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Salario minimo: una partita aperta. Breve excursus su una delle più discusse istituzioni del mercato del lavoro.

Introduzione

Tra le più dibattute tematiche di economia del lavoro, il salario minimo è tornato al centro dell’interesse politico nel 2022, in particolare dal giugno scorso, quando il Consiglio dell’Unione Europea ha raggiunto un accordo con i negoziatori per il Parlamento europeo su una bozza di direttiva relativa ad un salario minimo adeguato, quale strumento migliorativo delle condizioni di vita e di lavoro delle persone [1].

Già in tempo di pandemia da Covid-19 c’era stata una ripresa della proposta di un salario minimo europeo che, ai sensi dell’art. 153 del TFUE[1], dovrebbe essere definito direttamente dagli Stati membri, non solo in attuazione del Pilastro europeo dei diritti sociali, ma pure per il suo potenziale contrasto alla povertà, specialmente in periodi di crisi economica [2].

Le radici della discussione sul salario minimo in Italia sono ben precedenti al 2020: la l. n. 183 del 2014 cita l’eventuale introduzione di un compenso minimo nei settori non regolamentati dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Si sono succedute numerose proposte di legge presentate in Parlamento e, similmente ad un riforma sul salario minimo, l’ex ministro del lavoro Orlando aveva proposto un intervento legislativo per l’estensione dei contratti collettivi nazionali più rappresentativi erga omnes, utilizzando il trattamento economico in essi previsto per definire il minimo legalmente riconosciuto.

Le opinioni sull’introduzione di un salario minimo sono varie e contrastanti. Durante l’ultima campagna elettorale è stato uno dei temi che ha marcato maggiormente la distanza tra le aree politiche del centro destra e del centro sinistra.

D’altra parte, neanche le parti sociali hanno una visione comune sul tema. Se Confindustria non ha espresso favore alla misura, preferendo una riduzione del costo del lavoro, tra i favorevoli c’è la CGIL e l’INPS, che per il presidente Tridico potrebbe costituire una vera e propria protezione da remunerazioni troppo basse per chi percepisce meno.

Chi ha ragione? Verrebbe da dire tutti e nessuno, guardando alla fitta e varia letteratura accademica sugli effetti del salario minimo nel mercato del lavoro.

E’ pur vero che ad oggi la discussione è alquanto sopita, anche per la chiara posizione non di favore rispetto alla misura dichiarata dall’attuale governo, ma ciò non sottrae attualità e interesse all’argomento.

Prima è utile capire come si definisce e si introduce il salario minimo, quali obiettivi la direttiva si pone e perché le posizioni al riguardo sono così differenziate.

 

Salario minimo: cos’è?

L’I.L.O., l’International Labour Office definisce il salario minimo come “the minimum amount of remuneration that an employer is required to pay wage earners for the work performed during a given period, which cannot be reduced by collective agreement or an individual contract[2] [3].

E’ una soglia – stabilita per ora, mese, giorno, ecc. – quindi, al di sotto della quale non può andare la remunerazione riconosciuta al lavoratore perché fissata da legge, né può essere modificata in peius da atti negoziali (contratti collettivi o individuali).

Da tale definizione si evince che non può identificarsi come una mera misura assistenziale, alla stregua del reddito di cittadinanza o del reddito minimo, con cui spesso è erroneamente confuso, poiché non è una forma di assistenza erogata in uno stato di disoccupazione, ma è un’istituzione del mercato del lavoro che assurge a strumento di garanzia di una retribuzione dignitosa, proporzionata alla prestazione di lavoro svolta [4] [5].

Sorge spontanea la domanda riguardo alla qualificazione “dignitosa”: cosa si intende? Non è un aspetto secondario, perché determina il quantum di base per la definizione del costo del lavoro (se si ragiona in termini datoriali) e di salario (se si valuta dal punto di vista del lavoratore).

Nel documento di lavoro della Commissione europea accompagnatorio della direttiva citata nell’introduzione, sono definiti adeguati i salari minimi che si reputano equi rispetto ai salari di altri lavoratori e se consentono un tenore di vita dignitoso, tenendo conto delle condizioni economiche generali del Paese.

I parametri di valutazione, dunque, sono due: l’equità relativa ad altri salari, definita come rapporto tra il salario minimo lordo, il salario mediano lordo e il salario medio lordo; la capacità di garanzia del tenore di vita dignitoso, calcolato come rapporto tra salario minimo netto, soglia di povertà[3] (AROP – At-risk-of-poverty gap) e salario medio netto [6].

