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Innovation

La Legge di Bilancio, entrata in vigore nel 2019, riconosce alle PMI un contributo a fondo perduto per l’acquisizione di consulenze specialistiche finalizzate a sostenere i processi di trasformazione tecnologica e digitale attraverso le tecnologie abilitanti previste dal Piano Impresa 4.0.

Ma quali sono le nuove figure alla base di questo processo di trasformazione ?

Si tratta  degli “Innovation Manager“, professionisti che devono assicurare la gestione delle attività di un’impresa inerenti ai processi di innovazione del business in termini di processi organizzativi, prodotti, servizi e pensiero manageriale. Tutto ciò stimolando la ricerca delle soluzioni legate alla “Digital Transformation” e favorendo a livello culturale l’introduzione e il consolidamento di idee innovative in azienda per lo sviluppo di un vantaggio competitivo sul mercato con la conseguente crescita del Business.

Con la citata Legge di Bilancio 2019 saranno stanziati dei voucher annui pari a 40.000,00 euro e diretti alle PMI, i quali consentono di beneficiare di un contributo a fondo perduto per l’ingaggio degli Innovation Manager.

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(di Guido Migliaccio)

Premessa

I delicati momenti di declino e crisi delle aziende vengono spesso gestiti con particolare riferimento alla normativa vigente che, nel lodevole tentativo di salvaguardare gli interessi degli stakeholder probabilmente lesi dalla patologia, spesso trascurano le esigenze gestionali e soprattutto le reali potenzialità di risanamento di un organismo minato.

Sovente i professionisti coinvolti presentano prevalenti competenze giuridiche che ispirano la loro azione, mentre hanno solo soffuse conoscenze rispetto alle concrete necessità di intervenire su scelte strategiche di contenuto invece quasi esclusivamente economico[1].

Si ritiene, perciò, necessario delineare, in sintesi, le caratteristiche economico aziendali dei momenti patologici della vita di un’azienda per sottolineare i possibili orientamenti che dovrebbero guidare il gestore.

La gestione “finale”: alcuni aspetti economici prevalenti

La gestione delle aziende può astrattamente suddividersi in tre momenti: la gestione iniziale, quella corrente e la finale[2].

Pur essendo, infatti, l’azienda un istituto atto a perdurare, ed essendo dunque naturale l’auspicio di una sua continuazione illimitata, cause interne ed esterne possono condurla alla cessazione[3].

La realtà propone gestioni conclusive di aziende produttive o in crisi.

Le prime concludono l’attività solo perché la loro esistenza era già in origine limitata da una data prestabilita o dal compimento di un’opera: si tratta spesso di imprese vincolate a concessioni di soggetti esterni che non consentono poi ulteriori collaborazioni rispetto a quanto stabilito.

Questa ipotesi è comunque piuttosto rare: più frequenti, invece, le situazioni conclusive connesse a crisi pregresse.

Bisogna innanzitutto precisare che deve considerarsi fisiologica la gestione che presenti occasionalmente squilibri non gravi, spesso imputabili a situazioni congiunturali contrarie. È normale, infatti, che nelle aziende si attraversino momenti di riproposizione della combinazione per fronteggiare necessità contingenti. Una contrazione ciclica degli esiti economici, pertanto, non dovrebbe indurre a cessazione definitiva dell’organismo: l’intero sistema economico sociale perderebbe, in tal caso, un’attività produttiva, e quindi subirebbe un ingiustificato depauperamento[4].

Qualora, invece, si fosse in presenza di una crisi grave alla quale si è giunti dopo un periodo più o meno lungo di declino, bisognerebbe comunque tentare un risanamento, qualora l’imprenditore considerasse possibile una ripresa. In tal caso la scelta si fonda prevalentemente sulle previsioni di economicità, anche se spesso influiscono fattori emotivi e pressioni interne ed esterne.

Diverse potrebbero essere le soluzioni, con l’eventuale ausilio di organizzazioni pubbliche preposte alla salvaguardia degli interessi coinvolti. Molto dipende anche dalla disponibilità dell’imprenditore a cedere, magari temporaneamente, la gestione dell’impresa in crisi. Le alternative plausibili spaziano da un risanamento concordato tra i soggetti interessati che si avvalgano di un esperto, a schemi giuridici precostituiti.

Può anche capitare che il timore di un ulteriore peggioramento della situazione induca l’imprenditore a cedere l’azienda ad altri, qualora il mercato ancora valutasse positivamente l’organismo produttivo: in tal modo ha la possibilità di recuperare parte o tutto il capitale.

