Attaccamento infantile e criminalità: note psicologiche e giuridiche sulla violenza
(di Federica Bacchini, Monica Chiovini, Andrea Carta)
Il bambino è il padre dell’adulto. Così, con queste parole, si può esprimere il succo della Teoria dell’Attaccamento, introdotta da John Bowlby nei lontani anni Cinquanta e riconosciuta, con grande apprezzamento, fino a tempi odierni. Osservandoci a ritroso, come ad uno specchio, ci accorgeremo che noi siamo oggi il risultato di esperienze, sentimenti ed affetti vissuti in passato con i nostri caregivers. In tal modo, infatti, hanno operato i ricercatori interessati a valutare l’attendibilità scientifica dei presupposti teorici presentati dall’autore psicoanalista, ovvero procedendo all’inverso quindi indagando in soggetti maturi i loro ricordi infantili, oppure, elaborando ipotesi predittive circa lo sviluppo del fanciullo partendo dalle modalità di accudimento genitoriale ricevute.
Prendersi cura di un bambino implica un duro lavoro, che richiede notevole attenzione e suscita anche molte preoccupazioni; secondo Bowlby (2008), infatti, adulti e adolescenti sani, dotati di fiducia e sicurezza in se stessi nonché capaci di amare, sono il prodotto di famiglie stabili in cui entrambi i genitori dedicano una grande quantità di tempo ai figli. Egli, inoltre, sottolinea come crescere un neonato, sia un compito impegnativo che deve essere diviso e condiviso: chi fornisce le cure ha bisogno, a sua volta, di molta assistenza. Si riconosce quindi l’importanza, nella maturazione fisica e psicologica del minore, del ruolo giocato non soltanto dalla figura materna (solitamente il caregiver principale) ma anche dal padre e dai nonni.
Nella norma, quando una madre culla in braccio il suo bambino di poche settimane e quest’ultimo la guarda, si innesca una sorta di interazione sociale reciproca, costituita da espressioni facciali, gesti e vocalizzi che segnano la nascita di un legame affettivo, appunto dell’attaccamento. In tale processo, il fanciullo assume un ruolo attivo e competente: egli possiede una tendenza innata ad instaurare una relazione con l’altro, l’adulto che si occupa di lui.
Assumendo di riferimento il pensiero di Bowlby, quindi, l’attaccamento rappresenta un impulso primario di affetto e socialità che spinge il neonato, sin dalla nascita, ad interagire con il caregiver. Per l’autore, tale pulsione è paragonabile ad un bisogno di sopravvivenza, che non risponde soltanto ad un’esigenza biologica di fame, come sosteneva invece Freud, ma si manifesta contemporaneamente ad essa: il bambino si attacca al seno materno per gratificare questo desiderio di amore e, nello stesso tempo, riceve anche il cibo necessario alla sua crescita fisiologica. Se nella visione psicoanalitica classica, il legame del piccolo con la figura di accudimento veniva considerato esclusivamente una conseguenza della funzione nutritiva, nell’era post-freudiana diviene centrale la relazione sociale tra madre e bambino, presupposto del suo sviluppo psicofisico verso una direzione normale. Come definisce Mary Ainsworth (cit. in Bowlby, 2008), infatti, il caregiver deve rappresentare una “base sicura” per il fanciullo, dalla quale gli è concesso di allontanarsi per esplorare il mondo circostante ed alla quale può far ritorno nel momento in cui avverte un pericolo, ritrovando sempre un luogo protetto dove ricevere sostegno. Tale ruolo che la figura materna è chiamata a rivestire, già veniva descritto da Winnicott con il concetto di “madre sufficientemente buona” (cit. in Blandino, 2009): non perfetta, ma in grado di rispondere empaticamente ai desideri di amore e riconoscimento da parte del figlio, supportandolo e dialogando con lui nei momenti di maggiore insicurezza.
Una componente fondamentale del sistema cognitivo e affettivo di un soggetto è costituita, inoltre, dai cosiddetti Modelli Operativi Interni (Bowlby, 2008), ovvero rappresentazioni mentali di sé e della relazione con gli altri, la cui qualità positiva o negativa va strutturandosi nel corso delle esperienze vissute in prima età all’interno dell’ambiente familiare, le quali influenzeranno appunto le abilità sociali adulte. Da ciò si evince come i M.O.I. risultano anche predittori di eventuali disturbi o disagi psichici. Si deve infatti a due note autrici, la già citata Mary Ainsworth (1978) e la seguace Mary Main (1985), psicologhe infantili, il merito di aver individuato, introducendo rispettivamente le metodologie Strange Situation e Adult Attachment Interview, gli stili di attaccamento che possono svilupparsi nella diade madre-bambino (cit. in Blandino, 2009).
