Economia

Politiche di liberalizzazione ed effetti redistributivi del reddito: un difficile equilibrio

(di Livia Cherubino)

PARTE SECONDA

CRESCITA ECONOMICA E REDISTRIBUZIONE DEI REDDITI: LE DUE FACCE DI UNA STESSA MEDAGLIA

2.1. Redistribuzione

Il riflesso delle politiche economiche sui redditi delle famiglie è di fondamentale importanza, soprattutto se si considera che esiste un forte legame tra reddito e consumo. Diverse evidenze dimostrano come il livello di consumo e il livello di reddito siano collegati (14) per questa ragione, quando siano carenti i dati sui redditi, il livello di consumi è adottato come parametro per la misurazione del benessere della popolazione. L’ipotesi è, quindi, che a un aumento dei soggetti percettori di reddito corrisponda un aumento dei consumi, ma non viceversa: fondamentale per la ripresa economica è, dunque, il fattore redistribuzione, più che l’abbassamento dei prezzi, tenendo in considerazione che non si può certo affermare il contrario, ossia, che a un aumento dei consumi (determinato dalla riduzione dei prezzi) corrisponda certamente un aumento dei redditi.

Liberalizzare efficacemente, però, comporta una dolorosa “rivoluzione sociale”, perché il rimescolamento dev’essere attuato attraverso politiche che mirino a far scendere -nella gerarchia delle retribuzioni- coloro che beneficiano di rendite e far salire i detentori di un livello maggiore di competenze che meglio possano contribuire alla produttività del Paese (15), il che comporta una migliore redistribuzione del reddito, ma non a “costo zero”, che il momento storico pare imporre, poiché lo stesso benessere sociale sembra richiedere di “andare contro le corporazioni e i gruppi di interessi particolari, per favorire gli interessi di tutti”(16).

La relazione tra crescita economica e distribuzione del reddito è, tuttavia, molto complessa. A livello teorico, la relazione della c.d. “U rovesciata” proposta da Kuznets, pubblicata intorno alla metà degli anni Cinquanta del Novecento, così come il modello dualistico prospettato da Lewis, concordano nell’affermare che la crescita economica porta a un aumento iniziale della disuguaglianza e che la distribuzione dei redditi si riequilibra solo in un successivo momento. Tali modelli economici, tuttavia, non tengono in considerazione gli effetti negativi che, a monte degli interventi, una disuguaglianza elevata può determinare sulla crescita economica di un Paese: diversi modelli (17) hanno difatti provato che alti livelli di disequilibrio nella distribuzione dei redditi all’interno della società provocano una crescita economica più lenta, che sarebbe, per contro, accelerata da una maggiore equità di partenza (18). D’altronde, se un Paese cresce partendo da una situazione di grande disuguaglianza, la porzione di crescita di cui i poveri andrebbero a godere sarebbe, in ogni modo, limitata (19).

Se, dunque, la relazione tra crescita e distribuzione è problematica, appare necessario che i due obiettivi vengano perseguiti simultaneamente, operando un bilanciamento degli effetti dispiegati dal raggiungimento dell’uno sull’altro e questo non può che essere fatto mediante politiche che siano puntualmente definite nelle modalità di attuazione e di impatto economico e sociale. In ogni caso, secondo una parte degli economisti, l’obiettivo della crescita economica sarebbe da perseguire anche a discapito di una più equa distribuzione del reddito, perché rappresenta “un metodo per innalzare il tenore di vita molto più potente di quanto non sia l’eliminazione dei divari recessivi, della disoccupazione strutturale o delle inefficienze” (20).

Prima di concordare o meno con questa affermazione, è necessario analizzare il perché sia auspicabile che una società abbia al suo interno una distribuzione dei redditi abbastanza egalitaria.