Si pongono, dunque, ipotesi di fitto a terzi dell’azienda, lo scorporo di settori particolarmente appetibili, oppure una definitiva cessione a terzi disponibili a gestire la ripresa[5]. A tale ultima categoria appartiene anche l’ipotesi di fusione con la quale l’organismo aziendale continua comunque la sua esistenza, pur aggregato a un’altra combinazione[6].

Le situazioni sicuramente più gravi sono quelle difficilmente sanabili, magari già caratterizzate da insolvenza. In tal caso è spesso inutile tentare una prosecuzione senza un difficile radicale ripensamento globale dell’architettura dell’organismo e dei sui rapporti interni ed esterni. Un “accanimento terapeutico” tendente soltanto al mantenimento artificioso di situazioni già compromesse comporterebbe, infatti, un’inutile ed arbitraria “occupazione” di spazi economici che dovrebbero, invece, essere più opportunamente assegnati a iniziative produttive.

Appare dunque necessaria la cessazione assoluta della combinazione produttiva con il suo smembramento. Attraverso la liquidazione volontaria o fallimentare, dunque, si cerca di recuperare il capitale residuo evitando, così un ulteriore pregiudizio degli stakeholder. In tali ipotesi si ritiene che il valore di scambio dei singoli elementi dell’azienda sia superiore al valore di cessione dell’insieme[7]. Si avvia così la fase terminale in cui si verifica la cessazione della combinazione aziendale che perde progressivamente la sua operatività originaria: le procedure liquidatorie sono comunque ispirate da logiche economiche a tal punto che il soggetto economico, pur perdente nella competizione di mercato, conserva comunque spesso la sua qualifica di imprenditore, almeno fino a quando vengono compiuti atti di liquidazione intrinsecamente omogenei a quelli che hanno caratterizzato il normale esercizio dell’impresa.

E, invece, nella fase finale, spesso purtroppo assumono maggior rilievo aspetti giuridici e sociologici rispetto all’ “economia della cessazione[8]” riducendo gli esiti conclusivi, e danneggiando così, inconsciamente, proprio coloro che si vorrebbe tutelare!

È, invece, possibile razionalizzare la liquidazione utilizzando gli stessi strumenti di gestione ordinaria, naturalmente adattati al particolare momento: fissare obiettivi, redigere programmi, comparare costi/opportunità ecc. e più in generale pianificare la liquidazione, affinché gli atti successivi non siano improvvisati e sconnessi.

Bisogna, in conclusione, considerare che l’imprenditore dovrebbe anche avere la capacità di intuire il tempo più opportuno per una sua decisione tra quelle precedentemente ipotizzate. La delibera deve fondarsi su valutazioni oggettive, e deve considerare anche possibili reazioni dei soggetti interessati all’impresa: le dichiarazioni avventate o posticipate danneggiano comunque l’azienda che già attraversa una fase delicata.

Le prime, infatti, potrebbero pregiudicare un possibile percorso di risanamento per l’allarme che suscitano.

Decisioni tardive, invece, sono responsabili di risorse distrutte che potevano invece più produttivamente indirizzarsi ai fattori della produzione.

La tempestività della diagnosi e delle scelte dipendono molto dal sistema informativo amministrativo e dagli strumenti di individuazione di sintomi di squilibrio.

La scelta, inoltre, diventa progressivamente meno libera: man mano che la crisi si evolve, infatti, gli stakeholder potrebbero reagire manifestando le loro preoccupazioni e rendendo impraticabili strategie di risanamento o di cessazione relativa.

Nota conclusiva

Il breve excursus delineato, essenziale per necessità di sintesi, ha avuto il solo scopo di tracciare un parametro di lettura tipicamente economico aziendale del momento conclusivo della vita aziendale, così da poter indirizzare gli operatori verso le esigenze aziendali da considerarsi almeno paritetiche a quelle degli stakeholder potenzialmente lesi.

Strumenti gestori della fase conclusiva sono dunque disponibili e intrisi delle caratteristiche tipiche di un approccio manageriale, pur se limitato nel tempo. Le logiche economiche favorevoli all’istituto in crisi sono anche le migliori tutele per coloro che avanzano legittime pretese nei confronti della gestione pregressa. Esse debbono dunque prevalere sulla mera ratio giuridica che, nei diversi orientamenti nazionali, non sempre considera adeguatamente che l’azienda, pur se dissestata, debba essere “rispettata”. Il comprensibile “risentimento” verso l’istituzione insolvente non deve prevalere rispetto a una visione serena e oggettiva delle sue potenzialità di risanamento o comunque della sua capacità di rilasciare la maggior quantità possibile di risorse proprio a beneficio dei soggetti danneggiati.