La prima ha distinto tre categorie di minori, sulla base delle risposte affettive che essi mettono in atto di fronte ai comportamenti dell’adulto: sicuri, insicuri-evitanti, insicuri-ambivalenti. Il tipo sicuro è quello che gode di una figura di accudimento solidale ed empatica; manifesta inoltre curiosità e interesse nell’esplorare il mondo autonomamente e ricerca l’abbraccio nei momenti di contatto con la madre. L’attaccamento insicuro-evitante descrive, invece, un legame con quest’ultima fondato sul suo rifiuto nei confronti del figlio; per cui il piccolo, consapevole che non può fidarsi, mostra apatia e distanziamento. Bambini insicuri-ambivalenti, infine, sono coloro nei quali predomina un rapporto imprevedibile con il caregiver, che alterna momenti di affetto con altri di totale assenza emotiva; nella loro crescita, ricorrono maggiormente sentimenti di rabbia e sfiducia nelle proprie capacità. Dagli studi sulla Strange Situation, dunque, è emerso che la modalità delle cure genitoriali determina la qualità dell’attaccamento nel figlio. A partire da tale considerazione si è mossa successivamente la Main, arricchendo i tre stili di attaccamento individuati dalla collega con un quarto, definito disorganizzato, nel quale il fanciullo presenta reazioni incoerenti frutto di possibili traumi vissuti o proiettati su di lui dal genitore nella cui mente sono rimasti ancorairrisolti. Non solo, la studiosa ha fornito un notevole contributo nella teoria dell’attaccamento, anche individuando cinque tipologie di accudimento adulto, derivate dalle esperienze infantili con i propri genitori e reiterate nell’approccio con la nuova prole: modello sicuro, distanziante, preoccupato, irrisolto ed inclassificabile.
Queste teorizzazioni portano all’opinione condivisa, secondo cui cure e relazioni disfunzionali all’interno della famiglia d’origine, caratterizzate da abbandono, trascuratezza o, nei casi peggiori, maltrattamento, inducono con molta probabilità alla genesi di altrettanti comportamenti antisociali ed atteggiamenti disadattivi in età matura. Bowlby (2008), a tal proposito, afferma “la violenza genera violenza, la violenza nella famiglia tende a perpetuarsi da una generazione a quella successiva”, e prosegue spiegando come bambini vittime di gesti e parole poco dignitose saranno adolescenti difficili nonché mariti e padri aggressivi che, nel prendersi cura dei propri figli, sceglieranno di adottare i medesimi schemi educativi.
Premettendo che non si debba generalizzare (molto spesso, è possibile interrompere questo circolo vizioso e garantire un futuro più adeguato alle successive discendenze), a fronte di rifiuto affettivo o abuso fisico da parte dei caregivers, il bambino tende ad identificarsi con l’aggressore e ad esercitare a sua volta atti coercitivi verso gli altri. Condotte di questo tipo, accompagnate da sentimenti di tristezza, collera, impulsività e freddezza emotiva, si riscontrano tipicamente nelle personalità autori di crimini violenti. I casi clinici (Skodol, 2000; Dazzi, Madeddu, 2009), infatti, riportano nello specifico modelli di attaccamento insicuri, distanzianti o disorganizzati in soggetti affetti da tratti narcisistici e psicopatici, nei quali traspare un mancato sviluppo dell’empatia quindi una tendenza sadica ad infliggere dolore alla propria vittima. Vissuti infantili trascorsi con padri alcolisti che ricorrevano a punizioni di tipo corporeo, correlano frequentemente con storie di escalation antisociale fino alla colpevolezza di omicidio. Un gran numero di donne poi, che picchiano i figli, sono state a loro volta maltrattate durante l’infanzia o possiedono un ricordo della madre quale figura assente: quest’ultime svelano un costante bisogno di dipendenza, in evidente contrasto con la rigidità e difficoltà ad instaurare relazioni positive.
Secondo Melanie Klein (cit. in Dazzi, Madeddu, 2009), a tal proposito, i soggetti mostrano tendenze asociali e criminali mettendole continuamente in atto, quanto più hanno interiorizzato rappresentazioni aggressive e vessatorie dei loro genitori. Il deviante, dunque, preda di tale violenza innata, sarebbe mosso da un desiderio di possesso e di distruzione dell’altro nonché da un sentimento di invidia, la cui manifestazione avviene attraverso comportamenti svalutativi e manipolatori, finalizzati a confermare ulteriormente il proprio senso di grandiosità. Da ciò si evince come, non poco frequentemente, vite adulte impostate sulla delinquenza rappresenterebbero la conseguenza di percorsi evolutivi caratterizzati da deprivazione affettiva, mancata sicurezza e fiducia, abbandono o maltrattamento fisico da parte dei caregivers.