In prima battuta, è innegabile che una società che contempli al suo interno un’elevata disuguaglianza mina il senso comune di giustizia, ma -a prescindere da questa considerazione sociologica- la non equa distribuzione determina un’inefficiente allocazione delle risorse, con effetti infausti sui settori cardine della stessa: politica, istruzione, tasso di criminalità. Si determinano ripercussioni sulla sfera politica del Paese nel momento in cui la situazione d’ineguaglianza – intollerabile al punto da accrescere l’invidia e la rabbia dei consociati-, intaccando la pace sociale, è in grado di portare a un alto livello di disordini che rischiano di minarne la stabilità. Relativamente, invece, al rapporto tra diseguaglianza ed educazione, possiamo prendere in considerazione l’elasticità dei redditi intergenerazionali che misura la probabilità che i figli mantengano lo stesso reddito dei padri: più basso è il valore e più alta è la probabilità che i redditi cambino di generazione in generazione. Laddove vi sia un’iniqua distribuzione del reddito difficilmente questo valore sarà basso, con indubbie ripercussioni anche sul livello di scolarità che non potrà aumentare: un basso livello d’istruzione è causa di una società che avrà difficoltà a crescere economicamente, dal momento in cui una buona parte della popolazione non ha gli strumenti idonei a contribuire allo sviluppo economico del Paese. Infine, dati empirici dimostrano che laddove la distribuzione dei redditi è maggiormente diseguale, il livello di criminalità è molto più alto.

Queste considerazioni, probabilmente, inducono a riconsiderare i rapporti e le priorità tra sviluppo economico e redistribuzione: la crescita economica gioca un ruolo fondamentale per la riduzione della povertà, ma comporta un aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Dunque, non è possibile risolvere i problemi di equità e povertà promuovendo la crescita tout court; bisogna, piuttosto, perseguirla mediante istituzioni che siano capaci di assicurare condizioni di maggiore uguaglianza in merito alle opportunità riservate ai cittadini, e che si pongano in maniera critica nei confronti delle politiche di liberalizzazione (21).

2.2. Le variabili rilevanti per una redistribuzione al passo con la crescita economica

Il problema vero e proprio è che le politiche di liberalizzazione perseguono l’obiettivo di favorire la crescita economica, la quale è indissolubilmente legata all’aspetto della redistribuzione del reddito tra i consociati, andando la prima a riversare effetti sulla seconda. Trovare un punto di equilibrio tra queste due finalità è difficile, perché se è vero che non è possibile ridurre in modo significativo la povertà senza una crescita economica sostenuta, non è di riflesso sostenibile che la crescita vada a vantaggio di tutti (22).

Gli effetti delle politiche di liberalizzazione sulla disuguaglianza sono oggetto di un vasto e complesso dibattito: se parte della letteratura economica sottoscrive il forte legame tra l’attuazione di queste politiche e la crescita delle disuguaglianze, altra parte sostiene che la liberalizzazione contribuisce, sì, a far crescere le disuguaglianze all’interno degli Stati, ma è in grado, comunque, di diminuire quella presente a livello internazionale; infine, una restante parte della dottrina configura gli aggiustamenti strutturali solo in chiave di valido strumento per combattere la disuguaglianza (23).

Le liberalizzazioni non hanno certo un impatto neutro sulla disuguaglianza e sulla povertà; tuttavia, l’aprioristica individuazione degli effetti risulta problematica perché collegata a diverse variabili: il settore oggetto delle liberalizzazioni, la situazione del Paese antecedentemente all’adozione delle stesse, la capacità della società e dei consociati di accettare e cogliere il cambiamento apportato (24). In base a questi fattori, le politiche di liberalizzazione possono determinare o meno quella -più auspicabile- condivisione dei benefici della crescita per chi si colloca in fasce di reddito inferiori.

Il discorso, di per sé complesso, si fa ancor più problematico se la valutazione degli effetti degli interventi di liberalizzazione -che perseguono suddette finalità- ha ad oggetto territori gravati da una situazione di profonda crisi. Sulla falsa riga della terza dottrina sopra menzionata, l’impostazione da adottare sarebbe quella di configurare le politiche di liberalizzazione come strumento per combattere le disuguaglianze e, al contempo, favorire la crescita economica, purché gli interventi siano supportati da un ottimo e ben organizzato apparato istituzionale e normativo.