 

Bibliografia

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[1] Sottolinea giustamente Pavone P., Necessità di una gestione aziendalistica della crisi: “… la circostanza che ha visto il commercialista vestirsi da fiscalista è uno dei motivi per cui gli studi della crisi d’impresa considerati in un’ottica propriamente aziendalistica e gestionale stentano ad essere concepiti come un filone di ricerca scientifica e applicativa autonoma”.

[2] Queste brevi note elaborano, integrano, aggiornano, concetti già espressi con maggiore ricchezza di dettagli nel volume, Migliaccio G., Squilibri e crisi nelle determinazioni quantitative d’azienda (soprattutto da pag. 46 a pag. 49). Al libro si rinvia anche per una molto più ricca bibliografia di seguito delineata solo in estrema sintesi.

[3] Una durata “eterna” dell’azienda è dunque possibile solo in astratto: “Caduche possono essere (…) anche le aziende degli Stati, ma per presunzione esse sono tuttavia eterne, ed a tale presunta eternità possono improntare i loro atti amministrativi, come l’emissione del debito perpetuo”; Amaduzzi Aldo, L’azienda, pag. 217.

[4] “In ogni caso, una decisione di fase terminale, presa quando l’azienda è ancora economica, costituisce un innegabile danno che, per irradiamento, finisce per colpire tutti gli aventi interesse. Non dimentichiamo, infatti, che l’azienda possiede una riserva di esperienza che viene, almeno in parte, distrutta ogni qual volta la sua entità si disintegra nelle sue componenti”; Caramiello C., Azienda terminale, pag. 19.

[5] La cessione aziendale non è comunque tipica solo dello stato di crisi, essendo altresì possibile per aziende ben avviate.

[6] Sono tutte ipotesi di cessazione relativa perché la combinazione aziendale continua la sua attività, pur modificandosi i soggetti preposti alla sua conduzione. Naturalmente nelle ipotesi di scorporo o di fusione il precedente istituto perde la sua originaria connotazione alla ricerca di nuovi equilibri.

[7] “Non si ha più una azienda, ma nient’altro che un insieme di beni aventi ciascuno un valore indipendente, perché non legato alla attribuzione dei valori data agli altri beni che formavano il complesso. È in questo momento che l’istituto aziendale è terminato e quindi l’impresa cessa di esistere”; Viganò E., Procedure concorsuali, pag. 876. Similmente Potito L., Bilanci straordinari, pag. 147: “Con la liquidazione l’azienda si dissolve. Essa non è più un complesso nel quale i vari elementi sono avvinti da uno stretto coordinamento, cessa di essere un sistema, un insieme di parti vincolate da relazioni di complementarietà e di interdipendenza”. Si veda anche: Paciello A., Potito L., Bilanci straordinari.

[8] Caramiello C., Azienda terminale, pag. 169.

(di Marco Guenzi)

Da un punto di vista economico l’arte contemporanea produce come output un surplus culturale, cioè un valore aggiunto di cui la collettività possa beneficiare. Un importante contributo in tal senso viene dall’estro e dall’ingegno innato degli artisti, che dà loro la motivazione di creare opere innovative e significative per il pubblico. Tuttavia, prescindendo dal fervore artistico che caratterizza un determinato contesto socio-culturale (nelle sue coordinate geografiche e storiche), un elemento fondamentale per lo sviluppo dell’arte risiede nel buon funzionamento del mercato. Un mercato che funzioni nel migliore dei modi è detto appunto efficiente.

Questo e i successivi articoli si prefiggono l’obbiettivo di studiare l’efficienza del mercato dell’arte contemporanea, mettendo in rilievo quale siano i fattori che favoriscono od ostacolano il corretto svolgimento delle sue funzioni.

L’efficienza dei mercati è stata ampiamente studiata in economia, soprattutto in relazione ai mercati finanziari[1]. Un mercato si definisce efficiente quando è in grado di garantire una massimizzazione del surplus totale da questo prodotto (cioè la somma del profitto ottenuto dai produttori e dell’utilità percepita dai consumatori).

