Lo sviluppo del “Terzo settore” come opportunità di creare occupazione
Premessa
Le Istituzioni Europee, in vari documenti, indicano lo sviluppo dell’economia sociale come un settore capace di creare nuova occupazione.
Al fine di verificare se sussistono le condizioni per il raggiungimento di questo obiettivo, si è innanzitutto accertato l’inquadramento che gli Enti del Terzo settore e le Imprese sociali hanno nell’ordinamento giuridico italiano; quindi, si sono passate in rassegna le norme che “riservano” a questi Enti la produzione, a favore delle Pubbliche Amministrazioni, di beni e servizi.
Si sono quindi presi in considerazione i dati forniti dall’Istat sull’osservazione delle Imprese non profit, rilevando che essi evidenziano una crescita del numero di Enti negli ultimi 8 anni ma con un aumento dell’occupazione (dipendenti) in misura non significativa, che non sembrano confermare l’ottimismo delle Istituzioni Europee.
Esistono peraltro le premesse perché attraverso questi Enti si possano rimettere in circolazione, e in questo senso “occupare”, un numero molto rilevante di persone forzatamente inattive, ma verso le quali lo Stato interviene per assicurare i mezzi per una vita dignitosa. Il coinvolgimento di queste persone in servizi a favore della collettività o di singoli cui né lo Stato né tantomeno il settore privato riescono a dare risposte, può rappresentare una occupazione capace di ridare dignità di lavoro agli interessati e aumentare il benessere delle comunità di afferenza.
Lo sviluppo dell’economia sociale come obiettivo economico europeo
Nei documenti dell’U.E. si fa spesso riferimento alla “economia sociale”, indicandola ai Paesi Membri come un obiettivo da perseguire e sostenere.
In tal senso, nella decisione del Consiglio di Europa, del 13.10.2020, n. 2020/1512, “relativa agli orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione”, nell’Allegato, Orientamento 5, si dice che “Gli Stati membri dovrebbero promuovere attivamente un’economia sociale di mercato sostenibile…promuovere l’innovazione sociale e le imprese sociali nonché incoraggiare tali forme innovative di lavoro, creando opportunità di lavoro di qualità e generando benefici sociali a livello locale”.
Dalla pagina del Comitato Economico e sociale Europeo (C.E.S. istituito dai Trattati di Roma del 1957), categoria Economia sociale, troviamo la seguente definizione: “Il termine “economia sociale” copre un’ampia gamma di concetti utilizzati nei diversi Stati membri, quali “economia solidale” e “terzo settore”… le imprese dell’economia sociale sono accomunate dal fatto che non perseguono uno scopo di lucro e che reinvestono i profitti nell’impresa e nella società. Pertanto, l’economia sociale è una tipologia diversa di attività economica, che associa costantemente l’interesse generale, i risultati economici, le considerazioni sociali e il funzionamento democratico…l’economia sociale è un elemento chiave del modello socioeconomico europeo.”
Terzo settore ed economia solidale
Guardando alla realtà italiana, essa è caratterizzata dalla presenza di un insieme di Cooperative, Associazioni, Fondazioni ecc., che operano per il conseguimento di obiettivi sociali e non per profitto, che ove prodotto non viene ripartito tra i soci, i fondatori ecc. ma reinvestito nella stessa attività; quindi si tratta di entità che non si identificano né con l’impresa privata finalizzata al profitto, né con l’intervento pubblico nell’economia, e costituiscono quello che viene identificato, anche normativamente, come Terzo settore.
Nel Terzo settore confluiscono quindi tutte quelle organizzazioni che nascono dalla società per dare risposte a bisogni di singoli componenti della stessa (salute, assistenza alla persona, aiuto economico ecc. ) o di interesse collettivo (es. protezione del territorio, cura dell’ambiente e del patrimonio culturale), perché lo Stato non interviene o non è più in grado di intervenire, o non interviene con l’efficacia che è richiesta per il soddisfacimento del bisogno, e, dall’altra parte, che per il libero mercato non sono appetibili in quanto non sufficientemente remunerativi.
Esso è sorretto dal senso di responsabilità dei cittadini che vi si applicano e che si organizzano allo scopo di offrire queste soluzioni.