Inoltre la teoria dell’attaccamento è stata ulteriormente utilizzata per spiegare la genesi del comportamento violento, in particolar modo tra i cosiddetti sex offenders (Ward et al, 1996). Il concetto di intimità, alla base sia dell’attaccamento che dell’interpretazione criminologica delle violenze sessuali, non è universalmente condiviso dagli studiosi.
La maggior parte dei ricercatori, infatti, è d’accordo nell’affermare che si tratta di “disvelamento reciproco nella relazione, calore e affetto, vicinanza e interdipendenza tra i partner” (Fehr, 1985); mentre Bass (1988) sottolinea che si tratterebbe dell’unione tra “due persone basata sulla fiducia, il rispetto, l’amore e l’abilità di condividere nel profondo” emozioni, sentimenti e cognizioni. In ogni caso le relazioni basate sull’intimità, trasmettono senso di sicurezza e stabilità emozionale agli individui che le sperimentano, aumentando di fatto la resilienza allo stress, incrementando l’autostima e favorendo il benessere fisico e mentale (Horowitz, 1979).
Partendo da queste definizioni, Marshall (1996), ha tratteggiato la teoria del deficit di intimità, come genesi della violenza sessuale. I sex offenders, infatti, hanno sviluppato un attaccamento insicuro, particolarmente accentuato nelle competenze interpersonali e di conoscenza di sé, che ha minato alla base la capacità di sperimentare intimità con gli altri adulti. L’autore evidenzia come ne consegua un pervasivo senso di frustrazione, solitudine, quasi un’impotenza ontologica che l’individuo tenta di “riparare” cercando nell’atto sessuale, spesso forzato e violento, il soddisfacimento emozionale e di calore umano non sperimentato nelle relazioni.
Per tornare a Bowlby, possiamo sottolineare che le persone con un attaccamento sicuro sperimentano alti livelli di autostima e vedono gli altri come generalmente capaci di donare calore e accoglienza: il risultato è una buona capacità di raggiungere relazioni intime soddisfacenti. Per contro, un attaccamento insicuro è fortemente correlato a individui violenti sessualmente: sono soggetti dominati da un senso di frustrazione intenso, aggressività e incapacità di cogliere l’altro come fonte di emozioni positive e di accettazione delle proprie istanze psichiche. Ne deriva un comportamento non mediato, in preda alle sensazioni, alle delusioni e alle insoddisfazioni, che sfocia nella violenza manifesta. Tuttavia le ricerche (Ward, 1996; Bogaerts et al, 2005; Walker et al, 2009) evidenziano una netta distinzione tra violentatori (adulto-adulto) e molestatori (adulto-bambino): i primi hanno un’incidenza maggiore di attaccamento evitante, i secondi, invece, di attaccamento ansioso ambivalente.
La letteratura sull’argomento ci dimostra, quindi, che esisterebbe un ben preciso assetto psicologico deviante, che comprometterebbe la capacità di giudizio dei violentatori/molestatori. Potrebbe, dunque, essere una valida motivazione di non imputabilità?
La teoria dell’attaccamento di Bowlby e la sua rilevanza in ordine ad eventi delittuosi di violenza sessuale, consente di svolgere alcuni riflessioni relativamente all’elemento soggettivo del reato.
