finanziaria ciò che faceva presumere un intento elusivo alla base della appena citata operazione immobiliare, era il fatto che il medesimo complesso immobiliare risultava ceduto due volte nello stesso giorno con un incremento di prezzo pari a W (nel caso di specie, coincidente con svariati milioni di euro).

Nella fattispecie de quo si sono espressi i giudici della Commissione Tributaria Provinciale di Roma, sezione 11, con ben tre sentenze (sentenze nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14) nelle quali hanno disatteso integralmente la tesi dell’Amministrazione finanziaria ed hanno avallato la difesa della Contribuente (i.e. società utilizzatrice)[2]. In particolare, i summenzionati giudici dopo aver brevemente ripercorso quanto osservato e disposto, a più riprese, dalla Corte di Cassazione con riferimento alla particolare tipologia di contratto atipico rappresentato dal leasing, sottolineano come: “il lease-back, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto a condizione dall’analisi dei dati oggettivi dell’operazione ed in particolare alla sproporzione tra il valore del bene ceduto in garanzia ed entità del debito possa essere escluso ogni intento fraudolento per eludere il divieto previsto dal citato art. 2744 cc.. Tali indicazione fanno ritenere a questa Commissione che la sopravvalutazione degli immobili oggetto dell’operazione non possa essere considerata quale elemento di caratterizzazione negativa del contratto posto in essere”. Rilevano, peraltro, che “la stessa Corte di Cassazione (Sentenza n. 9944 del 2000) esaminando il problema relativo al trattamento fiscale applicabile ai contratti di sale and lease back e se questo dovesse essere difforme da quello applicabile ai contratti di locazione finanziaria aveva respinto la tesi secondo cui tali operazioni, non avendo altra giustificazione causale se non quella di soddisfare una immediata esigenza di liquidità, debbano essere considerati sostanzialmente diverse da quelle di locazione finanziaria e che, pertanto, non avrebbero dovuto essere assoggettate allo stesso trattamento fiscale. Secondo i Giudici citati anche il contratto di leasing, risponde, infatti, ad un’esigenza di finanziamento, essendo diretto a fornire i mezzi finanziari necessari a chi abbia interesse ad utilizzare un bene (strumentale o di consumo), ma non intenda acquistarlo immediatamente (immobilizzando risorse) e preferisca, invece, rinviare tale opportunità ad un momento successivo, dopo avere utilizzato il bene per un determinato periodo di tempo. Per effetto di tale caratterizzazione il citato contratto non può essere assimilato alla vendita con riserva della proprietà: l’acquisto della proprietà del bene da parte dell’utilizzatore non rappresenta, infatti, la conseguenza indeclinabile del pagamento dell’ultima rata, ma è rimesso ad un’opzione, che può anche non essere esercitata, specie quando i beni sono soggetti ad una rapida obsolescenza. Né, d’altro canto, il contratto potrebbe essere inquadrato negli schemi della locazione, dal momento che i canoni non rappresentano il corrispettivo del godimento del bene, essendo commisurati alla somma impiegata (e quindi anticipata) per l’acquisto del bene dalla società concedente, maggiorata dei costi dell’operazione e degli interessi, e che la mancata consegna, i vizi e lo stesso perimento del bene non esonerano l’utilizzatore dall’obbligo di effettuarne il pagamento. La c.d. causa “di finanziamento”, lungi dall’assumere il ruolo di elemento distintivo dei due istituti, ne rappresenta quindi il tratto comune e ne giustifica l’uniforme trattamento sul piano giuridico”.

Per dimostrare la liceità del contratto di sale and lease – back i giudici della sezione 11 della CTP di Roma sottolineano che la Corte di Cassazione “in presenza di un rapporto, come nella specie trilatero (sale and lease-back) ha ritenuto irrilevante, ai fini della liceità delle transazioni, che l’impresa venditrice appartenga, come nella specie, allo stesso gruppo di quella utilizzatrice Cass.6663/97) potendosi configurare un patto commissorio vietato soltanto nel caso di interposizione fittizia dell’utilizzatrice, la quale invece nel caso di effettività del trasferimento del bene, come nella fattispecie poteva legittimamente affidare a quello schema contrattuale la garanzia del proprio debito, presentando il contratto di lease-back autonomia strutturale e funzionale (Cass.4612/98) quale contratto d’impresa, atto a realizzare un’alienazione a scopo di garanzia. Infatti il lease-back è un contratto atipico rientrante nell’autonomia delle parti ex art.1322 c.c., composto sostanzialmente da due contratti uno di vendita e uno di leasing-locazione finanziaria, cui può aggiungersi la garanzia di un terzo e ciò in quanto, se è vero che la funzione perseguita è quella del finanziamento, è vero altresì che l’utilizzatore finale vuole ottenere una somma di danaro non a titolo di mutuo (per ciò basterebbe ottenere in prestito la somma richiesta dando una garanzia ipotecaria sul bene), ma mantenere la disponibilità di un bene di cui cede la titolarità, per poi riacquistarla, ipotesi nella quale il concedente si tutela legittimamente attraverso l’intervento di un garante.

Il sostanziale disconoscimento, da parte degli uffici finanziari (…) di tale complesso negozio, che consente all’impresa liquidità immediata attraverso l’alienazione di un bene strumentale di cui conserva l’uso con facoltà di riacquistarne la proprietà, ha comportato, nello stesso periodo, la convinzione per gli stessi Uffici, che tale contratto dovesse essere visto unitariamente come contratto di mero finanziamento, esente da IVA, o comunque con IVA non detraibile, il che giustifica le ipotesi elusive prospettate a fronte di operazioni distinte, assoggettate come tali al tributo. Peraltro, nel caso in esame potrebbe prevalere la tesi dell’Amministrazione, ove fosse palese l’antieconomicità delle singole operazioni poste in essere, come nel caso di canoni di leasing ad un prezzo inferiore a quello di acquisto (cfr.Cass.11599/2007)”[3] [4] [5].