Alcuni economisti sostengono che l’unica globalizzazione economica che potrebbe portare grandi vantaggi per i poveri del mondo è quella del lavoro, che però risulta la più osteggiata dall’azione di interdizione delle lobby (25).

2.3. Focus: La liberalizzazione delle professioni. La “vicenda taxi”.

Proprio il momento di grave difficoltà in cui le economie europee si sono trovate (e si trovano tuttora) ad operare, ha portato l’Italia -sotto la forte spinta comunitaria- a disciplinare, a livello normativo, il processo di liberalizzazione attraverso lo strumento del decreto-legge (26), perseguendo l’obiettivo di rendere il mercato dei servizi professionali efficiente, trasparente e competitivo, attraverso una riforma delle professioni finalizzata ad ampliare le possibilità di scelta dei consumatori, in conformità alla logica della deregulation come stimolo alla crescita (27).

L’obiettivo, dichiarato a monte dell’azione sovranazionale, è di eliminare ogni normativa interna che non sia in linea con i principi comunitari, in considerazione del fatto che l’esistenza di norme discriminatorie e barriere “non proporzionali” -slegate dal dovere di tutela dei consumatori- sono ritenute dall’Unione Europea tra i principali ostacoli alla mobilità dei professionisti, alla crescita economica e allo sviluppo dell’occupazione (28).

Quel che comporta un intervento di tale portata sulla distribuzione dei redditi all’interno della società è stato trascurato, probabilmente in adesione all’ideologia per cui è la sola crescita ad aiutare veramente i poveri, perché “[…] aumenta i loro redditi tanto quanto aumenta i redditi di chiunque altro… in breve la globalizzazione aumenta i redditi ed i poveri partecipano pienamente a questo
processo”(29).

Tuttavia, il Fondo Monetario Internazionale, ponendo l’accento sull’aumento della disuguaglianza e ribadendo come la stessa possa essere dannosa per il raggiungimento della stabilità e della crescita macroeconomica, ne rinviene una serie di cause che vanno dalla globalizzazione alle liberalizzazioni, che hanno determinato l’ingresso nel mercato del lavoro di persone meno specializzate e l’aumento del potere contrattuale di chi, per contro, guadagna di più (30).

La causa principale della disuguaglianza (legata alle differenze nella domanda e offerta per i diversi tipi di lavoro) sarebbe da rinvenire nella determinazione dei compensi secondo i meccanismi del mercato del lavoro. In un sistema in cui le organizzazioni dei professionisti non possono limitare il numero dei lavoratori, i compensi non sono controllabili, ma regolati dal mercato stesso. I salari, funzionando come i prezzi di qualsiasi altra merce, sono determinati dal punto d’incontro tra la domanda e l’offerta dei lavoratori con una certa specializzazione: la concorrenza tra lavoratori può abbassare i salari in virtù della sostituibilità di un lavoratore rispetto a un particolare ruolo. Qualora l’offerta sia bassa, per cui vi siano pochi lavoratori in grado di ricoprire un dato posto, in contrasto con una domanda elevata -ossia un gran bisogno di personale di quel tipo-, allora a detta prestazione corrisponde un compenso alto, in quanto i datori di lavoro, in concorrenza tra loro per dipendenti, sono spinti ad alzare il salario offerto.

Nel momento in cui viene, dunque, liberalizzata una professione, la concorrenza aumenta insieme all’offerta e al numero dei posti di lavoro; si smantella il sistema per cui i produttori possono godere di rendite -perché non esposti alla concorrenza- determinate dalla possibilità di fissare prezzi assai più elevati dei costi, configurando così una politica di ridistribuzione del reddito, dai percettori di rendite a favore dei consumatori. Ma, in base a quanto detto prima, all’aumentare dell’offerta si accompagnerà l’incremento della sostituibilità del lavoratore per quel ruolo, riducendone il salario.

Da questa considerazione ha avuto origine la “vicenda taxi”, la cui categoria di lavoratori ha più di tutte osteggiato la riforma, laddove il decreto liberalizzazioni del governo Monti sembrava voler far partire il rilancio della crescita economica soprattutto dai taxi, oltre che, dalle farmacie.