Nello specifico si tratta di stabilire se i rapporti sviluppati all’interno della famiglia – con particolare riferimento alle ipotesi in cui questi ultimi si risolvano in cure e relazioni disfunzionali caratterizzate da abbandono, trascuratezza o addirittura maltrattamento – abbiano una rilevanza tale da incidere sull’imputabilità del reato. L’esame del predetto quesito non che può che partire dal disposto di cui all’art. 85 del codice penale ai sensi del quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso non aveva la capacità di intendere e di volere”. Questa formula sintetizza l’insieme delle condizioni fisico-psichiche di normalità che consentono l’attribuzione di responsabilità all’autore di un fatto di reato, rendendolo così meritevole di pena (Garofoli, 2014). In particolare: la “capacità di intendere” è l’attitudine del soggetto a comprendere il significato del proprio comportamento ovvero a rendersi conto del valore sociale delle proprie azioni nel contesto della realtà in cui agisce; la “capacità di volere” si identifica invece con la capacità di controllo dei propri stimoli e impulsi ad agire ossia ad attivare meccanismi psicologici di impulso e di inibizione secondo il motivo che appare più ragionevole (Garofoli, 2014). Per la capacità di intendere e volere vige una presunzione iuris tantum: la stessa infatti è considerata normalmente esistente al raggiungimento del diciottesimo anno di età. La legge ha dunque individuato, in virtù di evidenti ragioni di semplificazione, un limite eguale per tutti (diciottesimo anno), sebbene sia indubbio come la maturità mentale venga raggiunta in tempi e modalità diverse per ogni individuo (cfr. Trimarchi, 2005). Ferma dunque la sussistenza della capacità di intendere di volere ai fini dell’imputabilità di un determinato evento delittuoso, pare a questo punto necessario fare riferimento alle ipotesi che possano diminuire o addirittura escludere l’imputabilità stessa, soffermandosi in particolare su quelle di natura patologica ovvero le c.d. infermità mentali. Si fa rinvio sin d’ora agli artt. 88 e 89 del codice penale che contemplano rispettivamente il vizio totale di mente e il vizio parziale di mente. L’art. 88 c.p. stabilisce che “non è imputabile chi nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere la capacità di intendere e di volere”. Aggiunge il successivo art. 89 che “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità di intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita”. Come sottolineato da ormai consolidata giurisprudenza “Tra vizio di totale di mente e quello parziale (…) la differenza è essenzialmente quantitativa in relazione al grado o misura della incidenza del disturbo sulla psiche del soggetto: il vizio totale, determinante la non imputabilità del soggetto, richiede che l’infermità sia tale da escludere completamente la capacità di intendere o quella di volere, mentre il vizio parziale si ha quanto l’infermità scemi grandemente, come la legge richiede, senza escludere però la capacità intellettiva o quella volitiva del soggetto, che rimane, pertanto, imputabile, sia pure con diminuzione di pena” (Cass., 9 febbraio 1979, Greco, RIML 80, 926). Al di là della predetta differenza quantitativa, come emerge dal tenore letterale degli artt. 88 e 89, al centro della disciplina del vizio di mente si colloca il concetto di infermità che ricomprende sia malattie di tipo fisico sia malattie di tipo psichico (Marinucci-Dolcini, 2012). In altri termini, l’infermità rilevante ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p. deve risolversi in una malattia (sia fisica che psichica) tale da incidere in tutto o in parte sulla capacità di intendere o di volere. In caso contrario, non potrà escludersi a priori la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Con particolare riferimento poi alle malattie di tipo psichico ricondotte nel concetto di “infermità”, l’orientamento a lungo dominante ha dato rilievo alle sole “alterazioni mentali su base organico-celebrale” (es. una psicosi da infezione, come la paralisi progressiva). Nel corso degli anni si è però fatto strada, ed è stato accolto dalla Cassazione delle Sezioni Unite, un diverso orientamento che riconduce al concetto di infermità anche le “anomalie psicopatiche non inquadrate nelle classificazioni nosografiche” (Marinucci-Dolcini, 2012). Sul punto è stato infatti affermato che “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i “disturbi delle personalità”, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di “infermità”, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che esista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato da disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché gli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di “infermità” (Cass. pen., sez. I, 11.01.2013, n. 7907). Da quanto sopra, quindi, e considerato quanto teorizzato in ordine all’attaccamento sviluppato dal bambino, è da escludersi che lo stessa possa avere un’incidenza tale da alterare, anche in termini di vizio parziale di mente, la capacità di intendere e di volere rilevante in ordine all’imputabilità del reo. Il diverso sviluppo dell’attaccamento non pare infatti poter costituire, a parere di chi scrive, una “(…) turbe della personalità di consistenza e gravità [tali] da determinare una situazione psichica incolpevolmente incontrollabile da parte del soggetto che, di conseguenza, non può gestire le proprie azioni e non ne percepisce il disvalore” (cfr. Cass. Pen., sez. VI, 10.12.2014, n. 53600).