Sulla scorta di quanto sopra riportato può, pertanto, affermarsi che l’operazione di leasing immobiliare oggetto di analisi sia stata ritenuta legittima dalla Corti romane e che il prezzo crescente della seconda cessione alla società di leasing sia correlato ai valori di mercato ed alle esigenze di garantire future operazioni di smobilizzo, per cui ne consegue la integrale deducibilità dei canoni di locazione finanziaria sostenuti dalla società utilizzatrice finale.

Nell’identico senso la recentissima sentenza n. 330/22/15, depositata in data 27 gennaio 2015, emessa dalla sezione 22 della Commissione Tributaria Regionale di Roma, che sconfessa completamente, in relazione alla stessa ed identica fattispecie, la tesi dell’Amministrazione finanziaria[6].

In specie, anche con l’appena menzionata sentenza, gli aditi giudici hanno ritenuto fondate e meritevoli di accoglimento le eccezioni sollevate dalla società utilizzatrice, osservando che “l’operato accertativo dell’Ufficio, correlato, a monte, con una presunzione di abuso del diritto, si fonda su elementi inadeguati e facilmente confutabili, anche perché non opportunamente provati”. I

n aggiunta a quanto rilevato nella sentenza della C.T.P. di cui sopra, circa la presunta sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo finale versato dalla società utilizzatrice, i giudici sostengono che “appare invero quantomeno opinabile, sia perché fondata su valutazione Omi la quale ha una valenza solo indicativa e sia perché contraddetta dalla perizia di parte versata agli atti. Conseguentemente, neppure tale circostanza può ritenersi comprovante la simulazione presunta dall’Ufficio”.

Di conseguenza, ad avviso della C.T.R., “devono essere considerate le pur legittime aspettative di guadagno per la società” fornitrice “la quale certamente non poteva rivendere, se non violando il principio dell’antieconomicità, allo stesso prezzo per il quale essa stessa aveva acquistato. Altresì non può essere sottovalutato il fatto che il maggior valore della vendita ha determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione, a fronte dei costi deducibili nel corso della durata del contratto di leasing”.

Pertanto, alla luce delle argomentazioni riportate, i giudici di merito – valorizzando l’operazione nel contesto del business dei soggetti partecipanti, così da rilevare le ragioni economiche alla base della stessa – hanno concluso che un contratto di leasing immobiliare sia pienamente legittimo, ove il valore dell’immobile sia determinato “secondo una più ampia accezione dei criteri di mercato, ma non per questo fuori da ogni logica economica, come sostiene l’Ufficio, dovendosi necessariamente tener conto, per completezza dell’esame del criterio valutativo seguito dalle parti, che l’immobile medesimo era completamente locato e che i rapporti locativi venivano ceduti unitamente ad esso, talché la società utilizzatrice avrebbe incassato somme importanti”.

Oltre a quanto sopra riferito, si riscontrano le recenti posizioni favorevoli della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma, in relazione ad un caso assolutamente analogo a quello appena esaminato. In particolare, la Commissione Tributaria Provinciale di Roma, nella sentenza n.198/20/2012 del 5 giugno 2012 è pervenuta alle medesime conclusioni raggiunte dalla CTR di cui sopra[7].

Ed invero, la sopracitata sentenza fa riferimento ad un accertamento in materia di IVA ed imposte dirette emesso in ragione di una sostanziosa sproporzione tra il prezzo di acquisto degli immobili da parte delle società di leasing ed il loro valore di mercato che faceva supporre l’esistenza di una volontà simulatoria in capo ai partecipanti volta ad occultare l’erogazione di un finanziamento.

In specie, l’Amministrazione finanziara riteneva dissimulato un finanziamento – in relazione a cui disconosceva la deducibilità dei canoni di leasing ai fini delle imposte dirette e l’indetraibilità della correlativa IVA – per il fatto “che quattro società, appartenenti al medesimo gruppo, nel maggio 2005, avevano acquistato i medesimi immobili ad un prezzo complessivo di Euro 118 milioni, mentre nel mese di giugno dello stesso anno, li avevano venduti al prezzo complessivo di Euro 150 milioni”.

Al riguardo, la Commissione – nonostante l’appartenenza delle società coinvolte nell’operazione addirittura al medesimo gruppo – ha concordato con l’argomento difensivo circa “la infondatezza della tesi che il maggior valore della seconda vendita sarebbe stato voluto solo allo scopo di beneficiare di maggiori oneri deducibili, perché (…) in realtà il maggior valore che l’Ufficio contesta come veritiero, ha determinato una plusvalenza (differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di cessione), che ha concorso a formare il reddito sottoposto ad immediata tassazione a fronte di costi ( i canoni), deducibili in un arco temporale di quindici anni” e ha concluso che “l’operazione (…) posta in essere è del tutto legittima e non simula un finanziamento anche parziale”.

In altri termini, il Collegio romano ha evidenziato come dalla doppia cessione a prezzi differenti si genera una plusvalenza sottoposta regolarmente a tassazione e già tanto sarebbe inconciliabile ed incoerente con la volontà del secondo cedente, in accordo con l’utilizzatore finale del contratto di leasing di dissimulare un finanziamento; a ciò si aggiunga che nel doppio passaggio vengono versate due volte le imposte d’atto (i.e. registro ed ipotecarie e catastali).

In altre parole, i giudici di merito fanno intendere che non è certo con la presenza di carichi impositivi di tal fatta, infatti, che si concertano le fattispecie elusive!

