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macroeconomia

(di Pietro Pavone)

L’eterna lotta tra capitale e lavoro si combatte oggi su scala internazionale.

L’indiscussa globalizzazione dei mercati e la connessa libertà di movimento dei capitali hanno reso estremamente agevole trasferire ricchezza e spostare profitti, alla continua ricerca di maggiori margini o minori carichi fiscali.

Se sul versante della libera circolazione delle persone, che pure i processi di globalizzazione hanno significato, si è intervenuti a chiari intenti limitativi (arrivando perfino a concepire il reato di immigrazione clandestina), non altrettanto si è fatto quanto a limitazioni della libera circolazione dei capitali (come persuasi dalle parole magiche “concorrenza” e “competitività”).

La decisione di lasciare i detentori di capitali liberi di fuggire verso mete più felici vuol dire aver accettato il rischio – elevatissimo – di localizzazione delle ricchezze in paradisi fiscali; vuol dire aver rinunciato ad un attento monitoraggio preventivo privilegiando una difficile lotta all’evasione ex post.

Il dramma che si sta consumando è che quella eterna lotta tra capitale e lavoro, combattuta sul campo del “libero mercato”, sia sempre più per i lavoratori una guerra persa in partenza.

E’ il lavoro che inevitabilmente ne fa le spese perché concetto, per definizione, più facile da afferrare se contrapposto al capitale, sfuggente o forse irraggiungibile.

E’ sempre il lavoro a pagare il prezzo dell’incapacità di concepire una riforma strutturale del nostro sistema fiscale, accollandosi il peso di essere tassato in maniera sempre crescente per poter compensare la mancata tassazione del capitale “latitante” in qualche paradiso fiscale.

Come se non bastasse, di nuovo l’incontrollata libertà di movimento del capitale colpisce ancora il lavoro abbattendo la forza rivendicativa e sindacale di quegli ultimi scampoli di movimento operaio che ancora cercano di resistere nel nostro paese.

Sulla scorta di tale necessaria premessa, consapevoli del fatto che quello dell’evasione è problema prima di tutto politico che presuppone scelte in campo macroeconomico e considerazioni di ordine ideologico, è indubbia l’importanza delle indicazioni criminologiche e investigative per meglio comprendere questa particolare forma di devianza.

L’evoluzione dei sistemi economici e il mutamento della fisionomia dei mercati hanno, di fatto, avviato processi di ampliamento delle opportunità criminali.

Tuttavia, la globalizzazione del crimine, che ha dipinto di transnazionalità il fenomeno dell’erosione della base imponibile, non trova le premesse unicamente nell’ambiente esterno all’impresa.

E’ evidente che “gli uomini non sono creature passive alla mercé degli stimoli esterni; in gran parte essi creano il mondo nel quale vivono e agiscono”.[1]

Spesso se ne ha evidenza nella primissima fase di “contatto” del Fisco con il soggetto selezionato per il controllo fiscale: i primi sintomi di evasione è esperienza che possano registrarsi già in sede di accesso dei verificatori in azienda: le ricerche documentali eseguite consentono talora di acquisire pareri forniti da primari studi legali, dai quali emerge chiaramente la preoccupazione del management di fare il possibile per comprovare artificiosamente l’esistenza di motivi non fiscali alla base di una data scelta gestionale.

Insomma, una prima perversione morale dai risvolti fiscali certamente più facile da criminalizzare che da “smontare”: nel manifestarsi del fatto evasivo si rinviene un ruolo attivo o – meglio – riflessivo del soggetto agente: è l’uomo che costruisce attivamente il proprio agire evasivo.

E’ una tendenza che spesso guida le scelte fiscali di una società e che, se intercettata, può minare seriamente il cammino, apparentemente indisturbato, del fatto evasivo che avanza silenzioso.

A ben vedere, il percorso attraverso cui internazionalizzazione delle organizzazioni, pianificazione fiscale e criminalità si influenzano reciprocamente è l’espressione di un tratto congenito di ogni società: il profilo transnazionale delle realtà giuridico-economiche pone il quesito “pianificazione”, che – a sua volta – ben si presta a fare da spalla a comportamenti devianti. E’ fisiologico che imprese con funzioni localizzate in più stati cerchino di valorizzare quelle situate dove la fiscalità è più favorevole, speculando sull’arbitraggio fiscale.

Pertanto, più le realtà aziendali proiettano il proprio business a di là dei confini nazionali più aumenta il rischio che emerga la dicotomia tra tassazione territoriale e tassazione mondiale del reddito.