L’efficienza allocativa

Il concetto di efficienza fu per primo studiato da Vilfredo Pareto. Secondo Pareto un mercato nel suo complesso si può definire efficiente quando si arriva ad un’allocazione finale delle risorse per cui nessun individuo può migliorare la sua situazione (efficienza paretiana detta anche allocativa). Più in particolare questa condizione viene raggiunta quando utilizzando i fattori produttivi si riesce a raggiungere un livello di output ottimale sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo, con il minor costo possibile (efficienza produttiva), che rispecchi esigenze dei consumatori (efficienza nella composizione del prodotto) e quando le risorse sono allocate in maniera tale che nessun individuo vorrebbe cambiare la sua situazione perché ciò diminuirebbe la sua utilità (efficienza nello scambio)[2].

Applicando il principio dell’efficienza allocativa al settore dell’arte si ottiene una situazione per cui il mercato indirizza le sue risorse verso gli artisti di maggior valore culturale, cioè maggiormente apprezzati dal pubblico (secondo un principio meritocratico), e nello stesso tempo fa sì che non ci siano ulteriori possibilità di scambio sul mercato secondario tra collezionisti, pena il peggioramento della propria situazione in termini di utilità (ovvero comporta che tutti i collezionisti siano soddisfatti degli acquisti effettuati)[3].

L’efficienza allocativa naturalmente è un ottimo teorico, che è ben difficile riscontrare in realtà. In linea di principio è quindi desiderabile per la collettività, ceteris paribus, che i mercati si avvicinino il più possibile a questa condizione[4].

I fattori critici da un punto di vista paretiano

La dottrina economica ha rilevato che sono diversi i fattori (market inefficiencies o anomalies) che ostacolano il reale raggiungimento di una condizione di efficienza paretiana. In particolare si segnalano la presenza di asimmetrie informative, di esternalità, di beni pubblici, di costi di transazione, di imposizione indiretta, e di forme di mercato non concorrenziali (dove gli operatori non sono price-takers). Tutte situazioni in cui si ha una perdita di surplus sul mercato (dead-weight loss). Nel mercato dell’arte ci si trova purtroppo in una situazione dove questi fattori sono fortemente presenti.

Come si avrà modo di vedere più nel dettaglio, il mercato dell’arte è innanzitutto caratterizzato da forti asimmetrie informative, cioè una distribuzione dell’informazione non egualitaria tra gli individui che vi operano. Le asimmetrie informative hanno la conseguenza di creare le premesse perché alcuni operatori del sistema (i più esperti), sfruttando la maggiore conoscenza dei meccanismi che regolano il sistema, mettano in atto comportamenti opportunistici in loro favore e a danno di altri individui (fenomeno denominato dagli economisti moral hazard o azzardo morale), compromettendo l’efficienza nello scambio. Esse inoltre hanno un’influenza negativa sull’efficienza nella composizione del prodotto, perché fanno sì che vengano premiati sul mercato gli artisti con maggiori conoscenze ed entrature, e non quelli con maggiori qualità artistiche che garantirebbero una produzione di maggior livello culturale (adverse selection o selezione avversa).

Un’altra anomalia che ostacola un naturale raggiungimento di un equilibrio efficiente sul mercato dell’arte è la presenza di esternalità positive, cioè di un beneficio per la collettività che è maggiore del suo prezzo di vendita. Le esternalità positive si presentano laddove le opere vengono esposte in musei o in strutture private accessibili al pubblico, in quanto vengono a produrre un valore aggiunto per la collettività di tipo culturale, che ha riflessi sull’industria del turismo e più in generale sull’immagine del paese. Poiché questi benefici non vengono computati nel prezzo scambiato sul mercato, la produzione di opere di qualità, cioè tali da influenzare positivamente l’economia di un paese, risulta essere al di sotto del livello ottimale.

L’arte inoltre risulta essere da un punto di vista economico, sebbene non in senso stretto, un bene pubblico[5]. L’opera d’arte sicuramente presenta la caratteristica della “non rivalità”, in quanto è apprezzabile da più persone contemporaneamente, mentre non risulta essere un bene “non esclusivo”, in quanto può essere posizionata in uno spazio privato non accessibile liberamente al pubblico. Secondo tale combinazione risulta essere secondo gli economisti un “bene di club” (club good)[6].