Da ultimo, in senso pienamente conforme a quanto appena riportato, anche nella sentenza di secondo grado n. 2731/04/2014 del 6 maggio 2014, successiva all’appena menzionata sentenza n. 198/20/2012, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio ha avuto modo di confermare, ancora una volta, che il rilievo che l’Amministrazione “solleva in relazione a detta operazione, è che l’alienazione degli immobili alle società di leasing al prezzo di 150.000.000,00 solo venti giorni dopo l’acquisto di detti immobili per il valore di € 118.350.000,00 ha costituito <una sopravalutazione sproporzionata degli stessi rispetto al valore di mercato e tale da far presumere l’intenzione di dissimulare altri rapporti ossia a far ritenere ulteriori disponibilità finanziarie al gruppo…. [di società] rispetto a quelle necessarie per riacquistare il bene, prescindendo dall’effettivo valore dello stesso. Il giudice di primo grado ha ampiamente affrontato la questione della legittimità giuridica del lease-back che la Suprema Corte ha ritenuto, dopo alcuni tentennamenti, sussistere in quanto, nella sua configurazione di vendita di un bene strumentale dell’impresa e contestuale concessione in leasing dall’acquirente concedente al venditore utilizzatore, risponde alla specifica esigenza delle attività imprenditoriali di potenziare i fattori produttivi di natura finanziaria, ottenendo immediata liquidità mediante la alienazione di propri beni strumentali, con facoltà di conservarne l’uso e riacquistarne la proprietà al termine del rapporto. Pertanto, l’operazione di lease–back realizzata dalla….[società] appare legittima, in quanto è finalizzata a potenziare le proprie capacità finanziarie attraverso la cessione di un bene strumentale del quale ha interesse a mantenere la disponibilità e ad effettuare il riacquisto. La determinazione del prezzo è stata effettuata attraverso una perizia da parte di società qualificata, che ha determinato il valore del bene. Il contratto di leasing, della durata di 15 anni (la durata del contratto è uno degli indici presi in considerazione dal giudice di legittimità), indica i canoni dovuti ed il prezzo di opzione. L’Ufficio, d’altronde, non ha individuato fattori di strumentalità dei canoni pattuiti; tanto che la ripresa a tassazione viene fatta in forma percentuale sui canoni previsti, in relazione alla discrasia tra il prezzo di acquisto degli immobili e lo sproporzionato prezzo di vendita. Deve pertanto confermarsi la piena legittimità di tutta l’operazione di lease-back posta in essere, sia sotto il profilo del valore della cessione, sia sotto quello, peraltro non contestato, della coerenza dei canoni di locazione sostenuti dalla società appallata. Infatti la prima cessione (cioè quella avvenuta al prezzo di e 118.350,00) era funzionale alla richiesta delle società di leasing interessate all’operazione che avevano ritenuto, come condizione necessaria, che la proprietà degli immobili fosse in capo al medesimo soggetto titolare del debito garantita da ipoteca sugli stessi. L’aver concordato con le società acquirenti in € 150.900.000,00 il prezzo della cessione, ha peraltro determinato una plusvalenza che ha concorso a formare il reddito dell’appellata e come tale è stato tassato. Di contro la società si è creata costi deducibili, rappresentati dai canoni di locazione, per l’arco temporale della durata del contratto[8].

In conclusione, le cennate sentenze della Commissione Tributaria Provinciale e Regionale di Roma appaiono pienamente condivisibili, e ad avviso di chi scrive rappresenteranno un eccellente strumento di difesa – soprattutto processuale – contro quelle azioni fortemente illegittime e lesive dei diritti del contribuente con cui l’Amministrazione finanziaria contesta, sempre più spesso, in verità, l’esistenza di un comportamento elusivo/abusivo attuata attraverso operazioni di leasing immobiliari volte a dissimulare un presunto finanziamento occulto.

In termini più pratici, allorquando il contribuente, nell’ambito di una operazione simile a quella analizzata, si veda notificato un avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria recuperi a tassazione i costi dedotti per i canoni di leasing sostenuti, con l’accertamento di una maggiore IRES ed IRAP nonché accerti un importo a titolo di indebita detrazione dell’IVA, potrà contestare a gran voce e con rigore l’operato dell’Ufficio adducendo la piena legittimità dell’operazione stessa come sancita con orientamento univoco dalle Corti romane.

Note

[1] Cfr. Sent. Cass. n. 9944/2000.

[2] Cfr. Sent. C.T.P. Roma nn. 23099/11/14, 23100/11/14 e 23101/11/14.

[3] Cfr. Sent. Cass. n. 6663/97.

[4] Cfr. Sent. Cass. n. 4612/98.

[5] Cfr. Sent. Cass. n. 11599/2007.

[6] Cfr. Sent. C.T.R. Roma n. 330/22/15.

[7] Cfr. Sent. C.T.P. Roma n. 198/20/2012.

[8] Cfr. Sent. C.T.R. Lazio n. 2731/04/2014.

TAX LAB 2015

CORSI ACCREDITATI DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI DI MILANO – ANNO 2015:

Il Centro Studi di Economia e Diritto – Ce.S.E.D., in collaborazione con Melillo & Partners Studio Legale Tributario, avvia i “Laboratori di Economia & Diritto”, una serie di workshop formativi, a numero chiuso, pensati per stimolare l’interesse dei discenti (professionisti, imprenditori, manager, funzionari pubblici, laureati, ecc.) a partecipare a sessioni di studio fondate sull’esperienza, oltre che sulla teoria.

Durante i “Laboratori di Economia & Diritto” qualificati docenti metteranno la loro pluriennale esperienza al servizio dei partecipanti, affinché questi possano accrescere con facilità il loro bagaglio di competenze teorico-pratiche.

Nell’ambito dei “Laboratori di Economia & Diritto” rientra il Tax L@b 2015: Laboratorio di Fiscalità Internazionale, corso di alta formazione accreditato dall’ODCEC di Milano con il riconoscimento di 20 CFP, unitamente al quale, su richiesta, è possibile attivare ulteriori incontri di approfondimento in aula, orientati a rispondere a specifiche esigenze di problem solving (anche su proposta di ciascun partecipante).

