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In nome dell’ordine pubblico – Parte III. Il matrimonio “same-sex” nel dialogo tra le Corti

Introduzione

 L’istituto del matrimonio occupa un ruolo rilevante nella normativa dedicata ai rapporti familiari ed è talmente incisivo, che non solo funge da atto costitutivo del rapporto coniugale, ma esercita anche una funzione legittimante il tipo di famiglia legale, rappresentato, per tradizione, dal tipo famiglia legittima. In dottrina, proprio per l’importanza connaturata all’istituto, si è ampiamento parlato e ci si continua a riferire ad un generale principio di “favor matrimonii[i]”. Il legame dell’istituto matrimoniale con la famiglia è figlio della tradizione e nel tempo ha assunto un valore sacrale che, ancora oggi, è in grado di diversificare tale tipo di unione rispetto alle altre tipologie di formazioni familiari riconosciute. Anche se è stata giuridicamente accertata la separazione tra funzione civile e religiosa del matrimonio[ii], la prima continua a rimanere marchiata dalla seconda. La diversità tipologica del rito, civile e canonico, non comporta infatti una decadenza della solennità del rito in sé, che denota un nucleo di rapporti giuridici endo-familiari ed eso-familiari plurimi ed unici, da cui emergono un fascio di diritti e doveri che vanno ad identificare l’immagine precisa dell’istituto familiare nella comunità e quindi nell’immagine collettiva di famiglia.

  1. La famiglia fondata sul matrimonio

La famiglia fondata sul matrimonio, come istituto storico-sociale e come principio, trova Costituzionalizzazione nell’articolo 29, il quale recita: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge (articoli 84-87,107, 143-143bis-231) a garanzia dell’unità familiare”. Il primo comma, dell’articolo, poc’anzi richiamato, è stato e continua ad essere al centro di una diatriba dottrinale e giurisprudenziale che permea il centro della riflessione sul significato da attribuire, in ottica costituzionale, al termine “naturale”. Per quanti della dottrina appartengono alla visione giusnaturalista affermano che tale termine sta ad indicare, che la famiglia è un istituto che non nasce con lo Stato ma, anzi, fornisce in un certo senso l’ispirazione per la nascita di quest’ultimo e da questo deve essere riconosciuta, al fine di garantire la produzione degli effetti giuridici e sociali da essa generati. Tale visione, a mio avviso, sembra essere quella corretta, non solo giuridicamente, ma anche antropologicamente. Gli studi antropologici, infatti, dimostrano come l’idea di famiglia e la sua costituzione esistano fin dalle fasi più evolute dell’epoca dell’ominazione. Tale impostazione crea qualche perplessità, se si osserva l’intera proposizione e cioè, società naturale fondata sul matrimonio, la quale permette di allargare gli orizzonti e di interpretare la locuzione naturale, in maniera evolutiva e più specifica. Infatti, il matrimonio non è un fatto naturale, ma è un atto (nel mondo giuridico) o un rito (mondo antropologico), che è stato costruito in funzione della collettività, rivolto cioè a designare un particolare fascio di diritti e doveri, che solo attraverso quest’ultimo possono essere esercitati (nel caso delle società senza Stato, il matrimonio è un rito, un fattore culturale in grado di elevare una tipica formazione familiare all’interno di un gruppo specifico). Essendo il prodotto di una costruzione, il matrimonio non può essere considerato un fatto naturale. A dimostrazione di ciò, può ergersi la stessa evoluzione della famiglia, che non necessariamente trova un fondamento nel matrimonio, anzi, tutt’altro. È tale realtà a fungere da principio che legittima la pluralità dei tipi familiari.

  1. Il matrimonio same sex nel dialogo tra le Corti

In tal senso, si esprime la Corte EDU, che con la sentenza Schalk e Kopf contro Austria[iii], afferma l’appartenenza della relazione instaurata tra due persone aventi il medesimo sesso biologico, al tipo famiglia (si avrà modo nel proseguo di analizzare meglio tale pronuncia). Altra cosa è associare l’istituto matrimoniale ad ogni tipo di famiglia e per quel che a noi interessa, al tipo famiglia omosessuale. L’evoluzione giurisprudenziale e normativa relativa a tale tematica parte da molto lontano, da un punto così distante che coincide con l’oblio dei diritti. Di concerto con l’assenza di normativa interna dedicata al regolamento dei rapporti e, quindi, al riconoscimento dei diritti relativi alle formazioni familiari omosessuali, la giurisprudenza ha condotto l’esame di tutti quei casi implicanti la trascrizione del matrimonio (atto) tra persone dello stesso sesso costituito all’estero, sulla base di una considerazione di inesistenza dell’atto.

Di inesistenza parla il Tribunale di Treviso[iv] con sentenza del 19 maggio 2010, nella quale afferma: “Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è inesistente per l’ordinamento italiano; una volta assodata la non qualificabilità della fattispecie, non è necessario accertare la contrarietà del matrimonio omosessuale al nostro ordine pubblico, che, comunque, presuppone che l’atto straniero da trascrivere sia compreso nella categoria degli atti esteri trascrivibili nei registri anagrafici italiani secondo la disciplina che li regola”. La pronuncia segue due direzioni giuridiche negative, affermando che il matrimonio tra coppie omosessuali non esiste nel nostro ordinamento giuridico, perché lo stesso sarebbe connaturato e fondato sulla diversità del sesso dei coniugi, un principio non direttamente stabilito, ma desunto dall’insieme delle disposizioni normative del sistema, precisamente si fa riferimento all’articolo 29 della Costituzione e agli obblighi di legge da quest’ultimo richiamati che si sostanziano nelle norme del codice civile ad esso corrispondenti, articoli 115, 143, 143 bis. Inoltre, a prescindere da tale valutazione, ci sarebbe l’ulteriore barriera dell’ordine pubblico, che secondo l’articolo 18 dell’ordinamento sullo stato civile, D.p.r. n°396/2000, nel titolo atti formati all’estero, afferma che: “non possono essere trascritti gli atti formati all’estero che sono contrari all’ordine pubblico”, sul presupposto che con il termine ordine pubblico si faccia riferimento al complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’atteggiamento etico[v] e giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico e che, quindi,  impedisce la trascrizione dell’atto matrimoniale costituito tra coppie aventi il medesimo sesso, sulla base della contrarietà di quest’ultimo al principio appena richiamato. Sul tema si pronuncia per la prima volta la Corte Costituzionale con la sentenza n° 138/2010[vi] (una pronuncia che darà seguito ad altre fondamentali pronunce, fino a culminare nella condanna dell’Italia per violazione dell’articolo 8 CEDU), sul giudizio di legittimità costituzionale riguardante gli articoli 93-96-98-107-108-143-143bis-156bis del codice civile, per contrasto con gli articoli 2-3-29-117 della Costituzione (nella parte in cui escludono l’applicazione del matrimonio alle coppie omosessuali), sollevato con ordinanza del tribunale di Venezia e dalla Corte d’appello di Trento nel 2009, in merito alla trascrizione dell’atto di matrimonio redatto all’estero da una coppia di cittadini italiani omosessuali. In tale giudizio è stata ritenuta non fondata la questione di legittimità di tali articoli del codice civile, nei confronti degli articoli 3 e 29 della Costituzione, perché non viene rilevata alcuna violazione del principio di non discriminazione, in quanto il matrimonio sarebbe cosa diversa e non applicabile ad un rapporto tra uniti civilmente. Ancora una volta, si palesa una generale considerazione dell’inesistenza dell’istituto, se correlato a coppie aventi il medesimo sesso biologico. Per quanto riguarda gli articoli 2 e 117 della Costituzione e di riflesso per mobile rinvio, gli articoli 8-12-14 della CEDU che tutelano rispettivamente la vita privata e familiare, il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia e il principio di non discriminazione si ritengono non violati per inammissibilità della questione, in quanto la CEDU non vincola lo Stato ad utilizzare il matrimonio come istituto per la realizzazione familiare, essendo ampio il margine di apprezzamento statale su questo tema e mancando una visione maggioritaria univoca degli Stati aderenti e per questi motivi questione interna da riservare al potere legislativo. La Consulta, quindi, si esprime in senso negativo nei confronti dell’estensione applicativa dell’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali, affermando che “l’unione omosessuale, pur se riconducibile all’art. 2 Cost., rappresenta tuttavia una formazione sociale non idonea a costituire una famiglia fondata sul matrimonio stante l’imprescindibile (potenziale) ‘finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale’ e di conseguenza, perché ‘la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio‘”. Ma una simile pronuncia è legata al vuoto legislativo in merito e l’unico appiglio su cui direzionare il ragionamento giuridico risultava essere l’articolo 29 della Costituzione, letto ed interpretato in relazione alla normativa civilista pertinente. Andare oltre, in quel momento, per la Corte era del tutto inimmaginabile, non solo per una questione di ordine socio-politico, ma soprattutto per una questione di democraticità. Una dichiarazione positiva al caso in questione, da parte della Consulta, avrebbe incitato gli animi delle forze politiche giustamente motivati, perché avrebbe determinato la sovversione delle funzioni. Tale pronuncia però riveste una notevole importanza, perché per la prima volta la Corte avverte l’esigenza storica e politico-sociale di una necessaria tutela normativa dei rapporti posti in essere da questa tipologia di persone, affermando che a tale tipo di unione non spetta soltanto il diritto «di vivere liberamente una condizione di coppia» ma altresì «il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri»”, riconoscimento che deriva dall’articolo 2 della Costituzione ed invita in tale occasione, il legislatore a colmare il vuoto normativo del nostro sistema. Con l’ordinanza n. 276 del 22 luglio 2010[vii], nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale proposte dalla Corte d’Appello di Firenze, la Corte Costituzionale riprende le conclusioni pronunciate con la sentenza poc’anzi richiamata e ribadisce pienamente il concetto che le unioni omosessuali sono formazioni sociali irriducibili al paradigma matrimoniale rientranti nell’art. 29 Cost. Tali pronunce della Corte si affacciano in una realtà giuridica extraterritoriale in evoluzione. Nel panorama internazionale, la svolta è segnata dalla Corte suprema del Massachusetts[viii] che con la sentenza emessa nel 2003 ha dichiarato incostituzionale il divieto di sposare una persona del proprio sesso, sulla base di un doppio esame dell’istituto matrimoniale, l’uno prettamente formale e quindi incardinato sull’atto giuridico, l’altro sostanziale e quindi concentrato sul rapporto, dai quali emerge l’irragionevolezza della discriminazione e quindi la decisione in senso contrario. Dopo due anni da quest’ultima pronuncia, nel 2005 è la volta del Continente Africano: la Corte Suprema del Sudafrica, infatti, ha emanato l’obbligo, diretto al legislatore, di rimuovere il divieto di matrimonio tra le persone dello stesso sesso, spingendo per un intervento immediato e imponendogli di provvedere entro un anno dalla pronuncia[ix]. Nello stesso anno, il 2005, la Corte Suprema del Canada fu chiamata a decidere sulla medesima questione, la cui pronuncia condusse il Parlamento alla promulgazione della legge 20 luglio 2005, attraverso la quale procedette alla riforma della definizione giuridica del matrimonio, da intendere come “gender-neutral”, cioè un’unione formata semplicemente da due persone e quindi eliminando ogni tipo di riferimento al requisito sessuale. Nel caso di specie, è bene segnalare che tale decisione venne riformulata nel suo perfetto opposto, tramite il referendum popolare nel 2008, ma nel 2010 tale risultato venne dichiarato illegittimo dalla Corte distrettuale del Nord California, sulla base del principio che i diritti fondamentali, per natura, non siano passabili di scelte rappresentative. Sulla stessa scia si schiera il legislatore portoghese, che attraverso la riforma del codice civile, nel 2010 ha esteso l’istituto del matrimonio anche alle coppie dello stesso sesso[x]. Se nel contesto internazionale ed europeo, a livello di giurisdizione statale, si stava verificando una graduale ma completa apertura verso il riconoscimento del matrimonio come diritto fondamentale e, in quanto tale, degno di essere esteso agli “uomini”, nella giurisprudenza di matrice europea-internazionale un simile risultato sembra essere ancora molto lontano, anche se propositivo nel senso di riconoscere l’unione tra persone dello stesso sesso come tipo famiglia.

