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valore

(di Alessio Abbate)

  1. Premessa*

Il marketing, così come la finanza aziendale, è incentrato sul concetto di ‘valore’. Si parla di ‘creazione di valore per il cliente’ piuttosto che di ‘stima del valore dell’impresa’. Non esiste un concetto univoco di valore. Si pensi al valore della marca (brand equity): anche questo può differire molto in base al punto di vista dell’analisi. Una marca potrebbe avere uno scarso valore per il (singolo) cliente e tuttavia generare elevati volumi di vendita, creando così valore per l’azienda che la commercializza. Allo stesso modo, il valore contabile di un’azienda è diverso dal valore economico della stessa. E il valore creato da un’azienda, o quello percepito dal singolo cliente, aggiunge valore anche all’intera economia? Che cosa è, in effetti, il valore? Il prezzo dei beni riflette sempre il loro valore?

Le definizioni di valore proposte dagli economisti nel corso di quattro secoli sono tutt’altro che univoche e possono essere essenzialmente ricondotte a due grandi sistemi di pensiero: quello classico e quello neoclassico[1].

In questo articolo sono descritte sinteticamente le principali teorie del valore proposte nella storia del pensiero economico, a partire dai mercantilisti fino ai teorici dei modelli di accumulazione.

E’ ovvio che la seguente trattazione non può considerarsi esaustiva, essendo la teoria del valore il principio base su cui si fonda l’intera scienza economica[2].

Nella ferma convinzione che ‘ogni conoscenza della realtà culturale […] (sia) sempre una conoscenza da particolari punti di vista[3]’, il proposito di questo articolo è fornire un giudizio di coerenza interna per ciascuna teoria, o gruppo di teorie, evidenziandone i principali pregi e limiti nell’ambito del ‘paradigma culturale’ di riferimento.

L’articolo si termina dunque con l’analisi del particolare punto di vista che accomuna ciascun gruppo di teorie.

  1. Il Mercantilismo[4]

I primi, sia pur frammentati e non formalizzati, tentativi di analisi sistematica del capitalismo (commerciale) possono essere ricondotti alle figure dei grandi mercanti che nel sec. XVII dominavano l’economia dei paesi colonialisti in una società caratterizzata da una forte struttura gerarchica, e che, per diletto o in quanto consulenti delle grandi compagnie commerciali, scrivevano precetti e raccomandazioni di politica economica rivolte ai capi degli Stati nazionali[5].

Le teorie mercantilistiche avevano, tuttavia, un fine extraeconomico: la descrizione della potenza dello Stato nazionale come diretta conseguenza dell’accumulazione di ricchezza (reale o monetaria).

La ricchezza (merci, beni, tesoro e oro) era vista dai mercantilisti come una quantità determinata (un fondo di valori): gli Stati nazionali competevano per aggiudicarsi la fetta più grossa della torta. L’arricchimento era il risultato di uno scambio diseguale con i Paesi sottosviluppati, basato sulla colonizzazione e, quindi, sull’imposizione di clausole vessatorie che assicuravano lavoro (schiavi), merci e metalli preziosi.

I mercantilisti osservarono che la moneta non era ‘neutrale’ nei confronti dell’economia reale, perché poteva avere un influsso sui prezzi e perché aveva la capacità di conservare, accrescere e trasferire il valore.

I mercantilisti, tuttavia, confusero i calcoli economici del singolo individuo (livello microeconomico) con quelli dell’intero sistema produttivo (livello macroeconomico).

  1. La Fisiocrazia[6]

I precursori del pensiero fisiocratico furono senza dubbio Petty – che nel libro l’Aritmetica Politica (1690) propose un metodo espresso in termini di ‘numero, peso e misura’ – e Cantillon

– che rilevò la necessità di privilegiare la produzione rispetto allo scambio, i valori d’uso rispetto ai valori di scambio, gli aspetti reali rispetto a quelli monetari.

I fisiocrati erano un gruppo di studiosi vissuti in Francia verso la metà del sec. XVIII.

In quel contesto, caratterizzato da una struttura economica essenzialmente agricola, essi svilupparono un concetto di valore che sarebbe poi divenuto centrale nell’analisi economica: quello di prodotto netto[7], la cui caratteristica fondamentale era che esso si formava soltanto in agricoltura. Il prodotto netto, quindi, era definito come la parte della produzione eccedente la ricostituzione dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza di quanti, con il proprio lavoro, avessero creato il prodotto medesimo. L’espressione ‘parte della produzione’ sottintende che il prodotto netto era espresso in termini materiali, cioè di ‘cose’, e non di valore in senso proprio[8]. E’ per questo motivo che il prodotto netto si formava, secondo i fisiocrati, solo in agricoltura, dove le ‘cose’ possono ritenersi sufficientemente omogenee e dove si può avere un accrescimento, e non una trasformazione di materia come nelle altre attività.

I fisiocrati consideravano la società tripartita in: proprietari fondiari (identificati, cioè confusi, con i capitalisti), lavoratori agricoli salariati (che sono lavoratori produttivi), e lavoratori non agricoli (lavoratori sterili). Il prodotto netto confluiva o, meglio, si identificava con la rendita dei proprietari fondiari.

Lo schema fisiocratico, formalizzato da Quesnay nel Tableau économique del 1758, cade tuttavia in contraddizione laddove tra i beni usati dai lavoratori produttivi figurano dei manufatti prodotti dai lavoratori sterili.

  1. Adam Smith[9]

Con Adam Smith si apre il periodo dell’economia classica.

Il contesto storico di riferimento è quello di un paese in corso di industrializzazione: l’Inghilterra alla fine dell’XVIII secolo.

Smith si rese conto che il prodotto netto non poteva derivare esclusivamente dall’agricoltura, come sostenevano i fisiocrati, ma derivava anche e soprattutto dalla manifattura.

I temi centrali dell’analisi del valore smithiana possono essere sintetizzati come segue:

  1. a) la produttività del lavoro discende dalla divisione del lavoro;
  2. b) la struttura sociale dell’economia capitalistica può essere rappresentata con riferimento a tre classi fondamentali: 1) i lavoratori produttivi, il cui prodotto, attraverso i vantaggi apportati dalla divisione del lavoro, contiene un sovrappiù capace di sostenere anche le altre classi; 2) i proprietari fondiari che, attraverso la percezione della rendita, si appropriano di parte del prodotto netto; 3) i capitalisti che, attraverso la percezione del profitto, si appropriano della parte restante del prodotto netto; 4) i ‘lavoratori improduttivi’, cioè i domestici, i militari, i musicisti e altri così definiti perché consumatori puri di ricchezza;
  3. c) Il valore delle merci può essere inteso sia in termini di valore d’uso, sia di valore di scambio[10]. Il valore d’uso dipende da una valutazione individuale; il valore di scambio, invece, costituisce un requisito oggettivo: si tratta, in breve, del potere di acquisto di una merce sopra un’altra (la capacità di procurare ricchezza, cioè valore d’uso), tradotto sul mercato dal cosiddetto prezzo reale, così definito in contrapposizione alla sua espressione monetaria (prezzo nominale). Il prezzo nominale non è in grado di rappresentare il valore reale di una merce, in quanto le merci ‘si acquistano originariamente’ con il lavoro;
  4. d) in una società mercantile semplice la ricchezza di ogni individuo è la somma dei valori d’uso che sono a sua disposizione: la proprietà dell’intero prodotto è del lavoratore; il valore (di scambio) di una merce, per un individuo che non abbia intenzione di consumarla, è dato dal lavoro altrui che quella merce è in grado di ‘comandare’ sul mercato. In una società capitalistica, invece, lo stesso lavoro è venduto come merce: il prodotto scaturisce dal mero lavoro del lavoratore, ma la proprietà del prodotto è suddivisa (cioè, si distribuisce) fra il lavoratore (salario), il capitalista (profitto) e il proprietario fondiario (rendita).