In realtà, sebbene come accennato sia da escludersi la rilevanza dell’attaccamento bambino-caregiver ai fini dell’imputabilità, la stessa potrebbe tuttavia rilevare in ordine commisurazione della pena da parte del giudice nell’esercizio del suo potere discrezionale. Come noto, infatti, una volta accertata la responsabilità del reo in relazione a una determinata fattispecie delittuosa, il Giudice dovrà stabilire la pena da applicare nel caso sottoposto al suo esame sulla base della cornice edittale individuata dalla legge con riferimento alla figura di reato accertata. Al riguardo, l’art. 132 del codice penale stabilisce: “Nei limiti fissati dalla legge, il giudice applica la pena discrezionalmente; esso deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tal potere discrezionale. Nell’aumento o nella diminuzione della pena non si possono oltrepassare i limiti stabiliti per ciascuna specie di pena, salvi i casi espressamente previsti dalla legge”. Al fine di orientare, e al contempo vincolare, il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena, l’art. 133 c.p. stabilisce che il giudice deve tenere conto della “gravità del reato” (comma 1) e della “capacità a delinquere del reato” (comma 2). Senza soffermarsi sul concetto di “gravità del reato” e sui fattori da cui può essere desunta, in questa sede – in considerazione della tematica affrontata dal presente contributo – è opportuno concentrarsi sulla nozione di “capacità a delinquere” e sugli indici legislativi utilizzabili dal giudice nell’ambito della sua valutazione discrezionale. Il concetto di “capacità a delinquere” è stato oggetto di numero dibattiti sia in dottrina che in giurisprudenza. A fronte di un orientamento secondo il quale la “capacità a delinquere” si proietterebbe nel passato, esprimendo l’attitudine del soggetto al fatto commesso, quale indice della personalità morale del reale, se ne contrappone un altro che intende la capacità a delinquere in una funzione-prognostica, quale attitudine del soggetto a commettere nuovi reati (Marinucci-Dolcini, 2012). Preferibile è tuttavia una terza interpretazione, intermedia rispetto ai due precedenti orientamenti sopra riferiti, che attribuisce alla capacità a delinquere una duplice funzione: da una parte quale criterio di graduazione della pena che valorizza la personalità del reo – il fatto è tanto più riprovevole quanto più intensa è la sua attribuibilità all’autore – dall’altro quale criterio di commisurazione della potenzialità criminosa in un’ottica di prevenzione speciale (Garofoli, 2014). Ciò premesso, ritornando al disposto di cui al secondo comma dell’art. 133, la “capacità a delinquere” è desunta: 1) dai motivi a delinquere e dal carattere del reo; 2) dai precedenti penali e giudiziari e, in genere, dalla condotta e dalla vita del reo, antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita, familiare e sociale del reo. Orbene, a parere di chi scrive, le modalità di attaccamento sviluppate dal bambino, potrebbero essere ricondotte “alle condizioni di vita, familiare e sociale del reo”. Come evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, 24 aprile 1974, Pierucci) dette condizioni servono, insieme agli altri elementi individuati dall’art. 133 comma 3 c.p., a stabilire se il reo sia pervenuto al delitto per effetto di impulsi ambientali o di fattori endogeni. Le condizioni familiari e sociali sono quelle che servono a caratterizzare la personalità dell’individuo e non hanno riferimento con la nascita o con il censo: esse infatti valgono a definire la maggiore o minore attitudine della persona alla violazione delle norme giuridiche penali (Riondato-Zatti, 2011). In altri termini, la situazione familiare del reo, le sue condizioni abitative e, de plano, in via potenziale anche i sui rapporti con la madre, verrebbero considerate per valutare l’influenza e l’intensità nella determinazione della volontà del reo per realizzare il fatto delittuoso incidendo sul calcolo finale della pena (cfr. Tumminello, 2010). Pertanto la famiglia e le modalità di attaccamento sviluppate nel reo potrebbero rilevare sia come un fattore di disvalore nel momento in cui favorisca le attitudini delinquenziali, sia come fattore di valore nel caso opposto, capace in ogni caso di incidere sulla determinazione della pena. L’orientamento verso l’alto o verso il basso della pena dipenderà poi dalla concezione della “capacità a delinquere” a cui di volta in volta si intenderà aderire secondo le tesi più sopra prospettate.
Ciò significa, come rilevato da autorevole dottrina, che laddove la “capacità a delinquere” venga intesa nella sua proiezione verso il futuro, in una prospettiva specialpreventiva della pena, le condizioni familiari tenderanno tanto più verso l’incremento della pena quanto più siano connotate in termini di disvalore, rilevando quali condizioni positive della personalità del reo (Rionato-Zatti, 2011). Se invece si volge l’attenzione al passato, mirando alla retribuzione e considerando la “capacità a delinquere” quale criterio di commisurazione della colpevolezza, le potenzialità criminogenee della famiglia tenderanno tanto più ad attenuare la pena quanto più esse fuoriescano dalla capacità di dominio del reo e viceversa (Rionato-Zatti, 2011).
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