  1. Il matrimonio same sex e l’ordinamento dell’Unione Europea

Il percorso evolutivo dell’Unione europea si genera lentamente, da una prima posizione di totale astensionismo, complice la natura iniziale del fine economico a fondamento della Comunità europea, si arriva gradualmente verso l’apertura normativa europea sul punto. La prima formulazione normativa, che apre l’avvio all’avvicinamento della tutela dei diritti fondamentali e con essi della tutela relativa alla comunità Lgbt, si ha con il Trattato di Maastricht, il quale ha stabilito, che l’Unione europea rispetta i diritti fondamentali (art. 6, par. 2): “quelli garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e quelli che risultano dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quando principi generali del diritto comunitario”. Successivamente, il principio di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale viene consacrato con il Trattato dell’Unione Europea da una serie di disposizioni: art. 2 TUE: “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”; art. 3, par. 5, in cui si enunciano gli obiettivi dell’Unione nelle relazioni internazionali e si prevede che: “[…] l’Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, Caso Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande sezione)”. Tra l’altro, il rispetto dei diritti fondamentali è previsto anche dall’art. 6 TUE, dedicato proprio ai diritti umani (compresi quelli delle minoranze) e dall’art. 10 TFUE, che inserisce l’orientamento sessuale nella lista delle discriminazioni che l’Unione si impegna a combattere nell’attuazione delle sue politiche. La consacrazione della tutela dei diritti umani e quindi del principio fondamentale di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, parte da ambiti materiali definiti e circoscritti, quali la libera circolazione delle persone, la tutela del lavoro e delle pari opportunità. Comincia ad evolversi nel campo delle relazioni familiari, con l’annessione della Carta di Nizza al Trattato di Lisbona, qualificando i principi in essa espressi come principi imperativi. Nello specifico, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 9, ha previsto in capo ad ogni individuo “il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia”, stabilendo che tale diritto, è riconosciuto: “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”. Dall’esame testuale dell’articolo, secondo l’opinione maggioritaria della dottrina, la Carta ha operato una scelta storica, al fine di includere le coppie omosessuali nelle relazioni familiari, optando per un’espressione diversa da quella contenuta nell’art. 12 della CEDU, dove vi è un preciso riferimento, così si il testo: “uomini e donne in età matrimoniale, hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio a tale diritto”. Una simile apertura da parte dell’Unione Europea, complici le giurisprudenze comunitarie e non, rivolte al medesimo fine, non poteva restare al di fuori della visione della Corte EDU. Nell’iter giurisprudenziale della Corte EDU, infatti, le unioni omosessuali erano collocate nel range di tutela riguardante la vita privata ex articolo 8 CEDU. Con la soluzione del caso, già menzionato Schalk e Kopf c. Austria, una pronuncia di poco successiva a quella emanata dalla Corte Costituzionale nel 2010, la Corte EDU, sebbene precisi che in tale sostrato materiale il margine di apprezzamento Statale sia più tosto ampio e rilevi al contempo la mancanza di un’opinione comune sul tema, per la prima volta riconosce a tali unioni il diritto a godere dello status familiare e quindi di ricevere considerazione giuridica e corrispondente tutela ex articolo 8 CEDU, come rapporti attinenti alla vita familiare. Tale passaggio storico, se pure minimo, riveste una notevole importanza nella qualificazione del rapporto e dei diritti fondamentali, perché sulla base di questa conclusione non potrà più parlarsi di inesistenza del rapporto, pena la violazione del diritto fondamentale alla vita familiare. Pochi anni dopo, il Parlamento europeo, riunito in sessione plenaria il 24 maggio 2012, approva, con una larga maggioranza, il principio che condanna ogni forma di discriminazione che non sia giustificabile e che si fondi sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale, considera inoltre inaccettabili episodi di intransigenza verificatisi all’interno dell’Unione nei confronti dei diritti delle persone LGBT. In specifico, con la risoluzione si invitano gli Stati membri a garantire la protezione di lesbiche, gay, bisessuali e transgender, dai discorsi omofobi in generale e dai primi impregnati della qualifica negativa di incitamento all’odio e dalla violenza, nonché ad assicurare che la libertà di manifestazione, garantita da tutti i trattati sui diritti umani, sia effettivamente rispettata. Contemporaneamente a quanto poc’anzi esaminato a livello europeo/internazionale, in Italia il percorso di tutela nei confronti delle coppie omosessuali è ancora lontano, sia da un riconoscimento normativo interno riguardante il rapporto in sé, sia nei confronti degli effetti ricollegati agli atti di matrimonio celebrati all’estero. Seguendo l’impostazione data sul tema, da parte della Corte Costituzionale (sentenza 138/2010) e quanto espresso dalla Corte EDU, la Corte di Cassazione, con una pronuncia considerata dalla dottrina di portata storica, la sentenza n. 4184, del 15 Marzo del 2012[xi], poi richiamata dalla Cassazione stessa con la pronuncia del 9 febbraio 2015 n. 2400[xii], muta l’orientamento generale sul tema, sostenendo che non si può più parlare di inesistenza o di invalidità per contrarietà al principio di ordine pubblico ex articolo 18, D.p.r. n. 396/2000, dal momento che detta argomentazione non può più ritenersi adeguata alla realtà giuridica coeva, giungendo per tale via a sostenere che l’intrascrivibilità del matrimonio omosessuale contratto all’estero si fondi sulla sua inidoneità a produrre, nell’ordinamento interno, qualsivoglia effetto giuridico, atteso che l’attuale contesto normativo nazionale non prevede e né riconosce come matrimonio quello contratto tra persone dello stesso sesso. Il baricentro normativo alla base di entrambe le decisioni è rappresentato dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 12 CEDU, i quali non impongono agli Stati l’adozione del modello matrimoniale per il riconoscimento giuridico delle unioni omoaffettive, così come espresso nella sentenza della Corte EDU sul caso Schalk e Kopf c. Austria, al loro interno, ferma restando la necessità di garantire un grado di protezione dei diritti individuali e relazionali sorti da tali unioni, tendenzialmente omogeneo a quelle riservata alle coppie eterosessuali coniugate. La giurisprudenza di merito ha confermato questa impostazione, infatti seguono lo stesso percorso logico-motivazionale, se pur con motivazioni differenti (contrarietà all’ordine pubblico, inesistenza del vincolo, inefficacia dello stesso), il Tribunale di Latina, decreto 31 maggio 2005; la Corte d’appello di Roma, 6 giugno 2006; il Tribunale di Treviso, sentenza 19 maggio 2010; il Tribunale di Milano, decreti 2 luglio 2014 (Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è esistente per l’ordinamento italiano ma non è trascrivibile negli atti dello stato civile, posto che la trascrizione degli atti nei registri dello Stato Civile è soggetta al principio di tassatività e che il matrimonio fra persone dello stesso sesso celebrato all’estero è inidoneo, quale atto di matrimonio, a produrre qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano) e 17 luglio 2014; il Tribunale di Pesaro, decreto 14 ottobre 2014[xiii], la Corte di Appello di Milano, sentenza del 16 ottobre 2015 ed infine il Consiglio di Stato, sentenze nn. 4897, 4898 e 4899 (Il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è contrario all’ordine pubblico ex art. 18 d.P.R. 396/2000. Il certificato di matrimonio tra persone dello stesso sesso non può essere trascritto nei registri di stato civile perché il matrimonio tra persone dello stesso sesso è un atto giuridico inesistente, in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, che il nostro ordinamento configura quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio. Al Prefetto spetta il potere di annullare un atto di stato civile di cui il Sindaco ha ordinato contra legem la trascrizione, e nella specie di un atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso, trattandosi di un atto radicalmente inefficace per l’ordinamento giuridico italiano; spetta invece all’autorità giudiziaria ordinaria il potere di annullare gli atti di stato civile indebitamente registrati astrattamente idonei a costituire o modificare lo stato giuridico delle persone) del 26 ottobre 2015, nelle quali il medesimo si pronuncia nel senso della legittimità della circolare del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2014 che ordinava ai Prefetti di provvedere all’annullamento d’ufficio delle trascrizioni dei matrimoni omosessuali[xiv].

Tuttavia, non mancano pronunce opposte a quelle poc’anzi richiamate, che riflettono, con grande spirito evolutivo, il principio della non contrarietà della trascrizione del matrimonio, costituito da coppie aventi il medesimo sesso, all’ordine pubblico internazionale, così come stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza, già richiamata, n. 2400/2015, perché è a quest’ultimo che si deve fare riferimento ogni volta che si deve dare esecuzione o disporre l’efficacia di un atto/sentenza che presenta elementi di estraneità, ma al contrario dell’orientamento di quest’ultima sul tema, che abbiamo detto essere ancora negatorio, in quanto considera l’atto non idoneo a produrre effetti nel nostro ordinamento e perciò stesso, è inutile ricorrere al confronto con il principio di ordine pubblico.