Si osservi, tuttavia, che nella teoria del valore smithiana è insita una contraddizione, che costituirà il punto di partenza dello sviluppo dei due principali approcci successivi alla teoria del valore: quello di Marx e quello dei teorici neoclassici. Smith, infatti, sostiene anche che: ‘salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio[11]’.

Al di là di questa ambiguità teorica, ‘ciò che Smith non vede molto bene è che il rapporto in cui gli individui entrano tra di loro come operai facenti parte d’un medesimo processo produttivo, a differenza del rapporto di scambio tra produttori indipendenti, non è un rapporto sociale, ma è un rapporto tecnico, e che in questo caso il rapporto sociale vero e proprio, da cui quello tecnico discende, è il rapporto salariale, il rapporto cioè tra operaio e capitalista, che si svolge attraverso la compra-vendita della forza-lavoro[12]’.

5. Jean Baptiste Say[13]

In Say il concetto di valore è un dato oggettivo, in quanto espresso in termini di scambio[14]: è ‘la quantità delle cose che si possono ottenere, dal momento che sono desiderate, in cambio della cosa di cui ci si vuole disfare[15]’. Lo scambio avviene quando, per entrambi gli individui, l’utilità (soggettiva) del bene che si acquisisce eccede il costo del bene che si cede.

La misura del valore di una ‘cosa’ è determinata dall’eccedenza dell’utilità (oggettiva) contenuta nei beni che si possono ottenere con la vendita della stessa cosa sui costi di produzione di essa. Questi ultimi fissano, quindi, il limite inferiore della misura del valore di un bene: in un’ipotesi di prezzo di mercato inferiore al livello dei costi, infatti, il bene non sarebbe più prodotto, per cui diverrebbe raro e, quindi, riacquisterebbe valore attraverso un prezzo maggiore o uguale al livello dei costi. ‘Se però ben si riflette egli (Say) rovesciò semplicemente il problema della determinazione del valore facendo dipendere non più i prezzi dal valore, ma il valore dai prezzi e dando a questi solo un limite minimo di variabilità. Era, infatti, dall’altezza dei prezzi che si potevano desumere, a posteriori, i valori[16]’.

  1. Thomas Malthus[17]

L’analisi del valore in Malthus, che riprende la distinzione smithiana fra lavoratori produttivi e improduttivi, è condotta su due distinti livelli d’indagine: 1) l’individuazione delle cause del valore, che scaturiscono dai vincoli alla produzione (lavoro contenuto); 2) l’individuazione delle cause della ragione di scambio fra due beni.

Il lavoro contenuto non poteva, secondo Malthus, misurare il valore, sia a causa della lunghezza del tempo intercorrente tra l’erogazione del lavoro e l’ottenimento del prodotto, sia per la mancanza di un legame immediato tra la quantità di lavoro erogato e il profitto richiesto (che per ogni prodotto è proporzionato al capitale anticipato). Le cause della ragione di scambio vanno ricercate piuttosto nel ‘gioco’ della domanda e dell’offerta.

Il profitto è la differenza fra il lavoro che si comanda nello scambio e il lavoro che si utilizza nella produzione: i beni acquistano valore quando i guadagni della vendita eccedono i costi di produzione.

I limiti della teoria del valore di Malthus possono essere essenzialmente ricondotti ad un’erronea individuazione dei fattori d’instabilità del sistema economico: da un lato i lavoratori improduttivi, che si limiterebbero a consumare il prodotto; dall’altro i risparmiatori che non consentirebbero la chiusura del circuito monetario. Malthus, dunque, non considerava la possibilità di effettuare investimenti.

  1. David Ricardo[18]

Per Ricardo la società ha una struttura capitalistica la cui categoria centrale è il saggio di profitto. La teoria ricardiana del valore può essere così sintetizzata:

  1. a) Ricardo condivide e approfondisce uno dei due lati della contraddizione teorica smithiana evidenziata precedentemente: il modo in cui il valore si genera è una cosa del tutto distinta dal modo in cui il valore si distribuisce;
  2. b) l’utilità non ha alcuna influenza sul valore di scambio;
  3. c) i beni possono essere suddivisi in due grandi macro-categorie: 1) i beni rari, la cui quantità non può essere aumentata con il lavoro e il cui valore di scambio è funzione della scarsità e dell’intensità del desiderio di chi vuole accaparrarseli; 2) i beni riproducibili con il lavoro, il cui valore è funzione della quantità di lavoro necessario per produrli. Ricardo, dunque, critica la teoria di Smith circa l’incapacità del lavoro contenuto di determinare i valori di scambio: i rapporti in base ai quali le merci si scambiano derivano dai rapporti tra le quantità di lavoro oggettivate nelle merci stesse[19].

In un secondo momento Ricardo si rese conto che il valore delle merci non dipendeva unicamente dalla quantità di lavoro in esse oggettivate, ma dipendeva altresì dal valore del lavoro stesso[20].

I limiti della teoria ricardiana del valore-lavoro sono stati ampiamente evidenziati, per motivi diversi, da Bailey, da Torrens, e da Marx[21].

Bailey criticò in Ricardo il riferimento ad un concetto di valore assoluto (cioè indipendente dalla relazione fra le merci), mentre il concetto di valore andava correttamente espresso in termini relativi.

Per Torrens, invece, il valore di scambio era determinato dal capitale e non dal lavoro: bisognava ridurre il lavoro in capitale (e non il capitale in lavoro) perché ciò che contava nella prospettiva del capitalista era il costo di produzione indipendentemente dall’origine della spesa (salario, materie prime o macchinari).

Secondo Marx il motivo per cui Ricardo non estese in maniera rigorosa la teoria del valore al lavoro risiedeva nella mancata comprensione del vero oggetto di scambio tra il capitalista e il lavoratore (operaio): la forza-lavoro (non il lavoro, in quanto tale).

  1. Marx[22]

Per Marx ‘un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivizzato o materializzato lavoro astrattamente umano[23]’. Nell’economia capitalistica, che per Marx è un modo di produzione storicamente determinato, il valore non è altro che l’espressione di una contraddizione tra lavoro e capitale.

In particolare, per superare i limiti delle teorie del valore di Smith e Ricardo, Marx volle risolvere il problema dell’origine del profitto. Il punto di partenza era costituito dall’analisi dello scambio: oggetto di scambio tra il capitalista e l’operaio è la forza-lavoro (capacità di lavoro) dell’operaio stesso, non il lavoro come tale.

L’intero processo capitalistico, secondo Marx, si regge su questo scambio, che è uno scambio diseguale o tra non equivalenti, nel senso che il lavoro prestato dall’operaio in un determinato lasso di tempo eccede il lavoro incorporato nei mezzi di sussistenza consumati dallo stesso operaio nel medesimo arco temporale. In altri termini, l’operaio produce un valore maggiore del valore della sua capacità di lavoro e questa eccedenza, che è alla base del profitto, è definita da Marx plusvalore. E’ in questo senso che Marx, per definire il profitto, parla di un valore in termini di rapporto contraddittorio fra capitale e lavoro: il capitale è un risultato (un prodotto) del lavoro, ma al tempo stesso il lavoro (in quanto capitale variabile) è un risultato (una parte) del capitale stesso[24].

Considerando l’aspetto qualitativo, piuttosto che quello quantitativo, della teoria di Marx, ‘se lo scopo della teoria del valore è quello di evidenziare i rapporti sociali esistenti dietro lo scambio […] è sufficiente assumere come ipotesi che i valori non siano altro che ‘cristalli di lavoro’ per scoprire la natura dello sfruttamento[25]’.

In conclusione, Marx perviene ad una spiegazione logica (accettata da alcuni e rinnegata da altri) del sovrappiù (plusvalore), ovvero della causa del valore. Se si considera l’aspetto qualitativo della teoria del valore di Marx, essa appare dunque contraddistinta da un’indiscutibile logica interna; se si considera, invece, l’aspetto quantitativo (il processo di ‘trasformazione’), secondo parte della letteratura, Marx non è riuscito ad individuare la misura del valore.