Il quadro normativo nazionale conosce anche il concetto di economia solidale, laddove, sempre nell’ambito della normativa sul terzo settore, troviamo la definizione di commercio equo-solidale, da intendersi quale rapporto commerciale con produttori operanti in un’area economica svantaggiata, situata di norma in un paese in via di sviluppo, sulla base di un accordo di lunga durata, finalizzato a promuovere l’accesso del produttore al mercato, che prevede il pagamento di un prezzo equo, misure di sviluppo in favore del produttore, l’obbligo del produttore di garantire condizioni di lavoro sicure in modo da permettere ai lavoratori di condurre un’esistenza libera e dignitosa, rispettare i diritti sindacali, contrastare il lavoro infantile.
Espansione del terzo settore nella gestione del welfare
Auspicare l’espansione del Terzo settore, quindi, vuol dire aumentare la responsabilizzazione di coloro che possono aiutare gli altri: questo non vuol dire sostituire altri soggetti allo Stato, nel dare risposte ai bisogni dei cittadini di cui esso dovrebbe farsi carico?
In secondo luogo, come può detta espansione rappresentare un volano di crescita per l’occupazione laddove, per quanto detto sopra, si opera nel campo della solidarietà e quindi della volontarietà e ancora della naturale temporaneità della stessa?
I fautori dello sviluppo del Terzo settore dicono che esso non deve sostituire lo Stato ma mobilitare le energie disponibili inutilizzate della società stessa attraverso le quali dare risposte più efficaci, perché più prossime a chi ha il bisogno, sia in termini fisici, di collegamento con il territorio in cui operano le varie entità, sia in termini di specificità della risposta che viene attuata.
Quindi, in particolare attraverso quegli enti del terzo settore rappresentati dalle Imprese sociali, possono essere offerti beni e servizi a prezzi più convenienti, o in quantità o qualità maggiori, non solo rispetto al mercato ma anche rispetto alle risorse che lo Stato può destinare a determinate spese.
Questo risultato è reso possibile dall’elemento che caratterizza il Terzo settore e l’Impresa sociale, che, come detto sopra, è rappresentato dalla disponibilità di risorse che arrivano ad essa proprio per il carattere sociale della sua attività, da componenti della comunità sociale che ne condividono gli scopi e gli obiettivi che si propone, e per questo offrono la loro opera gratuita (volontari), fanno donazioni (denaro oppure attrezzature), mettono a disposizione immobili ecc.
Questa caratteristica peculiare dell’Impresa sociale, consente ad essa di raggiungere domande di beni e servizi che le offerte del mercato non sono in grado di soddisfare e che quindi resterebbero senza risposta o con risposte insoddisfacenti per qualità e/o quantità.
L’Impresa sociale, a differenza di quelle profit, può contare su queste risorse che le vengono offerte e deve saperle sfruttare al meglio, nel senso di non lasciarle inoperose o di non impiegarle in modo poco proficuo rispetto al “core business”, e questo è senz’altro un compito non facile, una capacità che caratterizza la managerialità di chi guida un’impresa sociale, che non è richiesta ad un manager di un’impresa profit. Quest’ultimo certamente dev’essere un bravo gestore, ma il suo compito è procurarsi dal mercato le risorse di cui ha bisogno e le sceglie con le caratteristiche e nelle quantità di cui necessita.
L’imprenditore sociale invece riceve donazioni, e se non vuole inaridire i suoi filoni di risorse ma mantenerli nel tempo, deve capire come impiegarle al meglio, deve in qualche modo anche inventarsi, volta per volta, l’integrazione più efficace con l’organizzazione della sua attività e con le altre risorse che anch’egli deve procurarsi dal mercato.
Il risultato sarà l’offerta a costi più bassi, o gratis, di ciò che il mercato offre a chi può pagare i prezzi che richiede, e il soddisfacimento dei bisogni potrà avvenire anche con modalità diverse, anche innovative, laddove al servizio necessariamente professionale potranno essere affiancate le attività di altri soggetti che possono realizzare le attività collaterali non richiedenti specifica professionalità (es. la gestione di un doposcuola per bambini delle elementari, ove accanto ad una o due professioniste dell’insegnamento possono collaborare volontari per aiutare i bambini nella preparazione della merenda, nella pulizia dei locali, nell’assistenza in classe per le attività meno qualificate ecc.)