Il problema di “beni di club” come le opere d’arte è che essi, sebbene abbiano il potenziale teorico di essere esposti e ammirati pubblicamente, talvolta non lo sono. Si pensi infatti alle innumerevoli opere di pregio che fanno parte di collezioni private non aperte al pubblico o che risiedono nelle cantine dei musei. Cosa si direbbe se la cappella Sistina fosse stata costruita all’interno di un palazzo privato dove, per decisione del proprietario fosse impossibile accedervi? Si può quindi concludere che l’art service (cioè l’offerta culturale, che in ultima analisi è ciò che crea esternalità positive e va quindi incentivata) risulta essere deficitaria[7].

Va inoltre notato che non solo l’opera d’arte è in sé un bene pubblico, ma soprattutto lo è l’attività di promozione degli artisti. Infatti tale attività risulta sicuramente essere non esclusiva, in quanto se una galleria (o un museo) promuove un artista ne beneficiano tutti gli altri intermediari che lo rappresentano (nonché i collezionisti che ne detengono le sue opere). L’attività di promozione culturale non presenta neanche la caratteristica della rivalità, a meno che gli artisti firmino contratti di esclusiva con le gallerie. Tutto ciò, come meglio si vedrà parlando dell’attività di selezione e promozione degli artisti, dà origine un fenomeno opportunistico chiamato free-riding, cioè che le gallerie preferiscono non investire nell’attività di promozione di un artista in quanto possono godere dei benefici dell’operato delle altre gallerie che lo rappresentano, determinando un’offerta culturale del settore inferiore ad un livello di ottimo.

Un altro fattore di distorsione del mercato, che ostacola il raggiungimento di un equilibrio pareto-efficiente, è costituito dalla presenza di costi di transazione tra cui l’applicazione di imposte indirette sia sulla produzione che sul consumo. I costi di transazione e le imposte indirette purtroppo suggono l’effetto, incrementando il prezzo del bene, di abbassare il quantitativo del bene acquistato e di ridurre il surplus prodotto sul mercato[8]. Così anche nel mercato dell’arte, dove i costi di transazione sono particolarmente elevati[9] e si registrano in quasi tutti i paesi[10] due tipi di imposizione indiretta, l’imposta sul valore aggiunto e il diritto di seguito (che in realtà più che una tassa è un’applicazione del diritto d’autore), l’acquisto e la vendita di opere d’arte risulta penalizzato.

Struttura del mercato dell’arte contemporanea e discriminazione dei prezzi

Un’ultima, ma non per questo meno importante, causa di inefficienza del mercato dell’arte contemporanea consiste nella struttura poco concorrenziale del mercato. Qualora infatti ci si trovi in regime di monopolio o oligopolio, e non ci sia una discriminazione dei prezzi, cioè quando il prezzo di mercato è unico e uguale per tutti (price-taking), il livello dell’output prodotto risulta essere inferiore all’ottimo paretiano.

In particolare, se si va ad analizzare il sistema dell’arte, si può constatare che questo ha una struttura fortemente gerarchizzata[11]. Ne consegue che il mercato non potrà essere considerato come un tutt’uno, ma andrà studiato nei suoi diversi segmenti, ognuno dei quali è caratterizzato da una diversa struttura concorrenziale.

Rivolgendo l’attenzione alla parte più bassa del mercato, si trovano una pletora di artisti, galleristi e compratori. Inoltre il bene, essendo la notorietà degli artisti minima, non risulta essere fortemente differenziato. La sua struttura è quindi fortemente concorrenziale e l’offerta di opere, ceteris paribus, dovrebbe essere in teoria adeguata ed efficiente.

Andando meglio ad analizzare la questione, è possibile riscontrare in realtà che nel segmento inferiore del mercato, quello degli artisti non rappresentati, la produzione artistica di bassa gamma non risponde a un obiettivo di profitto ma piuttosto a un bisogno di espressione artistica nell’ambito del proprio tempo libero (ed è quindi slegata da logiche di tipo economico): questo fa sì che l’offerta risulti essere di per sé in eccesso rispetto alle richieste del mercato. A ciò bisogna aggiungere che nella fascia più bassa del mercato (cioè quella di opere senza qualità artistiche) la domanda, poiché per molti collezionisti il prezzo delle opere risulta essere da un punto di vista simbolico un segnale della sua qualità[12], diviene più inelastica e addirittura in via teorica potrebbe restringersi, assumendo un’inclinazione positiva[13]. Ne consegue la presenza di un notevole numero di opere vacanti che non trovano padrone. In questa situazione diviene impossibile stabilire un prezzo di equilibrio, con un conseguente fallimento del mercato delle opere d’arte di basso valore[14].