  • TAX LAB 2015 (EVENTO ACCREDITATO DALL’ORDINE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI ED ESPERTI CONTABILI DI MILANO PER 20 CFP) – PROGRAMMA – BROCHURE E MODULO DI ISCRIZIONE:
    • Rappresentante del Comitato Scientifico di E&D:
      • Prof. Avv. Claudio Sacchetto (Professore emerito di Diritto Tributario dell’Università di Torino).
    • Direttore Scientifico e Coordinatore del Corso:
      • Dott. Claudio Melillo, Dottore Commercialista in Milano (www.melilloandpartners.it) e Dottore di Ricerca in Diritto Tributario presso la Seconda Università di Napoli (www.claudiomelillo.it).
    • Relatori e Ospiti:
      • Dott. Luigi Busoni, Tax Manager Gruppo IKEA Italia;
      • Dott. Gianluca D’Aula, Tax Manager Gruppo ILLY Caffè (in attesa di conferma);
      • Avv. Sergio Sottocasa Biani, Tributarista in Milano;
      • Dott. Alessio Rombolotti, Analista di transfer pricing, Melillo & Partners Studio Legale Tributario;
      • Avv. Massimiliano Sammarco, Tributarista in Roma;
      • Dott. Marco Cardillo, Funzionario tributario presso l’Agenzia delle Entrate (in attesa di conferma);
      • Col. t. SFP Cesare Maragoni, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pavia;
      • Avv. Serena Giglio, Tributarista in Roma, Direttore Responsabile di ECONOMIAeDIRITTO.it;
      • Avv. Claudia Marinozzi, Tributarista in Milano, (in attesa di conferma).

gli eventi sono organizzati in collaborazione con:

La sede dei corsi per i Professionisti è Milano, Via Santa Maria Valle 3. I posti disponibili sono 65.

Tutti gli eventi sono stati accreditati dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano. Ai partecipanti verrà rilasciato apposito attestato ai fini del riconoscimento dei CFP.

La sede dei Corsi è Milano, Via Santa Maria Valle, 3.

Informazioni e prenotazioni:

Melillo & Partners Studio Legale Tributario

Via Santa Maria Valle, 3 – 20123 MILANO

Telefono: (+39) 02 00681087

E-mail: formazionecontinua@economiaediritto.it

ALTRI EVENTI SVOLTI NEL 2015:

  1. Arriva il Tax Risk Manager in azienda_Worskshop del 7 maggio 2015
  2. Digital innovation Social Communication_Workshop del 3 giugno 2015

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Sei interessato a sponsorizzare i nostri eventi formativi?

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(di Marco Cardillo)

La Commissione Tributaria Provinciale di Torino, con la sentenza 1763/14/14, ha confermato la deducibilità parziale degli accantonamenti per il trattamento di fine mandato degli amministratori.

L’Agenzia delle Entrate, in merito all’indeducibilità dell’accantonamento dei compensi riconosciuti agli amministratori, aveva recuperato a tassazione degli accantonamenti che eccedevano il compenso annualmente stabilito all’amministratore diviso il coefficiente 13,5, affermando che l’art. 105 del TUIR avrebbe introdotto specifiche limitazioni, le quali troverebbero applicazione anche in materia di trattamento di fine rapporto per i compensi spettanti agli amministratori di una società. La normativa, affermava l’Ufficio, prevedrebbe una estensione delle norme applicabili alla deduzione in materia di trattamento di fine rapporto per i lavoratori subordinati anche per gli amministratori, con la conseguenza che l’accantonamento al fondo TFM (trattamento di fine mandato) deve essere operato entro il compenso annualmente stabilito diviso il coefficiente 13,5.

Infatti l’art. 105 del TUIR disciplina il trattamento di fine rapporto ed al comma 1 chiarisce che: “gli accantonamenti ai fondi per le indennità di fine rapporto e ai fondi di previdenza del personale dipendente istituiti ai sensi dell’art. 2117 del C.C., se costituiti in conti individuali dei singoli dipendenti, sono deducibili nei limiti delle quote maturate nell’esercizio in conformità alle disposizioni legislative e contrattuali che regolano il rapporto di lavoro dei dipendenti stessi“. La disciplina civilistica ha stabilito che il limite massimo fiscalmente deducibile ogni anno “non deve essere superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5” (art. 2120 del C.C.), previa individuazione di ogni singolo accantonamento nei conti individuali dei dipendenti. Tale disciplina trova applicazione anche per le indennità di fine mandato degli amministratori, come disposta al comma 4 dell’articolo 105, il quale prevede che “le disposizioni dei commi 1 e 2 valgono anche per gli accantonamenti relativi alle indennità di fine rapporto di cui all’art. 17 comma 1, lett. c, d ed f” . La Commissione Tributaria ha confermato che: “tra le categorie che rientrano nella disciplina di cui al comma 4 dell’art. 105, come evidenziato dall’Ufficio resistente, rientrano anche gli accantonamenti per il trattamento di fine mandato degli amministratori di società (la lettera C). Ritiene, quindi, corretto il ragionamento seguito dall’Agenzia resistente, la quale ha giustamente escluso la deducibilità integrale della somma accantonata per TFM”.

(di Valerio Micheli)

La circolare INPS 171 del 18 dicembre 2014 ha come oggetto la riforma dell’ISEE, l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente. Tale riforma è stata apportata dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 5 dicembre 2013, n. 159.

L’articolo 5 del decreto legge 201/2011, convertito con modificazioni dalla l. 214/2011 prevede una revisione delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’ISEE. La nuova disciplina in materia di ISEE è stata introdotta dal sopracitato D.P.C.M.; il decreto di approvazione interministeriale del nuovo modello di dichiarazione sostitutiva unica, delle relative istruzioni e dell’attestazione è datato 7 novembre 2014 e le nuove norme entreranno in vigore dal 1 gennaio 2015. La circolare 171 dell’INPS illustra i principi normativi e fornisce alcune indicazioni operative per l’applicazione della nuova normativa ISEE.

Tra i principi che hanno guidato la revisione delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’ISEE si annoverano: l’adozione di una nozione di reddito disponibile finalizzata all’inclusione di somme anche fiscalmente esenti; il miglioramento della capacità selettiva dell’ISEE mediante una maggiore valorizzazione della componente patrimoniale; specifica attenzione a tipologie familiari con tre o più figli o con persone con disabilità; la differenziazione dell’indicatore in riferimento al tipo di prestazione richiesta e altre.