Alcuni tribunali ordinari interpretano il principio di non contrarietà all’ordine pubblico internazionale come momento risolutivo in senso favorevole alla trascrizione dell’atto di matrimonio celebrato all’estero specificando, che il ruolo della trascrizione non coincide con la costituzione del matrimonio, già perfettamente concluso, bensì con la mera natura dichiarativa dello stesso (rivolta a rendere pubblico il fascio dei diritti e degli obblighi derivanti dall’atto giuridico); così si esprime il Tribunale di Grosseto, con decreto del 17 febbraio 2015[xv]. Poco tempo dopo a tale pronuncia, ne segue la stessa impostazione la Corte di appello di Napoli, che con sentenza del 13 marzo 2015[xvi] afferma: “Nell’ipotesi di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, entrambe cittadine di un Paese che ammette il matrimonio tra persone dello stesso sesso (nella specie, la Francia), posto che lo stesso deve ritenersi esistente anche per l’ordinamento giuridico italiano, si deve dare luogo all’applicazione della legge nazionale di ciascun nubendo e si impone per conseguenza la sua trascrizione nei registri dello Stato civile, attesa la sua non contrarietà all’ordine pubblico internazionale”. Ad onore del vero, è giusto precisare che entrambe le pronunce furono ribaltate, a conferma dell’orientamento generale di negazione degli effetti, così come le decisioni di alcuni Comuni italiani, fra tutti, quelli di Roma, Bologna e Milano, di dare seguito alla trascrizione, sempre sulla base della tutela del diritto fondamentale al matrimonio e della non contrarietà dello stesso al principio di ordine pubblico internazionale. Si ricordi il provvedimento emanato dall’allora Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, diretto proprio a richiedere ai sindaci in questione l’immediata cancellazione delle trascrizioni a cui avevano dato effetto. In seguito a tale provvedimento, all’inerzia di esecuzione dei Sindaci, che rifiutarono di darne seguito, i prefetti di Roma, Bologna e Milano ne disposero così l’annullamento. Mentre in Italia si assiste ad una serie di pronunce giurisprudenziali contrapposte, tra chi giudica trascrivibile l’atto di matrimonio costituito all’estero da coppie omosessuali e chi invece è di contraria convinzione, oltreoceano si verifica una pronuncia di portata emblematica. La Corte Suprema degli Stati Uniti, nel caso Obegefell v. Hodges[xvii] del 2015, giunge a riconoscere la natura di diritto fondamentale del diritto al matrimonio e, sulla base di questa conclusione, afferma che esso non può essere negato in alcuno Stato della Federazione. In specifico la Corte stabilisce:

  1. a) la Costituzione impone che tutti gli stati permettano il matrimonio tra persone dello stesso sesso;
  2. b) uno stato non può non riconoscere un matrimonio legalmente contratto in altro stato tra persone dello stesso sesso per il solo carattere omossessuale dell’unione.

Tali conclusioni, sono il frutto dell’interpretazione evolutiva della Costituzione, da parte della Corte suprema, convogliando il ragionamento sul principio di eguaglianza (equal protection clause ex XIV emendamento) letto in combinato disposto con il principio della negazione della tutela di un diritto fondamentale a fronte di un’adeguata giustificazione del governo (due process clause ex V emendamento) e tale giustificazione non si rinviene nel caso di specie. Tale pronuncia, più che per il contenuto in se della stessa, ha un ruolo di particolare rilevanza, perché segna giuridicamente un cambiamento totale, rispetto all’impostazione classica e tradizionalista che ha da sempre connaturato la legislazione degli Stati Uniti e fortemente radicata nel principio della differenza di sesso come requisito per accedere al matrimonio. In Europa, nello stesso anno, a pronunciarsi è nuovamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo che, con la soluzione del caso Oliari[xviii], ha condannato l’ordinamento italiano per l’assenza di una disciplina giuridica che tuteli la vita familiare delle coppie formate da persone avente lo stesso sesso e che rappresenta l’evoluzione giurisprudenziale di quanto ebbe a decidere nel caso Schalk and Kopf c. Austria. È doveroso affrontare tale caso più da vicino. I ricorrenti sono tre coppie omosessuali, le quali hanno adito la Corte EDU lamentando che l’ordinamento giuridico italiano, non consente a persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio, né riconosce altre forme di unioni civili. Fra queste coppie, Enrico Oliari e il suo compagno avevano domandato al comune di Trento di procedere alle pubblicazioni prodromiche al loro matrimonio. Il comune si era rifiutato e ne era nato un contenzioso che era giunto fino alla Corte costituzionale. Il giudice remittente aveva ritenuto, infatti, non manifestamente infondata la questione se il codice civile violasse, per il tramite dell’art. 8 della Convenzione EDU, l’art. 117, primo comma della Costituzione. La Corte dichiarò la questione in parte infondata e in parte inammissibile con la sentenza n. 138 del 2010 e, successivamente, la corte d’appello di Trento rigettò il ricorso del signor Oliari. Invocando l’articolo 8 CEDU (diritto alla vita privata e familiare), da solo e in combinato disposto con l’articolo 14 (divieto di discriminazione), essi hanno sostenuto di essere vittime di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale contraria alla Convenzione. La Corte ricorda di aver già statuito (caso Schalk and Kopf c. Austria) che le relazioni fra persone dello stesso sesso, necessitano di riconoscimento giuridico e tutela: “le coppie omossessuali, infatti, hanno la stessa capacità delle coppie eterosessuali di instaurare relazioni stabili e si trovano in una situazione significativamente simile a una coppia eterosessuale per quanto riguarda l’esigenza di riconoscimento giuridico e di tutela della loro relazione.” La Corte osserva che i ricorrenti, non potendosi sposare, non hanno potuto avere accesso a uno specifico quadro giuridico (quale quello relativo alle unioni civili o alle unioni registrate) in grado di permettere il riconoscimento del loro status e garantire loro alcuni diritti relativi a una coppia che ha una relazione stabile.

Nel caso esaminato, infatti, emerge una grave lacuna normativa interna, che fa regredire lo Stato italiano in termini di evoluzione e protezione dei diritti, al cospetto della platea internazionale, per cui la violazione della democraticità risulta essere ancora più grave rispetto alla scelta del tipo “giusto” riconosciuto a fronte della tutela di tali unioni. A fronte del vuoto legislativo e normativo dell’ordinamento italiano, in relazione allo spazio relazioni sociali e/o familiare di persone con medesimo sesso, altri Stati come l’Inghilterra o l’Austria hanno provveduto al riconoscimento di un tipo giuridico idoneo alla tutela degli stessi, mentre altri Stati come la California e la Spagna riconoscono alle coppie dello stesso sesso il diritto al matrimonio. E ancora la Corte EDU sul punto: “…nel contesto giuridico interno l’attuale status dei ricorrenti può essere considerato semplicemente ‘un’unione di fatto’, che può essere disciplinata mediante alcuni accordi contrattuali privati di portata limitata. Per quanto riguarda i contratti di convivenza, la Corte osserva che tali accordi privati non provvedono ad alcune esigenze che sono fondamentali, ai fini della regolamentazione del rapporto di una coppia che ha una relazione stabile, quali, inter alia, i reciproci diritti e obblighi, compresa la reciproca assistenza morale e materiale, gli obblighi di mantenimento e i diritti successori. “Il fatto che tali contratti non siano finalizzati al riconoscimento e alla tutela della coppia, è ovvio perché essi sono accessibili a chiunque conviva, indipendentemente dall’essere una coppia che ha una relazione stabile”. Nella precisazione dell’inadeguatezza del sistema normativo interno, la Corte EDU esplicita la non coerenza del tipo convivenza di fatto, con la natura e la sostanza del rapporto che viene ad instaurarsi tra persone dello stesso sesso che esprimono la volontà di vivere insieme, non per il semplice fatto di convivere, ma sulla comunione di intenti rivolta ad un cuore pulsante di desideri, bisogni e necessità propri di chi vuole creare una famiglia. Una situazione interna che è destinata al collasso, perché riduce fortemente la tutela dei diritti e dei doveri reciproci di tali formazioni sociali, subordinando la stessa a continui ed estenuanti corse ai tribunali; Sul punto la Corte: “… la necessità di ricorrere ripetutamente ai tribunali interni per sollecitare parità di trattamento in relazione a ciascuno dei molteplici aspetti che riguardano i diritti e i doveri di una coppia, specialmente in un sistema giudiziario oberato come quello italiano, costituisca già un ostacolo non irrilevante agli sforzi dei ricorrenti volti a ottenere il rispetto della propria vita privata e familiare. Ciò è ulteriormente aggravato dallo stato di incertezza. Ne consegue che la tutela attualmente disponibile non solo è carente nel contenuto, nella misura in cui non provvede alle esigenze fondamentali di una coppia che ha una relazione stabile, ma non è neanche sufficientemente certa – dipende dalla convivenza, nonché dall’atteggiamento dei giudici (o a volte degli organi amministrativi) nel contesto di un paese che non è vincolato dal sistema del precedente giudiziario”. Ma al di là dei tecnicismi giuridici e degli errori formali di sistema e dei relativi vuoti legislativi, l’espressione della Corte EDU che fa breccia nel cuore del problema principale dell’ordinamento giuridico italiano è la seguente: “La Corte osserva che, dall’esame del contesto interno, emerge l’esistenza di un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti che prevalentemente vivono in Italia la loro relazione apertamente e la legislazione che non fornisce loro alcun riconoscimento ufficiale sul territorio”. Secondo la Corte “l’obbligo di prevedere il riconoscimento e la tutela delle unioni omosessuali, consentendo in tal modo alla legge di rispecchiare le realtà delle situazioni dei ricorrenti, non comporterebbe alcun particolare onere per lo Stato italiano di tipo legislativo, amministrativo o di altro tipo. Inoltre, tale legislazione risponderebbe a un’importante esigenza sociale”.

Il vero problema della normativa italiana, in merito, è proprio la distanza tra il legislatore e quella parte di società che si ritrova ad avere “il problema” e di conseguenza la mancanza di dialogo, di informazione, di coinvolgimento sociale, di crescita, di evoluzione sistematica ad accompagnare l’evoluzione sociale, la riluttante indifferenza degli apparati Statali nei confronti del “principio costitutivo”, la sovranità popolare. Quando si discute sul tipo di scelta giuridica che possa garantire nel modo migliore l’equilibrio dei diritti e delle libertà Costituzionali, a fronte di un piano giuridico che predispone una diversità di mezzi e soluzioni, il sistema esprime una certa capacità di adattamento alle condizioni sociali-culturali e politiche emergenti in un certo lasso di tempo storico, proseguendo in modo corretto, in termini di giustizia, nel percorso dei diritti evolutivi (situazioni esistenziali) tracciato dalla Costituzione. Quando, invece, emergono “buchi normativi” causati dal collasso dei principi che si riversa nei diritti, il sistema si dimostra inadeguato, incapace di assolvere alle sue principali funzioni ed esprime la fallacia di chi ne tiene le redini, il legislatore, palesando un grave gap interno, che coinvolge la società intera, per mezzo dell’oblio di una parte di essa. Un tale vuoto normativo, prima di rappresentare una violazione, (in questo caso della vita privata e familiare ex articolo 8), di uno o più principi della CEDU, rappresenta un attacco all’evoluzione sociale e quindi all’uomo in quanto tale e di riflesso, alla Costituzione. A sua difesa, lo Stato (inteso qui, come apparato e quindi il legislatore) adduce l’esistenza del margine di apprezzamento che gli consentirebbe di agire con una certa discrezionalità;

Sul punto la Corte EDU: “la Corte osserva che, sebbene l’oggetto della presente causa può essere connesso a delicate questioni morali o etiche, che permettono un maggiore margine di discrezionalità in assenza di accordo tra gli Stati membri, il caso di specie non riguarda alcuni specifici diritti “supplementari” (in contrapposizione ai diritti fondamentali) che possono o non possono sorgere da tale unione e che possono essere oggetto di una feroce controversia alla luce della loro dimensione sensibile”. Con tali parole, la Corte non solo chiarisce il fine principale del ricorso allo strumento del margine di apprezzamento, (livellare ed equilibrare le libertà interne), ma allo stesso tempo chiarisce che la materia in questione non può e non deve essere causa di conflitti interni, per assenza naturale di possibili contrasti di principio. In parole spicciole, è come se la Corte EDU dicesse al legislatore italiano: guarda che ti stai preoccupando inutilmente, la società di cui devi farti portavoce, ti sta dimostrando che è evoluta e che sa convivere con le sue differenze e che quindi necessita dell’unica cosa più ovvia e più facile in uno Stato democratico, ossia la giustizia. Ma il legislatore italiano, non solo ha ignorato quanto stesse avvenendo nel panorama europeo ed internazionale, ormai da diversi anni e mai come prima in  maniera così aperta ed esplicita (legislazioni positive nei confronti delle unioni omosessuali) ha proseguito nella sua ceci-sordità anche a livello interno, ignorando la sostanza della realtà sociale (parte della società che si trova nella condizione di essere omosessuale) e la sostanza delle pronunce dei principali giudici interni, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione.