Se al contrario si va ad analizzare la fascia più alta del mercato dell’arte contemporanea vi si trova invece una forte concentrazione, con pochi artisti, poche gallerie e pochi collezionisti. Inoltre il bene risulta essere fortemente differenziato (se non unico), in virtù della fama degli artisti. Il mercato di riferimento assume una forma ibrida tra l’oligopolio e la concorrenza monopolistica, simile per caratteristiche al monopolio. Tenuto conto della struttura del mercato, in prima analisi si potrebbe concludere che l’offerta di opere d’arte d’alta fascia risulti essere al di sotto il livello pareto-efficiente. Tuttavia in realtà non è così poiché le gallerie e le case d’asta operano dei meccanismi di discriminazione dei prezzi, che in alcuni casi possono determinare addirittura un eccesso d’offerta.

La discriminazione dei prezzi infatti ha come effetto un aumento del livello dell’output prodotto in relazione al fatto che l’offerta si appropria del surplus del consumatore. Le gallerie (e in particolare quelle di fascia più alta) attuano strategie di discriminazione di secondo grado, applicando prezzi differenziati a seconda del compratore (più esso è rappresentativo, ad esempio un museo o un importante collezionista, più essi saranno bassi). Le stesse case d’asta (che occupano i massimi livelli nella gerarchia del sistema dell’arte) per la natura stessa del meccanismo dell’incanto operano una discriminazione di primo grado, poiché vendono ciascuna opera al massimo prezzo che la domanda è disposta a pagare[15].

Gli effetti delle strategie commerciali da parte delle gallerie e delle case d’asta tuttavia non si esauriscono qui. Il meccanismo di vendita delle gallerie, oltre ad attuare una discriminazione di secondo grado nei riguardi dei clienti attraverso l’applicazione di sconti personalizzati, riesce, basandosi sulla riservatezza dei prezzi delle opere intermediate, ad attuare nei loro confronti anche una discriminazione dei prezzi di primo grado. Infatti, in assenza di una quotazione ufficiale degli artisti (se si escludono quelli di successo che vendono all’asta), il valore delle opere risulta essere aleatorio e di difficile valutazione per i collezionisti[16]. Il collezionista quindi si trova nella situazione di giudicare un’opera sulla base della sua utilità marginale e non su un prezzo ufficiale di mercato, con la conseguenza (come avviene anche nelle contrattazioni nei suq mediorientali) che se il prezzo di partenza è soddisfacente comprerà il bene, altrimenti se il prezzo offerto è troppo alto cercherà di ottenere uno sconto (sempre che il gallerista decida di concederglielo: lo concederà se il prezzo richiesto dal collezionista è comunque superiore al suo prezzo di riserva). Questo meccanismo di contrattazione (detto haggling o bargaining) ha quindi anch’esso l’effetto di discriminare il prezzo, trasferendo tutto il surplus al venditore e producendo un livello dell’offerta efficiente. Quando tuttavia, come nelle vendite all’asta, la contrattazione non va a buon fine, perché il prezzo di riserva è troppo alto, si ha una dead-weigh loss, cioè una perdita di surplus, causa di inefficienza del mercato.

Anche le vendite all’asta di opere d’arte risultano avere una particolarità che altera i meccanismi di mercato: poiché gli ultimi prezzi battuti all’incanto servono come base di partenza per la definizione delle quotazioni di un artista, allora i collezionisti che detengono molte sue opere (bulk collectionist), avranno la tentazione di intervenire rilanciando in base d’asta per far sì che il prezzo battuto (e il valore del loro portafoglio) risulti il più alto possibile. L’utilità marginale di questi collezionisti dunque non è legata al valore della singola opera, ma dell’intero portafoglio detenuto. Ne consegue il rischio che, quando dei bulk collectionist partecipano (più o meno direttamente) all’asta, i prezzi battuti siano più alti del livello di equilibrio del mercato. Questa situazione artificiosa ha l’effetto di creare bolle speculative, fomentate dalla crescente domanda di quei collezionisti che vedono nel prezzo dell’opera un indicatore di qualità. L’effetto finale sarà quello del riversamento attraverso il circuito dei mercanti di una grande quantità di opere dell’artista vendute confidenzialmente a prezzi inferiori a quelli ufficiali (dumping), con la conseguenza che l’offerta divenga maggiore del livello di ottimo paretiano. Tenuto conto poi che le i mercanti sono restii ad abbassare le quotazioni ufficiali degli artisti, poiché ciò minerebbe la fiducia dei loro clienti (piuttosto concedono sconti in modo da camuffare la discesa dei prezzi), ad un aumento dell’offerta consegue un aumento del numero di opere invendute (tasso di vacanza). Il prezzo di riferimento che viene a crearsi sul mercato si scosta quindi da quello di equilibrio con il rischio, se non si trovano continuamente nuovi compratori (come sta succedendo ora nei mercati emergenti), che il mercato ad un certo punto collassi.

