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Innovazione tecnologica: esercizio del credito e profili giuridici – Criticità dell’evoluzione del credito e dei servizi di pagamento dopo la PSD2

 

  1. Premesse

L’imperante progresso tecnologico registratosi nell’ultimo decennio ha costretto gli intermediari bancari e finanziari a dover fare i conti con i cambiamenti che tale innovazione ha apportato nell’esercizio delle proprie attività. Ed infatti, stiamo assistendo ad una radicale trasformazione del sistema finanziario mondiale, che vede operare nel settore nuovi attori e nuovi modelli operativi, così generando nuove esigenze. Ci si è dunque interrogati sull’effettiva tenuta dei modelli di business fin qui adoperati dagli intermediari tradizionali, constatando altresì l’esigenza di rinnovare il sistema di controllo operante nel settore, che più opportunamente individuando le autorità in tal senso competenti munisca il mercato di regole adeguate.

Per identificare la rivoluzione in atto suole utilizzarsi il termine Fintech, che sebbene ad oggi non goda di una uniforme definizione, possiamo  genericamente descrivere come “un’attività finanziaria alimentata dalle nuove tecnologie e che include l’intera gamma di servizi, prodotti e infrastrutture finanziari” (in tal senso, la Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento Europeo, nella Relazione sulla tecnologia finanziaria: l’influenza della tecnologia sul futuro del settore finanziario (2016/2243(INI)), 2017, spec. 18. Il documento sottolinea altresì che il termine suole riferirsi a “l’intero settore finanziario in tutte le sue componenti, dal settore bancario a quello assicurativo, i fondi pensione, la consulenza in materia di investimenti, i servizi di pagamento e le infrastrutture di mercato”).

L’origine del Fintech, convenzionalmente fissata nell’anno 2009, vede gli operatori tradizionali fare i conti con la crisi finanziari del periodo e la conseguente sfiducia dei clienti. Ed è proprio in questo rinnovato contesto che cominciano ad operare nuovi competitors, che coinvolgono tanto l’ambiente finanziario (c.d. start up Fintech) quanto quello industriale (con l’irruzione nel mercato dei giganti della tecnologia informatica, c.d. GAFA, quali Google, Amazon, Facebook, Apple).

Tali nuovi soggetti, facendo tesoro delle proprie competenze e del loro alto grado di digitalizzazione, sono riusciti nell’arco di breve tempo a fornire servizi di pagamento, investimento, consulenza e finanziamento a prezzi competitivi, così esercitando un’indubbia pressione competitiva sugli intermediari tradizionali. Ed invero, l’ingresso di nuovi operatori nel sistema finanziario ha obbligato quest’ultimi a reagire, investendo maggiormente nell’innovazione tecnologica e automatizzando i processi in modo da rimodulare i propri canali distributivi e fornire alla clientela servizi innovativi e di elevata qualità. In realtà, tale finalità è spesso perseguita in una combinazione dialettica, ove intermediari tradizionali e imprese fintech bandiscono partnership che consentono ai primi, di accedere a soluzioni tecnologicamente più avanzate e sviluppare prodotti e servizi innovativi a costi vantaggiosi e alle seconde, di estendere il proprio raggio di operatività alla vastissima platea di clienti degli istituti creditizi.

Voglia inoltre considerarsi, che la grave crisi sanitaria mondiale (COVID-19) e le misure di contenimento della pandemia (lockdown, distanziamento sociale, lavoro svolto nella modalità smart working), hanno funto da grande catalizzatore del processo in atto, accelerando ulteriormente l’evoluzione fin qui descritta e dando un deciso impulso all’utilizzo sempre più frequente di sistemi digitali per l’esercizio del credito da parte della clientela.

Le innovazioni che si registrano sono eterogenee (da qui la difficoltà ad inquadrarle all’interno di un unico parametro normativo), e comprendono sia servizi finanziari che bancari: dal credito (crowdfounding e peer-to-peer lending), ai servizi di pagamento (instant payment), ai servizi di consulenza (robo-advisor), alle valute virtuali (Bitcoin, Libra), nonché alle tecnologie di validazione decentrata delle transazioni e di supporto all’erogazione dei servizi (blockchain, DLT, Big data, cloud computing).

Lo sviluppo del Fintech porta con sé indubbi vantaggi, favorendo l’inclusione finanziaria sia di persone fisiche che di imprese, semplificando le attività necessarie e riducendo i relativi costi tramite una vera e propria opera di disintermediazione, così accelerando politiche di integrazione dei mercati finanziari dell’Unione Europea.

Non può sottacersi, però, che tale settore presenta altresì dei rischi, che nascono dall’applicazione di nuovissime tecnologie (ad es. intelligenza artificiale) ai processi creditizi, le quali presentano tutt’oggi numerose incognite legate alla comprensione degli algoritmi che vengono utilizzati, così ingenerando un’inevitabile crescita della vulnerabilità del sistema che presta il fianco a possibili attacchi ed incidenti di tipo informatico, altresì se si considera che la robustezza dei nuovi processi e dei nuovi operatori di credito fintech non è stata ancora testata nell’arco di un ciclo economico e di credito che sia completo.

Questo nuovo paradigma operativo (che prende il nome di open banking), si caratterizza dunque per l’evidente perdita del monopolio sul mercato creditizio da parte degli istituti bancari, e la forte tendenza alla disintermediazione nell’espletamento dei relativi servizi, tramite l’intervento di nuovi operatori nel settore (i c.d. Third-Party Providers, TPPs).