Sul punto la Corte: “La Corte ritiene dunque che nel caso di specie il legislatore, intenzionalmente o per mancanza della necessaria determinazione, abbia disatteso le ripetute esortazioni dei supremi tribunali italiani, e che questa ripetuta inosservanza da parte del legislatore delle pronunce della Corte costituzionale, o delle raccomandazioni in esse contenute relative alla coerenza con la Costituzione per un significativo periodo di tempo, indebolisca potenzialmente le responsabilità della magistratura e nel caso di specie abbia lasciato gli interessati in una situazione di incertezza giuridica di cui si deve tener conto”. Ed infine la Corte conclude: “In conclusione non avendo il Governo italiano dedotto un interesse collettivo prevalente (ordine pubblico) in rapporto al quale bilanciare gli interessi dei ricorrenti e alla luce del fatto che le conclusioni dei tribunali interni in materia sono rimaste lettera morta, la Corte conclude che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di discrezionalità e non ha ottemperato all’obbligo positivo di garantire che i ricorrenti disponessero di uno specifico quadro giuridico che prevedesse il riconoscimento e la tutela delle loro unioni omosessuali. Conseguentemente vi è stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione”.

Da questo ultimo passaggio si deve riflettere su un punto determinato: mancanza di interesse collettivo da dedurre contro gli interessi dei ricorrenti. Quest’ultima, sembra una formula giuridica che non ha niente di diverso rispetto a tante altre formule in problematiche giurisprudenziali simili, ma così non è. La Corte ci ribadisce che, sebbene sulla materia vi sia dissenso in ambito europeo-internazionale, il margine di apprezzamento non è poi così ampio da permettere al legislatore italiano di continuare ad ignorare la fallacia del sistema interno, ma non solo. La mancanza di un interesse collettivo da contrapporre (quindi un interesse che abbia la stessa portata di valore che possa collidere con altri interessi dello stesso livello) agli interessi dei ricorrenti, è segnale di una presa di posizione del legislatore di fronte a tale problematica, una posizione “politica” che non è in grado di lottare perché priva di “armi giuridiche”, una posizione vuota di diritti che riflette il vuoto normativo del sistema. A ragione delle nozioni apprese in questo percorso fino a questo momento, cosa può muovere un simile intento del legislatore? Le risposte prospettabili sono poche se non una soltanto, l’ordine pubblico. Il governo persegue la credenza che riconoscere tale spaccato di società possa comportare disordini sociali interni ed attacchi all’etica del governo stesso. Dal momento che una questione etica di tale portata diviene perciò stesso, una questione politica di un certo peso, trovare l’equilibrio giuridico tra le diverse fazioni politiche risulta, non solo altamente problematico, ma sul punto del tutto impossibile. Quando la politica si distacca dai diritti, ogni scelta sembra un azzardo per l’ordine politico-sociale (ordine pubblico) e allora tanto vale fingersi sordo-cieco e rimandare. Ma le esortazioni che il giudice internazionale, con la definizione del caso Oliari, muove al nostro legislatore sono più esplicite che mai.

A distanza di 5 anni dalla prima pronuncia sulla questione, caso Schalk e Kopf, infatti la Corte EDU non solo ribadisce quanto in essa aveva espresso, ma scende nel cuore del problema, scandagliando la fallacia del sistema normativo italiano e concludendo con una decisione che ha tutte le caratteristiche di un decreto ingiuntivo.

  1. Le Unioni Civili

La decisione della Corte EDU e le conseguenze da esse prodotte sul piano politico e sociale, l’evoluzione propositiva di alcune delle più influenti legislazioni nazionali europee ed extraeuropee ed alcune pronunce interne che cambiano il risultato generalmente condiviso dalla giurisprudenza interna (non trascrizione), concorrono per un primo ed importante step, la creazione e la promulgazione della legge 76/2016, recante la normazione delle Unioni civili e delle convivenze di fatto. Come si è avuto modo di apprendere, il contesto giuridico-normativo in cui venne promulgata la su detta legge, era abbastanza sterile, se non del tutto assente. Per quanto riguarda la normazione delle unioni caratterizzate da coppie same-sex, queste venivano relegate a semplici unioni di fatto, (inutili furono i tentativi di definire in legge, le proposte legislative avanzate in precedenza, rivolte a dare tutela giuridica a tali tipi di unione, sulla scia della normazione francese, che aveva istituito i “Pacs[xix]”, perché non ritenute omogenee al tipo famiglia, anche se degne di poter chiedere tutela in condizioni specifiche, mentre nei confronti dei rapporti connotati da elementi di estraneità e quindi implicanti la richiesta di trascrizione dell’atto matrimoniale costituito all’estero, al fine di poter ottenere il riconoscimento dello status acquisito, la disciplina era ancora più rigida e sterile. Da un primo orientamento, che classificava inesistente tale tipologie di atti, si è giunti a considerare i medesimi, inidonei alla produzione di qualsia effetto, che se bene cambia il volto della negazione rendendola consona al rispetto della persona e del rapporto, non muta i parametri legali che fungono da base per non procedere alla trascrizione, la mancanza della configurazione del tipo legale inerente al rapporto, l’attaccamento al binomio articolo 29 della Costituzione ed eterosessualità come requisito per contrarre il matrimonio e di conseguenza la contrarietà all’ordine pubblico. Restando fedele all’attaccamento tradizionalista del connubio matrimonio-famiglia eterosessuale, il legislatore adotta un tipo legale apposito per tali coppie, l’unione civile[xx].