Il decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 sul Terzo settore
In Italia la normativa più recente relativa al Terzo settore è rappresentata dal decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 “Codice del Terzo settore…” e successive modifiche e integrazioni, con cui si è provveduto al riordino di tutta la disciplina vigente in materia.
L’art. 4 precisa quali sono gli enti che fanno parte del Terzo settore (Associazioni di volontariato, le Associazioni di promozione sociale, gli Enti filantropici, le Imprese sociali incluse le Cooperative sociali, le reti associative, le Società di mutuo soccorso, nonché tutte le Associazioni riconosciute o non riconosciute e Fondazioni e altri Enti privati caratterizzati dal non perseguire scopi di lucro e di svolgere in via esclusiva o principale attività di interesse generale).
Il successivo art. 5 individua le attività di interesse generale che caratterizzano i soggetti del Terzo settore, riguardanti interventi nei settori sanitario e sociale, formazione, ambiente, tutela del patrimonio culturale, turismo culturale religioso, commercio equo-solidale, inserimento lavoratori disabili e svantaggiati, attività sportive dilettantistiche ecc. ecc.
Gli enti del Terzo settore si possono avvalere anche di lavoratori regolarmente retribuiti (art. 16), invece i volontari non possono essere retribuiti ma al massimo ristorati delle spese sostenute e documentate.
Gli articoli 32 ss. dettano disposizioni specifiche per le varie categorie di enti del terzo settore, da cui si ricava che le Organizzazioni di volontariato si avvalgono in modo prevalente dell’attività di volontariato di propri associati e delle persone aderenti agli Enti associati, cosi come le Associazioni di promozione sociale, costituite per lo più in forma di Associazione riconosciuta o non riconosciuta; gli Enti filantropici, costituiti in forma di associazione riconosciuta o di fondazione, sono finalizzati ad erogare denaro, beni o servizi anche di investimento a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale.
Per le Imprese sociali, l’art. 40 rinvia al decreto legislativo recante revisione della disciplina in materia di impresa sociale n.112/17; per le Cooperative sociali e loro Consorzi, il precitato art. 40 rinvia alla legge 381/91.
Il decreto legislativo 3 luglio 2017, n.112, sull’Impresa sociale
Con il decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 112, si è provveduto alla “Revisione della disciplina in materia di Impresa sociale…”.
Dalla relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo presentata in Parlamento, si rileva che obiettivo del legislatore è promuovere l’Impresa sociale e favorire il rilancio di questa figura, sino ad allora poco utilizzata fra quelle del Terzo settore.
Sono previsti incentivi e misure di sostegno, e limitate forme di remunerabilità del capitale investito, disciplinati dall’art. 3 e all’art. 16: aumento gratuito del capitale sociale, nei limiti della variazione dell’integrazione dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, o distribuzione di dividenti in misura comunque non superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi aumentato di due punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato; è possibile destinare una quota non superiore al 3% degli utili netti annuali, a fondi istituiti dagli Enti e delle Associazioni di cui l’articolo 15 comma 3, purché destinate a finanziare progetti di formazione e sviluppo delle Imprese sociali.
Dall’art.1 si evince che gli Enti del Terzo settore possono acquisire la qualifica di Impresa sociale quando esercitano in via stabile e principale un’attività di impresa di interesse generale senza scopo di lucro e per finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale.
All’art. 2 sono definite le attività di impresa da considerarsi di interesse generale, che riprendono quelle della normativa sul Terzo settore sopra riportate, salvo quelle che evidentemente non si prestano all’organizzazione in forma di impresa quali la beneficenza, il sostegno a distanza, la fornitura gratuita di alimenti e prodotti o erogazione denaro, beni e servizi a persone svantaggiate, ecc. mentre ne vengono aggiunte altre come i servizi strumentali alle Imprese sociali o altri Enti del Terzo settore, cooperazione allo sviluppo, attività commerciali e produttive di educazione, informazione, di promozione, rappresentanza, concessioni licenze di marchi di certificazione, ecc.