A partire dagli anni Ottanta la figura del taxista si è trasformata lentamente, fino ad assimilarsi a quella di un lavoratore autonomo legato a posizioni di rendita. Per questo motivo, un’estensione del numero di licenze, o addirittura una loro soppressione -per liberalizzare l’attività e i suoi confini territoriali-, avrebbe determinato un indubbio effetto competitivo sul mercato, con una riduzione dei prezzi a beneficio degli utenti ma, parallelamente, sarebbe andata a svantaggio degli stessi lavoratori che avrebbero visto una contrazione dei loro introiti e del valore della licenza. Il punto cruciale della vicenda è proprio questo: il prezzo della licenza acquistata è proporzionale al valore dei flussi dei redditi attesi per il futuro e viene ammortizzato durante gli anni di servizio attingendo ai risparmi consentiti dall’attività; la liberalizzazione del settore andrebbe a ridurre i redditi -e i risparmi- ottenibili dall’attività, per cui il taxista si troverebbe in difficoltà ad ammortizzare l’investimento iniziale, essendo il valore di cessione della licenza inferiore a quello che si attendeva.

Con l’avvio degli interventi di liberalizzazione questi lavoratori avrebbero certamente subito un danno che sarebbe stato, però, spalmato a beneficio degli utenti: quando i vantaggi degli uni superano le perdite degli altri, è il miglioramento del benessere della collettività, grazie all’incremento della concorrenza e dell’offerta di lavoro, a raccomandare di percorrere questa strada.

Un intervento di tale auspicabile portata –non realizzato in punto di fatto- avrebbe potuto facilmente incontrare il favore di tale categoria se alla liberalizzazione fosse stata affiancata la determinazione di una corresponsione, agli attuali detentori di licenza, di una quota sulla cessione della stessa, da quantificare in proporzione all’anzianità di servizio, in modo da favorire il recupero dell’ammortamento (31).

Tuttavia, nell’attuazione delle politiche di liberalizzazione bisogna tenere in considerazione anche il rischio di incorrere in un eccesso di offerta rispetto alla domanda: questo non crea ricchezza, bensì l’abbassamento indiscriminato della qualità e dei prezzi (32). Per questo è necessario ripartire dalle liberalizzazioni, così come ribadito dall’Unione Europea, da non configurare, però, come scelte economiche che portino ad un’indiscriminata apertura di servizi e professioni. La liberalizzazione, quale mezzo (e non semplice obiettivo) per il raggiungimento dello sviluppo economico e della redistribuzione dei redditi, dev’essere calibrata al punto che i costi che ne derivino siano proporzionati ai benefici attesi, soprattutto in termini di sostenibilità (33). Questo significa che una liberalizzazione ben fatta, che sia finalizzata anche a una distribuzione dei redditi più egalitaria -dove siano privilegiati i lavoratori dotati di formazione e competenze tali da poter meglio contribuire ad incrementare la produttività, rispetto ai percettori di rendite (34)- non potrà essere “a costo zero”, ma dovrà essere, comunque, sostenibile: poiché l’incremento di concorrenza accentua le disuguaglianze di reddito devono necessariamente essere approntati adeguati meccanismi di protezione per i danneggiati (35).

Se, di fatto, fossero solamente rimossi i vincoli alla concorrenza si potrebbe determinare una condizione di inefficienza e fioriera di disuguaglianze. Riprendendo l’esempio, una liberalizzazione scellerata potrebbe portare, nel medio periodo, a una situazione di estrema disuguaglianza, in cui chi possiede capitali adeguati può acquisire auto da adibire a taxi, pagando a cottimo i lavoratori che sarebbero indotti a lavorare senza tregua per raggiungere un certo livello salariale, con infauste conseguenze anche in termini di sicurezza e qualità del servizio (36).

