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costo del capitale

(di Alessio Rombolotti)

L’idea di rischio e i metodi di gestione del rischio hanno subito un’evoluzione nel tempo. Una volta fare risk management significava evitare o limitare la quantità di procedimenti legali, subiti e promossi, e assicurarsi contro i rischi. Erano tempi di relativa stabilità, di non elevata sofisticatezza degli strumenti e delle strutture finanziarie e di governance, e i sistemi di gestione del rischio non erano quantitativi, ma qualitativi, vale a dire che l’apparato statistico/matematico utilizzato era molto leggero se non assente del tutto. La progressiva diminuzione della stabilità dei mercati, l’accadimento di grandi fallimenti causati dall’eccessivo rischio assunto e aver capito che per conoscere il valore di un’attività è prima necessario conoscere il valore monetario dei rischi sono tre fattori che hanno influenzato una nuova concezione di rischio e hanno indirizzato l’evoluzione dei metodi di analisi e gestione in senso quantitativo.

Nel 1973 il Signor Black e il Signor Scholes pubblicarono un lavoro che mise le fondamenta alla nuova disciplina di risk management, in cui è presentato un modello per la definizione del prezzo di opzioni finanziarie, che in seguito è stato esteso a qualsiasi tipo di attività. La particolarità del modello di Black e Scholes è che fornisce una strategia di copertura in cui l’investimento è pari al prezzo detrminato dal modello e il valore terminale è identificato dal valore terminale dell’opzione. Per esempio tutte le imprese industriali che comprano materie prime possono gestire il rischio di crescita dei prezzi applicando diverse strategie di copertura utilizzando contratti forward, futures e opzioni.

Nonostante il mondo accademico si occupi di gestione del rischio dai primi anni settanta, le procedure quantitative hanno iniziato ad essere utilizzate su vasta scala nei primi anni 90, quando il Basel Committee on Banking Supervision ha introdotto delle misure del rischio nell’ambito della regolamentazione internazionale del capitale delle banche. Nel dicembre del 1996 JP Morgan, in associazione con Reuters, ha prodotto RiskMetricsTM – Technical Document, un manuale di analisi e misurazione del rischio, che ha segnato l’inizio dell’approccio organico al risk management quantitativo.

La decisione di incorporare la funzione di risk management in un’organizzazione viene presa quando c’è la consapevolazza dei vantaggi prodotti dalle operazioni di copertura. La copertura dei rischi aumenta il valore dell’attività? Di quanto? La domanda è doverosa perché la gestione dei rischi comporta un costo non trascurabile. Iniziamo a dire che una società che gestisce il rischio ha minor possibilità di fallire che se non lo facesse, ma a parte l’ovvia deduzione il primo effetto delle coperture è la riduzione della variabilità, nel tempo, del reddito. Si noti che questa argomentazione potrebbe non interessare ad un’investitrice che abbia diversificato il suo portafoglio, ma è rilevante per un grande azionista e per la gestione dell’azienda, infatti è proprio la variabilità che crea inefficienze di diversa natura, mentre in presenza di stabilità sia il processo decisionale che operativo sono in condizione di massima efficienza. Un beneficio meno evidente ma pur concreto è la riduzione del carico fiscale nel lungo periodo proprio perché una società che non copre il proprio rischio ha un reddito più variabile, negli anni in cui il profitto sarà elevato pagherà un importo elevato di imposte, che per diverse ragioni non è controbilanciato dalle minori imposte pagate negli anni di basso reddito.

Una politica di copertura dei rischi produce positivi effetti nella gestione dell’attività perché dovendo sostenere dei costi di copertura e protezione il valore del rischio è esplicitato. Per esempio pensiamo a due venditori: il primo acquisisce clienti poco affidabili per incrementare le vendite, il secondo vende meno ma è più conservativo. Se non copriamo il rischio di credito possiamo giudicare il venditore migliore solo dopo aver verificato le perdite sui crediti, ma se sostenessimo il costo di copertura del rischio di credito otterremo subito il risultato del confronto, senza aspettare le eventuali perdite che a questo punto non sarebbero più una preoccupazione. In generale una politica di copertura del rischio aiuta il processo decisionale perché depura in tutto o in parte la componente di rischio palesandola nei costi.

Recentemente alcune società hanno cominciato a contabilizzare il rischio con due principali obiettivi: 1. Il dimensionamento dell’equity e 2. La determinazione del costo del capitale. In teoria in assenza di rischio l’equity non sarebbe necessario, perché chiunque sarebbe disposto a finanziare un’attività che offrisse un minimo reddito garantito e non ci sarebbero perdite da assorbire, e questa considerazione ci porta alla conclusione che per determinare il valore dell’equity sia necessario non solo conoscere l’esposizione al rischio ma anche il suo valore monetario. Ogni attività ha un valore reale compreso fra lo 0% e il 100% del suo valore attuale in funzione del suo specifico rischio, se per ipotesi il valore di un’asset fosse 95, i 5 punti di differenza devono essere contabilizzati per una corretta e attuale rappresentazione della realtà. In questo modo la rilevazione del rischio permette un’immediata misura dell’adeguatezza dell’equity di una società.

Dall’altra parte il costo del capitale è solitamente calcolato utilizzando dei modelli, come il Capital Asset Pricing Model, supportati da benchmarks che rappresentano l’espressione di un mercato o di un settore. Questa pratica è accettabile da parte di un’analista esterno, che non ha accesso ai dati contabili del soggetto analizzato, ma non da parte del management interno, che rinuncia a misurare il proprio rischio per utilizzare un benchmark che solo per pura coincidenza potrebbe riflettere la realtà del soggetto. Siccome dal costo del capitale dipendono le scelte d’investimento, di struttura finanziaria e di struttura operativa, cioè tutta la pianificazione strategica dell’impresa, basare queste scelte sui dati di altri soggetti produce effetti indesiderati, vale a dire l’accettazione di decisioni e investimenti che si sarebbero dovuti rigettare oppure il rigetto di quello che si sarebbe dovuto accettare. La contabilità interna è in grado di produrre stime sul proprio costo del capitale senza dover utilizzare confronti esterni ed è questo tipo di utilizzo dei dati contabili che permette di basare le proprie decisioni e la propria strategia sulla condizione attuale e reale.

 

 

 

 

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