  1. Walras e Bohm-Bawerk: l’equilibrio economico generale[26]

I principali teorici marginalisti furono sicuramente Jevons, Menger e Walras.

Jevons sviluppò il metodo matematico nell’elaborazione e nello sviluppo dell’apparato analitico dell’economia politica e individuò nel consumo il punto di partenza dell’indagine economica. Il suo contributo principale alla teoria del valore fu l’introduzione del concetto di utilità marginale come ‘ponte’ fra l’utilità (soggettiva) e il valore (oggettivo).

Menger diede voce al pensiero prevalente dell’epoca, che vedeva l’utilità come ‘l’attitudine di un bene a soddisfare un umano bisogno[27]’ e definiva il valore in termini di scarsità relativa, a partire dal rapporto tra beni e bisogni.

Walras definì la rarità di una cosa in termini di contemporanea presenza di due caratteristiche: l’utilità e la limitatezza. Egli, inoltre, generalizzò ad un sistema economico le conclusioni cui era pervenuta la teoria neoclassica per il caso di un soggetto isolato[28].

Walras classificò gli elementi che compongono la ‘ricchezza sociale’ in due macro-categorie:

1) i beni che si impiegano più di una volta (capitali), suddivisibili ulteriormente da un lato in capitali suscettibili di essere oggetto di scambio e quindi di avere un prezzo (risorse naturali e capitali propriamente detti), e dall’altro lato in capitali in cui il prezzo può essere attribuito soltanto ai servizi che ne scaturiscono (capacità personali); 2) i beni che si impiegano una volta sola (redditi), suddivisibili ulteriormente in beni di consumo, beni intermedi e servizi.

Sul mercato sono presenti quattro tipi di soggetti: i detentori di risorse naturali (proprietari fondiari), i detentori di capacità personali (lavoratori), i possessori di capitali propriamente detti (capitalisti), e i soggetti in grado di combinare, assieme ai beni intermedi, i servizi che scaturiscono dai tre tipi di capitali precedenti (imprenditori).

Sotto determinate condizioni[29], Walras pervenne ad una rappresentazione del processo economico attraverso un sistema di equazioni algebriche che descrive l’equilibrio economico generale. Si tratta di un equilibrio dei prezzi, intesi come rapporti di scambio tra beni e servizi: essi possono essere interpretati come rapporti di equivalenza economica (sia tecnologica che soggettiva) fra due beni, cioè in termini di valori[30].

La contraddizione insita nella teoria neo-classica del valore consiste nell’ipotesi di unicità del saggio di rendimento dei vari capitali. Condizione che non può essere soddisfatta, dal momento che i capitali propriamente detti, a differenza degli altri capitali (risorse naturali e capacità personali), non sono originari, bensì prodotti.

E’ a partire da questa contraddizione che Bohm-Bawerk sviluppò una teoria volta a ridurre il capitale (mezzi di produzione) al lavoro (risorsa originaria) che nei periodi antecedenti quello corrente era stato impiegato nella produzione di quei mezzi. Egli tenne in considerazione– a differenza di quanto avevano fatto Ricardo e Marx – tutti i periodi di investimento delle singole frazioni di quantità di lavoro (rispetto al totale), e precisò che il contributo dato al valore del prodotto dal lavoro indiretto è superiore al contributo fornito dal valore diretto, a ragione dell’interesse cui darebbe ‘psicologicamente’ diritto il risparmio per la rinuncia a una disponibilità presente di ricchezza contro una disponibilità futura.

Anche questa ‘versione’ di equilibrio economico generale conduce, tuttavia, ad un circolo vizioso: essa necessita, infatti, della definizione di un periodo medio, assunto come dato, in grado di misurare la quantità di capitale. Quantità che però verrebbe a dipendere da tutte le altre variabili del sistema (in particolare dal saggio d’interesse), per cui non sarebbe più un dato.

In definitiva, la circolarità delle teorie di Walras e di Bohm-Bawerk è una diretta conseguenza della concezione contradditoria del capitale, già evidenziata da Marx: il capitale si configura, da un lato come un concetto unitario all’origine del saggio d’interesse (saggio generale del profitto in Marx), ma al tempo stesso esso è un insieme frantumato in ogni singola parte (somma di capitali).

  1. I modelli di accumulazione[31]

Questi modelli, sviluppati nella prima metà del ‘900[32], vedono il capitale come fine a se stesso: esso è il punto di inizio, ma anche il punto d’arrivo del processo produttivo (e non è un fattore originario).

Nel modello della crescita quantitativa di Von Neumann gli input del periodo ‘n’ sono gli output del periodo ‘n-1’: il mezzo è omogeneo al fine e il saggio di profitto, in un regime di concorrenza, coincide con il saggio di espansione. Il prodotto netto di ogni periodo è reinvestito nel periodo successivo, cosicché la crescita risulta bilanciata.

Questa ultima ipotesi rende tuttavia il modello non applicabile alla realtà, in quanto esso non è in grado di spiegare la maggiore velocità di crescita di alcuni settori rispetto ad altri.

In realtà, il limite più forte del modello sta nel fatto che esso non prevede la possibilità di innovazione tecnologica (responsabile della velocità di crescita dei settori).

E’ in questo senso che si sviluppa la teoria di Schumpeter dell’innovazione come fonte del profitto.

In definitiva, i modelli di accumulazione presentano la seguente duplice caratteristica: da un lato hanno alla base un concetto robbinsoniano di economia come scienza della scarsità, dall’altro sono modelli di produzione circolari alla stregua del modello ricardiano[33]. Essi contengono, cioè, un concetto di valore ricollegato a quello di Marx: i prodotti sono anche mezzi di produzione.

  1. Conclusioni

Le teorie del valore costituirono il tema centrale di riflessione nel periodo classico della storia dell’analisi economica. Successivamente, esse vennero considerate dai teorici neoclassici (e forse ancora oggi) una mera questione accademica[34]: pur essendo ritenute il fondamento scientifico dell’economia, la recente analisi economica è pervenuta ad una teoria dei prezzi prescindendo dalle teorie del valore e dal concetto stesso di valore, considerando quest’ultimo in termini di utilità[35].

Per capire le ragioni che hanno indotto, da un lato gli economisti classici a ricercare le cause del valore dei beni andando oltre i prezzi e, dall’altro i motivi che hanno spinto i teorici neoclassici ad abbandonare questo tipo d’impostazione, è necessario collocare i due sistemi di pensiero all’interno dei rispettivi ‘paradigmi culturali’.

Questo articolo si termina, dunque, con l’individuazione del paradigma classico e di quello neoclassico.

  1. a) Il paradigma culturale dei classici[36]

Il periodo classico ricopre un arco temporale che coincide all’incirca con il XIX secolo. Gli economisti di quel periodo erano prevalentemente inglesi. Lo scenario che essi avevano di fronte era, dunque, quello della rivoluzione industriale inglese (agli albori, per Smith). La struttura sociale dell’economia capitalistica era caratterizzata dalla presenza di soggetti appartenenti a classi distinte, i cui interessi erano sostanzialmente contrapposti.

Lo schema analitico che ne derivò colse necessariamente le diversità delle classi sociali e quindi dei soggetti economici che vi appartenevano, i quali furono analizzati, nei loro scopi e atteggiamenti, in base al tipo di reddito percepito. Inoltre, la tripartizione della società in lavoratori produttivi, proprietari fondiari e capitalisti, mantenne fuori dall’analisi i redditi e i soggetti appartenenti al settore dei servizi e a quello pubblico. Del resto, la visione del capitale come un insieme di beni materiali riproducibili qualificava inevitabilmente come ‘non produttivi’ tutti i lavoratori che fornivano servizi. Infine, la costante preoccupazione per la ricostituzione del capitale fisso e del capitale circolante comportava la ricerca delle determinanti dei costi di produzione (fattori originari) e quindi dei ‘prezzi naturali’ o valori, rispetto ai prezzi di mercato.