Con la legge 76/2016, il legislatore qualifica le coppie same-sex come Unione civile, traendo la ratio giuridica legittimante il tipo, dall’articolo 2 Costituzione, che si occupa di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo, sia come singolo e sia come formazione sociale, restando perfettamente coerente con quanto espresso dalla Corte Costituzionale nel rinomata sentenza n.138/2010, nella quale esortava il legislatore ad intervenire per tutelare tali rapporti in quanto posti in essere da formazioni sociali. L’intento del legislatore è quello di tutelare tali coppie, fornendo loro una disciplina normativa vicina a quella prevista per la famiglia tradizionale, ma allo stesso tempo, inevitabilmente, molto lontana nella sostanza. Nel testo della legge, non vi è possibilità di estendere il matrimonio e tutti i suoi effetti a tali coppie, fatta eccezione per quelli specificatamente disposti e per quelli ufficialmente richiamati dalla legge (ex articolo 1 comma 20, clausola di equivalenza). In tal modo, l’unione civile diviene un tipo legale, non al pari del matrimonio, ma semplicemente diverso e adatto per il tipo di formazione a cui si riferisce. Di conseguenza, per tali coppie non è possibile parlare di genitorialità familiare e neanche di adozione familiare ma, la rigidità e la chiusura dell’impianto normativo posto in essere, raggiunge il culmine, con la regolazione degli effetti dei matrimoni same-sex costituiti all’estero. Infatti, a seguito della su detta legge, la ratio giuridica su cui fondare il rifiuto di trascrizione divenne ancora più solida, data la riconduzione al tipo legale costituito. Tale generale impostazione, però, non trovò piena condivisione, in quanto sono diversi i punti di contrasto, primo tra tutti la regolamentazione dei rapporti esterni, con il principio di non discriminazione. Il legislatore, a norma dell’art.1, comma 28, lett. b) della legge n. 76/2016, ha delegato il Governo ad adottare le norme necessarie per la “modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato”. In attuazione della delega, il Governo ha provveduto, attraverso lo schema del decreto legislativo, D.lgs. n. 7/2017, al riordino delle norme di diritto internazionale privato in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso, modificando la precedente L. 218 del 1995. L’art. 32 bis ora sancisce che «Il matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani con persona dello stesso sesso produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». L’art. 32 quinquies stabilisce che «l’unione civile, o altro istituto analogo, costituiti all’estero tra cittadini italiani dello stesso sesso abitualmente residenti in Italia produce gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana». Sulla base di queste disposizioni normative, vi è la conversione automatica dell’atto matrimoniale in unione civile, per tutte le coppie formate da persone dello stesso sesso e aventi entrambi o una parte soltanto la cittadinanza italiana (requisito dello stretto collegamento con lo Stato). Restano al di fuori della conversione, tutte le coppie formate da persone dello stesso sesso, ma entrambi stranieri, diversamente da quanto disposto dall’originaria formulazione dell’art. 32-bis, la quale prevedeva che il matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso dovesse produrre gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana, senza che quindi avesse alcuna rilevanza la cittadinanza, italiana o straniera, delle parti. È del tutto evidente, che promulgare una simile disposizione avrebbe comportato non pochi problemi di interpretazione e legittimazione. La questione legata al range applicativo della disciplina sulla conversione del matrimonio in unione civile è stata chiarita in maniera esaustiva, successivamente dalla Corte di Cassazione, con sentenza del 14/05/2018, n.11696. Nell’affermare l’applicabilità dell’art. 32-bis l. 218/1995 anche ai matrimoni contratti all’estero da un cittadino italiano e da uno straniero — e non solo a quelli stipulati da due cittadini italiani — ha risolto i dubbi interpretativi sorti in ordine alla portata applicativa soggettiva della predetta norma e ha chiarito, al contempo, che il regime di conversione in unione civile, invece, non interessa i matrimoni omosessuali costituiti all’estero da cittadini entrambi stranieri, i quali devono essere trascritti in Italia come tali, dato il carattere intrinsecamente transazionale di detto rapporto matrimoniale e il fatto che in tale ipotesi non può ravvisarsi alcun intento di aggiramento della l. 76/2016[xxi]. Sulla ratio iuris che ha determinato la conclusione della Corte di Cassazione, la stessa dichiara: «se l’art. 32 bis non si applicasse anche ai cd. matrimoni “misti” […] si determinerebbe una discriminazione cd. “a rovescio” tra i cittadini italiani che hanno contratto matrimonio all’estero e possono “trasportare” forma ed effetti del vincolo nel nostro ordinamento e quelli che hanno contratto un’unione civile in adesione al modello legislativo applicabile nel nostro ordinamento». Fondamentalmente, il legislatore adotta in tale caso materiale-normativo, rapporti familiari-matrimonio-unioni civili, la tecnica dell’applicazione della norma necessaria. Ogni volta che vi sia un collegamento diretto o rilevante con lo Stato italiano, nel caso concreto Stato di destinazione, è necessario ricorrere all’applicazione della norma di quello Stato. Il criterio della cittadinanza, nei rapporti internazionali-privatistici inerenti a tale sostrato normativo, pone la base giuridica per procedere alla diversificazione del trattamento normativo ed applicare la normativa interna ai rapporti che presentano elementi di collegamento giuridicamente significante ed invece, dare spazio applicativo alla norma straniera per tutti quei rapporti che non presentano le caratteristiche poc’anzi dette. Sostanzialmente, la Corte di Cassazione ribadisce che l’unico limite da non prevaricare resta quello dell’ordine pubblico, che nel caso concreto si traduce nel rispetto della legge (legge 76/2016- legge 218/1995)[xxii], ma tale principio interno non può trovare effetto, nei confronti di tutti quei rapporti estranei all’ordinamento statale, perché quest’ultimi devono essere vagliati sulla base del rispetto del principio di ordine pubblico internazionale, il quale riflette la tutela dei diritti fondamentali. All’indomani della pubblicazione della legge sulle unioni civili, giungono per l’Italia altre due condanne consecutive per violazione dell’articolo 8 CEDU, casi Taddeucci e McCall[xxiii] e Orlandi e a. c. Italia[xxiv]. Il primo caso, riguarda il diniego delle autorità interne di rilasciare un permesso di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare, il quale è stato confermato dalla Corte di Cassazione sulla base di diverse conclusioni quali, il disposto dell’articolo 29 del Dlgs 286 del 1998, che specifica: “membro della famiglia” comprende solo il coniuge, i figli minori, figli adulti che non sono autonomi per motivi di salute e genitori a carico che non hanno un adeguato sostegno nel Paese”, escludendo quindi ogni estensione della nozione di coniuge, per legge interna non attribuibile ai ricorrenti, l’impianto normativo interno dedicato ai rapporti familiari, il margine d’apprezzamento ampio in materia che si traduce nella libertà di scelta in merito a tale tematica, confermata dalla Corte EDU, la considerazione della non applicazione della direttiva UE 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari all’interno del territorio dei paesi membri diversi da quello d’origine, con la motivazione che non vi fu circolazione. A seguito del ricorso presentato alla Corte Edu, la stessa ha condannato il 30 Giugno 2016 l’Italia per violazione dell’articolo 8, presentando le stesse motivazioni addotte nella prima condanna in materia a seguito della sentenza sul caso Oliari. Sulla stessa scia, converge la decisione sul caso Orlandi, con sentenza del 14 dicembre 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo, accerta, con una maggioranza di cinque contro due, che l’Italia ha violato il diritto alla vita privata e familiare di undici cittadini italiani ed uno canadese (sei coppie di coniugi dello stesso sesso) negando reiteratamente la trascrizione di matrimoni celebrati all’estero, sulla base dei fatti prospettati all’epoca dei ricorsi. Sul rispetto del principio di ordine pubblico, a fondamento dell’ordinamento interno, in tutti quei casi in cui si dibatte sulla tutela di diritti fondamentali connaturati a rapporti familiari, si è pronunciata di recente, la Corte di Giustizia nel noto caso Coman[xxv]. La vicenda riguardava il sig. Coman, di cittadinanza rumena, e il sig. Hamilton, cittadino americano, che dopo essersi sposati a Bruxelles, nel dicembre 2012, hanno chiesto alle autorità rumene (la Romania è lo Stato in cui è cittadino il sig. Coman ed il luogo dove i coniugi avevano intenzione di stabilirsi) le informazioni inerenti alla procedura per l’ottenimento del permesso di soggiorno per un termine superiore a tre mesi, una richiesta avallata, in quanto essendo coniugi, il sig. Hamilton è familiare del sig. Coman, così come previsto dalla direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione, la quale permette al coniuge di un cittadino dell’Unione che abbia esercitato tale libertà (circolazione) di raggiungere quest’ultimo nello Stato membro in cui soggiorna. Solo con il ricongiungimento, infatti, è possibile garantire la tutela del diritto fondamentale a vivere la vita familiare. Contravvenendo al dettato della direttiva, le autorità rumene hanno negato la richiesta del sig. Coman e del sig. Hamilton, concedendo a quest’ultimo soltanto il diritto di soggiorno per tre mesi, con la motivazione che egli non potesse assumere la qualifica giuridica di coniuge, in quanto in Romania i matrimoni tra persone dello stesso non vengono riconosciuti. A fronte di tale provvedimento e delle ragioni ad esso annesse, il sig. Coman e il sig. Hamilton hanno quindi proposto ricorso ai giudici rumeni, al fine di far dichiarare l’esistenza di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in ordine all’esercizio del diritto di libera circolazione nell’Unione. In tale occasione, la Corte ha modo di stabilire in maniera chiara e precisa la nozione di coniuge, se bene tale nozione, sia già presente nel testo della direttiva relativa all’esercizio della libertà di circolazione, 2004/28/CE, secondo la quale la nozione di «coniuge» viene presentata sconnessa da qualsiasi riferimento al sesso, è proprio a causa della mancanza di una precisazione sul punto che la Corte giunge a tale definizione, non solo per risolvere il caso in questione, ma per risolvere ogni dubbio. Nel novero dei diritti riconosciuti ai cittadini europei ex art. 21 § 1 TFUE, è presente anche il diritto di condurre una normale vita familiare, sia nello Stato membro ospitante (quello di cui non si ha la cittadinanza) sia in quello di origine, è conseguenza logica-fattuale che affinché questo diritto sia effettivamente goduto, occorre che sia garantita la presenza dei familiari, protagonisti insieme al soggetto della vita familiare. È necessario procedere quindi alla determinazione di cosa si intende per coniuge. Secondo la Corte, con il termine coniuge si intende una persona unita ad un’altra da vincolo matrimoniale e la stessa è neutra dal punto di vista del genere, così da poter comprendere anche il coniuge dello stesso sesso di un cittadino dell’Unione. Sempre in codesta sentenza, la Corte ha ribadito che il diritto alla libera circolazione delle persone può essere sì oggetto di restrizioni/limitazioni che non necessariamente dipendono dalla cittadinanza delle persone interessate, ma solo quando tali restrizioni/limitazioni, siano basate su motivi oggettivi, di interesse generale e siano proporzionate al raggiungimento dello scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale. La normativa nazionale “idonea ad ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone” (par. 47) può essere giustificata “solo se è conforme ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta [dei diritti fondamentali dell’Unione europea], di cui la Corte garantisce il rispetto”. Per tale motivo, il principio di ordine pubblico, nel caso di specie, invocato come giustificazione per limitare il diritto di libera circolazione, dev’essere inteso in senso restrittivo e la sua portata non può essere determinata in maniera discrezionale da ciascuno Stato membro, senza il controllo delle istituzioni dell’Unione. La Corte aggiunge che il rispetto dell’obbligo per uno Stato membro di riconoscere, in questo caso al solo fine della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato non-UE da un matrimonio omosessuale, non pregiudica l’ordinamento dello Stato che lo esegue, infatti garantire il diritto di soggiorno o la libera circolazione non si traduce nell’obbligo di prevedere la specie del matrimonio omosessuale, ne è capace di ledere l’identità nazionale o di minacciare l’ordine pubblico dello Stato membro interessato. La Corte, nel suo ragionamento, si avvicina alla soluzione in maniera graduale: in primo luogo, ricorda che Coman gode dello status di cittadino dell’Unione Europea e che le libertà che discendono da questa situazione soggettiva, inclusa la libertà di circolazione e di soggiorno all’interno di uno Stato membro diverso da quello di origine, sono esercitabili anche nei confronti dello stesso Stato di origine. Nel novero dei diritti riconosciuti ai cittadini europei ex art. 21 § 1 TFUE, è presente anche il diritto di condurre una normale vita familiare, sia nello Stato membro ospitante (quello di cui non si ha la cittadinanza), sia in quello di origine: è ovvio che, affinché questo diritto sia effettivamente goduto, occorra che sia garantita la presenza dei familiari, protagonisti insieme al soggetto della vita familiare. La direttiva del 2004 menziona, espressamente, nell’elenco dei familiari anche il coniuge.

Ma è coniuge anche una persona dello stesso sesso? Sul punto, la Corte afferma che la nozione di coniuge è neutra dal punto di vista del genere e può comprendere, dunque, il coniuge dello stesso sesso del cittadino dell’Unione interessato. Per queste ragioni, uno Stato membro non può porre alla base del diniego del diritto di soggiorno la propria normativa nazionale, indipendentemente dal fatto che questa impedisca la celebrazione o anche il solo riconoscimento del matrimonio omosessuale. Alla luce di tale pronuncia, sebbene la Corte di Giustizia non affronti direttamente il tema della qualificazione giuridica dell’unione tra coppie omosessuali, restando coerente con la generale accettazione sul riservo di competenza agli Stati, in quanto materia di diritto familiare, concernente gli status, pone una netta linea di demarcazione, tra appunto il potere discrezionale proprio degli Stati e la tutela dei diritti fondamentali in generale e dei principi-fini propri dell’Unione.

  1. Conclusione

La normativa Statale, come si è avuto modo di apprendere, non è isolata, al contrario è in continua fermentazione, di concerto con la normativa europea e internazionale. Questo triplice meccanismo normativo, si basa sul rispetto reciproco, mantenuto in equilibrio sul piano delle competenze e sulla comune direzione verso la tutela dei diritti fondamentali, i quali sono in continua evoluzione e pretendono rispetto in ogni circostanza, una garanzia di supremazia che si sostanzia nel principio del bilanciamento. Sul versante giuridico fattuale, invece, quella dei diritti fondamentali, si pone come una battaglia senza fine, essendo per natura mutevoli, necessitano di un continuo adeguamento normativo, che sia in grado di garantirne la tutela. A tal proposito, si è appena esaminato, l’excursus storico-giuridico che ha caratterizzato la normazione statale ed europea/internazionale, riguardante la protezione di una particolare categoria di persone, quelle che sono predisposte ad un orientamento sessuale nei confronti del proprio sesso biologico, in relazione al fatto, cioè il rapporto di coppia e l’atto, la legittimazione del rapporto sul piano normativo al fine di stabilire e garantire diritti e doveri scaturiti da quest’ultimo. Tale legittimazione è avvenuta lentamente e con moderazione, nel caso dell’Italia, si è giunti, dopo un percorso tortuoso e quasi obbligato, alla pubblicazione della legge sulle Unioni civili, la quale qualifica tali coppie come formazioni sociali che trovano fondamento giuridico nel combinato disposto degli articoli 2 e 3 della Costituzione. L’articolo 29 della Costituzione, infatti, concerne la disciplina delle famiglie fondate sul matrimonio e sebbene non vi sia alcun divieto di estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, tuttavia, quest’ultimo emergerebbe dall’insieme delle norme sul diritto di famiglia e dalla tradizione cultura e storica che caratterizza il nostro ordinamento, tanto da assurgere a principio di ordine pubblico. Proprio al principio di ordine pubblico, la giurisprudenza si riferiva nei casi implicanti le norme del diritto internazionale, sulla richiesta di trascrizione dei matrimoni costituiti all’estero, da persone dello stesso sesso. L’ordine pubblico, in tali casi, esercitava il ruolo di limite invalicabile, per tutti quei rapporti/atti non previsti nel nostro ordinamento e contrari al senso giuridico interno, tale era per disposizione normativa, il solo principio da rispettare al fine della produzione degli effetti nel nostro ordinamento giuridico, ex articolo 18 D.P.R n.396/2000. Con l’introduzione della legge 76/2016 si qualifica giuridicamente il tipo legale, Unione civile ed attraverso questa predisposizione normativa, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale europea ed internazionale, che sigilla per le coppie omosessuali, la natura di diritto fondamentale a vivere una vita di tipo familiare, il principio di ordine pubblico subisce una mutazione di significato applicativo, che si sostanzia in una degradazione di efficacia, non risultando più idoneo a regolare i rapporti esterni. Quando, infatti, la nostra normativa entra in rapporto ad istituti stranieri, ci si riferisce al concetto di ordine pubblico internazionale, il quale, richiama solo il rispetto dei diritti fondamentali, nell’intento di garantire coerenza normativa ed applicazione egualitaria. Ma la ridefinizione del concetto di ordine pubblico a tutela dei diritti fondamentali non pone un punto di arrivo, anzi, al contrario determina una serie di contraddizioni e problemi di interpretazione, tra quanti, nella giurisprudenza e nella dottrina, propendono per una nozione restrittiva e più statalista e quanti invece tendono all’internalizzazione del concetto, basandosi sulla necessità di aderire alla tutela tout court dei diritti fondamentali. Inoltre, a scatenare opposte interpretazioni, è l’evoluzione stessa dei diritti fondamentali. Nel contesto storico-giuridico attuale, accompagnato dal progresso scientifico e sociale, il terreno dei diritti fondamentali è sempre più fertile e produttivo di nuove situazioni giuridiche che necessitano di inquadramento giuridico e di relativa tutela. Dalla tipizzazione delle relazioni omo-affettive, infatti, discendono ulteriori situazioni giuridiche, le quali creano non pochi problemi di interpretazione.