La stima di un adeguato salario minimo non può prescindere, in accordo con la direttiva, dal potere d’acquisto dello stesso, dal livello generale dei salari e dalla loro distribuzione, dai livelli e dall’andamento nazionale a lungo termine della produttività [2].

Già nel 1928, la Convenzione I.L.O. sul salario minimo nelle “Fixing machinery” [7] sollecitava l’adozione di salari minimi, soprattutto in contesti in cui le remunerazioni erano particolarmente basse e non esistevano regolazioni al riguardo derivanti dalla contrattazione collettiva, come ribadito in una più recente convenzione del 1970, che ha richiamato ad una piena consultazione delle parti sociali al fine di definire una copertura ampia della retribuzione minima [8].

Sempre l’I.L.O. suggerisce che i salari minimi devono essere definiti e progettati in coordinamento e rinforzo di altre politiche sociali e del lavoro, soprattutto con la contrattazione collettiva, considerando le condizioni complessive dell’economia e del mercato del lavoro e l’unità di misura temporale per il lavoro [9].

Il salario minimo, quindi, non definisce solo un minimo valore dignitoso del lavoro, ma è pure un mezzo per ridurre la povertà e le disuguaglianze e per evitare che vi siano lavoratori sottopagati, a discrezione di datori di lavoro, specialmente in contesti ad alta disoccupazione, pochi controlli, povertà diffusa.

E’ chiaro che i principali beneficiari di una siffatta misura sono principalmente i cd. working poors, lavoratori sottopagati e sfruttati, domestici, lavoratori di forme atipiche, lavoratori informali o a nero [3].

L’introduzione del salario minimo, pertanto, dovrebbe coordinarsi necessariamente con altre misure socioeconomiche.

 

Come si introduce?

Chiarita la definizione di salario minimo, la fase di implementazione della policy è solo successiva a quella di determinazione della soglia.

Questa fase può avvenire in 3 modalità: può essere normativa, se il salario minimo viene fissato per legge; negoziale, se è fissato dalla contrattazione collettiva nazionale; mista, se è una combinazione delle due forme precedenti.

Guardando ai Paesi UE, 21 hanno salari minimi legali, mentre 6 Stati membri (Danimarca, Italia, Cipro, Austria, Finlandia e Svezia) sono dotati di una protezione del salario minimo fornita dai contratti collettivi [2].

In figura 1 sono riportati i valori assoluti dei salari minimi applicati nei paesi riportati, nel secondo semestre del 2022 (fonte Eurostat); i salari minimi più alti sono fissati in Lussemburgo, Irlanda e Olanda; quelli più bassi in Bulgaria, Lettonia ed Estonia.

Fig. 1 – Livello salario minimo mensile (valori in euro – secondo semestre 2022).


 Fonte: Propria elaborazione su dati Eurostat.

In alcuni contesti, si preferisce fissare il valore del salario minimo per scelta politica, come accade negli Stati Uniti, o si demanda alle parti sociali o a commissioni ad hoc [5].

 A prescindere dal modo, esso può essere stabilito in maniera differente per territorio – come negli Stati Uniti (può addirittura differenziarsi per città), in Messico, in Brasile o in Giappone – o per settore (esempio classico è la Germania) o, infine, per tipologie di professione.

La direttiva sul salario minimo illustra i principali caratteri che dovrebbe avere una buona riforma implementativa, consistente – oltre che nell’adeguatezza dei salari minimi legali – anche nella promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione degli stessi minimi salariali, nell’accesso effettivo dei lavoratori alla tutela garantita dal salario minimo e, infine, nell’istituzione di un sistema di monitoraggio [10].

Su quest’ultimo punto la direttiva fa riferimento all’obbligo in capo agli Stati membri di comunicare alla Commissione europea ogni due anni, prima del 1° ottobre dell’anno di riferimento, una serie di informazioni, diverse a seconda che la definizione del salario minimo sia attribuita alla legge o alla contrattazione collettiva (ad esempio e rispettivamente: livello del salario minimo legale e percentuale di lavoratori coperti; tasso di copertura della contrattazione collettiva, livello dei salari pagati ai lavoratori non coperti dai contratti collettivi e suo rapporto con il livello dei salari pagati ai lavoratori coperti dai contratti collettivi) [2].

 

Quali sono gli effetti del salario minimo?

Pro e contro dell’eventuale introduzione del salario minimo sono il fulcro del contrasto di opinioni sulla questione.

Assieme a sindacalizzazione, politiche attive e passive del lavoro, sussidi di disoccupazione e misure di protezione dei livelli occupazionali, il salario minimo rientra tra le istituzioni del mercato del lavoro tradizionalmente più studiati per l’impatto sull’occupazione.