  1. b) Il paradigma culturale dei neoclassici[37]

Come anticipato, i problemi aperti sulla teoria del valore, lasciati dalla teoria classica del valore-lavoro, furono completamente ignorati con la ‘rivoluzione marginalista’, che avvenne tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX . Gli anni compresi fra il 1870 e il 1900 furono ricordati dagli storici dell’economia come quelli della ‘grande depressione’. L’attenzione degli economisti si spostò inevitabilmente dal momento della produzione e dall’analisi del lungo periodo al momento della circolazione e ai problemi congiunturali di breve periodo, in particolare all’equilibrio dei mercati.

Il nuovo paradigma si sviluppò a partire dalle considerazioni di Senior e Robbins.

Per indagare il legame tra capitale e valore, Senior introdusse un fattore originario diverso dal lavoro: l’astinenza. La distribuzione del reddito divenne, così, simmetrica, nel senso che l’astinenza stava al profitto come il lavoro stava al salario. Ciò comportava la negazione del concetto classico di ‘prodotto netto’, nel senso che ‘ogni quota distributiva, cioè tanto il salario quanto il profitto, diventa il valore di un contributo produttivo specifico, e la distribuzione del prodotto non è più il risultato del rapporto di forza tra classi sociali antagonistiche, ma risulta governata da una legge economica determinata[38]’.

Si sviluppò quindi l’opportunità di una nuova teoria economica che, rifiutando il concetto di prodotto netto, potesse stabilire una simmetria fra il reddito dei diversi soggetti economici e il prezzo pagato per i fattori produttivi di cui ognuno di essi era proprietario. In questo modo, il possesso di risorse tecnologicamente differenti, e non l’appartenenza a classi storicamente determinate, sarebbe stato in grado di spiegare la distinzione fra i soggetti economici. Questa teoria, in altri termini, doveva dare alla scienza economica un carattere universale.

In questo senso, Robbins fornì una definizione analitica di scienza economica: ‘L’economica è la scienza che studia la condotta umana in quanto sia una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi[39]’.

Nel paradigma neoclassico, allora, il valore non è più – come in Smith o in Marx – legato esclusivamente allo scambio in quanto categoria mercantile: lo scambio è solo uno dei modi in cui il valore può manifestarsi.

  1. c) Il paradigma culturale del XXI secolo

Siamo ancora nel paradigma culturale neoclassico o abbiamo bisogno di una nuova teoria del valore? Informatica e telecomunicazioni sono state le ‘materie prime’ di una terza rivoluzione industriale e la crisi dei mercati finanziari mondiali del 2008 ha testimoniato i rischi connessi alla dipendenza dell’economia reale dalla finanza. La crisi finanziaria del 2008 (e la conseguente crisi economica) è un fenomeno ben diverso dalla grande depressione del 1929. Tra le cause macroeconomiche spiccano le differenze tra flussi di capitali tra economie emergenti ed economie industriali, i bassi tassi di interesse reali e la produzione di strumenti finanziari dal prezzo errato rispetto all’effettivo ‘valore’. Di conseguenza, le banche hanno ridotto l’erogazione del credito, nell’impossibilità di valutare adeguatamente le attività in portafoglio. Si pensi, inoltre, a quante agenzie di rating nel corso della crisi hanno contribuito alla creazione di rischio sistemico attraverso la pubblicazione di rating erroneamente elevati. Uno degli obiettivi di Basilea 3 è quello di colmare le lacune del sistema bancario nelle tecniche utilizzate per la misurazione e la gestione dei rischi.

Sembrerebbe quindi che il focus degli economisti si sia spostato adesso sulla ricerca dell’equilibrio dei mercati finanziari attraverso la corretta valutazione di attività e rischi. Torna quindi a emergere il concetto di valutazione e di ‘valore’.

In conclusione, la globalizzazione finanziaria mette in discussione le basi della ‘legge economica determinata’ che governerebbe la distribuzione del prodotto nel paradigma neoclassico. La velocizzazione delle informazioni e la ‘finanziarizzazione’ dell’economia suggerirebbero che è arrivato il momento di chiedersi se esiste una ‘teoria del valore’ adatta al paradigma culturale di oggi.

 

 

Note

*Gli spunti critici contenuti nel presente articolo, eccetto l’ultimo paragrafo, vanno attribuiti a C. Napoleoni e a E. Zagari, i cui testi – entrambi citati nel seguito – hanno guidato l’impostazione e i contenuti di questo sforzo di sintesi. Naturalmente la responsabilità di tali contenuti e degli eventuali errori o omissioni è esclusivamente dell’autore.

[1] Per comprendere il punto di partenza della teoria classica e l’evoluzione della teoria neoclassica, e per fornire una visione ampia delle teorie del valore, saranno esaminate anche le teorie antecedenti quella classica (mercantilisti e fisiocrati) e le teorie successive a quella neoclassica (modelli di accumulazione).

[2] C. Napoleoni, Il Valore, Oscar Studio Mondatori, Milano, 1982, p. 7.

[3] M. Weber, L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale in Il metodo delle scienze sociali, Einaudi, Torino, 1958, p. 97.

[4] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, Storia dell’economia politica – dai mercantilisti a Marx, Giappichelli, Torino,1991 p. 39 e ss.

[5] Nei secoli precedenti non si riscontra la presenza di “sistemi unitari di pensiero”, ma soltanto di grandi pensatori isolati (come Platone, Aristotele o Tommaso d’Aquino).

[6] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. (in particolare, per i precursori dei fisiocrati) E. Zagari, op. cit., p. 88 e ss.; C. Napoleoni, op. cit., p. 12 e ss.

[7] o plus-prodotto, o sovrappiù (surplus).

[8] I fisiocrati dunque non svilupparono una vera e propria teoria del valore.

[9] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, a cura di F. Batoli, C. Camporesi e S. Caruso, ISEDI, Milano 1973; C. Napoleoni, op. cit., p. 21 e ss.

[10] Questa distinzione risale però ad Aristotele (cfr., per es., K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori riuniti, Roma, 1993, p. 9, in nota).

[11] A.Smith, op. cit., p. 53.

[12] C. Napoleoni, op. cit., p. 22.

[13] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 160 e ss.

[14] Anche per J. S. Mill, il valore è un concetto intimamente legato allo scambio e, aggiunge Mill, deve essere analizzato con riferimento a due prospettive temporali diverse: nel breve periodo, il valore di scambio va inteso come valore di mercato o corrente, determinato dalla domanda e dall’offerta; nel lungo periodo, invece, il valore di scambio diviene un valore naturale o di equilibrio, determinato dal costo di produzione – somma dei valori anticipati ai lavoratori – e dal saggio medio di profitto – somma dei compensi per l’astinenza dal consumo per chi aveva anticipato il capitale.

[15] Say, Trattato di economia politica, libro II, cap. I, p. 224, secondo la trad. it. del Cours Complet d’économie politique, a cura di F. Ferrara, per la “Biblioteca dell’economista”, prima serie, vol. VI, 1854.

[16] E. Zagari, op. cit., p. 162.

[17] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 175 e ss.

[18] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 31 e ss.

[19] Queste ultime quantità sono le somme delle quantità di lavoro prestato nell’ambito del processo produttivo (lavoro diretto) e delle quantità di lavoro incorporato nei mezzi di produzione utilizzati (lavoro indiretto).

[20] Per risolvere questo punto egli si sforzò di individuare una “misura invariabile del lavoro” alla quale riferire tutti i valori di scambio. Questo problema è stato risolto, in tempi recenti, da Sraffa, la cui teoria non verrà considerata in questa sede poiché si condivide la tesi di Napoleoni, op. cit., p. 177, secondo cui “lo schema di Sraffa costituisce la prima teoria dei prezzi che è formulata totalmente al di fuori di una teoria del valore”.