Si considera distribuzione in forma indiretta di utili la corresponsione ad Amministratori e Sindaci, e a chiunque riveste cariche sociali, di compensi individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte, le specifiche competenze ecc. o comunque superiori a quelli previsti in Enti che operano nel medesimo settore. Da questa disposizione si evince che quindi chi assume una carica sociale o lavora per l’ente può avere dei compensi del livello di una impresa profit, perché si fa riferimento a quelli previsti in Enti che operano in settori e condizioni, così come è lecito corrispondere ai lavoratori subordinati o autonomi compensi e retribuzioni superiori fino al 40% , rispetto a quelli previsti per le medesime qualifiche dei contratti collettivi, ma si può andare oltre in caso di comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze al fine dello svolgimento delle attività.
L’art. 13 tratta del lavoro nell’Impresa sociale: il lavoratore dell’Impresa sociale ha diritto a un trattamento economico e normativo in base ai contratti collettivi, è ammessa la prestazione di attività di volontariato ma il numero dei volontari impiegati in attività di impresa non può essere superiore a quello dei lavoratori e devono essere impiegati in misura complementare e non sostitutiva rispetto agli operatori professionali.
Attività degli Enti del terzo settore a favore delle Pubbliche amministrazioni
Il quadro normativo riconosce agli Enti del Terzo settore una possibilità di limitata riserva di attività esclusiva a favore delle Pubbliche Amministrazioni, attraverso le convenzioni di cui all’ art.56 della legge sull’Impresa sociale con le Organizzazioni di volontariato e le Associazioni di promozione sociale, per l’affidamento di attività a favore di terzi o servizi sociali di interessi generali se più favorevoli rispetto al ricorso al mercato. Queste convenzioni però devono prevedere esclusivamente il rimborso delle spese effettivamente sostenute; l’art. 57 a sua volta stabilisce che l’attività di trasporto sanitario di emergenza e urgenza può prioritariamente essere oggetto di dette convenzioni.
La disposizione quindi non contiene una riserva a favore di tutti gli Enti del Terzo settore ma solo con le due categorie sopra menzionate, rispetto alle quali va rilevato che sono accomunate dal fatto che entrambe si avvalgono in modo prevalente dell’opera di volontari (artt. 32, c.1 e 35, c.1).
Anche il codice degli appalti, di cui al decreto legislativo 18.4.16, n.50 e succ. mod. e int., contiene delle disposizioni di favore per gli Enti del Terzo settore: ai sensi dell’art. 17, lett. h), del succitato codice degli appalti, questo non si applica agli appalti concernenti servizi di difesa civile, di protezione civile e di prevenzione contro i pericoli forniti da Organizzazioni e Associazioni senza scopo di lucro identificati con i codici C.P.V. ivi indicati (servizi dei vigili del fuoco e salvataggio, servizi di difesa civile, sicurezza nucleare, servizi di ambulanza); l’art. 35, c.1, lett. d) e c.2, lett. c), definisce specifiche soglie di rilevanza comunitaria per gli appalti di servizi sociali e di altri servizi specifici elencati all’allegato IX, e nei settori speciali (gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali, sfruttamento di area geografica), relativamente ai contratti di servizi, per i servizi sociali e altri servizi specifici elencati all’allegato IX; l’art. 112 prevede
la possibilità di riservare la partecipazione alle procedure di appalto e a quelle di concessione o la loro esecuzione ad operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi che impieghino lavoratori disabili o svantaggiati secondo quanto specificato nella norma stessa; l’art. 143 (Appalti riservati per determinati servizi) stabilisce, al 1 comma, che può essere riservata la partecipazione alle procedure per l’aggiudicazione di appalti pubblici, esclusivamente per i servizi sanitari, sociali e culturali di cui all’allegato IX, identificati con i codici CPV espressamente indicati, ad operatori aventi requisiti che sono propri della gran parte delle Imprese sociali e Cooperative sociali.
Anche la legge 381/91 “°Disciplina delle Cooperative sociali” , all’art. 5, prevede la possibilità per le Pubbliche amministrazioni di stipulare convenzioni con le Cooperative operanti nei settori di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge, vale a dire “ svolgimento di attività diverse – agricole, industriali, commerciali o di servizi – finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate.”, per la fornitura di beni e servizi diversi da quelli socio-sanitari ed educativi sotto soglia comunitaria; se sopra soglia,
fra le condizioni di esecuzione, le P.A. possono inserire l’obbligo di eseguire il contratto con l’impiego delle persone svantaggiate.