Modelli teorici ed empirici nella letteratura accademica hanno variamente rappresentato i contrastanti effetti del salario minimo sul lavoro e sull’economia tutta.

La fissazione di una soglia minima di remunerazione implica più certezza e trasparenza retributiva per i lavoratori e minore forza contrattuale per i datori di lavoro; d’altro canto, un livello troppo alto rischierebbe di irrigidire il mercato del lavoro, rendendo l’offerta di forza lavoro più costosa e, quindi, meno accessibile e sostenibile per la domanda di lavoro: da un punto di vista macroeconomico, infatti, un aumento del salario minimo comporterebbe un complessivo rialzo dei salari reali nell’economia e, dunque, del costo del lavoro, col rischio di innalzare pure la disoccupazione, semplicemente perché la forza lavoro costerebbe di più.

In aggiunta, ciò comporterebbe il rischio di una riduzione del monte ore di lavoro e di aumento del lavoro sommerso e/o di una minore partecipazione delle imprese ai tavoli di contrattazione collettiva, con possibile pregiudizio della tutela dei diritti dei lavoratori [11].

Le interpretazioni e gli studi confermano che la relazione tra salario minimo e occupazione non è scontata: altre posizioni hanno sostenuto che salari minimi troppo bassi possono sortire un effetto a catena di ribasso dei salari in generale, indebolendo la forza negoziale delle organizzazioni sindacale (oltrechè causare una possibile minor sindacalizzazione dei lavoratori) [12].

Secondo l’interpretazione classica microeconomica, invece, un salario fissato oltre quello di mercato (determinato dal libero incontro tra domanda e offerta) comporterebbe un aumento della disoccupazione.

In un mercato del lavoro (particolarmente se oltre i confini nazionali, come quello europeo), potrebbe essere utile valutare eventuali effetti di dumping salariale dovuti ad alti differenziali di costo del lavoro: la proposta di direttiva, infatti, solca la volontà di contrastare questo fenomeno.

In sostanza, definire con certezza gli effetti economici di impatto del salario minimo non sembra realistico: è una valutazione che dipende molto dalle condizioni specifiche del paese e del mercato del lavoro e, come suggerito da autorevoli studiosi, sarebbe utile identificare i lavoratori potenzialmente interessati al salario minimo e un gruppo di controllo controfattuale per ciò che avverrebbe in assenza di aumenti del salario minimo [13].

Certo è che a favore del salario minimo ci sono argomenti oggettivi, come il miglioramento del tenore di vita di gruppi più vulnerabili e maggiormente esposti al rischio povertà, più certezza dei livelli delle retribuzioni e il contributo a rendere più chiare le regole del mercato del lavoro.

 

La situazione in Italia

Sebbene in Italia non vi sia una specifica legislazione sul salario minino, vi è una larga copertura da parte della contrattazione collettiva per la definizione dei minimi contrattuali.

Il salario minimo sarebbe utile, pertanto, per garantire i settori non coperti da contrattazione.

L’art. 39 della Costituzione scioglie molti nodi sul tema per capire la genesi della legislazione in materia: esso sancisce che i sindacati rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

Tali contratti averebbero potuto avere efficacia erga omnes se i sindacati si fossero registrati: la mancata registrazione, forse dovuta a timori di ingerenza esterna e controlli (come accadde durante il periodo fascista), ha fatto sì che la norma restasse disattesa, nonostante tentativi di attuazione da parte del legislatore (vedasi la cd. “Legge Vigorelli”).

Il risultato è, quindi, che un contratto collettivo di lavoro vale tra le parti che lo sottoscrivono, sebbene possa essere applicato anche da soggetti non firmatari (proprio per i minimi tabellari, l’estensione a parti non firmatarie è sancita da giurisprudenza); resta, tuttavia, privo di efficacia generalizzata.

L’art. 39 va letto in combinato con l’art. 36 della Costituzione, che enuncia il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Dal testo costituzionale si comprende che non c’è un vero e proprio vuoto normativo sulla retribuzione minima, ma restano ferme delle problematiche, oltre alla mancata efficacia erga omnes, quali la crescita del lavoro povero e del lavoro nero, i contratti cd. “pirata” ed un eccesso di contratti collettivi nazionali, con conseguente rischio di influire al ribasso sui minimi salariali (il su citato dumping salariale).