[21] Oltre che da un gruppo unitario di autori noti come ‘socialisti antiricardiani’, i quali non sono stati inclusi nel presente articolo poiché non svilupparono una teoria del valore, ma si servirono del concetto di sovrappiù per evidenziare esclusivamente l’opportunità di una distribuzione ottimale del surplus a favore dei lavoratori.

[22] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 407 e ss.; C. Napoleoni, op. cit., p. 46 e ss.

[23] K. Marx, Il Capitale, Editori riuniti, Roma, 1970, libro I, pag. 69.

[24] In questa sede non verrà affrontato il problema della ‘trasformazione’ secondo la successione logica ‘valore, saggio del profitto, prezzo’ perché si ritiene che il problema, peraltro risolto da Sraffa, sia essenzialmente matematico, laddove l’aspetto pregnante della teoria del valore di Marx sembrerebbe essere quello qualitativo, piuttosto che quello quantitativo. Per un approfondimento sulla questione, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 87 e ss.; E. Zagari, op. cit., p. 386 e ss.

[25] E. Zagari, op. cit., p. 407.

[26] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 112 e ss.

[27] C. Menger, Principi fondamentali di economia politica, Laterza, Bari, 1925, p. 13.

[28] Su questo tema occorre necessariamente menzionare Marshall, il cui contributo alla teoria del valore può essere sintetizzato nella distinzione fra valori ‘correnti’ o ‘di mercato’, o ‘occasionali’ (di breve periodo), e ‘valori normali’ (di lungo periodo). Cfr. A. Marshall (trad. it. a cura di A. Campolongo), Principi di Economia, Utet, Torino, 1959, passim.

[29] (mercato concorrenziale, soggetti massimizzanti, definizione dei prezzi di equilibrio a partire dall’incontro tra la domanda e l’offerta).

[30] In realtà il valore, nello schema di equilibrio economico generale, può essere espresso anche a prescindere dai prezzi, utilizzando il criterio paretiano (un insieme di grandezze, non confrontabili tra di loro, è definito ‘massimo’ quando non si può aumentare una di queste grandezze senza diminuirne almeno un’altra) per descrivere l’utilità di un sistema nel suo complesso. E’ possibile dimostrare che il problema dell’equilibrio generale presenta infinite configurazioni ottime nell’allocazione delle risorse, relativamente ad una data distribuzione delle stesse.

[31] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 133 e ss.

[32] Keynes non si occupò di teoria del valore. Tuttavia la sua concezione dell’interesse come una sorta di rendita, di determinazione monetaria dove il capitalista è un rentier, da un lato ebbe un influsso non indifferente sulle teorie del valore successive, dall’altro avrebbe potuto essere ulteriormente sviluppata rinvenendo l’esistenza di un sovrappiù nei ‘redditi non da lavoro’.

[33] Si osservi che anche il modello di Von Neumann, a ben vedere, implica una ripresa del concetto classico di prodotto netto o sovrappiù.

[34] In un contesto di risorse scarse, se si definisce il saggio di trasformazione del bene da produrre A rispetto al bene B come la quantità di A alla quale bisogna rinunciare per ottenere un’unità aggiuntiva di B, è ovvio che il concetto di valore è dedotto senza alcun riferimento allo scambio.

[35] Concetto che Smith aveva considerato non legato al valore, poiché egli aveva a riferimento l’utilità totale e non quella marginale (l’utilità dell’ultimo “piccolo” incremento del bene). La rarità delle pietre preziose, per esempio, comporta un’elevata utilità marginale e, quindi, un prezzo elevato; al contrario, per i beni di prima necessità come, per esempio, il pane, la cui quantità a disposizione è molto abbondante, l’utilità marginale è molto piccola e con essa il prezzo.

[36] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 472 e ss.

[37] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 102 e ss.

[38] C. Napoleoni, op. cit., p. 102.

[39] L. Robbins, Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, UTET, Torino 1947, pag. 20.

(di Marco Guenzi)

Nello scorso articolo si sono analizzati i diversi fattori di inefficienza del mercato dell’arte contemporanea da un punto di vista paretiano o allocativo. Si è visto che su tale mercato fattori distorcenti, come la presenza di asimmetrie informative, esternalità positive, beni pubblici, di forme di mercato non concorrenziali, impediscono sia che la produzione artistica risponda in termini qualitativi ai bisogni culturali della collettività sia che essa sia allocata ed esposta in modo tale da massimizzare i benefici dei collezionisti e del pubblico più in generale.

Secondo l’approccio finora seguito si sono considerate le opere d’arte alla stregua di semplici beni di consumo, ma in realtà esse risultano essere nello stesso tempo anche beni di investimento. In questo articolo quindi si andrà ad analizzare il concetto di efficienza con un occhio diverso, quello relativo ai mercati degli investimenti.

L’efficienza valutativa

Un importante fattore perché un mercato degli investimenti risulti essere costantemente in equilibrio è che il prezzo rifletta in ogni istante il vero valore intrinseco del bene scambiato. Tale condizione è detta efficienza valutativa. Se si pensa che per allocare in modo ottimale le risorse nel processo di scambio è necessario che il prezzo rifletta il vero valore del bene scambiato sul mercato, è possibile concludere che l’efficienza valutativa risulta essere un presupposto per l’efficienza allocativa.

L’efficienza valutativa è naturalmente un ottimo teorico, difficilmente raggiungibile in realtà, in quanto ha come presupposti che gli operatori siano perfettamente razionali, che questi ultimi siano in possesso in ogni istante di tutte le informazioni necessarie per determinare il valore del bene scambiato (efficienza informativa) e che i mercati funzionino nel migliore dei modi (efficienza operativa).

Più in particolare secondo la teoria finanziaria[1] il valore intrinseco di un titolo (o più in generale di un’azienda o di un asset) è pari al valore attuale netto (VAN o NPV, Net Present Value) di tutti i flussi futuri in entrata e in uscita, scontato ad un tasso che rappresenta il costo opportunità del capitale per l’investitore.

Nell’ipotesi di un mercato efficiente dal punto di vista valutativo, un’opera d’arte dovrebbe quindi avere un prezzo pari alla somma attualizzata della differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto (cioè il capital gain) meno i costi gestionali annessi al bene (deterioramento, custodia, trasporto, ecc..) più il cosiddetto flusso di “dividendo estetico” (cioè l’utilità goduta per il possesso del bene espressa in termini monetari). Se si considera che la rivalutazione dell’opera d’arte dipende dall’andamento della fama dell’artista, che i costi gestionali sono in genere proporzionali al valore della stessa, e che il dividendo estetico è tanto più alto tanto maggiore è la sua qualità artistica, in ultima analisi il valore di un opera viene a dipendere secondo il principio di efficienza valutativa dalla sua importanza culturale nel corso del tempo.

L’ottenimento di un’efficienza valutativa risulta tuttavia ostacolata da tutta una serie di fattori:

1)      L’opera d’arte in sé è un bene unico, che dipende solo parzialmente dalle quotazioni dell’artista. Vi sono infatti opere d’arte fortemente significative per il loro valore storico e altre decisamente marginali, i cui valori si discostano notevolmente.

2)      I compratori non sono per niente razionali nelle loro scelte. Come si è visto alcuni collezionisti hanno come finalità il collezionismo in sé, cioè il possesso di oggetti del medesimo tipo; altri prediligono una soddisfazione del proprio gusto personale; altri ancora acquistano opere da mostrare come status symbol; infine alcuni sono mossi dalla mera ottica dell’investimento.

3)      Il valore dell’opera d’arte in genere non dipende direttamente dai costi di produzione o dal tempo di esecuzione. Ciò rende ancor più difficile determinare il valore di un opera d’arte, al pari di altre applicazioni dell’ingegno e dell’intelletto.

