Diritto

Superare la crisi: una strada davvero percorribile?

(di Marcello Pavone)

I recenti dati Cerved relativi alle imprese hanno messo in luce un vero e proprio bollettino di guerra.

In un Paese in recessione come l’Italia l’unico dato in crescita è quello che indica la percentuale dei fallimenti delle imprese: + 14% rispetto allo stesso periodo del 2013.

E’ pur vero che le crisi aziendali spesso prescindono dai comportamenti degli imprenditori con la conseguente inattendibilità dell’ormai superato motto “decoctor ergo fraudator”: il fallito – insomma – non è sempre anche un criminale.

L’imprenditore è, nella maggior parte dei casi, onesto ma sfortunato, vittima di condizioni sistemiche assai sfavorevoli: primo fra tutte il credit crunch, ma si pensi anche all’elevato cuneo fiscale, alla burocrazia imperante, alla domanda stagnante da ormai troppo tempo. Condizioni queste che addensate spingono le imprese, soprattutto le PMI, progressivamente fuori dal mercato.

Altrettanto vero è che la legge concede all’imprenditore la possibilità di combattere lo stato di crisi sul ring del mercato; infatti, è lo stato di insolvenza e non il mero stato di crisi a legittimare il ricorso alla procedura del fallimento. Mentre lo stato di crisi è stato definito come una situazione di temporanea difficoltà di adempimento delle obbligazioni, lo stato di insolvenza indica l’impossibilità di adempiere le obbligazioni. Tramite l’insolvenza la crisi aziendale pertanto si manifesta all’esterno.

Se si tiene conto che tra i soggetti legittimati alla domanda di fallimento compare, oltre che ai creditori e al pubblico ministero, anche il debitore non si può che riconoscere all’imprenditore un vero e proprio diritto di fallire. Il c.d. “autofallimento” è idoneo ad evitare peraltro l’applicazione della sanzione penale dell’art. 217 L.F. per l’imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto astenendosi dal richiedere il fallimento.

In generale, però, il fallimento, anche dopo la riforma del 2006, non può essere certamente annoverato tra i mezzi offerti all’imprenditore per superare la crisi.

La natura e la finalità del fallimento resta, comunque, ad oggi, sostanzialmente liquidatoria: si ha di mira la liquidazione dell’attivo del debitore.

Oggetto precipuo della presente trattazione è invece il superamento della crisi aziendale.

In tali situazioni spesso il titolare della PMI è portato a trascurare le prime avvisaglie di difficoltà (magazzino in crescita, fallimento di clienti storici..), magari valorizza il credito , le prospettive del mercato, le nuove commesse, i contributi che non arrivano, e tanti altri fattori spesso non rilevabili all’esterno, che lo inducono a continuare l’attività.

Del resto è assolutamente ragionevole che l’imprenditore in crisi chieda di giocare fino in fondo la partita e ciò che è auspicabile non risiede semplicisticamente in una maggiore dose di realismo e cautela (l’imprenditore d’altronde è colui che scorge opportunità che altri non vedono!).

La strada da percorrere è inevitabilmente indicata nei bilanci (a meno che questi non siano stati manipolati – ipotesi certamente non da escludere, specie in questo delicato momento storico).

Per controllare lo stato di salute delle imprese, le scienze aziendali hanno individuato alcuni indicatori economici, che verificano la capacità dell’impresa di produrre utili e margini di remunerazione dei proprietari: ROI, ROE, ROS, e finanziari, che verificano la liquidità e la solvibilità: funzione di Altman, margine di struttura, margine di tesoreria.

A questo punto se i modelli di crisis management mettono in luce una situazione per la quale i punti di forza dell’azienda sono tali da poter superare le debolezze e riportare l’impresa in una situazione di equilibrio economico-finanziario si porranno in atto azioni di turnaround, volte a disinnescare le cause scatenanti la crisi e perseguire il recupero della redditività.

L’imprenditore, a seconda dei casi, potrà ad ogni modo avvalersi di quegli strumenti che sono alternativi al fallimento, poiché non mirano alla disgregazione dell’impresa, bensì al contrario, a salvarne l’attività.

Merita di essere sinteticamente ricordato innanzitutto il concordato preventivo, che consiste in un accordo tra il debitore e la maggioranza dei creditori, che mira alla sopravvivenza dell’impresa attraverso la soddisfazione anche parziale delle pretese creditorie (spesso si chiede ai creditori di sopportare dei sacrifici anche notevoli). Esso può essere proposto con ricorso al Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale, dal solo debitore in stato di crisi.

Meccanismi di risoluzione della crisi d’impresa di connotazione spiccatamente negoziale sono anche:

  • gli accordi di ristrutturazione dei debiti;
  • i piani attestati di risanamento.

Gli accordi mirano a ridimensionare l’ammontare dei debiti, attraverso diverse modalità, quali, a mero titolo esemplificativo, un pagamento rateale, un ridimensionamento dell’ammontare complessivo, una rinuncia agli interessi legali già maturati.

La giurisprudenza di merito ha avuto modo di sottolineare come gli accordi di negoziazione non si risolvono in una particolare tipologia di concordato preventivo, ma costituiscono un procedimento autonomo, “un contratto consensuale plurilaterale di natura sostanzialmente privatistica”.

Il Piano di risanamento viene invece attestato da un professionista, che si assume la responsabilità di sottoscrivere che il piano è idoneo a raggiungere sia lo scopo del risanamento dell’esposizione debitoria sia del riequilibrio economico-finanziario.

Questi meccanismi di natura negoziale però scontano delle debolezze che ne bloccano – tutt’oggi – un largo utilizzo: la mancata predisposizione di misure di agevolazioni fiscali e l’impossibilità per l’imprenditore di accedere a nuovi finanziamenti, essenziali per garantire un normale svolgimento delle attività produttive.