Liberalizzare è, dunque, un’operazione complessa che per essere efficace dev’essere affiancata da misure di accompagnamento. Per questo motivo, interventi di tale portata devono essere il frutto di scelte di politica economica ben calibrate, supportate da un apparato istituzionale ben organizzato e in grado di emanare norme efficienti. Questo significa che la competitività e la crescita – unitamente a una più equa distribuzione del reddito in proporzione alla qualificazione del lavoro- devono essere tutelate e favorite da buone ed efficaci regolamentazioni amministrative, uniche in grado di garantire il rispetto dei “giusti” limiti e di quei vincoli normativi indispensabili (37).

PARTE TERZA

CONCLUDENDO

3.1. L’impatto del diritto comunitario e il nuovo ruolo del diritto amministrativo

Da quest’analisi –calibrata su una specifica categoria professionale e collegata, dunque, al problema della disuguaglianza relativa e non complessiva- emerge come il tema della liberalizzazione sia strettamente collegato ad altri, come quello di una buona regolamentazione, dello sfoltimento normativo e della semplificazione amministrativa.

Per aversi una liberalizzazione efficiente, tesa a favorire la competitività e la crescita economica unitamente alla riduzione delle disuguaglianze, non può parlarsi di deregolamentazione tout court, in cui l’attività sia lasciata unicamente ai meccanismi di mercato.

In questo senso, la liberalizzazione non sarebbe sempre un evento auspicabile perché, data la rilevanza di interessi generali, alcune attività devono, necessariamente, essere soggette a controlli amministrativi -spesso preventivi- o anche a limiti ulteriori inerenti, per esempio, alle forme organizzative o alle regole
di svolgimento.

Il problema della liberalizzazione (38), quindi, non è semplicemente quello di eliminare regole e procedure, ma di verificare la loro utilità, di trovare il giusto equilibrio tra la libertà di iniziativa economica e la tutela di quegli interessi che possono essere minacciati dalle attività d’impresa, di mantenere delle restrizioni allorché siano funzionali all’interesse generale, ma non a quelli delle categorie professionali in sé e per sé, sempre in raccordo ai principi di derivazione del settore farmaceutico: che cose è cambiato con la liberalizzazione dei prodotti SOP e OTC”, comunitaria. In ossequio ai valori costituzionali e sovranazionali, la libertà economica dei privati si presume e i regimi di controllo amministrativo che incidono su di essa devono trovare una giustificazione in ragioni stringenti di interesse pubblico.

Laddove gli interventi di liberalizzazione vadano a toccare interessi costituzionalmente rilevanti, è salvaguardata la funzione amministrativa.

Si pensi, ad esempio, alla tutela della salute, che in tutti gli interventi di liberalizzazione viene costantemente indicata come interesse che giustifica il permanere del regime autorizzatorio. Quando vi è il rischio che un’attività economica possa incidere su valori costituzionalmente protetti, il legislatore affida all’Amministrazione il compito di valutare se detta attività possa o meno essere esercitata.

Emerge, così, un quadro in cui si rende necessaria l’adozione di politiche di liberalizzazione “controllata”, per la cui efficienza si impone il permanere del potere pubblico. Dai più recenti interventi in materia -almeno nel settore delle attività economiche-, il compito primario affidato all’Amministrazione appare essere la tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, visto il permanere del regime autorizzatorio (39). Si può dire che sembrano ivi ridotte le distanze tra i diritti fondamentali e il diritto amministrativo.

Nell’ambito di dette politiche, tali diritti -pur trovando riconoscimento in norme fondamentali- non sono a soddisfazione necessariamente garantita perché ne è ammessa una possibile incisione da parte del potere pubblico in nome di altre esigenze, corrispondenti ad altrettanti interessi rilevanti, costituzionali o sovranazionali ai primi equiparabili.

La situazione che emerge, quindi, a valle di quest’analisi -nonché dei provvedimenti legislativi richiesti in materia di liberalizzazioni- è quella di un diritto amministrativo quantitativamente minore ma qualitativamente migliore (40), in cui il potere pubblico è chiamato ad operare un contemperamento tra contrapposti valori fondamentali.