[i]     Sulla preferenza per la famiglia fondata sul matrimonio, Manetti M., Famiglia e costituzione: le nuove sfide del pluralismo delle morali, in Rivista AIC, 2010, fasc.;

  1. Mondello, La famiglia fondata sul matrimonio e le famiglie, in Reciprocità e alterità. La genesi del legame sociale, Quaderno, 2010

[ii]    Appunti di diritto ecclesiastico, Il matrimonio tra diritto civile e diritto canonico, “Con la diffusione del Cristianesimo a partire dall’anno Mille (Medioevo), l’istituto del matrimonio assunse una notevole importanza per la chiesa cattolica che ne affermò la sua esclusiva competenza, stabilendone i requisiti necessari e gli obblighi derivanti dallo stesso. L’autorità ecclesiastica aveva il compito di risolvere ogni tipo di controversia, relegando all’autorità civile le sole controversie patrimoniali. Con l’età moderna, l’autorità esclusiva della chiesa sull’istituto matrimoniale cominciò ad indebolirsi con l’emanazione di provvedimenti opposti alle disposizioni canoniche, come per esempio l’introduzione del divieto al matrimonio per i minorenni. Tale declino ebbe il suo culmine con la Rivoluzione francese nel 1789 e la costituzione successiva nel 1791 segna una netta separazione tra rito civile e religioso, definendo il rito civile l’unico in grado di essere riconosciuto dallo Stato per tutti i cittadini e che ne regolamentava ogni aspetto, tollerando la libertà di contrarre il matrimonio anche con il rito religioso. Nello Stato italiano, il matrimonio civile è stato introdotto con il codice civile del 1865, a seguito dell’Unità d’Italia, confermando la separazione tra sfera civile e canonica, assegnando rilevanza giuridica al solo matrimonio celebrato davanti all’ufficiale di stato civile. La conseguenza di tale impostazione è la celebrazione dei due riti, mantenuta tutt’ora, anche con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948”;

Fattori G., Enciclopedia Treccani, L’evoluzione del matrimonio civile, 2018: “Il matrimonio civile viene introdotto in Italia nel 1865 con il primo Codice dello Stato postunitario. Nato come istituzione deliberatamente laica, il matrimonio-contratto civile si presenta alternativo e competitivo rispetto al matrimonio-sacramento della tradizione teologico/giuridica della Chiesa cattolica. Benché privo di connotazioni religiose, l’istituto assume e mantiene a lungo la struttura del matrimonio canonico: è indissolubile, monogamico, eterosessuale. Nel tempo il matrimonio civile recupererà anche una dimensione/finalità etica come «comunione materiale e spirituale» tra coniugi… In seguito alla svolta costituzionale del 1948, il progresso dell’ordinamento italiano ha condotto il modello matrimoniale del diritto civile sempre più lontano dal modello matrimoniale del diritto canonico. Negli anni Settanta del Novecento il matrimonio civile abbandona il dogma dell’indissolubilità, retaggio della concezione sacramentale del vincolo coniugale (l. n. 898/1970 e l. 19.5.1975, n. 151). Venuta meno l’indissolubilità matrimoniale, con le riforme del divorzio ‘facile’ (l. 10.11.2014, n. 162) e ‘breve’ (l. 6.5.2015, n. 55) sembra attenuarsi anche il principio della stabilità della relazione coniugale. Nel 2016 il riconoscimento delle unioni civili omosessuali e delle convivenze supera l’eterosessualità come paradigma delle relazioni affettive giuridicamente riconosciute e sancisce la crisi del matrimonio stesso come modello esclusivo della coniugalità (l. 20.5.2016, n. 76)”;

  1. Sciarra, Il matrimonio nell’Ottocento italiano fra potere civile e potere ecclesiastico, Historia et ius,2016. “L’autore svolge un excursus comparativo normativo sul matrimonio civile e cattolico tra i diversi regni presenti in Italia, all’indomani della fine della dominazione francese, facendone emergere le differenze culturali e le contrapposte visioni: il Regno delle Due Sicilie (1816-1861) fu il primo degli stati della penisola italiana nel periodo della Restaurazione a darsi una codificazione civile, Il Codice per il Regno delle Due Sicilie. Quest’ultimo codice introdusse un sistema misto in cui il matrimonio, celebrato secondo le formalità prescritte del diritto canonico, era produttivo di effetti civili solamente in seguito ad alcuni adempimenti civili, sia precedenti che susseguenti la celebrazione del rito cattolico. In particolare, all’articolo 67 era previsto che: Il matrimonio nel regno delle Due Sicilie non si può legittimamente celebrare che in faccia della Chiesa, secondo le forme prescritte dal Concilio di Trento. Gli atti dello stato civile sono essenzialmente necessari, e preceder debbono la celebrazione del matrimonio, perché il matrimonio produca gli effetti civili, tanto riguardo a’conjugi che a’ di loro figli… Il Codice civile piemontese del 1837, introdotto in Sardegna solamente nel 1848, in tema di matrimonio si caratterizzava per il suo stampo confessionale in cui gli effetti civili, che il legislatore piemontese si limitava a regolare, derivavano dal matrimonio religioso per i cattolici. Secondo l’art. 108 infatti: Il matrimonio si celebra giusta le regole, e con le solennità prescritte dalla Chiesa Cattolica, salvò ciò che è in appresso stabilito riguardo ai non cattolici ed agli ebrei”.  All’ultimo comma dell’articolo 29 viene specificato che il matrimonio (cioè, l’atto costitutivo), deve rispettare i limiti stabiliti dalla legge (che si presumono essere gli articoli 84-87, 107, 143-143bisc.c.) al fine di garantire l’unità familiare. Se svolgiamo l’analisi letterale del dispositivo costituzionale, tali limiti si rinvengono nel rispetto dei requisiti per contrarre il matrimonio. I nubendi devono avere la maggiore età (18 anni, riducibile in casi particolari a 16 anni mediante decreto del Tribunale per i minori), tale limite è garantista della consapevolezza della scelta da intraprendere, che sebbene opinabile nel numero (età) è giustificabile nell’intento finalistico, dare una certa importanza all’istituto familiare; devono essere in grado di intendere e volere, per lo stesso motivo precedente: la capacità consapevole della scelta da effettuare; non devono aver contratto un precedente matrimonio che sia, al tempo della celebrazione dello stesso, ancora perdurante, di derivazione culturale, tale limite consolida la monogamia giuridica, è ammesso un solo matrimonio giuridicamente valido; non devono avere tra loro determinati vincoli parentali (parentela in linea collaterale di terzo grado e affinità in linea collaterale in secondo grado), il vincolo del sangue e del legame parentale che trae le sue giustificazioni giuridiche nella scienza, onde evitare la trasmissione di diverse malattie genetiche alla prole e nel senso morale della tipologia dei rapporti (parentela stretta); non devono aver riportato una condanna per il reato di omicidio, consumato o tentato, ai danni del precedente coniuge dell’altro nubendo, limite connaturato al senso umano, morale e civico del singolo nei confronti dell’altro ricondotto a tipologie di reati che esprimono una certa gravità dell’offesa e una possibile pericolosità sociale dell’individuo. Inoltre, il consenso di entrambe le parti è un requisito primario per poter contrarre validamente il matrimonio, la distinzione tra scelta ed imposizione risiede proprio nella manifestazione della volontà di entrambi i coniugi che per essere coerente al senso giuridico, posto alla base dell’istituto matrimoniale, deve risultare libero, consapevole e reciproco. Nulla dispone il codice civile in merito al requisito del sesso, fatta eccezione per qualche sporadico riferimento ai termini marito-moglie. Questo non deve farci cadere in un errore di valutazione. Ciò che è espresso e ciò che non lo è, dipende in ogni caso dal grado di accettazione culturale e sociale del tempo. Nell’interpretazione diretta delle norme del codice civile ed in specifico di quelle dedicate alla famiglia e al matrimonio si deve tenere in considerazione lo spazio storico-culturale e sociale in cui quest’ultime sono state prodotte e promulgate. L’esclusione di ogni riferimento al sesso in termini di requisiti per accedere al matrimonio, è giustificabile nel senso di una non necessità di scrittura, perché la diversità di sesso dei coniugi è un principio etico diffuso nella tradizione dello Stato italiano. I riferimenti ai termini distintivi marito e moglie insiti nelle norme civilistiche relative ai rapporti familiari, come ad esempio avviene all’articolo 143 c.c. sui diritti e doveri reciproci dei coniugi: “Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” non hanno l’intento di rimarcare il sesso diverso dei coniugi come elemento costitutivo del matrimonio, ma è rivolto a sottolineare e a conclamare la parità dei coniugi nei rapporti familiari e quindi a solennizzare l’uguaglianza della moglie al marito nei diritti e nei doveri del matrimonio sganciando una bomba di valore sull’impostazione patriarcale familiare, che vedeva il marito il dominus della famiglia (capo-famiglia) in un ruolo di comando e sovraordinato alla moglie ed ai figli. Tale impostazione è suffragata dal terzo comma dell’articolo 143: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” dove il legislatore si esprime nella conduzione sostanziale dei rapporti patrimoniali sottolineando la contribuzione della moglie al sostentamento della famiglia, quasi a segnarne l’importanza del ruolo e l’indipendenza acquisita, gli articoli seguenti, 143 bis sul cognome: “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze” (In aderenza al principio di parità tra marito e moglie, è consentito alla donna limitatamente ai rapporti professionali – derogare a tale impostazione), e 143 ter sulla cittadinanza: “La moglie conserva la cittadinanza italiana, salvo sua  espressa rinunzia, anche se per effetto del matrimonio o del mutamento di cittadinanza da parte del marito assume una cittadinanza straniera”, confermano tale assunto. Ragionare giuridicamente vuol dire ragionare in maniera giusta. La giustificazione giuridica dell’illegalità del mancato riconoscimento del matrimonio alle coppie dello stesso sesso non può farsi derivare dall’assenza di un divieto normativo e imperativo esposto nel codice civile o nella Costituzione, ma deve ricercarsi altrove, seguendo un altro senso. Ancora una volta si tratta di verificare se vi è giustizia nel bilanciamento degli interessi alla luce dei fini costituzionali e tale ragionamento è rivolto oltre che alle norme, ai principi e all’esperienza. La Costituzione è evolutiva e non tradizionalista, l’ordine pubblico è tradizionalista, perché pur nel senso ideale, comunque costituisce un freno per sua natura, essendo un limite e i diritti invece che natura hanno? Il diritto segue l’uomo così come la Costituzione costituendo quest’ultima il riflesso giuridico sia del diritto che dell’uomo. La domanda quindi è, la tradizione segue l’uomo oppure ne costituisce una catena al suo sviluppo?  R. Bin, La famiglia: alla radice di un ossimoro,”Studium Iuris”, 2000. L’autore descrive perfettamente la contraddizione logico-giuridica insita nel termine società naturale per indicare la tipologia costitutiva e correttamente inquadra il senso costituzionale dell’espressione analizzata: società naturale indica il bisogno naturale, un valore, un bisogno, una necessità, una realtà, quella della famiglia che è propria dell’uomo in quanto tale e che quindi deve essere riconosciuta a tutti indistintamente, art 2 e 3 Cost.