Viene, così, al pettine un primo nodo fondamentale: i comportamenti del contribuente e quelli del Fisco sono due facce della stessa medaglia: se per il primo la priorità è quella di individuare e minimizzare i rischi fiscali, per il secondo la priorità è quella di ricercare e massimizzare/valorizzare gli indizi di evasione: ciò che è curioso è che gli indizi – spesso– coincidono con i rischi.

Restando nel solco delle teorie che guardano al comportamento deviante quale esito di una scelta razionale, è evidente che un’impresa può evadere pur senza mutare le sue caratteristiche strutturali ma per il solo fatto di avviare rapporti con l’estero. Rapporti sopravvenuti – dunque – che rendono inadatta, dal punto di vista squisitamente fiscale, una configurazione strutturale in precedenza adeguata.

Nella partita che si gioca tra Amministrazione Finanziaria e contribuente, l’imperativo comune ad entrambi è diventato quello di anticipare la diagnosi di pericolosità fiscale.

L’anticipazione del rischio fiscale caratterizza tanto i principi organizzativi delle società tanto le regole d’azione del Fisco.

L’Amministrazione Finanziaria, in effetti, necessita di compiere continuamente un’analisi comportamentale dei soggetti presenti sulla scena economica al fine di ravvisare una trama che saldi taluni fatti evasivi (o potenzialmente tali) così da evidenziare modelli devianti verso cui tendere con azioni mirate: modelli di spiegazione del crimine tributario capaci di indagare la genesi del fatto evasivo.

In quest’ottica, i sistemi di frode fiscale entrano nel laboratorio del Fisco per l’osservazione al microscopio, allo scopo di affinare l’azione accertativa in un divenire sempre perfezionabile.

Tra le maglie di queste dinamiche, anche il contribuente – lo si è detto – è chiamato ad uno sforzo di analisi preventiva.

Lungi dal prefigurarsi di raggiungere uno stato di immunizzazione da qualsivoglia rischio fiscale, il contribuente opera per ridurlo ai minimi termini.

In questo senso, la prima attività di mappatura dei rischi di carattere fiscale comprende una presa di coscienza circa le aree di vulnerabilità fiscale presenti e potenziali (cioè conseguenti a determinate scelte organizzative, o a eventuali mutamenti nella legislazione tributaria o, ancora – più semplicemente – a cambiamenti degli indirizzi strategici del Fisco).

In questa delicata attività di analisi, è bene che si vada oltre il concetto di evasione come categoria generale onnicomprensiva, essendo certamente più agevole ed efficace un’analisi per aree di fiscalità internazionale.

Ciò che si intende è che la residenza fiscale, ad esempio, gioca si un ruolo di assoluta importanza nell’agire dei soggetti economici rappresentando il fondamento principale della pretesa impositiva, ma non è il solo punto chiave: esiste una evasione da stabile organizzazione, una da transfer pricing, al di là della classica evasione fiscale da paradiso fiscale, tutti concetti che implicano considerazioni ulteriori.

Peraltro, la fiscalità d’impresa, essendo anche e in parte il frutto di un’attività di interpretazione delle norme, sfugge ad un pieno governo da parte dell’impresa. Al contribuente è, di fatto, richiesto di destreggiarsi tra norme , prassi e giurisprudenza con esiti comunque incerti.

Si è visto che potenziamento delle tecniche di accertamento e rafforzamento della prevenzione e della compliance culture partono da un punto comune: l’analisi della variabile fiscale che, a differenza del passato, non è più assorbita dal modello di gestione ma è portatrice di una forza dirompente capace di modificare il modello di business. La variabile fiscale crea le decisioni aziendali; non le subisce passivamente.

Date queste considerazioni, si ritiene di dover collocare la questione dell’evasione sotto l’osservazione di nuove lenti.

A ben vedere ci si è timidamente occupati dell’evasione fiscale degli individui, cercando spiegazioni di carattere utilitaristico, sociologico e psicologico, mentre rimangono molte le lacune per quanto riguarda l’analisi del settore delle imprese. Pur essendo due facce della stessa medaglia, infatti, i due fenomeni si configurano e si sviluppano in modo diverso, ed altrettanto differenti sono, per questo, i metodi di analisi”.[2]

I tempi sono quelli di uno sforzo in termini di ricerca criminologico – tributaria.

Ce lo chiedono i lavoratori.

Note

[1] T. SHIBUTANI, Society and Personality, An Interactionist Approach to Social Psychology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1961, p. 65.

[2] L. BARILE, L’evasione fiscale delle imprese: i recenti contributi della Teoria dei contratti; in Studi e Note di Economia N. 3/2005.

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