Ad oggi siamo ancora distanti dall’obiettivo imposto dalla spinta comunitaria, per cui rimane valida la raccomandazione di liberalizzare (soprattutto le professioni chiuse) (41). A fronte, infatti, degli sforzi che si sono tentati di intraprendere, le classifiche internazionali sulla competitività dell’economia italiana segnalano il persistere dell’inefficienza delle pubbliche amministrazioni e la pesantezza degli oneri burocratici come i principali fattori che penalizzano il nostro Paese e scoraggiano gli investimenti (42).

E’ evidente che la crescita economica dipende in modo significativo dal modo in cui sono regolati i mercati; a fronte di ciò è necessario riconfigurare meglio le politiche di liberalizzazione, oltre che il ruolo del diritto amministrativo, affinché siano in grado di dare una risposta adeguata a tali imperativi economici, da calibrare sull’interesse generale e non su quelli propri delle singole categorie professionali.

14 Lipsey R.G., Chrystal A.K., Macroeconomia, Zanichelli Editore, 1999.

15 “La crescita si fa con il capitale umano: educazione, ricerca, innovazione […]”, così, Galimberti F., Liberare l’Italia da lacci e lacciuoli, Il Sole 24 Ore, 20 aprile 2012.

16 Abravanel R., Gutgeld Y, Scelte coraggiose per sviluppare un’economia di servizi, ricerca condotta per McKinseyEtCompany, Milano, 2006.

17 Tra cui, Deininger K., Squire L., A New Data Set Measuring Income Inequality, in World Bank Economic Review, n.10/1996, Galor O., Income Distribution and the Process of Development, in European Economic Review, n. 44/2000, per i quali una condizione iniziale di alta disuguaglianza nella distribuzione dei redditi genera una più bassa crescita economica (medesimo assunto dimostrato per il tramite di passaggi in parte differenti).

18 Secondo il rapporto Fiscal policy and income inequality, del Fondo monetario internazionale, “ci sono crescenti prove che un’alta disuguaglianza possa essere dannosa per il raggiungimento di stabilità e crescita macroeconomica”.

19 Ravallion M., Have We Already Met the Millennium Development Goal for Poverty?, 2002, www.iie.com/publications/papers/ravallion0203.pdf

20 Lipsey R.G., Chrystal A.K., op. cit.

21 Mattiozzi F., L’andamento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, in Eticaeconomia.it, 2009.

22 Stiglitz J.E., La Globalizzazione e i Suoi Oppositori, Einaudi, 2002.

23 In ordine: Mazur J., Labour’s New Internationalism, in Foreign Affaire, Gennaio- Febbraio 2000; Ghose A.K., Global Economic Inequality and International Trade, 2001; Bussolo, M., Solignac Lecomte H. B., Trade Liberalisation and Poverty, in ODI Poverty Briefing n. 6/1999.

24 Relativamente ai primi due parametri, ad esempio, dall’analisi della situazione di diversi Paesi africani che hanno adottato le politiche di liberalizzazione del commercio è emerso un indubbio aumento dei poveri; questa tipologia di politica si è qui tradotta in una sostanziale perdita fiscale (dal momento in cui detti paesi dipendevano dalle tasse sui beni importati come maggior introito fiscale) e nel collasso delle industrie domestiche non in grado di sostenere la concorrenza di competitori esteri provenienti dai Paesi industrializzati. Demble (2004).

25 Così, Rajan Ramkishen S., Trade Liberalization and Poverty: Revisiting the Age-Old Debate, 2002, www.economics.adelaide.edu.au/staff/rrajan/pubs1.html – 38k – it

26 Nella battaglia per la semplificazione e la liberalizzazione, le autorità italiane hanno messo a punto negli ultimi anni diversi piani d’azione nazionali: il piano “Salva Italia” attraverso il Decreto Legge n. 201/2011, convertito in Legge n. 214/2012, il “Cresci Italia” attraverso il Decreto Legge n. 1/2012, convertito in Legge n. 27/2012, il “Semplifica Italia” di cui Decreto Legge n. 5/2012, convertito in Legge n. 35/2012 ed il “Piano di Azione Coesione” sviluppato in collaborazione con la Commissione Europea allo scopo di far fronte alle debolezze strutturali, eliminare la burocrazia inutile, creare un ambiente più favorevole per l’imprenditoria e sbloccare la competitività.