[iii]   Corte eur. Dir. Uomo sez. I, 24 ottobre 2010 (Schalk e Kopf c. Austria), in articolo29.it;

Commento alla sentenza, in Diritti umani e diritto internazionale, vol. 4, n. 3/2010.  La Corte EDU ha affermato che la relazione di una coppia omosessuale rientra nella nozione di “vita privata” nonché in quella di “vita familiare” nell’accezione dell’articolo 8. In antitesi, la stessa Corte EDU aveva ritenuto che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisse solo “vita privata”, ma non già “vita familiare”, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte aveva osservato che, nonostante la crescente tendenza negli Stati europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l’esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un’area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità. Avuto riguardo all’evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali e all’avvenuto riconoscimento giuridico delle stesse da parte di un notevole numero di Stati membri, la Corte di Strasburgo (con la richiamata sentenza del 24 giugno 2010, prima sezione, caso Schalk and Kopf contro Austria), ha ritenuto artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della “vita familiare” ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente anche una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra anche nella nozione di “vita familiare”, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione.

[iv]    Tribunale di Treviso, sentenza del 19 maggio 2010: Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, è inesistente per l’ordinamento italiano; una volta assodata la non qualificabilità della fattispecie, non è necessario accertare la contrarietà del matrimonio omosessuale al nostro ordine pubblico, che, comunque, presuppone che l’atto straniero da trascrivere sia compreso nella categoria degli atti esteri trascrivibili nei registri anagrafici italiani secondo la disciplina che li regola. In Dir. Fam., 2011, 3, 1239, con nota WINKLER, Ancora sul rifiuto di trascrizione in Italia di same-sex marriage straniero: l’ennesima occasione mancata.

[v]     Sull’argomento ordine pubblico come tutela di principi etici, Balestra L., Commentario codice civile (famiglia e leggi collegate), Utet, 2010;

Sull’eticità dell’ordine pubblico ideale, Gargiulo E., Mantenere l’ordine pubblico, feticci liberali e principi etici nella gestione della sicurezza pubblica, Il lavoro culturale, 2016: “se la concezione ideale è considerata propria di uno stato “etico”, ossia di un regime politico che si fa portatore di specifici valori e princìpi a discapito di altri orientamenti normativi (magari imponendo una religione ufficiale o determinati comportamenti e norme morali in ambito sessuale), la concezione materiale è ricondotta invece a uno stato “liberale”, vale a dire a un sistema, neutrale e laico sul piano dei valori, in cui le autorità pubbliche si fanno semplicemente garanti di proteggere la sfera personale dei singoli da interferenze concrete, e dove quindi l’esercizio della libertà di associazione e manifestazione è condizionato al rispetto di altri diritti”

[vi]    Corte Costituzionale sentenza n. 138 del 2010 (che decideva sulle eccezioni proposte da Tribunale di Venezia e Corte d’Appello Trento), in Foro it. 2010, parte I, 1367 con nota DAL CANTO, La Corte costituzionale e il matrimonio omosessuale e ROMBOLI Per la Corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio; anche in Fam. e Dir. 2010, 653;

Romboli Roberto, Il diritto “consentito” al matrimonio ed il diritto “garantito” alla vita familiare per le coppie omosessuali in una pronuncia in cui la corte dice “troppo” e “troppo poco”, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), Giur. cost. 2010, 2, 1629; Mastromattino F., Il matrimonio conteso: le unioni omosessuali in una eclettica pronuncia della corte costituzionale italiana, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), in Il Diritto di famiglia e delle persone, 2011, fasc. 1  pag. 439 – 469: “ Con la sentenza 14 aprile 2010, n. 138 il giudice delle leggi si è pronunziato sulla questione concernente l’ammissibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso nel nostro ordinamento affermando che l’unione omosessuale, pur se riconducibile all’art. 2 Cost., rappresenta tuttavia una formazione sociale non idonea a costituire una famiglia fondata sul matrimonio stante l’imprescindibile (potenziale) “finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale”; proseguono i giudici precisando che “in tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale” concludendosi che “in questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”;

Romboli R., Per la corte costituzionale le coppie omosessuali sono formazioni sociali, ma non possono accedere al matrimonio, (Nota a sent. C. Cost. 15 aprile 2010 n. 138), in Il Foro italiano, 2010, fasc. 5  pag. 1367 – 1369 : “In tema di: Infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis c.c. rispetto agli artt. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non consentono il matrimonio omosessuale; inammissibilità della medesima questione rispetto agli artt. 2 e 117, comma 1 Cost., in quanto diretta ad ottenere una pronuncia additiva volta al riconoscimento delle unioni omosessuali intese come stabili convivenze tra due persone dello stesso sesso. Necessario l’intervento del legislatore. Non condivisibilità della pronuncia da parte dell’A. per la considerazione della nozione di matrimonio che non contemplerebbe le unioni omosessuali, in quanto risalente al 1946-47 e per il riferimento alle finalità esclusivamente procreative dello stesso”;                                                                                                                                                                                                                         

Sulla stessa scia della Corte Costituzionale, si era pronunciata in precedenza la Corte di Cassazione: 9 giugno 2000 n. 7877, 2 marzo 1999 n. 1739; 22 febbraio 1990 n. 1304 con le convergenti conclusioni che “il matrimonio omosessuale non è idoneo a costituire tra le parti lo status giuridico delle persone coniugate in quanto privo dell’indefettibile condizione della diversità di sesso dei nubendi, considerata nell’ordinamento italiano quale connotazione ontologica essenziale dell’atto di matrimonio”.

[vii]   Riviezzo A., Sulle unioni omosessuali la corte ribadisce: “questo” matrimonio non s’ha da fare (se non lo vuole il parlamento), (Nota a ord. C. Cost. 7 luglio 2010, n. 276), in Famiglia e diritto, 2011, fasc.1 pag. 20 – 29.

[viii]  Corte suprema del Massachusetts Goodridge v. Department of Public Health del 18 novembre 2003, in articolo29.it; Nota di Garetto R., Presupposti per una «ridefinizione» concettuale del matrimonio. Il dibattito fra sostenitori della tradizione e fautori del cambiamento negli Stati Uniti d’America ed in Spagna, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino – n. 4/2015.

[ix]    Corte Suprema del Sudafrica Minister of Home Affairs v. Fourie, del 1 dicembre 2005, in articolo 29; Nota di Gattuso M., Matrimonio tra persone dello stesso sesso, Capitolo tratto dal Trattato di Diritto di Famiglia diretto da Paolo Zatti, in forumcostituzionale.it.

[x]     Vagli G., L’approvazione della legge che consente il matrimonio tra omosessuali in portogallo, in Quaderni costituzionali, 2010, fasc. 3 pag. 605 – 608;

Passaglia P., Matrimonio ed unioni omosessuali in europa: una panoramica, (Nota a Tribunal Constitucional de Portugal 8 aprile 2010, n. 121 (Portogallo)), in Il Foro italiano, 2010, fasc. 5 pag. 273 – 277.

[xi]    G. Saccaro, Nota alla sentenza della corte di cassazione n. 4148 del 15 marzo 2012, Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna : “Con sentenza n. 4184 del 15 marzo 2012, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto da due cittadini italiani del medesimo sesso che, successivamente alla celebrazione del loro matrimonio a L’Aja (Regno dei Paesi Bassi), si sono visti rifiutare dal Sindaco del Comune di Latina – ove avevano stabilito la loro residenza – la trascrizione dell’atto di matrimonio in quanto formato all’estero e non suscettibile di trascrizione perché contrario all’ordine pubblico (italiano).

 La questione sottoposta all’esame della Corte di legittimità consiste nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero siano o meno titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano.  Nel ricorso presentato al vaglio della Corte di Cassazione i ricorrenti sostenevano che, se è pur vero che gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se contrari all’ordine pubblico italiano, tuttavia, trattandosi di norma di relazione con ordinamenti estranei al nostro, tale deve intendersi come ordine pubblico internazionale e non interno. Gli stessi sollecitavano la Corte a pronunciarsi sui quesiti di diritto se nel nostro Paese l’omosessualità sia un comportamento contrario all’ordine pubblico; sposarsi rientri tra i diritti fondamentali dell’individuo; la pubblicità di un atto negoziale come il matrimonio sia idonea a stravolgere i valori fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento.  In particolare i ricorrenti lamentavano il carattere discriminatorio della nozione stessa di matrimonio come unione eterosessuale e sugli- inesistenti- effetti giuridici nel nostro ordinamento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso; tale nozione, a loro giudizio, non tiene conto del fenomeno della evoluzione sociale, culturale e giuridica intervenuta nella gran parte degli Stati europei e pertanto  il riferimento alla tradizione interpretativa ed al suo carattere vincolante, in assenza di una norma espressa che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, oltre a rivelarsi anacronistico, contrasta con il principio di non discriminazione di cui all’art. 3, 2 co. Cost.  In considerazione dei mutamenti registrati, i ricorrenti proponevano una lettura in chiave evolutiva delle norme in materia di matrimonio sostenendo che un’interpretazione della vigente disciplina che escluda le coppie omosessuali dal matrimonio collide con la Costituzione nella parte in cui riconosce e garantisce ad ogni essere umano il diritto di costituire una famiglia, fondata sul matrimonio, e con l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.  Nella fattispecie, i ricorrenti chiedevano alla Corte di Cassazione di stabilire se la trascrizione dei matrimoni celebrati all’estero, avendo, ai sensi dell’art. 17 del DPR n. 396 del 2000, natura meramente certificativa e dichiarativa, in presenza di prova della sua celebrazione secondo la lex loci, sia atto dovuto ed “automatico…”; Di Bari M., Considerazioni a margine della sentenza 4184/2012 della corte di cassazione: la cassazione prende atto di un trend europeo consolidato nel contesto delle coppie same-sex anche alla luce della sentenza n.138/2010 della corte costituzionale, Associazione italiana dei costituzionalisti, Rivista n.1/2012 : “In primo luogo la Cassazione chiarisce in modo netto che, non essendo l’omosessualità contraria all’ordine pubblico, la legittimità del diniego alla trascrizione non può essere fatta derivare dalla contrarietà all’articolo 18, della legge sull’ordinamento civile. Tuttavia, nella sentenza n.4184 la Cassazione è andata oltre: una volta esaminate in combinato disposto le sentenze n.138/2010 e Schalk and Kopf è giunta a concludere che il diritto a contrarre matrimonio non sia affatto precluso dall’attuale testo dell’art.29 Cost. Semmai, viene ribadito dalla Cassazione, tale scelta rientra a pieno titolo tra le possibilità cui il legislatore può liberamente fare ricorso.  Tale lettura della sentenza n.138/2010, che invero sembra risentire anche delle conclusione raggiunte dal Giudice delle leggi nella sentenza 245/2011 (sul diritto a contrarre matrimonio come diritto inviolabile), aderisce alle più ottimistiche osservazioni emerse in dottrina che avevano (ora si può dire a ragione) auspicato un’apertura del nostro ordinamento al riconoscimento del matrimonio alle coppie omosessuali”; Ius M., Le coppie omosessuali hanno diritto ad una vita familiare ma il loro matrimonio non esiste. nota alla sentenza della cassazione 4184/2012, (Nota a Cass. sez. I 15 marzo 2012, n. 4184), in Lo Stato Civile Italiano, 2013, fasc. 7 pag. 18 – 22;

