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(di Alessio Abbate)

Immaginate un negozio di abbigliamento dove, con il vostro tablet, potete agevolmente verificare dal divano di casa l’assortimento, selezionare con l’ausilio di un personal shopper virtuale (come permette di fare ad es., Nordstrom) e prenotare un capo che avete misurato virtualmente da casa. Assicurandovi che il capo sia disponibile prima di passare in negozio, potreste poi provare fisicamente e ritirare l’abito ‘riservato’ a voi (servizi resi disponibili, ad es., da Banana Republic and Gap) in un negozio dotato di una tecnologia capace di farvi provare l’abito in un determinato ‘contesto’ (ad esempio, simulando i colori di una festa).

Oppure, immaginate un supermercato dove, con il vostro smartphone, avete la possibilità di verificare la tracciabilità e la temperatura dei prodotti freschi, individuare velocemente lo scaffale dei prodotti che cercate, ricevere offerte personalizzate in base alle vostre preferenze, ‘inserire’ i prodotti scelti in un carrello virtuale, pagare alle casse dedicate senza fare file con il vostro smartphone (vedi, fra tutti, la tecnologia resa disponibile da Apple) e richiedere, infine, la consegna a domicilio della spesa. Gli esempi potrebbero continuare, passando per la pianificazione online dell’itinerario di un centro commerciale (vedi, ad es., Galeries Lafayette), o la prenotazione online di servizi come il parrucchiere (è il caso di Supercuts), oppure la simulazione di un test drive sullo smartphone in attesa di provare quello reale (vedi l’esempio di FIAT).

Secondo il reportThe Future of Retail 2015’ (di seguito ‘Report’), da cui sono tratti questi esempi, la capacità del retailer di coinvolgere i ‘nuovi clienti’, quelli ‘sempre connessi’ e che richiedono servizi personalizzati e semplificazione del processo d’acquisto, passa attraverso la rivoluzione tecnologica e digitale.

In altri termini, i retailer tradizionali che non saranno in grado di attrezzarsi in tal senso saranno molto probabilmente schiacciati dai retailer online. In effetti, lo showrooming è sempre più diffuso. Tra i consumatori che ricorrono allo showrooming, una parte crescente utilizza lo smartphone (e in futuro adotterà altre nuove tecnologie) per portare a termine l’acquisto online durante l’esperienza di visita del negozio fisico.

Dal il mio punto di vista, chi pratica lo showrooming non è semplicemente un cliente orientato al prezzo: è un cliente che valuta attentamente le caratteristiche dei prodotti nei negozi fisici e virtuali, sfrutta i consigli degli addetti alle vendite, è coinvolto emotivamente dal brand e poi, razionalmente, effettua l’acquisto al prezzo più conveniente. Questo cliente, apparentemente ‘opportunista’, agisce forse a partire dal presupposto che i servizi offerti dal retailer virtuale siano equivalenti a quelli offerti da un retailer fisico.

Per questo motivo la strada dell’integrazione delle strategie di marketing offline del retailer con quelle online relative all’esperienza di acquisto (prima, durante e dopo la visita al negozio), offrendo al cliente un insieme di vantaggi (servizi) difficilmente ottenibili attraverso gli acquisti online. Ciò potrebbe significare, ad esempio, riposizionare i servizi offerti dal retailer in un’ottica di networking co-creativo di valore con tutti i possibili partner (fornitori di tecnologie, centri assistenza fisici e online, ecc.). Credo che occorra quindi valorizzare la relazione (online e offline) con il cliente per fare in modo che il cliente stesso non interrompa la relazione al momento dell’acquisto sfruttando l’opportunità di un prezzo inferiore e vanificando, in questo modo, la strategia di marketing e commerciale del retailer.

Per ottenere la preferenza e la fedeltà verso l’insegna, i retailer tradizionali dovrebbero a mio avviso imparare ad ascoltare i bisogni dei nuovi clienti, a comunicare in maniera integrata i propri valori e a combinare in modo opportuno il mix di prodotti e servizi offerti, come spiegato attraverso svariati esempi nel Report.