L’occupazione negli Enti del Terzo settore
Come dimostra la normativa passata in rassegna, lo Stato riconosce e promuove l’azione delle Imprese sociali e il loro intervento nell’economia, attraverso la cui azione può anche contenere i costi, in quanto acquisisce beni e servizi a prezzi ben più favorevoli di quelli che pagherebbe sul libero mercato e inoltre, assicurando un’umanizzazione dei servizi certamente più genuina rispetto ad un servizio professionalizzato.
Cosa ha prodotto tutta questa normativa di favore, in termini di creazione di nuovi enti e occupazione?
L’Istat nel 2016 ha realizzato la prima edizione del Censimento permanente delle istituzioni non profit; annualmente il Registro statistico aggiorna le informazioni sulla struttura e sulle principali caratteristiche delle istituzioni non profit a livello territoriale.
Si possono quindi mettere a confronto i dati rilevati nel 2011, nel 2015 e alcuni risultanti dagli aggiornamenti annuali, al 31.12.2018.
Sempre l’Istat ci dice che nel complesso l’85,5% delle istituzioni non profit opera senza dipendenti ma nei settori dello sviluppo economico e della coesione sociale e dell’istruzione e ricerca la quota di istituzioni senza dipendenti è molto inferiore, rispettivamente 29,8% e 42,1%. Il personale opera soprattutto nel settore dell’assistenza sociale e protezione civile (37,3%), sanità (21,8%), istruzione e ricerca (15%), sviluppo economico e coesione sociale (12%).
Con rif. al dato del personale dipendente al 31.12.2018 sopra esposto, lo stesso è occupato in maggioranza nelle Cooperative sociali (53%), nelle Associazioni riconosciute e non (19,2%), nelle Fondazioni (12,2%), altre forme giuridiche (15,6%).
In altri settori il numero delle istituzioni attive è superiore al numero di dipendenti impiegati e questo vale per il settore cultura, sport e ricreazione, il settore religione, il settore ambiente, il settore filantropia.
Sempre dall’Istat si apprende che rispetto al complesso delle imprese delle industrie e dei servizi, l’incidenza delle istituzioni non profit continua ad aumentare, passando dal 5,8% nel 2001 all’8,2% del 2018, ma il peso dei dipendenti rimane pressoché inalterato (4,8% nel 2011 e 6,9% nel 2018).
Come visto sopra, i dati più aggiornati fotografano la situazione al 31.12.2018, quindi meno di un anno e mezzo dopo l’entrata in vigore della nuova normativa sul Terzo settore e quella sulle Imprese sociali, per cui si potrebbe pensare che le norme introdotte volte a incentivare la costituzione di Imprese sociali non siano ancora pienamente operative.
Terzo settore e prospettive di aumento dell’occupazione
Ma come incentivare la creazione di nuove Imprese sociali, o l’ampliamento di quelle esistenti, tali da farne diventare un volano di occupazione? Certamente, i servizi a favore della comunità e di particolari categorie di cittadini, che questi Enti possono rendere con la loro attività, sono molti e in continua crescita, stante le difficoltà sempre maggiori dello Stato di fornire risposte adeguate a causa delle difficoltà di bilancio.
Al di là del problema di reperire i finanziamenti necessari per iniziare l’attività, che potrebbe anche non essere il problema principale viste le numerose agevolazioni predisposte dal legislatore, occorre innanzitutto che delle persone decidano, anziché cercarsi un’occupazione immediatamente remunerativa, di impiegarsi a progettare detta impresa, a ricercare i finanziamenti e tutte le risorse produttive necessarie, sia a titolo gratuito che a pagamento.
Quindi c’è innanzitutto questo primo rischio, lasciare o non cercare un lavoro, magari abbastanza disponibile per il curriculum formativo personale, per un’occupazione che potrà anche essere retribuita, se e quando decollerà.