4)      Il valore del “dividendo estetico” di cui un collezionista gode è fortemente soggettivo e di ardua determinazione in termini monetari. Il dividendo estetico fa capo naturalmente all’apprezzamento personale del collezionista o del pubblico nel caso di musei, collezioni private o prestiti a musei.

5)      L’informazione per la determinazione del valore culturale di un’opera è fortemente carente sul mercato. A causa della presenza di un sistema dell’arte che impone il suo metro di giudizio ad un pubblico, spesso secondo finalità diverse da quella culturale, è difficile per l’acquirente destreggiarsi nei meandri dell’arte contemporanea.

6)      I mercati su cui viene scambiato il bene risultano essere illiquidi e inefficienti da un punto di vista operativo. A causa della carenza di informazione sul mercato, i collezionisti, nel caso volessero vendere un’opera, non possono essere sicuri di trovare una controparte disposta a corrispondere un equo prezzo. Ne consegue una maggiore aleatorietà del valore delle opere (specie quelle di artisti minori) sul mercato.

7)      I meccanismi per la determinazione dei prezzi seguono standard diversi a seconda essi vengano intermediati da gallerie o case d’asta. Come meglio si vedrà, le gallerie tendono a giustificare i prezzi di vendita con degli “script”, cioè un insieme di regole informali che fanno da riferimento per le quotazioni, mentre le case d’asta fissano i prezzi di partenza sulla base di segnali della loro qualità, ma poi essi vengono determinati dalla domanda.

Alla luce di tali considerazioni è importante sia che il mercato funzioni nel migliore dei modi, cioè riesca a mettere insieme domanda e offerta (efficienza operativa), sia che l’informazione su questo presente sia inglobata nei prezzi di vendita (efficienza informativa).

L’efficienza operativa

L’obbiettivo di efficienza valutativa può essere raggiunto solo in presenza di un mercato che funzioni nel migliore dei modi, ovvero che sia efficiente da un punto di vista operativo; sappia cioè mettere assieme domanda e offerta (matching), a costi minimi e con il miglior risultato.

La minimizzazione dei costi del mercato si ottiene soltanto attraverso un sua efficiente organizzazione. In tal senso bisogna considerare che l’opera d’arte è un bene unico e quindi difficilmente descrivibile e per la maggioranza dei casi veramente apprezzabile solo di prima persona. Inoltre, come si è detto sopra, il valore culturale dell’opera, cui il prezzo dovrebbe fare riferimento, è di difficile determinazione. Infine esiste una soglia minima di ingresso per l’investimento in arte contemporanea che è spesso cospicua, soprattutto per gli acquisti di opere d’arte di artisti affermati. Tali fattori complicano molto il funzionamento del mercato, tantoché sono sorte numerose figure di intermediari che nel loro complesso hanno costituito un vero e proprio “sistema”[2].

La massimizzazione del risultato si ottiene per via della competenza degli intermediari presenti sul mercato. In tale ottica si possono individuare alcuni utili interventi:

a)      Da una parte è auspicabile un abbassamento dei costi di transazione attraverso una struttura più competitiva del mercato degli intermediari, tale da premiare coloro che offrono servizi migliori a prezzi più competitivi. Ciò è possibile soltanto attraverso una normativa anti-trust che punisca posizioni dominanti e l’istituzione di barriere istituzionali (chinese walls), in modo da limitare la strutturazione per caste e sanare i conflitti di interessi interni al sistema dell’arte.

b)      Dall’altra è fondamentale l’introduzione di nuove tecnologie informatiche che facilitino l’incontro tra domanda e offerta. In tal senso è fortemente auspicabile lo sviluppo di Internet Art Hub, che possano dare all’acquirente tutta l’informazione necessaria per allargare da una parte i propri orizzonti in termini di artisti considerati, per restringere dall’altra il campo delle proprie scelte sulla base di criteri selezionati da questi.

c)      Poi è auspicabile, affinché il mercato acquisti maggiore liquidità (nelle sue dimensioni di ampiezza e spessore della domanda), che nuove forme di investitori, come ad esempio i fondi di investimento in arte contemporanea[3], siano regolamentate, nonché, come si vedrà nel prossimo paragrafo, il mercato abbia una efficienza informativa in modo da attirare nuovi capitali ed investitori.

d)      Infine è interessante valutare gli effetti di un’eventuale introduzione nel nostro ordinamento di una nuova forma giuridica in tema di comproprietà applicata all’arte, sul modello della multiproprietà azionaria, che potrebbe togliere ridurre di molto la soglia di ingresso degli investimenti in opere d’arte, oltre a, come meglio si vedrà, risolvere alla base il problema dell’azzardo morale dovuto ai conflitti di interesse[4].

L’efficienza informativa

Un altro fattore importante per l’ottenimento dell’efficienza valutativa, e in ultima analisi allocativa, è costituito dal fatto che il prezzo di mercato di un’attività finanziaria rifletta in misura più o meno completa l’informazione disponibile. Quando tale condizione risulta vera un mercato è detto efficiente da un punto di vista informativo.

Mentre quindi secondo il principio di efficienza valutativa il prezzo deve riflettere il valore del bene, secondo il principio di efficienza informativa esso deve riflettere solo l’informazione disponibile sul mercato. Da questo punto di vista l’efficienza informativa risulta essere meno restrittiva dell’efficienza valutativa, o meglio una condizio sine qua non perché quest’ultima si manifesti.

Il concetto di efficienza informativa dei mercati finanziari è stato introdotto da Fama (1970) in un suo famoso scritto[5]. Secondo Fama è possibile distinguere in tal senso tre tipi di efficienza:

a)      Debole: i prezzi osservati sul mercato riflettono tutta l’informazione contenuta nella serie storica dei prezzi stessi. In tal senso, comprando opere d’arte sulla semplice base dell’andamento delle quotazioni di mercato, non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media, poiché essi seguono un andamento casuale (random walk).

b)      Semi-forte: i prezzi di mercato riflettono non solo l’informazione contenuta nella serie storica dei prezzi, ma anche qualunque altra informazione pubblica. In tal senso, comprando opere d’arte sulla semplice base dell’andamento delle quotazioni di mercato e dell’informazione pubblica (e cioè disponibile su quotidiani, riviste e Internet), non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media.

c)      Forte: i prezzi di mercato riflettono, oltre all’informazione dei punti a e b, qualunque informazione privata. In tal senso, comprando opere d’arte considerando tutta l’informazione presente sul mercato (compresa quella privata di appannaggio dei singoli operatori, come ad esempio la futura organizzazione di mostre presso qualche importante museo o la prossima selezione in qualche Biennale), non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media.

Poiché il prezzo stabilito sul mercato riflette tutte le informazioni ivi presenti, il concetto di efficienza informativa risulta essere interessante in quanto, in ipotesi di aspettative razionali degli operatori, diviene un indicatore dell’impossibilità di una speculazione da parte degli investitori.

Uno studio del 2013 di David, Oosterlinck e Szafarz[6], nel quale vengono analizzati più di un milione di opere bandite all’asta nel periodo 1957-2007, ha messo in evidenza che sul mercato delle opere vendute all’asta non vi è neppure un’efficienza informativa in senso debole dei prezzi. L’alto tasso di autocorrelazione positiva tra i prezzi fa presumere che su questo mercato siano presenti forti possibilità di speculazione. Gli autori cercano di spiegare la questione non in base a fattori di ordine psicologico (teorizzati invece da Frey e Eichenberger[7]), ma piuttosto con il fatto che, quando il prezzo bandito non supera quello di riserva, la transazione non avviene e quindi non vi è traccia nel database. Ciò è confermato dal fatto che, nell’ipotesi che il mercato delle opere battute all’asta fosse efficiente dal punto di vista informativo, non ci sarebbe alcun bisogno di fissare un prezzo di riserva in quanto il prezzo di equilibrio esprimerebbe in quel momento il vero valore del bene. Purtroppo questa ipotesi è confutata dalla realtà dei fatti. Inoltre, poiché secondo il citato studio i prezzi battuti all’asta risultano essere sensibilmente più alti di quelli di equilibrio, e nello stesso tempo poiché i primi vengono ad assumere un valore indicativo per tutte le altre contrattazioni private gestite dai mercanti d’arte e dalle case d’asta stesse, è possibile dedurre che nel loro complesso le quotazioni relative agli artisti battuti all’asta siano in genere sopravvalutate.