27 Titonin C., Il quadro normativo del processo di liberalizzazione delle professioni. La
riforma nazionale e le realtà regionali, 2012, www2.dse.unibo.it/cecilia.tinonin/Tinonin_Professioni.pdf.

28 Pallotta R., Professioni regolamentate e liberalizzazioni: Stati UE sotto osservazioni, Ipsoa quotidiano, 2014, www.ipsoa.it/documents/impresa/quotidiano/2014/05/02/professioni- regolamentate-e-liberalizzazioni-stati-ue-sotto-osservazione

29 Da The Economist, maggio 2000, pag. 97.

30 Report del FMI, Fiscal policy and income inequality, 2014, www.imf.org/external/np/pp/eng/2014/012314.pdf

31 Polo M. (2011), Non solo taxi e farmacie, in fondfranceschi.it. Proposta in parte simile, Boitani A., Bordignon M. (2003), Il mercato delle licenze dei taxi: una proposta operativa, in lavoce.info.

32 Ceccarelli F., La liberalizzazione delle professioni intellettuali, 2011, leggioggi.it

33 Rodrik D., How Should Structural Adjustment Programs be Designed?, in World Development, vol.18, n. 7/1990.

34 Mollica A., Vasta redistribuzione contro il calo del reddito da lavoro, The economist, 1 novembre 2013.

35 Petrucci A., Liberalizzazioni e semplificazioni amministrative: tecniche di regolazione e riflessi su imprese e consumatori, in Amministrazione in cammino.

36 I taxisti, rifiutando le liberalizzazioni, in realtà rifiutano il modello -di cui ne sono esempio molti Paesi esteri- in cui i taxi sono acquisiti da società d’investimento per essere dati in affitto agli autisti, sistema che con una deregulation tout court porta i lavoratori all’auto- sfruttamento. Così, Garibaldi A., I “padroncini” temono New York. Licenze regalo per ricompensarli, in Corriere della sera, 14 gennaio 2012.

37 Pammolli F., Salerno N., Alcuni spunti sulla recente liberalizzazione della distribuzione dei farmaci SOP-OTC, CERM, presentazione al Convegno “Primo bilancio del decreto Bersani sul

38 Clarich M., Mattarella B.G., Un nuovo sistema regolatorio per lo sviluppo economico, in Analisi Giuridica dell’Economia – 2/2013 , pp. 363-381.

39 Decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, coordinato con la legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, all’art. 34 comma 2: La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità.

40 Giovagnoli R., Liberalizzazioni, semplificazioni ed effettività della tutela, Relazione tenuta al Convegno di studi in occasione dell’assegnazione del Premio Sorrentino 2012. Roma, Palazzo Spada, 12 giugno 2012.

41 OECD (2013), Economic Policy Reforms 2013. Going for Growth, pp. 183-186.
Secondo il FMI, tale ulteriore liberalizzazione dovrebbe, peraltro, riguardare esclusivamente le due professioni che, in diversa misura e per ragioni differenti, mantengono ancora restrizioni all’accesso e all’esercizio: notai e farmacisti. Non si fa riguardo alla professione dell’avvocato in quanto l’esame di abilitazione non si configura propriamente come una restrizione all’accesso, non essendo fissato un tetto che limiti il numero dei professionisti. In questo senso, Camera dei deputati, X commissione attività produttive audizione su relazione concernente la “Liberalizzazione delle attività economiche e la riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese”, Roma, 30 maggio 2013.

42 Il rapporto “Doing Business 2013: Smarter Regulations for Small and Medium-Size Enterprises”, della Banca Mondiale segnala, ad esempio, come l’Italia si classifichi al 73° posto su 185 Paesi del mondo per quanto riguarda la facilità di fare impresa. Un dato ben al di sotto di molte economie dell’Unione Europea che in media hanno una posizione pari a 40.

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