In secondo luogo, pensando soprattutto alle Imprese sociali, ove il capitale necessario è un elemento non indifferente, quali motivazioni dovrebbero spingere dei soggetti che dispongono di capitali, ad investirli in queste imprese per le modestissime remunerazioni che potranno ottenerne come visto sopra? È ben vero che nell’epoca attuale, se questi investimenti sono alternativi a tenere i soldi in banca, allora anche questa modesta remunerazione può avere un suo fascino, ma essa è comunque accompagnata dal rischio di impresa, cioè il rischio che l’attività non produca utili neanche nella misura sufficiente ai ristori in parola, o che addirittura sia in perdita e quindi anche il capitale investito a rischio. Tanto vale, allora, investire in fondi fiduciari, in azioni di imprese all’apparenza più solide, salvo che non si sia animati da spirito altruista e filantropico, quantomeno per una parte del capitale disponibile!
Allora, è possibile che si punti, per lo sviluppo dell’occupazione, su elementi così precari?
Oltre a ciò, finche’ l’attività non genera costi per chi la produce, grazie al lavoro dei volontari e alle donazioni, o comunque produce costi sostenibili per le persone a cui è rivolta, che come detto sopra, sono fuori mercato perché hanno limitatissima possibilità di spesa, lo sviluppo del Terzo settore sarà possibile, ma la parte di occupazione che potrà generare, in quanto fonte di costi, non potrà che essere esigua. Solo la disponibilità’ di finanziamenti a fondo perduto, soprattutto a titolo di donazioni, può garantire un maggiore margine di occupazione. Sicuramente, per questi finanziamenti, non si potrà contare sullo Stato, se non in misura residua, in quanto si tratterà di costi di cui esso non può farsi carico e rispetto ai quali, come già avviene, può al più garantire la copertura delle spese vive.
Si potrebbe pensare che lo Stato potrebbe riservare maggiori spazi nell’ambito delle forniture di beni e servizi per la propria attività e per la soddisfazione dei bisogni di cui deve farsi carico, ma, a parte la compatibilità con le normative sulla libera concorrenza, si tratterebbe di togliere il lavoro a imprese (profit)o per darle ad altre (no profit), anche se lo Stato ne trarrebbe l’indubbio vantaggio di sostenere costi minori.
Terzo settore come collettore delle risorse disponibili finanziate dalla collettività
Se invece parliamo di occupazione in senso lato, indipendentemente dalla modalità retributiva, allora il discorso diventa molto più concreto e realistico.
Oggi lo Stato assicura servizi di welfare con costi che, nel tempo, sono diventati enormi e con risultati non sempre soddisfacenti; questo ha comportato la necessità di selezionare i servizi e le prestazioni di cui esso si fa carico e che quindi sono assicurati alla collettività (livelli essenziali) anche con modalità di compartecipazione alla spesa diverse (ticket, tasse ecc.), e probabilmente, nel tempo, saranno destinati a ridursi ulteriormente. Nel contempo, anche stante le vistose prove di inefficienza, lo Stato ha perso molta della sua statura di datore di lavoro, esternalizzando settori sempre più ampi della propria attività, quindi creando nuove opportunità per le imprese private, generalmente più efficiente, anche se non sempre altrettanto efficaci.
Dall’altra parte, lo Stato è chiamato a intervenire in maniera sempre più massiccia per limitare gli effetti negativi di disoccupazione e inoccupazione di un numero sempre maggiore di persone, per assicurare ad essi la disponibilità di mezzi per una vita dignitosa.
Si tratta di un fenomeno che è destinato ad accentuarsi, non certo a regredire, che oggi può avere le sue cause più evidenti nella dislocazione delle produzioni in altri paesi, ove il costo del lavoro è minore oppure che assicurano una minore tassazione o altri vantaggi che aumentano i profitti; questi comportamenti vengono “giustificati” con l’accusa di scarsa produttività e di tutele eccessive, per rimediare ai quali si è disarticolato il sistema di garanzie del lavoro in nome della flessibilità che dovrebbe garantire maggiore efficienza ed efficacia all’impiego delle risorse.
Altre cause invece sono ancora poco vistose e sono legate alla rarefazione dei nuovi mercati da conquistare, all’abbondanza di produzione, assicurata in gran parte dagli sviluppi della tecnologia e in misura sempre minore dalla manodopera, destinata a trovare una domanda sempre più inefficiente, se i benefici di questa maggiore produzione non saranno condivisi con coloro che devono consumarla. Nessun settore è esente da queste prospettive future, anche nelle professioni c.d. intellettuali e impiegatizie le nuove tecnologie saranno in grado di sostituire il lavoro umano, relegando sempre più al margine e accessoria la presenza dell’uomo.