Ma cosa è possibile fare per intervenire nel senso di una maggiore efficienza informativa?

Si ritiene che una prima importante misura sia la regolamentazione dell’insider trading e dei conflitti di interesse, come da decenni avvenuto nei mercati finanziari. Al momento attuale, infatti, mentre nei mercati finanziari l’insider trading costituisce reato, nel caso del mercato dell’arte contemporanea si può dire che esso costituisca la prassi. Parallelamente mentre nei mercati finanziari sono stati istituiti, più o meno efficacemente, contro l’insorgere di conflitti di interesse e il rischio di comportamenti opportunistici (moral hazard) e quindi a tutela degli investitori, i cosiddetti “chinese walls”, cioè una separazione sostanziale tra funzioni di dealing e di consulenza, nel sistema dell’arte, come si è avuto occasione di vedere, è norma che non vi sia alcuna linea di demarcazione tra i diversi ruoli.

Una seconda misura che si ritiene fondamentale per far sì che il mercato dell’arte contemporanea diventi più efficiente da un punto di vista informativo, e che quindi sia in grado di attirare in maniera considerevole maggiori capitali, sottraendoli ad altri mercati di beni copertura (hedge) come ad esempio l’oro, è l’ufficialità di tutti i prezzi di vendita, siano essi battuti all’asta, intermediati da un mercante o da una galleria, o fonte di una transazione diretta tra artista e collezionista.

In tal senso è auspicabile l’istituzione (prima a livello nazionale e poi internazionale) di un registro di pubblica consultazione dove siano iscritti e consultabili tutti i dati delle transazioni avvenute. In esso potrebbero figurare ad esempio l’artista, l’opera venduta, l’immagine dell’opera, la data e l’importo della transazione, mentre verrebbero mantenuti riservati per ragioni di privacy i soggetti che effettuano la transazione. Ciò determinerebbe che tutto il novero degli artisti nel suo complesso, e non solo i pochi battuti all’asta, avesse una quotazione e quindi una maggiore liquidità sul mercato[8].

Per fare sì che tale misura non possa venire elusa urge tuttavia mettere un malus fiscale per chi non dovesse dichiarare l’acquisto. Se ad esempio si introducesse accanto all’IVA e in sostituzione del Diritto di seguito un’imposta sul valore culturale (IVAC) che assumesse, all’atto del primo acquisto, una valenza di imposta sul consumo a carico dell’acquirente; e successivamente, all’atto della seconda e delle successive vendite, di una tassazione sui capital gain a carico del venditore, verrebbe a mancare l’interesse del compratore a non dichiarare la transazione[9].

Il suddetto registro, oltre a consentire una migliore difesa del diritto d’autore, andrebbe inoltre nella direzione di avere una tracciabilità della storia di tutte le opere d’arte, fungendo da censimento e nello stesso tempo da certificazione dell’autenticità, fattore sempre più critico in presenza di nuove tecnologie riproduttive che fanno altresì venir meno il confine tra originale e copia.

Conclusioni

In questo articolo si è messo in evidenza come, da un punto di vista dell’investimento, il mercato dell’arte risulti fortemente inefficiente, sia da un punto di vista valutativo che operativo e informativo. Le ragioni di tutto ciò risiedono sia nelle caratteristiche intrinseche del bene arte, unico e difficilmente valutabile; sia nella struttura del mercato, poco concorrenziale e caratterizzato da conflitti di interesse e insider trading; sia dalla riservatezza dei prezzi attuati dalle gallerie da una parte e dall’omissione delle contrattazioni battute all’asta che non raggiungono il prezzo di riserva dall’altra. Tutti questi fattori risultano in ultima analisi penalizzare l’investimento in arte, rendendolo particolarmente illiquido e rischioso per i non addetti ai lavori. In quest’ottica ci si augura un intervento del legislatore nella direzione di sanare le cause di inefficienza con interventi mirati quali ad esempio la creazione di chinese walls nel sistema arte, la penalizzazione dell’insider trading, l’istituzione di un registro di tutte le compravendite che renda ufficiali i prezzi delle transazioni (accompagnato da un meccanismo fiscale che ne incentivi la dichiarazione), una normativa anti-trust per favorire la concorrenza degli intermediari, la formazione di nuove figure di investitori quali i fondi di investimento in arte contemporanea e la normazione della comproprietà artistica.

Tutti questi interventi, se a prima vista possono sembrare penalizzanti per coloro che godono di privilegi acquisiti all’interno del sistema, in realtà possono portare ad aprire il mercato verso un numero sempre più considerevole di investitori, portando nuovi capitali e in ultima istanza dando impulso ad un crescente sviluppo dell’arte contemporanea e della cultura nella nostra società.

[1] Guatri L., Bini M. (2007), La valutazione delle aziende, EGEA, Milano.

[2] Guenzi M. (2014), La struttura del sistema dell’arte contemporanea, Economia e Diritto, n. 3-6.

[3] I fondi di investimento in arte non sono ancora presenti nel nostro paese, ad eccezione del “Pinacotheca” di Vegagest autorizzato da Banca d’Italia, che non investe tuttavia in arte contemporanea.

[4] La multiproprietà artistica sarebbe, mutatis mutandis, paragonabile alla partecipazione al capitale di rischio di un’impresa da parte dei collezionisti, che fungerebbero da investitori, guidata dalla galleria o dal critico alla stregua di un venture capitalist. D’altra parte anche gli artisti stessi potrebbero usufruirne, in modo da finanziarsi secondo una forma più moderna di“mecenatismo”. L’introduzione di questa nuova forma giuridica va nella direzione di avvicinare all’arte contemporanea nuovi investitori, prima timorosi nei confronti di questo mondo, incrementando il livello degli investimenti e la liquidità del mercato.

[5] Fama E.F. (1970), “Efficient Capital Markets: a review of theory and empirical work”, Journal of Finance, Vol. 25 n. 2 pp. 383-417.

[6] David G. – Oosterlinck K. – Szafarz A. (2013), “Art Market Inefficiency”, Economic Letters, n. 121, pp. 23-25.

[7] Frey B.S. – Eichenberger R. (1995), “On the rate of return in the art market. Survey and evaluation”, European Economic Review, Vol. 83 n. 5 pp. 528-537.

[8] L’effetto è simile a quello di una società che si quota in borsa: le proprie azioni hanno una quotazione ufficiale e divengono immediatamente più liquide.

[9] Guenzi M. (2013), Il mercato dell’arte contemporanea: politiche economiche, fiscali e diritto di seguito, in G. Negri-Clementi – S. Stabile(a cura di), Il diritto dell’arte, La circolazione delle opere d’arte, Ginevra-Milano, Skira.

 

(di Alessio Abbate)

Lo Store Equity Assessment (SEA)[1] è un processo basato sull’integrazione di un set di indici economici con una serie di indicatori di servizio al cliente, di processo e, infine, di sviluppo organizzativo. La sintesi di queste metriche è un cruscotto (dashboard) che consente di valutare il posizionamento strategico del negozio, come indicato nella seguente Figura.

Immagine1

Il Valore del negozio non dipende quindi da aspetti esclusivamente economici (quelli che si manifestano nel conto economico di negozio, ad es., vendite, margini, costo del lavoro, ecc.), ma anche da altri fattori (risorse intangibili) che impattano sulle performance economiche (routine organizzative, mestieri, professionalità, ecc.)

Il capo negozio può agire su tutti questi fattori allo scopo di misurare e aumentare il valore del punto vendita attraverso le proprie attività, come illustrato nel seguito.