L’ISEE rimane lo strumento per valutare l’accesso a prestazione sociali agevolate, prestazioni cioè non destinate alla totalità dei soggetti, bensì limitate a chi sia in possesso di determinati e particolari requisiti di natura economica, ovvero prestazioni sociali non limitate al possesso di questi requisiti, ma collegate nella misura o nel costo a specifiche situazioni economiche.

L’ISEE è livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m, della Costituzione; per gli enti erogatori è possibile introdurre ulteriori criteri di selezione per identificare i beneficiari delle prestazioni suddette.

Una delle modifiche principali apportate riguarda la pluralità di ISEE che vengono introdotti dalla riforma. Oltre all’ISEE standard o ordinario, sono previsti anche:

– ISEE Università, per l’accesso alle prestazioni per il diritto allo studio universitario;

– ISEE Sociosanitario: per l’accesso alle prestazioni sociosanitarie come l’assistenza domiciliare per persone con disabilità;

– ISEE Sociosanitario-Residenze;

– ISEE Minorenni con genitori non coniugati tra loro e non conviventi;

– ISEE Corrente.

La circolare si articola in un totale di 16 punti ed esamina dettagliatamente gli articoli e i rilevanti nuovi aspetti apportati dalla riforma dell’ISEE.

Lasciando al lettore l’approfondimento sulle singole sezioni della circolare, approfondiamo nell’articolo il punto 12. I controlli (art. 11): il sistema di controlli di cui Agenzia delle Entrate, INPS, enti erogatori e Guardia di Finanza dispongono è stato rafforzato dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

L’Agenzia delle Entrate effettua controlli automatici sui dati autodichiarati, potendo rilevare omissioni e difformità con i dati del sistema informativo dell’anagrafe tributaria. Qualora l’Agenzia non possieda informazioni utili sui dati, l’INPS stabilisce procedure per il controllo automatico tramite collegamenti con gli archivi delle amministrazioni pubbliche che, invece, ne dispongono. Ulteriori e diversi controlli possono essere messi in atto dagli enti erogatori, i quali si avvalgono di archivi in proprio possesso.

(di Valerio Micheli)

Con la risoluzione N. 99/E dell’11 novembre 2014, l’Agenzia delle Entrate fornisce risposta alla richiesta di consulenza concernente l’interpretazione dell’articolo 38-bis del DPR n. 633 del 1972 (Esecuzione dei rimborsi).

L’oggetto della richiesta di consulenza riguardava, nel particolare, la facoltà di variare la scelta di utilizzo dell’eccedenza di credito IVA trimestrale effettuata tramite la presentazione del modello TR. L’Ufficio istante, durante l’istruttoria relativa a due istanze di rimborso trimestrale, ha dovuto valutare la possibilità di revoca/conversione di tali istanze (presentate nei termini).

Nella prima istanza è chiesta la revoca del rimborso in favore di un successivo utilizzo in compensazione in sede di dichiarazione annuale; nel secondo caso, l’errata richiesta è seguita all’utilizzo in compensazione del credito IVA entro il termine di scadenza per la presentazione del modello TR per il trimestre di riferimento.

Si noti, in particolare, che in entrambi i casi i rimborsi non risultano ancora erogati. Se nei rimborsi annuali è espressamente prevista la richiesta di revoca, secondo l’Ufficio istante la circolare 9/1994 sembra precludere questa possibilità nel caso di rimborsi trimestrali.

Il parere dell’Agenzia delle Entrate in merito alla questione inizia richiamando l’articolo 8, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 542/92 e sue successive modifiche, ricordando che sono state unificate le scadenze per la presentazione delle istanze di rimborso e di compensazione delle eccedenze dei crediti IVA trimestrali. Presentando il modello TR, il contribuente esprime la propria volontà in merito all’utilizzo di tali eccedenze infrannuali; lo stesso ha facoltà – prima della scadenza dei termini per la presentazione dell’istanza – di rettificare o integrare tale scelta, presentando una nuova istanza (nella quale dovrà barrare la casella “correttiva nei termini”).

L’Agenzia delle Entrate sottolinea come nessuna norma sancisca il principio della immodificabilità della scelta operata dal contribuente e quindi la facoltà di rettificare il modello TR – presentato ai sensi dell’articolo 8 del d.P.R. 542/99 – dev’essere concessa anche una volta decorso il termine di presentazione della “correttiva nei termini”.

Il contribuente può variare la scelta operata anche passati i termini di presentazione del modello TR previa verifica con l’ufficio territorialmente competente che non sia conclusa la fase di istruttoria e che non sia validata la disposizione di pagamento. In caso sia validata quest’ultima, non è consentita la rettifica.

Passando alla seconda questione, l’utilizzo in compensazione dell’eccedenza di credito IVA infrannuale già chiesta a rimborso (senza aver operato rettifica dell’istanza) realizzerebbe l’ipotesi di indebito utilizzo di somme in compensazione. In un caso simile, la Suprema Corte, che si trovava a giudicare sull’esercizio indebito della detrazione, inquadrava tale situazione come omesso versamento di somme dovute all’Erario, fattispecie nella quale si ravvede un’infrazione rilevante ai fini della determinazione dell’imposta (v. sentenze n. 7254 del 12 maggio 2003 e n. 4246 del 23 febbraio 2007).

Per l’Agenzia delle Entrate, l’indebito utilizzo in compensazione del credito infrannuale già richiesto a rimborso configura una violazione sanzionabile ai sensi dell’art. 13 del d. lgs. 471/97. Il contribuente potrà comunque avvalersi – se ne ricorrono i presupposti – del ravvedimento operoso.

(di Roberto Carmina)

Il comma 8° dell’art. 90 della legge 27 dicembre2002,n.289 stabilisce che i corrispettivi erogati, fra l’altro, in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche costituiscono per il soggetto erogante, fino ad un importo annuo complessivamente non superiore a 200.000 euro, spese di pubblicità, come tali integralmente deducibili dal reddito d’impresa ai sensi dell’art. 108, comma 2, primo periodo, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. L’art.108,comma2°,delT.U.I.R., ammette la deducibilita`delle spese di pubblicità   e di propaganda nell’ esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi.