Non si vuol qui approfondire il discorso su questi tempi, se non per evidenziare che sempre più in futuro ci saranno persone che ricevono sussidi dallo Stato, per cui si offre la opportunità di impiegarle in attività dirette alla produzione di servizi che altrimenti lo Stato dovrebbe acquistare sul mercato, sostenendo altri costi. Parliamo di persone che percepiscono l’indennità di disoccupazione e simili, come anche del reddito di cittadinanza, ormai una misura imprescindibile per evitare che masse sempre più ampie di persone vivano in povertà, anche per le tensioni sociali che ciò può comportare. Sarebbe anche un modo per dare maggiore dignità a questi aiuti, dando agli interessati la possibilità di restituire alla collettività quando ricevono attraverso la disponibilità a svolgere attività a favore della collettività stessa. Si uscirebbe così dalla logica del sussidio per restare in quella del lavoro ancorché atipico o pseudo-volontario.
Anche per coloro che un lavoro potranno continuare ad averlo, si tratterà comunque di lavorare per un numero minore di ore, posto che si stanno affermando sempre più politiche di riduzione dell’orario di lavoro, a parità di stipendio, per consentire l’impiego di un maggior numero di persone.
Già, ma le imprese perché dovrebbero assumersi questo maggior onere? Non certo, quantomeno in misura preponderante, perché i datori di lavoro si preoccupano della qualità della vita dei lavoratori, ma per un motivo molto pratico: l’aumento della produzione, in parte indipendente come detto sopra dall’aumento dell’occupazione di manodopera, richiede che ci siano anche più consumatori con potere di acquisto. Per far sì che questo avvenga, occorre pagare chi lavora in modo da renderlo un consumatore attivo, pertanto occorre che le imprese condividano gli effetti positivi dell’aumento di produttività con la classe lavoratrice. È quindi necessario far lavorare il maggior numero di persone o pagare, attraverso le tasse, salario di disoccupazione, reddito di cittadinanza e altro a chi non lavora.
Anche la UE raccomanda la riduzione dell’orario di lavoro nella decisione sopra citata, ma sono innumerevoli gli altri documenti dell’Unione europea in questo senso, sia della Commissione che del Parlamento.
Alcuni dati sui disoccupati e inoccupati (che non stanno cercando un lavoro), rilevati da Istat:
Le esperienze “infelici” di P.U.C. e L.S.U.Relativamente al Reddito di Cittadinanza, dall’Osservatorio dell’Inps si rileva che nel 2020 le persone che hanno usufruito di almeno una mensilità sono state 3.577.570, per una media mensile di euro 564,94. La spesa nazionale, per il mese di dicembre 2020, è stata pari a euro 648.600.460, il che porta la spesa annua a superare abbondantemente i 7 miliardi di euro.
La legislazione sul reddito di cittadinanza (art. 4, comma 15, del decreto- legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26) ha previsto l’obbligo, per i percettori dello stesso, di partecipare alla realizzazione di progetti utili alla collettività P.U.C., per un numero di ore settimanali da un minimo di 8 a un massimo di 16.
In realtà, fra le disposizioni della legge e quelle di attuazione, emanate con il Decreto del Ministro lavoro e politiche sociali, datato 22 ottobre 2019, sono state poste tali condizioni, e tanti e tali limiti alle attività che possono essere richieste a questi soggetti, volti a evitare l’instaurazione, di fatto, di una nuova categoria di lavoratori precari, come avvenuto con i L.S.U., da renderli difficili da impiegare utilmente.
I lavoratori socialmente Utili, L.S.U., sono lavoratori in Cassa Integrazione Guadagni straordinaria, percettori di un’indennità erogata dall’INPS per integrare la retribuzione di lavoratori di aziende in crisi, che sono stati impiegati in servizi di pubblica utilità, inizialmente con la legge 390/81 solo per il mezzogiorno e poi estesi dal 1984 a tutto il territorio nazionale. Purtroppo, in molte realtà, hanno assunto il ruolo di lavoratori precari, da anni oggetto di finanziamento di politiche di stabilizzazione presso gli enti utilizzatori o di erogazione di incentivi regionali finalizzati all’attività autonoma o alla micro-imprenditorialità.