Conclusioni alla prima parte

In questo articolo si sono analizzati i fattori che rendono il mercato dell’arte inefficiente da un punto di vista paretiano. L’efficienza allocativa si è visto essere raggiunta negli aspetti della produzione, della composizione del prodotto e dello scambio.

Dal punto di vista dell’efficienza produttiva il discorso assume un valore marginale poiché il valore delle opere è in genere svincolato dai costi di produzione.

Dal punto di vista della composizione del prodotto l’efficienza invece si riferisce sia alla produzione artistica vera e propria (art stock), sia alla creazione di servizi espositivi che trovino consenso presso un pubblico (art service).

Per quanto riguarda l’art stock si è visto che dal punto di vista quantitativo la produzione risulta essere eccedente il livello di ottimo sia nei segmenti più bassi del mercato, dove la produzione è slegata da un’aspettativa di ritorno economico, sia in quelli più alti, in relazione alle politiche di discriminazione dei prezzi di gallerie, mercanti e case d’asta, che creano bolle speculative attraverso cui fare un dumping di opere sul mercato. Questa tendenza ad un eccesso di offerta è controbilanciata tuttavia dagli effetti degli alti costi di transazione in generale e in particolare dell’imposta sul valore aggiunto e del diritto di seguito. Il problema invece che si pone è invece dal punto di vista qualitativo, poiché l’art stock risulta essere di valore scadente sia a causa del meccanismo di selezione avversa che premia gli artisti che posseggono maggiori entrature nel sistema (piuttosto che remunerare il talento artistico), sia in ragione della presenza di esternalità positive che non remunerano complessivamente l’artista per il valore culturale prodotto.

La produzione di art service, cioè l’offerta d’arte in termini culturali, risulta invece deficitaria sia in termini quantitativi che qualitativi, in relazione al fatto che l’arte, essendo un bene di club il cui consumo è escludibile, è spesso appannaggio del collezionista privato che non espone pubblicamente l’opera, e nello stesso tempo l’attività di promozione culturale da parte delle gallerie, in quanto soggetta a comportamenti di free-riding, risulta carente.

Infine i meccanismi di scambio sul mercato dell’arte risultano anch’essi inefficienti, con la conseguenza che le opere non finiscono quasi mai nelle mani delle persone disposte a pagarle al prezzo più alto. Ciò avviene in relazione a una distribuzione insufficiente e asimmetrica dell’informazione sul mercato che ostacola il reperimento delle opere da parte dei collezionisti e dà adito a comportamenti opportunistici da parte di alcuni operatori in grado di distorcere i meccanismi allocativi sul mercato.

Se finora si sono analizzati i diversi fattori di inefficienza del mercato, sarà interessante analizzare quali sono invece i presupposti perché un mercato funzioni bene. Diversi studi hanno messo in rilevo come l’efficienza paretiana venga a dipendere più in specifico da altri tipi di efficienza: da un’efficienza operativa (cioè che il mercato abbia un’organizzazione tale da svolgere correttamente le sue funzioni) e da un’efficienza valutativa (cioè la capacità del prezzo di riflettere il vero valore dell’opera d’arte), che a sua volta come presupposto un’efficienza di tipo informativo (cioè che il prezzo di un’opera rifletta tutta l’informazione disponibile sul mercato).

Inoltre dall’analisi svolta è apparso evidente che gran parte del surplus del sistema dell’arte diviene appannaggio degli intermediari. Si apre quindi un’altra problematica, quella dell’equità del sistema dell’arte. Sarà interessante vedere che, se il surplus è considerato come misura del benessere, allora il raggiungimento in sé dell’efficienza può essere in contrasto con l’obiettivo di un’equa distribuzione del valore aggiunto tra i diversi operatori sul mercato, e che quindi in alcune circostanze risulti opportuno fare scelte di second-best. Di questi ed altri aspetti ci si occuperà a partire dal prossimo numero.