Gattuso M., “Matrimonio”, “famiglia” e orientamento sessuale: la Cassazione recepisce la “doppia svolta” della Corte europea dei diritti dell’uomo, articolo29.it;

Sgobbo C., Il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso: la Cassazione abbandona la qualifica di “atto inesistente” approdando a quella di “non idoneo a produrre effetti giuridici nell’ordinamento interno”, in Giust. civ., 2013

[xii]   Auletta T., Cass., 9.2.2015, n. 2400 – Commento, in Famiglia; Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza n. 2400/15; depositata il 9 febbraio, in diritto e giustizia.it.

[xiii]  Tribunale di Pesaro, sentenza del 14 ottobre 2014, in articolo29.it e Corte di Appello di Milano, sentenza del 16 ottobre 2015, in articolo29.it.

[xiv]  Leo G.M., Intrascrivibilità dei matrimoni celebrati all’estero tra persone delle stesso sesso e legittimità dei provvedimenti prefettizi di annullamento delle relative trascrizioni, sarannoprefetti.it,2016;

FerranteW., Gli atti defensionali della Avvocatura dello Stato sulla trascrizione dei matrimoni omosessuali [Nota a sentenza: Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2015, nn. 4897, 4898, 4899], Periodico: Rassegna avvocatura dello stato, 2015 – Volume: 67 – Fascicolo: 4 – Pagina iniziale: 123 – Pagina finale: 149;

Midena E., L’annullamento dei “same-sex marriage“, in Giornale di diritto amministrativo, 2017, fasc. 4, pag. 536 – 543.

[xv]   Il nuovo “sì” del Tribunale di Grosseto, in articolo29.it, 2015: “il tribunale ritiene che non esista alcuna preclusione alla trascrizione dell’atto celebrato all’estero. Ritiene, infatti, il tribunale toscano che il rifiuto di trascrizione configurerebbe una discriminazione basata sull’orientamento sessuale, la quale è vietata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo se non sussista uno scopo legittimo e se non vi sia un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, scopo e proporzionalità che nella specie vengono esclusi. Il tribunale richiama dunque la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che «con riferimento al mancato riconoscimento dello status personale ha chiarito che affinché il rifiuto di riconoscere un atto riguardante lo status acquisito all’estero sia legittimo deve rispondere ad un imperativo sociale e deve essere proporzionato allo scopo che si propone di raggiungere», concludendo per la trascrivibilità dell’atto.

[xvi]  Osservatorio su diritto internazionale privato e diritti umani n. 5/2015, La corte d’appello di Napoli sulla trascrizione del matrimonio samesex: il richiamo al criterio della cittadinanza per colmare il vuoto normativo, Ordine internazionale e diritti umani, (2015), pp. 1289-1294; Corte di appello di Napoli, sentenza del 13 marzo 2015, in articolo29.

[xvii] Vitucci C., La sentenza della corte suprema degli stati uniti sul matrimonio omosessuale e il diritto internazionale, 2015 in sidiblog.org.

[xviii] Winkler M. Il piombo e l’oro: riflessioni sul caso “oliari c. Italia” (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia), in Genius, 2016, fasc. 2;

Pedullà L., Il percorso giurisprudenziale sul riconoscimento delle c.d. “unioni civili”, Associazione italiana costituzionalisti, Rivista N°: 2/2016;

Rudan D., L’obbligo di disporre il riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso: il caso “oliari e altri c. Italia” (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia)), in Rivista di diritto internazionale, 2016, fasc. 1 pag. 190 – 198;

Sangiorgi Alessio, Monito della corte europea: l’Italia riconosca protezione alle coppie omosessuali. il caso “oliari” come primo timido passo verso il matrimonio egualitario?, (Nota a Corte eur. Dir. Uomo sez. IV 21 luglio 2015 (Oliari et al. c. Italia)), in I diritti dell’uomo, 2015, fasc. 3 pag. 528 – 538.

[xix]  In Francia, con la legge del 15 novembre del 1999, si è riformato il codice civile francese, con l’introduzione dell’istituto dei pactes civils de solidaritè, noti come “Pacs”. Successivamente, nell’aprile 2013, l’Assemblea nazionale votò a maggioranza, una legge che legalizzasse le nozze omosessuali. Con l’entrata in vigore della legge del 2013 (loi n. 2013-404 du 17 mai 2013 ovrant le marriage aux couples de personnes de meme sexe), tutte le diatribe sulla natura giuridica dei PACS sono state risolte; infatti, la nuova legge, incidendo sull’art. 143 del codice civile francese, ha previsto che: “Il matrimonio è un contratto tra due persone di sesso opposto o dello stesso sesso”.

[xx]   Zannoni D., Gli effetti nell’ordinamento italiano delle unioni civili e dei matrimoni “same-sex” conclusi all’estero, in DPCE online, 2020, fasc. 1, pag. 233 – 256;

[xxi]  Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11696, Il matrimonio contratto all’estero tra un cittadino italiano e uno straniero, dello stesso sesso, produce in Italia gli effetti di un’unione civile. Nota di C. Cicero e A. Leuzzi. Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2018, 4, I, 1268;

Miri V., Matrimonio same-sex celebrato all’estero e “downgrading” in unione civile: una prima lettura di Cass. 14 maggio 2018, n. 11696, Rivista diritti comparati, 2018;

Serra M. L., Sulla trascrizione del matrimonio omosessuale estero e diritti fondamentali della persona, (Nota a Cass. sez. I civ. 14 maggio 2018, n. 11696), in Famiglia e diritto, 2019, fasc. 2, pag. 143 – 150: “La pronuncia n. 11696/2018 della S.C. affronta la questione della trascrivibilità, negli atti dello stato civile italiano, del matrimonio contratto all’estero da una coppia di persone dello stesso sesso di cui una soltanto di nazionalità italiana, confermando la soluzione dei giudici di merito a favore della legittimità del rifiuto. Più precisamente, la S.C. nega l’ammissibilità della trascrizione del matrimonio omoaffettivo perché tale tipo di matrimonio è riconducibile alla previsione dell’art. 32 bis della L. n. 18/1995, come modificata dal D.lgs. n. 7/2017, producendo pertanto gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana non solo quando entrambi i nubendi sono cittadini italiani ma anche se uno di essi è straniero. Viene così ribadito l’orientamento giurisprudenziale per cui l’unico limite che può impedire il riconoscimento di atti o di provvedimenti d’una autorità straniera è dato dall’ipotesi in cui siano in contrasto con l’ordine pubblico del luogo in cui sono destinati a produrre effetti giuridici. La pronuncia fornisce lo spunto per considerare la nozione di ordine pubblico anche nell’ottica delle Corti Europee in funzione della necessaria tutela dei diritti fondamentali dell’uomo desumibile dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali”.

[xxii] Cassazione civile sez. I, 14/05/2018, n.11696, in consultaonline.it Non è contrario all’ordine pubblico internazionale il riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili contratti all’estero. La definizione, ai sensi degli articoli 32-bis e 32-quinquies della l. 31 maggio 1995 n. 218, degli effetti del matrimonio e dell’unione civile contratti all’estero da cittadini italiani, non può essere temporalmente limitata alle relazioni coniugali o alle unioni giuridicamente riconosciute contratte dopo l’entrata in vigore della l. 20 maggio 2016 n. 76, né può essere condizionata dalla data d’instaurazione del giudizio. L’applicazione di tali disposizioni ai rapporti sorti prima della entrata in vigore della legge n. 76 del 2016 non costituisce una deroga al principio d’irretroattività della legge, ma una conseguenza della specifica funzione di coordinamento e legittima circolazione degli status posta alla base della loro introduzione. La non contrarietà all’ordine pubblico internazionale del riconoscimento del matrimonio e delle unioni civili o istituti analoghi contratti all’estero è consacrata dagli articoli 32-bis e 32-quinquies della legge n. 218 del 1995. Infatti, gli atti di matrimonio e di unioni riconosciute producono senz’altro effetti giuridici nell’ordinamento italiano secondo il regime di convertibilità stabilito da tali norme. L’art. 32-bis comporta la preminenza del modello dell’unione civile, adottato nel diritto interno. Pertanto, il matrimonio contratto all’estero da coppia omoaffettiva formata da cittadino italiano e da cittadino straniero non è trascrivibile come tale, ma come unione civile. L’art. 32-bis non trova invece applicazione nell’ipotesi in cui venga richiesto il riconoscimento di un matrimonio contratto all’estero da due cittadini stranieri. La trascrizione del matrimonio omosessuale come unione civile (c.d. downgrading) non produce effetti discriminatori per ragioni di orientamento sessuale, dal momento che la scelta del modello di unione riconosciuta tra persone dello stesso sesso negli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d’Europa è rimessa al libero apprezzamento degli Stati stessi.

[xxiii] Causa Taddeucci e McCall c. Italia, sentenza 30 giugno 2016 (ricorso n.22567/09), camera.it

[xxiv] Causa Francesca Orlandi e altri c. Italia, sentenza 14 dicembre 2017, camera.it;

Deana F., Diritto alla vita familiare e riconoscimento del matrimonio same-sex in Italia: note critiche alla sentenza Orlandi e altri contro Italia, Rivista di diritti comparati,2019.

[xxv] Corte di Giustizia, sentenza 5 giugno 2018, causa C-673/16, Coman, in curia.europa.eu;

Zappalà L., Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc.4, 2018, pag. 953, Nota a: Corte giustizia UE , 05 giugno 2018, n.673, grande sezione, Nozione di «coniuge» sans phrase: la tutela dei diritti fondamentali delle same sex families;

Perelli A., Matrimonio tra persone dello stesso sesso. Il caso Coman: un importante passo verso l’eguaglianza, Note e commenti – DPCE on line, 2018/3.

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