A ciò si deve aggiungere che la Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 22 Aprile 2003, n. 21/E ha subordinato l’integrale deducibilità dal reddito d’impresa dei corrispettivi erogati a favore degli enti sportivi dilettantistici alla sussistenza di due semplici condizioni: 1) i corrispettivi devono essere finalizzati alla promozione dei prodotti o dell’immagine dell’azienda erogante; 2) deve sussistere un’attività del beneficiario a fronte dell’erogazione.

Pertanto si richiede: l’effettività della spesa, che i destinatari siano quelli espressamente richiamati dalla norma e che il beneficiario abbia adempiuto agli obblighi derivanti dal contratto.

Tuttavia, la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 23 Giugno 2010 n. 57/E, ha evidenziato che il comma 8° dell’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 ha introdotto per detti corrispettivi, entro l’importo annuo di 200.000 euro, una presunzione assoluta di inerenza all’attività di impresa, quale spesa di pubblicità volta alla promozione dell’immagine o dei prodotti del soggetto erogante mediante una specifica attività del beneficiario che comporta l’integrale deducibilità di questi ex art. 108, comma 2°, del TUIR[1].

A detta della giurisprudenza, tale presunzione può essere vinta solo mediante la dimostrazione dell’antieconomicità e la sproporzione di quanto erogato, in relazione al fatturato dell’impresa medesima[2]. Ciononostante, i giudici delle Commissioni Tributarie richiedono che sia l’Agenzia delle Entrate a dimostrare che tali rapporti di sponsorizzazione pubblicitaria non siano effettivamente intercorsi[3] e sanciscono che la strategia pubblicitaria dell’ imprenditore non è suscettibile di sindacato da parte dell’Amministrazione Finanziaria, per cui i costi sostenuti per la sponsorizzazione di enti sportivi dilettantistici sono da considerarsi comunque fiscalmente deducibili poichè finalizzati a portare a conoscenza di potenziali clienti la produzione del contribuente in correlazione diretta con un presunto incremento dei ricavi[4].

Inoltre non può essere posta in discussione l’entità della corresponsione in relazione alla prestazione richiesta, poiché la norma, stabilendo un ammontare in cifra fissa sino ad Euro 200.000,00, ha palesemente inteso agevolare il finanziamento di società sportive dilettantistiche che non posso certamente assicurare un ritorno pubblicitario pari a quello di società professionistiche.

Più nello specifico è opportuno evidenziare che, in merito all’antieconomicità, la giurisprudenza chiarisce che “non è possibile giudicare ex post l’effetto della sponsorizzazione e concludere che, ove l’incremento del fatturato non sia sensibile, allora il costo sia antieconomico e come tale non deducibile. L’imprenditore non può conoscere in anticipo quale sarà il ritorno economico dell’operazione. Ciò al di là del risultato concreto ottenuto dall’impresa che ha sostenuto la spesa. In sostanza, viene premiato fiscalmente il comportamento dell’imprenditore sponsorizzante in vista del ruolo sociale rivestito dalle associazioni sportive dilettantistiche, anche se il ritorno dell’investimento, in termini di incremento del fatturato, non è particolarmente significativo”[5]. Inoltre, a detta di questa stesa giurisprudenza, non va sottaciuto il richiamo all’art. 41 della Costituzione che prevede la libertà dell’iniziativa economica privata[6]. Tuttavia, altra giurisprudenza specifica che sussiste un giudizio di economicità, ma è da limitarsi esclusivamente alla valutazionedel rapporto percentuale tra costi pubblicitari e fatturato annuo relativo all’annualità di stipulazione dei contratti e si risolve in un mero accertamento dell’inerenza all’attività d’impresa e, conseguentemente, in una verifica dell’effettività delle somme corrisposte[7].

In ultimo, per quanto concerne le erogazioni che superano il limite di 200.00,00 euro, queste non devono essere considerate necessariamente spese di rappresentanza, ma, bensì, come chiarito dalla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 23 Giugno 2010 n. 57/E, per esse possono trovare applicazione le regole ordinarie secondo le quali l’eccedenza (rispetto ai 200.00,00 euro) sarà deducibile a condizione che la natura del rapporto contrattuale presenti tutte le caratteristiche necessarie per configurare un rapporto di sponsorizzazione o altra prestazione pubblicitaria e siano presenti i requisiti, di cui all’art. 109 del TUIR, della competenza, della certezza quanto alla sussistenza del costo, dell’oggettiva determinabilità dell’ammontare di questo e dell’inerenza della spesa a beni o attività da cui derivino proventi imponibili. In ogni caso, comunque, l’eccedenza concorre al superamento del limite annuo di 250.000,00 euro per l’applicazione, in capo all’ente sportivo dilettantistico, del regime agevolato di determinazione del reddito e IVA di cui alla legge n. 398 del 1991. Pertanto, laddove il suddetto limite di 250.000,00 dovesse essere superato, l’ente sarà costretto da applicare l’ordinario regime tributario ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, sia per la determinazione delle imposte dovute sia per i correlativi adempimenti contabili[8].

 

Note

[1] Mentre lo stesso art. 108, comma 2°, del T.U.I.R, modificato dalla legge n. 244/2007, chiarisce che “le spese di rappresentanza sono deducibili nel periodo d’imposta di sostenimento se rispondenti ai requisiti di inerenza e congruità stabiliti con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, anche in funzione della natura e della destinazione delle stesse, del volume dei ricavi dell’attività caratteristica dell’impresa e dell’attività internazionale dell’impresa”. La Cassazione distingue le spese di rappresentanza da quelle pubblicitarie, ritenendo che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle poste in essere, di regola gratuitamente, per finalità di crescita dell’immagine e del prestigio dell’azienda, senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che invece debbano considerarsi spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per realizzare un incremento della vendita di quanto ottenuto nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali. Si vedano, tra le altre, Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, 4 Luglio 2014, n. 15318, consultabile on line in www.iusexplorer.it; Corte di Cassazione, Sezione VI, 5 Marzo 2012, n. 3433, in Rivista di diritto tributario, 2012, p. 340 (s. m.).