Anche dalle problematiche sorte con la gestione di quella che doveva essere una spesa che si trasformava in risorsa per la collettività, si possono studiare le nuove modalità per recuperare al bene della collettività queste risorse, capaci di raggiungere l’obiettivo e non di duplicare i problemi.
Conclusioni
Il legislatore nazionale, anche sul solco delle indicazioni delle Istituzioni Europee, ha aggiornato le norme che disciplinano l’azione degli enti del Terzo settore, anche ad evitare abusi a fronte di quanti vi si dedicano con spirito di sacrificio e generosità, dedicando il proprio tempo, le proprie conoscenze e capacità; ha altresì aggiornato le norme sull’impresa sociale, cercando di renderla attrattiva per coloro che, seppur animati da buone intenzioni, non disdegnano di avere anche un ritorno, seppur minimo, in termini economici sul capitale che mettono a disposizione.
I dati rilevati dall’Istat, seppur fermi alla fine del 2018, quindi dopo poco meno di un anno e mezzo dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni, non hanno segnato nessun incremento significativo sul fronte della occupazione, come auspicato dalle direttive europee, quantomeno in termini di posti di lavoro, e si sono anche esaminate le ragioni, almeno quelle più macroscopiche, che rendono questa prospettiva poco realistica.
D’altra parte, si è anche visto che questi Enti possono diventare soggetti attivi sempre più importanti, se messi in condizione di convogliare nelle loro attività quei soggetti che, per cause indipendenti dalla loro volontà quali disoccupazione, mancanza di posti di lavoro, ecc. sono a carico della collettività, oppure sono messi in condizione di disporre di maggior tempo libero a causa delle riduzioni dell’orario di lavoro a parità di stipendio.
Si tratta di risorse umane molto importanti, sia dal punto di vista numerico che delle esperienze professionali di cui sono portatori, che quindi devono essere impiegate in modo efficiente ed efficace, ed è questa capacità manageriale, che è una caratteristica specifica degli enti del terzo settore, che dev’essere messa in condizione di operare, rivedendo interamente le regole per il loro utilizzo, imparando dalle storture che si sono verificate nel passato, uscendo dalla logica che viene chiesto di fare “qualcosa”, per istituzionalizzare, invece, il concetto che si riceve per dare, che il sussidio è la messa a disposizione della collettività del proprio tempo e capacità, una nuova forma di “occupazione” , che non solo non ha nulla di disdicevole ma può rappresentare l’occasione per unire i gruppi sociali, cogliere il senso della vita che dev’essere anche stare in comunità con gli altri, apprezzare quello che si ha, anche in termini di salute, collaborare per diminuire il disagio degli altri e, tutti insieme, aumentare il benessere delle nostre comunità, con grande senso pratico, senza falsa retorica di buonismo e altruismo, non strettamente necessari.
(A cura di Valeria Gobbin)
RIFERIMENTI
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https://www.ripess.org. “ Vision globale de l’économie sociale solidaire : convergences et différences entre les concepts, définitions et cadres de référence”, Febbraio 2015;
https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/numero/rivista-num-1-2020, “editoriale, Covid-19 e futuro del Terzo settore, Felice Scalvini”;
https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/numero/rivista-num-1-2020 , saggi,”Pubblica Amministrazione e terzo settore: le convenzioni con le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale”, Claudio Tamburini;
https://www.ilfattoquotidiano.it, “Riforma del terzo settore, gli investimenti sociali sono trendy ma non prioritari”, di Enzo Manes, 16 maggio 2015;
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https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/numero/rivista-num-6-2015 , Saggio“impresa sociale al servizio della “buona occupazione”: una biodiversità da tutelare”, Licia Allegretta e Barbara Barabaschi;
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Jeremy Rifkin, “La fine del lavoro” (1), 1995, 2004, Arnoldo Mondadori editore Spa, Milano,2005.
Rivista scientifica digitale mensile (e-magazine) pubblicata in Legnano dal 2013 – Direttore: Claudio Melillo – Direttore Responsabile: Serena Giglio – Coordinatore: Pierpaolo Grignani – Responsabile di Redazione: Marco Schiariti
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