A tal fine, i retailer dovranno probabilmente rivedere il proprio modello di business, integrandolo attraverso opportuni processi gestionali ed efficaci strategie di marketing. Alcuni esempi di questi processi e strategie sono indicati fra le righe nel Report e ho provato a riassumerli qui di seguito.

  1. Customer Experience Management: che si tratti di biglietti per il teatro o per una mostra, di scarpe, o di una cena fuori, con una maggiore attenzione al proprio budget, il cliente oggi vuole sapere esattamente per cosa sta spendendo i propri soldi e assicurarsi che si tratti di qualcosa di unico, in termini di esperienza di acquisto nel negozio e di esperienza di consumo del prodotto. I casi di GU e T-Mobile, che consentono al cliente la prova del prodotto per alcuni giorni prima di procedere all’acquisto, sono un chiaro esempio di questo trend.
  1. Multicanalità nel Client Engagement: il processo d’acquisto è sempre più condizionato dalle informazioni scambiate attraverso i social network; alla luce di questo nuovo paradigma relazionale tra insegna e cliente, il client engagement deve a parer mio diventare sempre più parte del sistema d’offerta del retailer. Ciò significa, ad esempio, valorizzare la propria presenza nei social network e la capacità di instaurare un dialogo positivo sulla marca ‘tra consumatori’ e ‘tra consumatore e brand’. Attraverso i social network, infatti, un numero crescente di consumatori matura interesse, coinvolgimento, decisione di acquisto e fedeltà verso la marca/insegna. Non solo, anche l’acquisto d’impulso può essere un’opportunità sui social network: il Report mostra ad esempio come diverse aziende siano capaci di utilizzare Twitter e Facebook per proporre acquisti istantanei (è il concetto del ‘compralo subito’) senza abbandonare la navigazione sulla piattaforma.
  2. Formazione continua della Forza Vendita: è noto che, in particolare per i beni durevoli, i clienti vogliono essere rassicurati per aver fatto la scelta giusta e che la professionalità della forza vendita può essere un forte mezzo di riduzione della ‘dissonanza cognitiva’ e di fedeltà all’insegna. Tra le leve gestionali a disposizione del retailer del 2015 il Report cita: il mondo digital, la tecnologia, la fedeltà dei clienti e le persone, considerando la forza vendita un fondamentale punto di contatto emozionale e funzionale rispetto all’esperienza di visita del cliente.
  3. Gestione dei punti di contatto con il cliente: come è scritto più volte tra le righe del Report, diviene strategica la necessità di aumentare i diversi punti di contatto tra cliente e insegna, includendo l’interazione con il cliente attraverso lo smartphone (prima, durante e dopo la visita al negozio).

È indubbio che una parte significativa dei nostri acquisti si sposterà sempre più sul web, ma è altrettanto vero a parer mio (e il report fornisce tanti esempi in tal senso), che il mondo digitale è oggi una formidabile leva per rafforzare o riposizionare le insegne del mondo ‘reale’ contribuendo, in tal modo, in maniera sempre più significativa alla creazione del valore della marca/insegna.

(di Alessio Abbate)

Lo store check[1] è uno strumento utile al marketing dell’azienda di produzione per monitorare il posizionamento del marchio nella rete distributiva, allo scopo di aumentere il livello di soddisfazione e di fedeltà dei propri clienti. Lo strumento permette, infatti, di classificare i punti vendita della rete in termini di valore dello store per il cliente finale e capacità del cliente retail di veicolare adeguatamente il marchio in termini di percenzione da parte del cliente finale come touch point del brand. In questo senso, lo store check permette di integrare la valutazione dei distributori, normalmente basata su aspetti quantitativi (es., fatturati e margini) con aspetti qualitativi di tipo customer based.

Consideriamo due esempi per un’azienda che opera nell’elettronica di consumo con la marca ‘X’.