[2] Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Bari, Sezione IV, 12 Giugno 2013, n. 93, consultabile on line in www.iusexplorer.it.

[3]Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia, Sezione IV, 19 Settembre 2012, n. 116, consultabile on line in www.iusexplorer.it.

[4] Cfr. Commissione Tributaria Regionale, Emilia Romagna, Sezione XXIII, 21 Gennaio 2008, n. 149, consultabile on line in www.grandiclienti.ilsole24ore.com.

[5]Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Bari, Sezione IV, 12 Giugno 2013, n. 93, consultabile on line in www.iusexplorer.it.

[6]Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Bari, Sezione IV, 12 Giugno 2013, n. 93, consultabile on line in www.iusexplorer.it.

[7]Cfr. Commissione Tributaria Provinciale di Mantova, Sezione I, 12 Agosto 2013, n. 170, consultabile on line in www.iusexplorer.it.

[8] Per approfondire la questione si veda S. CINIERI, Associazioni sportive dilettantistiche: deducibilità delle erogazioni per spese di sponsorizzazione, in Pratica Fiscale e Professionale, 2010, p. 31 e s.s.

(di Mauro Merola)

1. Introduzione

Il commercio elettronico (i.e., e-commerce) continua a far registrare, ormai da alcuni anni, evidenti segnali di crescita. Di notevole rilevanza, dunque, la gestione fiscale di tali operazioni.

In via preliminare, si rende necessario distinguere tra commercio elettronico diretto e commercio elettronico indiretto. Detta distinzione acquista rilevanza esclusivamente in base alle modalità di consegna del bene o prodotto finale.

Nel caso di commercio elettronico diretto, infatti, tutta la transazione commerciale (acquisto, cessione e consegna) avviene per via telematica, attraverso la fornitura in rete di prodotti virtuali. Tale settore si caratterizza in ragione del fatto che i servizi (es. software) vengono dematerializzati alla partenza dal prestatore e materializzati all’arrivo dal destinatario (download).

Nel commercio elettronico indiretto, invece, la transazione (accordo e pagamento) avviene per via telematica, ma la consegna del bene avviene “tradizionalmente”; si tratta pertanto di una normale cessione di beni, così come stabilito dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risoluzione n. 133/E del 2004, in cui Internet viene definito “un canale alternativo di offerta”.

2. E-commerce diretto

Ai fini Iva, le operazioni che rientrano nel commercio elettronico diretto sono considerate servizi. Di conseguenza, la territorialità delle prestazioni di servizi è definita con le seguenti modalità:

  • per le prestazioni B2B rileva la sede del committente (art. 7 -ter, co. 1, lett.a), D.P.R. 633/1972);
  • per le prestazioni B2C rileva la sede del prestatore (art. 7- ter, co. 1, lett.b), D.P.R. 633/1972).

A tale regola seguono svariate deroghe raggruppabili in due macroclassi:

  • deroghe assolute: si applicano a determinate prestazioni di servizi indipendentemente se B2B o B2C quali servizi di ristorazione e catering (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di esecuzione) o trasporto passeggeri (per cui ai fini della territorialità rileva la distanza percorsa nel territorio di un dato Stato);
  • deroghe relative: si applicano solo in casistiche B2C quali trasporto di beni intraUE (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di inizio trasporto) o prestazioni bancarie e assicurative (per cui ai fini della territorialità rileva il luogo di stabilimento del committente se questo è extraUE).

Fatte queste brevi premesse normative, si propone una tabella della varie operazioni distinguendo a seconda che il prestatore sia un soggetto passivo italiano, UE o extra – UE:

tab1

A differenza del commercio elettronico indiretto, per il commercio elettronico diretto non esistono              norme derogatorie per la fatturazione. Dunque, per le cessioni effettuate da soggetti passivi Iva stabiliti in Italia, l’operazione dovrà essere regolarmente fatturata (artt. 21 e 22, DPR 633/1972).

Sulla base di quanto detto precedentemente, è possibile identificare di seguito una serie di casi:

  • Caso 1: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 il luogo di tassazione è l’Italia;
  • Caso 2: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in UE. Prestazione non territoriale in Italia. Il prestatore effettua un’operazione fuori campo art. 7 ter DPR 633/72, non addebita l’imposta al cessionario. Il committente soggetto passivo assolverà l’imposta tramite reverse charge;
  • Caso 3: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto passivo residente o stabilito in extra-UE. Operazione non territoriale in Italia, il prestatore effettua un’operazione fuori

campo art. 7 ter DPR 633/72 e non addebita l’imposta al cessionario;

  • Caso 4: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Operazione territoriale in Italia ai sensi dell’ art. 7 ter DPR 633/72 (luogo del prestatore);
  • Caso 5: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in UE. Operazione territoriale in Italia ai sensi dell’ art. 7 ter DPR 633/72 (luogo del prestatore);
  • Caso 6: prestazione effettuata da soggetti stabiliti in Italia a committente soggetto privato residente o stabilito in extra-UE. Operazione non territoriale in Italia. Per effetto della deroga al principio generale (i.e., articolo 7-ter, comma 1, lettera b D.P.R. 633/1972) di cui all’ art 7 co. 1, lett. i), D.P.R. 633/1972, non si considerano effettuati nel territorio dello Stato i servizi prestati per via elettronica quando resi a committenti non soggetti passivi domiciliati e residenti extra-UE;
  • Caso 7: prestatore stabilito in UE, committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia / prestatore stabilito in extra-UE, committente soggetto passivo residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 nei rapporti B2B il luogo di tassazione è quello del committente (Italia). Il committente, soggetto passivo Iva, assolverà l’imposta mediante inversione contabile;
  • Caso 8: prestatore stabilito in UE, committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 ter DPR 633/72 nei rapporti B2C il luogo di tassazione è quello del prestatore, operazione non territoriale in Italia, il prestatore emette fattura addebitando l’imposta calcolata secondo l’aliquota prevista nel proprio Paese;
  • Caso 9: prestatore stabilito in extra-UE, committente soggetto privato residente o stabilito in Italia. Ai sensi dell’art. 7 sexies DPR 633/72 si considerano effettuate in Italia prestazioni rese a committenti non soggetti passivi Iva, operazioni territorialmente rilevanti, quindi, imponibili in Italia. Si applica in questo caso, tuttavia, una deroga alla regola generale che considera tali operazioni non rilevanti in Italia ex art. 7- ter, co. 1, lett. b), D.P.R. 633/1972.

