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(di Andrea Grassi)

Il fenomeno della crisi d’impresa si presenta ampio e di non facile delimitazione.

Ogni crisi, infatti, è unica nelle sue manifestazioni e nel suo intreccio di concause e fattori scatenanti, in modo da non rendere agevole né una sua definizione univoca, né un approccio universalmente condiviso allo studio della stessa.

A partire dagli anni settanta, si è assistito all’intensificarsi dell’attenzione, nei confronti della tematica in esame.

Tale interesse trova fondamento nella constatazione della ciclicità fisiologica delle congiunture negative e nell’assunto che nemmeno un’espansione economica sostenuta e generalizzata può proteggere le imprese dai rischi cui risultano esposte.

Nell’attuale contesto economico caratterizzato da un elevato grado di variabilità, la crisi colpisce moltissime aziende: nessun complesso produttivo è immune alla patologia aziendale o alla minaccia che si manifesti.

Dall’analisi degli ultimi anni pervenuti sull’andamento dei fallimenti in Italia emergono dati allarmanti. Basti pensare che negli ultimi cinque anni sono scomparse circa 68 mila imprese: un’ecatombe silenziosa che riguarda tutti i settori. I più colpiti sono quello dell’edilizia, seguito dal commercio e dalle telecomunicazioni. Il maggior numero dei fallimenti è avvenuto in Lombardia, Lazio e Campania.

Il travagliato processo di riforma della legge fallimentare, prende le mosse dall’intento del legislatore di favorire la tempestiva emersione dei segnali di crisi dell’impresa, offrendo strumenti legislativi al debitore, al confine tra la regolazione stragiudiziale e giudiziale, finalizzata a favorire il recupero delle necessarie condizioni di redditività in un clima di condivisione con i principali stakeholders aziendali.

Lo spostamento del baricentro delle misure legislative da forme più o meno rigorose di liquidazione concorsuale verso soluzioni preventive della crisi d’impresa hanno il chiaro obiettivo di favorire un incremento delle probabilità di recupero per i creditori, di ridurre i tempi di soluzione della crisi e di minimizzare il danno sociale prodotto dal default.

Data la gravità, la frequenza e la crescente complessità delle situazioni di anti-funzionalità nelle quali le aziende possono imbattersi, e considerando gli effetti che la crisi produce nei confronti di tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nella vicenda aziendale, diviene assolutamente necessario porre in essere dei meccanismi di gestione capaci di prevenirla e adatti a fronteggiarla.

Diviene un’esigenza imprescindibile l’esistenza di una cultura della crisi all’interno dell’organizzazione, la quale si concretizzerà, in primo luogo, nei comportamenti e nei valori dell’alta direzione ed, in secondo luogo, nella predisposizione di adeguati meccanismi e procedure di controllo che siano capaci di rilevare, con congruo anticipo, i segnali di una crisi imminente.

Il fattore tempo gioca un ruolo fondamentale nel procedimento di diagnosi e accertamento dello stato di anti-funzionalità: più si è tempestivi nell’individuazione dei sintomi e dei segnali della patologia, più sarà agevole porre in essere azioni correttive volte a ripristinare l’equilibrio economico – finanziario che il processo dinamico della crisi ha deteriorato.

L’emersione tempestiva di una situazione critica è un elemento di rilevanza centrale, sia per i soggetti interni all’impresa sia per i soggetti che, dall’esterno dell’organizzazione, hanno interesse nel valutare le performance e le prospettive di sviluppo dell’impresa (si pensi ad esempio, agli enti finanziatori, i quali hanno la necessità di valutare il merito creditizio dell’impresa).

Compito dell’analista, interno o esterno che sia, è, allora, monitorare costantemente lo stato di salute del complesso produttivo, nonché riconoscere ed interpretare le anomalie e i sintomi che palesano l’esistenza del malessere aziendale.

Per far ciò, questi può avvalersi dell’utilizzo di strumenti e metodologie che siano capaci di far emergere i segnali tipici di una situazione di squilibrio in modo rapido, oggettivo, attendibile ed efficiente.

E’ proprio in questo ambito, quindi, che viene valutata la possibilità di utilizzare strumenti di analisi di bilancio e i conseguenti modelli statistici di previsione delle crisi aziendali, come strumenti di supporto atti a prevenire l’insorgere della patologia, la sua diffusione e le gravi conseguenze che ne derivano.

Un lampante esempio è dettato dal Prof. Edward I. Altman dove ancora oggi il suo modello (Z-Score) riveste un ruolo importante per gli analisti di tutto il mondo nel loro quotidiano lavoro di valutazione delle società.

Sono ormai passati più di trenta anni da quando il Prof. Edward I. Altman pubblicò la sua prima versione del modello di analisi del rischio di fallimento per le imprese.

Anche se da tale data il modello di analisi è stato più volte aggiornato, la sua versione originale riveste ancora oggi un ruolo importante per gli analisti di tutto il mondo nel loro quotidiano lavoro di valutazione delle società.

Il motivo di tale successo risiede nella facilità di comprensione ed utilizzo del modello per qualsiasi soggetto, anche se non in possesso di specifiche conoscenze sull’analisi del rischio di insolvenza delle società.

Infatti tale analisi viene effettuata sul bilancio di esercizio e richiede un semplice calcolo matematico.

I risultati forniti dall’applicazione dello Z – Score si sono dimostrati molto accurati negli anni passati, ed hanno permesso, con un elevato grado di affidabilità (è stato testato da Eidleman che l’affidabilità dello Z – Score di Altman sia elevato: intorno al 70% – 80%) di determinare la possibilità di fallimento di molte società.