L’Italia non è l’unico caso di assenza di previsione del salario minimo legale (nell’UE, 21 paesi su 27 hanno un salario minimo garantito): Svizzera, Austria, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svezia sono paesi in cui sono vigenti minimi salariali fissati dalla contrattazione collettiva.

In figura 2 è rappresentato lo stato del tasso di copertura della contrattazione collettiva per lavoratore nei principali paesi OECD per l’anno 2017.

L’Italia si conferma come uno tra i paesi a più elevata copertura.

 

Conclusioni

 E’ chiaro che, ad oggi, forse una discussione sul tema potrebbe essere riaperta in senso concretamente propositivo, almeno con lo scopo di indagare possibili adattamenti della misura al contesto italiano e pensarlo, dunque, come soluzione alle mancate coperture della contrattazione o laddove – pur essendo presente la negoziazione collettiva – vi siano discutibili risultati in termini di garanzia per i minimi contrattuali (contratti pirata).

La contrattazione collettiva, quindi, potrebbe essere integrata e non sostituita dal salario minimo, anche a salvaguardia dei rapporti tra le parti sociali e degli equilibri di negoziazione, in coordinamento con altre misure sociali ed economiche di contrasto alla povertà.

L’auspicio è che ci sia la volontà politica per intraprendere finalmente questa strada, avvalendosi della leva propulsiva data dalla direttiva.

 

Fig. 2 – Tasso di copertura della contrattazione collettiva (quota di lavoratori coperti da contrattazioni collettive in vigore). Anno 2018.

Fonte: Propria elaborazione su dati OECD.

*I contenuti del presente articolo sono esclusiva opinione dell’autrice e non costituiscono impegno o responsabilità dell’Amministrazione di appartenenza.

(A cura di Elvira Ciociano)

Bibliografia

[1] Council of the EU, «Minimum wages: Council and European Parliament reach provisional agreement on new EU law,» 07 giugno 2022. [Online]. Available: https://www.consilium.europa.eu.
[2] Camera dei Deputati legislatura – Sezione Studi, «Salario minimo,» 2022.
[3] ILO International Labour Office, «Minimum Wage Systems,» International Labour Conference, Geneva, 2014.
[4] «Che cos’è il salario minimo,» 3 luglio 2019. [Online]. Available: https://www.openpolis.it/parole/che-cose-il-salario-minimo/.
[5] A. Garnero, «Salario minimo,» [Online]. Available: http://www.disuguaglianzesociali.it.
[6] European Commission, «Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on adequate minimum wages in the European Union,» COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT , Bruxelles, 2020.
[7] International Labour Office, Minimum Wage-Fixing Machinery Convention, 1928 (No. 26), Geneva, 1928.
[8] International Labour Office, Minimum Wage Fixing Convention, 1970 (No. 131), Geneva, 1970.
[9] «Minimum wage,» [Online]. Available: https://www.ilo.org/global/topics/wages/minimum-wages/definition/lang–en/index.htm.
[10] A. Garnero, «Direttiva sul salario minimo: in Italia cambia poco,» 15 dicembre 2022. [Online]. Available: https://lavoce.info/.
[11] C. Lucifora, «Salario minimo europeo: tanti obiettivi per un solo strumento,» 3 Novembre 2020. [Online]. Available: https://www.lavoce.info.
[12] https://lavoce.info/archives/99242/il-salario-minimo-complementare-alla-contrattazione/.
[13] D. Neumark, J.M. Ian Salas e W. Wascher, «Revisiting the Minimum Wage-Employment Debate: Throwing Out the Baby with the Bathwater?,» Industrial and Labor Relations Review, n. 67, pp. 608-648, 2014.
[14] E. Boffy – Ramirez, «The Short-Run Effects of the Minimum Wage on Employment and Labor Market Participation: Evidence from an Individual-Level Panel,» IZA DP, n. 12137, 2019.
[15] «Eurostat,» [Online]. Available: https://ec.europa.eu/eurostat.

Note

[1] Trattato sul funzionamento dell’Unione europea del 13 dicembre 2007

[2]L’importo minimo di retribuzione che un datore di lavoro è tenuto a pagare ai lavoratori salariati per il lavoro prestato durante un determinato periodo, che non può essere ridotto con la contrattazione collettiva o individuale”.

[3]  Il divario del tasso di rischio di povertà (soglia di povertà) mediano relativo è calcolato come la differenza tra il reddito disponibile mediano equivalente delle persone al di sotto della soglia di rischio di povertà e la soglia di rischio di povertà, espressa in percentuale della soglia di rischio di povertà (punto limite: 60% del reddito mediano equivalente al netto di trasferimenti sociali) [15].


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