In relazione alla fattispecie descritta nel caso 9 di cui sopra, allo scopo di agevolare le imprese extra Ue nell’applicazione dell’Iva sui servizi di e-commerce resi a consumatori Ue e di evitare la loro identificazione in ciascuno Stato membro in cui sono stabiliti i destinatari delle prestazioni, è stato previsto un regime speciale che consente l’identificazione e l’esecuzione degli adempimenti in un solo Stato (c.d. sportello unico), disciplinato dagli artt. 357 e seguenti della direttiva Iva e recepito in Italia dall’art. 74-quinquies del D.P.R. 633/72.

Con il regolamento di esecuzione (UE) n.1042/2013 del 7 ottobre (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 26 ottobre 2013), il Consiglio dell’Unione europea ha disposto modifiche normative al precedente regolamento comunitario n. 282/2011 del 15 marzo 2011, per quanto riguarda il luogo delle prestazioni di taluni servizi (quali i servizi di telecomunicazione, tele radiodiffusione ed i servizi erogati tramite mezzi elettronici, destinati a persone prive dello status di soggetti passivi ai fini Iva).

A decorrere dal 1° gennaio 2015, infatti, in deroga alla regola generale, le prestazioni si considereranno effettuate nel Paese in cui è stabilito il committente, con facoltà per gli Stati membri di avvalersi, però, anche del criterio del luogo di utilizzazione; in sostanza, fatta salva tale facoltà, viene adottato anche negli scambi B2C il principio di tassazione a destinazione previsto per le prestazioni B2B (i.e., il nuovo testo degli artt. 58 e 59 della direttiva). Attraverso la suddetta misura, cesseranno gli effetti distorsivi connessi alle divergenze delle aliquote Iva che finora hanno favorito i fornitori stabiliti nei Paesi con le aliquote più basse, perché i consumatori pagheranno in ogni caso l’Iva nella misura prevista nel Paese in cui sono domiciliati, indipendentemente dal luogo in cui è stabilito il fornitore[1].

Inoltre, sempre a partire da tale data, il regime speciale dello sportello unico sarà esteso, in via opzionale, anche alle imprese comunitarie.

3.E-commerce indiretto

Il commercio elettronico indiretto si configura come una cessione di beni, come disciplinato dall’art. 7 bis del DPR 633/72 (i.e., la territorialità delle cessioni di beni) e dagli artt. 38 e 40 del DL 331/93 (i.e., le operazioni intracomunitarie). L’unica particolarità rispetto ad una cessione di beni tradizionale è rappresentata dalle modalità di consegna del bene, come già ampiamente riportato nell’introduzione dell’articolo.

Fatte queste brevi considerazioni preliminari, passiamo ad analizzare le cessioni poste in essere da un cedente soggetto passivo Iva in Italia, distinguendo a seconda che l’acquirente sia:

  • un soggetto passivo o un privato;
  • distinguendo ulteriormente, a seconda della nazionalità dell’acquirente (italiano, comunitario, extra comunitario).

Nel caso di acquirente italiano, non sussistono particolari profili di criticità dell’operazione. Nel caso di vendite che avvengono “Italia su Italia” si applicano le disposizioni previste dall’art. 2 del D.P.R. 633/72 che disciplinano

le cessioni di beni; l’operazione, dunque, sarà territorialmente rilevante in Italia ed il cedente dovrà applicare l’imposta nei modi ordinari, con l’aliquota propria del bene ceduto.

La vendita tramite commercio indiretto, configurando una vendita per corrispondenza, determina due importanti conseguenze:

  1. nel caso di acquirente privato non è obbligatoria l’emissione della ricevuta fiscale o dello scontrino o della fattura;
  2. nel caso di soggetto passivo Iva l’emissione della fattura non è obbligatoria, salvo che la stessa non venga richiesta.

Nel caso di acquirente comunitario sarà necessario distinguere se si tratti di un privato o di un soggetto passivo.

Nella prima ipotesi, saranno applicabili alle cessioni le norme previste per le vendite a distanza. Di conseguenza, se il cedente residente – sia nell’anno precedente che in quello in corso – avrà effettuato, nello Stato membro in cui risiede il cliente, vendite a distanza di ammontare inferiore a 100.000 euro, le cessioni saranno imponibili in Italia, salvo opzione da parte del cedente italiano per l’applicazione dell’Iva nello Stato di destinazione. Al contrario, se l’ammontare delle vendite nell’altro Stato membro risultasse superiore alla soglia in questione, il soggetto italiano dovrà nominare un rappresentante fiscale nello Stato estero ovvero identificarsi direttamente nell’altro Stato ai fini dell’assolvimento dell’Iva.

Nel caso in cui le cessioni siano effettuate nei confronti di soggetti passivi Iva, l’operazione seguirà le normali regole delle cessioni intracomunitarie ex. art. 41, D.L. 331/1993; l’operazione, inoltre, dovrà essere fatturata con la dicitura “non imponibile” e riportata nei modelli INTRA.

Nel caso di acquirenti extra – comunitari, infine, si dovranno seguire le normali regole Iva previste dall’art. 8, D.P.R. 633/1972, per le esportazioni, ovvero fatturando le operazioni come “non imponibili”.

Note

[1] Cfr. Ricca F. (24/03/2014), ITALIA OGGI, “IVA sull’e-commerce: in arrivo una rivoluzione copernicana”, p. 9.

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