Il sottoscritto si riserva di presentare nel prossimo numero un articolo/approfondimento sul modello e i relativi calcoli da effettuare per l’applicazione dello Z – Score di Altman.

Concludo regalando a tutti Voi una massima di Albert Einstein: “…chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, dà più valore ai problemi che alle soluzioni…”. Non a caso l’etimologia della parola greca chrisis indica scelta, decisione ma anche lotta, contesa ovvero il giusto approccio per affrontare e sconfiggere la crisi è vederla come una opportunità di riflessione e di cambiamento al fine di portare miglioramenti all’interno della gestione aziendale.

(di Alessio Abbate)

La definizione del pricing per il retailer è un aspetto cruciale, in quanto incide sia sui margini del distributore sia sulla percezione di convenienza da parte del cliente del sistema d’offerta dell’insegna.

Il processo di definizione del prezzo per ciascuna categoria consiste nei seguenti passaggi:

a)      definizione dei competitor da monitorare;

b)      definizione dei criteri per la costruzione del paniere di referenze da rilevare;

c)      organizzazione delle attività di rilevazione;

d)     decisione commerciale sull’adeguamento prezzi.

a. Definizione dei competitor da monitorare

Un retailer con una rete molto estesa e un elevato numero di competitor non ha la necessità di confrontarsi con tutte le insegne della concorrenza per adeguare i propri prezzi. Occorre invece mappare i competitor più aggressivi, sulla base del numero dei punti vendita ‘minacciati’ e del valore del fatturato a rischio.

b. Definizione dei criteri per la costruzione del paniere di referenze da rilevare 

Occorre per prima cosa definire i ruoli delle categorie in termini di pricing. A tal fine è necessario valutare il comportamento d’acquisto dei clienti (sensibilità nei confronti del prezzo, della qualità-marca o del rapporto qualità/prezzo) e il grado di maturità del settore (es., livello di presenza di innovazioni di prodotto).

Quante referenze includere nel paniere oggetto di rilevazione? Il numero totale di referenze da includere nel paniere dipende dal settore-canale di riferimento ed è funzione della strategia aziendale. Il numero può essere tuttavia stabilito secondo un processo bottom-up, a partire dal numero di referenze che generano l’80% del fatturato: la ripartizione per ciascun settore/reparto/categoria/famiglia deve essere guidata dall’incidenza di vendita della categoria nel periodo. Per il reparto dalla sua incidenza nel settore, e così via.

Ogni quanto tempo occorre ricostituire il paniere? La scelta del tasso di rotazione del paniere dipende dalle stagionalità delle categorie incluse: nell’ortofrutta, ad esempio, in media per due mesi costituiscono un buon periodo per la revisione del paniere. La frequenza di rilevazione, generalmente mensile, è funzione dei tempi di reazione/adeguamento listini al pubblico dei competitor (es., nell’ortofrutta normalmente la frequenza di rilevazione è settimanale).

Quali referenze includere nel paniere? La regola ‘base’ delle referenze che definiscono l’80% delle vendite, può costituire un ottimo punto di partenza. I clienti, infatti, non ricordano i prezzi di tutti i prodotti che acquistano, ma ricordano di più i prezzi dei prodotti che acquistano spesso. Maggiore rotazione per il retailer potrebbe tuttavia significare un elevato livello di penetrazione della referenza nel mercato, non necessariamente un elevato livello di frequenza di acquisto. Per questo motivo, occorre integrare l’analisi dell’incidenza sulle vendite con i dati di CRM-fidelity. Oltre alle referenze risultanti dalle analisi quantitative, è opportuno includere anche le aperture di scala e i prodotti a marchio.

c. Organizzazione delle attività di rilevazione

Per i freschissimi (ortofrutta, carni, pescheria, salumeria-gastronomia), la rilevazione è generalmente svolta dai capi reparto, coordinati dallo Specialista Merceologico/ispettore o dal buyer. Si tratta infatti di un settore i cui prodotti non sono facilmente confrontabili e occorre considerare assieme al prezzo gli aspetti qualitativi legati alla morfologia dei prodotti (es., calibro, pezzatura, taglio anatomico, ecc.) Per gli altri settori, di norma, la fase operativa della rilevazione è affidata ad agenzie esterne.

d. Decisione commerciale sull’adeguamento prezzi

Sulla base dell’output delle rilevazioni, il category manager definisce la politica di pricing in base alla scala prezzi della categoria, per poi negoziare il prezzo d’acquisto dei singoli prodotti con il fornitore in funzione del margine obiettivo. Le decisioni alternative inerenti il prezzo sono tre, come mostrato in seguito:

1)  politica aggressiva verso il competitor più forte: la scelta è vincente in caso di possibilità di applicare una strategia di leadership di costo, altrimenti conduce soltanto ad una guerra di prezzi;

2)  politica di allineamento verso il competitor più forte (o verso il prezzo medio su piazza);

3) politica non aggressiva (prezzo superiore alla media dei competitor per recuperare margine): la scelta è vincente in caso di possibilità di applicare una strategia di differenziazione (fornendo ad esempio maggior servizio in termini di pulizia, ordine, personale, freschezza, ecc.), altrimenti il cliente può giudicare il retailer fuori mercato e preferire la concorrenza.

Il prezzo delle referenze va impostato per ogni linea prezzo, avendo cura di far coincidere il numero di linee prezzo con il numero di cluster promozionali.

 

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