[1] Fama E. (1970), “Efficient Capital Markets: A Review of Theory and Empirical Work”, in Journal of Finance, Vol. 25, No. 2, pp. 383-417, Fama, E. F. (1991), “Efficient Capital market: II”, in Journal of Finance, Vol. 46, No. 5 , pp. 1575-1617; Grossman, S. J., Stiglitz, J. E. (1980), “On the Impossibility of Informationally Efficient Markets”, in American Economic Review, Jun 1980, Vol. 70 No. 3, pp. 393-408; Grossman, S. J. (1976), “On the Efficiency of Competitive Stock Markets Where Traders Have Diverse Information”, in Journal of Finance, Vol. 31, pp.573-85.

[2] Secondo la teoria microeconomica l’efficienza produttiva richiede come presupposto che il saggio marginale di sostituzione tecnica dei diversi produttori coincida. L’efficienza nello scambio che il saggio marginale di sostituzione dei diversi consumatori sia uguale. L’efficienza nella composizione del prodotto invece prevede un’uguaglianza tra il saggi marginali di sostituzione tecnica dei i produttori e di sostituzione dei i consumatori.

[3] L’obiettivo di efficienza produttiva risulta essere invece trascurabile nel caso della produzione artistica, in quanto il valore dell’opera rispecchia solo minimamente il costo marginale di produzione.

[4] Tuttavia è necessario non trascurare un altrettanto importante obbiettivo: quello di una equa distribuzione del surplus, in cui gli attori del sistema abbiano tutti un adeguato incentivo economico a svolgere, traendone benessere, la propria attività.

[5] La microeconomia definisce i beni pubblici come quei beni caratterizzati da “non esclusività” e “non rivalità”. La “non esclusività” consiste nell’impossibilità di impedire ai consumatori di godere i benefici nell’utilizzo di un bene. La “non rivalità” invece è una caratteristica del bene che consta nel fatto che questo possa essere consumato da più individui contemporaneamente, senza essere di ostacolo l’uno con l’altro. Un bel paesaggio ad esempio è un bene pubblico in quanto né esclusivo, né rivale.

[6] Altri esempi di “beni di club” sono il cinema, i parcheggi privati e la televisione via satellite

[7] Di fronte a questo problema esistono tuttavia delle possibili vie di uscita, che verranno trattate quando si parlerà di politiche economiche in ambito artistico.

[8] La ripartizione del peso delle imposte (meglio detta incidenza) sull’offerta (cioè a erosione del reddito percepito dagli artisti e/o dagli intermediari) e sulla domanda (cioè a gravare sulle tasche dei collezionisti) viene a dipendere, come meglio si vedrà, dall’elasticità della domanda e dell’offerta.

[9] Cfr. Guenzi M. (2014), “Costi di transazione e efficienza del mercato dell’arte contemporanea”, in Economia e Diritto, n.2.

[10] A riguardo è interessante notare che, in seguito alla difformità delle aliquote adottate nei diversi paesi, vengono a crearsi delle distorsioni sul mercato internazionale dell’arte, rendendo determinati ambiti istituzionali più vantaggiosi per la contrattazione piuttosto che altri. Per un’overview sulla tassazione nei diversi ambiti istituzionali cfr. Pirrelli M., Barrilà S. (2011), “Dove conviene comprare? Confronto del tax rate in 20 paesi del mondo”, in ArtEconomy24, Plus24, supplemento de “Il Sole 24Ore” del 29 gennaio 2011.

[11] Guenzi M. (2014), “Il sistema dell’arte” (parti 1-4), in Economia e Diritto, Nn. 3-6.

[12] Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.

[13] Stiglitz J. (1987), “The causes and consequences of the dependence of quality on price”, in Journal of Economic Literature, Vol. 25, No. 1 , pp. 1-48.

[14] In realtà per le opere d’arte di qualità escluse dal circuito commerciale si crea comunque la possibilità di trovare uno sbocco sul mercato attraverso l’utilizzo del canale Internet, secondo un fenomeno denominato the long tail, che ne consente una vetrina. Per le altre opere viene comunque a determinarsi un mercato alternativo, che, mancando dei connotati culturali, non si può più definire di opere d’arte, ma piuttosto di “manufatti” di arredamento.

[15] E’ bene specificare: sempre che l’ultima offerta sia superiore al prezzo di riserva. Il prezzo di riserva è quel prezzo al di sotto del quale il venditore non è disposto a scendere anche a costo di non fare concludere la contrattazione.

[16] La determinazione del valore di un artista invece per le gallerie, come meglio si vedrà, segue degli script, ovvero delle regole tacite che ne giustificano le quotazioni.

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