1) Performance economiche

Gli indicatori economici sono il risultato finale del modello del SEA.

Si tratta del conto economico di punto vendita, le cui voci principali comprendono:

– Vendite,

– Margine,

– Costo del Lavoro,

– Altri Costi (ammortamenti, utenze, pulizie, fitti e condominio, vigilanza e antitaccheggio, ecc.),

– Inefficienze Inventariali (avarie, contestazioni e differenze inventariali).

L’analisi delle vendite è condotta attraverso opportuno cruscotto di gestione[2], allo scopo di individuare e intervenire sui driver delle performance di vendita (es., scontrino medio, numero di scontrini, ecc.)

Il capo negozio può agire anche sui margini, ad es., attraverso la gestione e l’esposizione delle promozioni in base al layout merceologico del negozio, oppure attraverso la relazione tra personale e clienti.

L’impatto sul costo orario del lavoro è funzione del tipo di contratto, del livello di inquadramento e della tipologia di ora (ordinaria o straordinaria). Il capo negozio può incidere sul costo del lavoro attraverso l’organizzazione delle risorse da impiegare in funzione delle vendite (produttività). Per ottimizzare la produttività (obiettivo preventivato), il caponegozio può agire su più leve, ad es.:

–          l’organizzazione del lavoro, ottimizzando i processi inerenti le lavorazioni (aumento della resa e riduzione degli sfridi), la tempistica, la logistica, ecc.

–          il livello di professionalità degli addetti vendita

–          il livello di motivazione del personale

2) Servizio al cliente

Gli indicatori di servizio al cliente consentono al capo negozio di individuare il valore delle relazioni instaurate con i clienti attraverso l’analisi del posizionamento del negozio nella prospettiva del cliente (Store Check), sulla base del livello di servizio erogato in termini di ambiente esterno, ambiente interno, layout/display, assortimento, prezzi, personale, comunicazione, servizio casse, (altri servizi)[3]. In particolare:

–          per l’ambiente esterno al negozio, il principale impatto del capo negozio riguarda la disponibilità e lo stato dei carrelli esterni al negozio (ove previsti), in termini di sistemazione carrelli, ordine e pulizia. Il capo negozio ha anche una capacità di impatto, sia pur limitata, in termini di segnalazione al capo area, rispetto ad altre variabili come il parcheggio (ampiezza, funzionalità, sicurezza, pulizia) e le condizioni dell’edificio, immagine e visibilità dell’insegna.

–          Per l’ambiente interno al negozio, il capo negozio può agire direttamente sulla disponibilità e stato dei cestini/carrelli all’interno del negozio e sulla sensazione generale di ordine e pulizia del negozio. Attraverso l’opportuna collaborazione della sede, il capo negozio può avere un impatto sull’evidenza degli elementi di stagionalità, caratterizzazione e ricorrenze. L’influenza del capo negozio sul cliente riguarda anche l’impatto del punto vendita sui sensi. In particolare, su luci, colori, cartellonistica e odori del negozio, se si tratta di problemi da risolvere in maniera strutturale, il capo negozio può agire segnalando al capo area che riferirà al marketing o all’ufficio tecnico; per la musica può agire direttamente sul volume e sulla qualità dell’audio; sugli odori interviene attraverso il personale (pulizia, HACCP, uso di pasticche antibatteriche, ecc.)

–          Per il Layout / display, il capo negozio ha altissima responsabilità su aggregazione delle linee / categorie merceologiche (adiacenze merceologiche) e sui display – posizionamento prodotti a scaffale (ordine, percezione del cliente sulla visibilità delle marche). A seconda del format di negozio e dell’organizzazione del retailer, il capo negozio dovrà eventualmente attenersi ai criteri di display (ove presenti), predisposti da altre funzioni (marketing, commerciale, ecc.). Il capo negozio è anche responsabile della presenza o meno di rotture di stock (visive ed effettive), a meno delle consegne dei fornitori (ufficio commerciale) e della logistica.

–          Per l’assortimento, l’impatto del capo negozio è sicuramente ridotto rispetto alle altre variabili che descrivono il sistema d’offerta del punto vendita. Il capo negozio normalmente può agire in termini di eventuali segnalazioni all’ufficio commerciale sulle specifiche esigenze della clientela.

–          Per i Prezzi e le Promozioni il capo negozio ha una capacità di impatto limitata. Tuttavia il capo negozio può agire sulla percezione di convenienza del negozio nel suo complesso da parte del cliente, dando visibilità alle aperture di scala (attraverso opportuna comunicazione e allocazione a scaffale), e creando l’effetto “massificazione” (ove opportuno).

–          Con riferimento al Personale, il capo negozio, ha una capacità di impatto notevole, poiché interviene per stabilire gli orari di lavoro e la programmazione delle ferie. Il capo negozio influisce sulla cortesia e competenza del personale attraverso la formazione, la motivazione e la gestione del clima del negozio. Il capo negozio agisce infine su aspetto e cura del personale (divisa, ordine, pulizia).

–          Sulla leva della comunicazione, l’impatto del capo negozio è alto, in termini di tenuta e rispetto dei criteri di comunicazione decisi in sede, con particolare riferimento alla cartellonistica promozionale (a scaffale e per i fuori banco) e al livello e qualità delle etichette di scaffale e dei relativi supporti.

–          Anche per il “servizio casse” il capo negozio ha una notevole influenza sul livello di servizio percepito dal cliente, con riferimento alla tenuta e ordine della barriera casse, e all’assenza di code. In particolare, il capo negozio interviene sui turni di lavoro e sul livello di servizio da erogare, a partire dalle risorse disponibili in base alla produttività obiettivo.

3) I Processi interni di gestione

Il capo negozio può agire sulle performance attraverso:

– il controllo della tenuta dei banchi e del display,

– il monitoraggio delle rotture di stock effettive e visive,

– il controllo del livello di comunicazione,

– il controllo dell’ordine e pulizia nei reparti freschissimi,

– il controllo della qualità morfologica dei prodotti (freschissimi),

– la gestione della qualità del lavoro, al di là della quantità (produttività)

– la gestione della relazione personale-clienti

– altri processi di gestione

E’ fondamentale, in tal senso, il monitoraggio da parte del capo negozio dei processi che impattano sul livello di servizio durante i diversi momenti di gestione del negozio (apertura, mantenimento, chiusura). La misurazione del livello di servizio per ciascuno di questi processi può essere effettuata qualitativamente mediante attribuzione di un giudizio (insufficiente, sufficiente, buono o ottimo) ai diversi item.

4) Sviluppo Organizzativo

Gli indicatori di sviluppo organizzativo consentono al capo negozio di valutare la capacità del punto vendita di innovare e gestire processi di cambiamento, ad es.:

–          capacità e velocità di reazione del negozio rispetto alle nuove indicazioni fornite al personale

–          sviluppo di routine organizzative

–          rispetto delle procedure codificate

–          sviluppo di competenze, talenti, mestieri, valori e stili di gestione.

Note

[1] Cfr. La Balanced Scorecard del punto vendita: dallo Store Check allo Store Equity Assessment, di Alessio Abbate, economiaediritto.it N.3, Marzo 2014

[2] Cfr. La valutazione quantitativa delle leve category: l’albero delle performance del retailer, di Alessio Abbate, economiaediritto.it N.1, Gennaio 2014

[3] Cfr. Lo store check e la valutazione qualitativa del punto vendita, di Alessio Abbate, economiaediritto.it N.2, Febbraio 2014

di Marco Guenzi

Ad ognuno di noi sarà capitato di trovarsi davanti a qualche opera d’arte contemporanea, come ad esempio i conosciutissimi “tagli” di Fontana, e di domandarsi non solo quale sia il significato di tale opera, ma soprattutto perché essa sia tanto preziosa (una constatazione che spesso ricorre nella mente dello spettatore è quella di dire: “lo potevo fare anch’io..!”).

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