Esempio 1. Cliente retail con un buon livello di fatturato in acquisto per la marca X, in quanto dedica al brand X un’elevata display share. Si presenta al cliente finale come potenziale “touch point di X” (per l’assortimento sbilanciato verso la marca, la presenza isole dedicate al brand, e un elevato livello di comunicazione per il brand X), ma utilizza attrezzature obsolete, ha personale con scarsa competenza tecnica e un servizio post vendita inefficiente. Il cliente retail avrà probabilmente una ‘valutazione’ scarsa da parte del cliente finale e, inevitabilmente, farà demarketing al marchio X. Il cliente retail otterrrà tuttavia una valutazione buona da parte dell’azienda di produzione della marca X in termini di economics e azioni di marketing, a causa del buon livello di fatturato in acquisto e dell’elevata richiesta di materiale POP legato alla marca X.

Esempio 2. Cliente retail con un modesto livello di fatturato in acquisto per la marca X, in quanto dedica al brand X una scarsa display share. Non si presenta al cliente finale come “touch point di X” (per l’assortimento sbilanciato verso altri marchi, l’assenza di isole dedicate al brand, e un limitato livello di comunicazione per il brand X), ma utilizza attrezzature innovative, ha personale con elevata competenza tecnica e un servizio post vendita molto efficiente. Il cliente retail avrà probabilmente una ‘valutazione’ ottima da parte del cliente finale ma, inevitabilmente, questo valore per il cliente finale non sarà associato al marchio X, essendo poco penetrato nel sistema d’offerta del retailer. Il cliente retail otterrrà, tuttavia, una valutazione scarsa da parte dell’azienda di produzione della marca X in termini di economics e azioni di marketing, a causa del limitato livello di fatturato in acquisto e della scarsa richiesta di materiale POP legato alla marca X.

Nell’Esempio 1, le azioni da sviluppare verso il cliente retail riguardano principalmente la formazione, l’adeguamento delle attrezzature e il supporto al post vendita.

Nell’Esempio 2 le azioni da sviluppare verso il cliente retail riguardano essenzialmente l’incentivo a diventare un touch point della marca X e ad aumentare di conseguenza anche le performance economiche.

Un sistema di reporting dell’azienda basato esclusivamente su performance economiche non può fornire al marketing dell’azienda di produzione questa tipologia di insight: occorre poter ‘osservare’ il punto vendita dalla sede dell’azienda per fornire simili valutazioni. Lo store check costituisce pertanto un potente tool per il Sales delle aziende di produzione industriale nelle visite ai distributori, poiché permette alla sede centrale dell’azeinda (marketing) di ‘osservare la coerenza del brand rispetto al posizionamento del punto vendita’.

Sotto il profilo tecnico, lo store check per le aziende di produzione industriale deve essere costruito a partire da una scheda di valutazione qualitativa. La scheda di store check consente di valutare il posizionamento del cliente retail sulla base di otto variabili rilevanti per il cliente finale, come mostrato nella seguente Figura, che fa riferimento al mercato degli pneumatici (per cui i distributori sono tre gommisti).

Fig1

Le otto variabili oggetto di valutazione seguono un ideale percorso di un ipotetico cliente dal momento in cui sta per entrare nel punto vendita a quando esce dal negozio. I valori finali in base ai quali è costruito il reticolo di posizionamento sono ottenuti a partire dai giudizi attribuiti dal Sales dell’azienda di produzione. Questi giudizi sono ponderati in base a pesi inizialmente definiti con il marketing dell’azienda. L’esempio raffigura tre punti vendita, uno dei quali (verde) presenta valutazioni superiori agli altri (blu e viola) rispetto a tutte le variabili oggetto di analisi, ad eccezione della leva ‘pre-visita’ per la quale il gommista ‘viola’ ha la medesima valutazione del gommista ‘verde’: il valore attribuito a ciascun item cresce infatti spostandosi dal centro del grafico verso gli estremi.

Le valutazioni quantitative (economics) e quelle qualitative (Store Check) confluiscono in una matrice di clusterizzazione dei distributori, come mostrato nella seguente Figura, dove in orizzontale è misurato il valore del cliente retail (e quindi dei relativi negozi) per il cliente finale e in verticale il valore ‘economico’ del negozio per l’azienda di produzione.

Fig2

 

Note

[1] Cfr. Lo store check e la valutazione qualitativa del punto vendita, di Alessio Abbate, economiaediritto.it N.2, Febbraio 2014

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