Autorità di regolazione e dottrina hanno messo adeguatamente in luce che nel nuovo mercato così delineato hanno un peso rilevante alcuni “nuovi” tipi di intermediari che, pur svolgendo un’attività del tutto simile a quella bancaria, non sono soggetti ai controlli pubblici a cui sono normalmente sottoposti gli intermediari tradizionali (c.d. fenomeno del shadow banking system), ritenendosi, per l’effetto, che fosse quanto mai opportuno intervenire sulla normativa in materia.

All’interno di tale processo ancora in fieri, la vera sfida di tutti gli stakeholders è quella di riuscire, tramite un dialogo ed una cooperazione sinergica, ad implementare un nuovo sistema in una prospettiva autenticamente riformista.

Dal dibattito internazionale in materia sono emersi essenzialmente tre modalità di integrazione del mercato, che vedono a vario titolo il coinvolgimento delle autorità nel sostegno dell’innovazione.

La prima riguarda la costituzione di innovation hubs, volti ad aiutare le imprese con prodotti ad alto contenuto tecnologico e a rispondere ai requisiti posti dalla regolamentazione. Al riguardo, la Banca d’Italia ha attivato il Canale FinTech, che si sostanzia in uno spazio sul proprio sito web ufficiale dedicato a tale tematica. La seconda modalità prevede l’istituzione di regulatory sandboxes, ovvero spazi giuridici circoscritti ove è possibile per un tempo determinato creare contesti favorevoli per gli operatori del settore al fine sperimentare nuovi prodotti e servizi prima di introdurli nel mercato finanziario ufficiale.

Tale spazio operativo, già sperimentato da altri Paesi (in Europa significativa è l’esperienza del Regno Unito e della Francia), è stato da ultimo introdotto anche in Italia con il d.lgs. n. 100/2021 (c.d. Decreto Stabilità), che ha previsto l’istituzione di una regulatory sandbox, con decorrenza dal 15 novembre 2021 al 15 gennaio 2022, quale prima finestra temporale per la presentazione delle richieste di ammissione alla sperimentazione. La terza, infine, consiste nella creazione dei c.d. incubators, ove le autorità sono coinvolte in via diretta allo sviluppo di progetti, anche attraverso forme di partnership e cofinanziamento.

 

  1. Stato dell’arte

In questo scenario, e allo scopo di ammodernare il quadro giuridico di riferimento, vari sono stati gli interventi normativi tanto a livello sovranazionale che nazionale.

All’interno dei confini nazionali deve darsi opportuno rilievo all’indagine conoscitiva della Camera dei Deputati del dicembre 2017, «sulle tematiche relative all’impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo», che seguiva al lavoro svolto dalla Banca d’Italia tramite l’indagine conoscitiva «sull’adozione delle innovazioni tecnologiche applicate ai servizi finanziari».

Ed infatti, negli ultimi anni, talune Autorità di Vigilanza nazionali, quali indubbiamente la Banca d’Italia ma altresì la Consob, hanno svolto un prezioso lavoro di supporto in materia, portando avanti oramai da anni progetti di sviluppo e producendo così materiale che si è rivelato fondamentale per gli organismi deputati alla regolamentazione (ricordiamo, fra i tanti, l’importante lavoro svolto dalla Consob tramite un progetto sul tema i cui risultati sono stati presentati al Fintech District di Milano nel dicembre 2017).

Tuttavia, deve dirsi che, il maggior contributo, data la ferma volontà degli Organismi preposti di ricercare una regolamentazione d’ampio respiro che coinvolga tutti i Paesi membri della comunità europea onde evitare arbitraggi normativi nazionali, è stato fornito dall’Unione Europea.

Volendo qui citare solo alcuni dei contributi di maggior rilievo, devono muoversi i primi passi partendo dalle evoluzioni registratesi in materia di consulenza finanziaria automatizzata (si rimanda alla negoziazione algoritmica con precipuo riferimento a quella svolta in alta frequenza, c.d. HFT), non potendosi non far cenno alla Direttiva 2004/39/CE (Market in Financial Instruments Directive, c.d. Mifid I), che mirava ad un livello di armonizzazione minimo in termini di regolamentazione dei mercati e delle imprese di investimento a livello europeo.

A quest’ultima, segue nel 2014, la Direttiva n. 65 dell’UE, nota anche come Mifid II, e il Regolamento n. 600 dell’UE, c.d. Mifir, i quali implementeranno la versione originaria. Alla normativa in materia così aggiornata (Mifid II), seguono poi le linee guida dell’ESMA (ESMA35-43-869/28 May 2018), tese ad aggiornare le precedenti linee guida in materia (ESMA/2012/387), ma soprattutto ad estendere il perimetro applicativo della disciplina in esame ad altre innovazioni tecnologiche legate alla consulenza automatizzata (il c.d. robo advice).

Anche il progressivo uso dell’intelligenza artificiale (AI) all’interno dei vari sistemi operativi ha posto, di recente, problemi circa una corretta e puntuale regolamentazione della materia, soprattutto per ciò che concerne i diritti e le responsabilità delle macchine e la corretta individuazione dei soggetti a vario titolo coinvolti. È per questo che, nel febbraio 2020, è stato pubblicato da parte della Commissione Europea un Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale, con l’evidente intenzione di meglio regolamentare al più presto anche tale innovazione.

Altro settore in poderoso sviluppo risulta essere quello del crowdfunding (nelle sue varie tipologie che spaziano dall’equity crowdfounding al lending crowdfounding), tanto da richiedere un’attenta opera di studio da parte delle Autorità di Vigilanza (per quel che riguarda l’Italia, grande apporto è stato fornito da parte della Consob), fino a giungere all’emanazione del Regolamento europeo 2020/1503, che prevede per i gestori un c.d. regime di passaporto, ovvero la possibilità di operare in tutto il territorio europeo a seguito di autorizzazione rilasciata direttamente dall’ESMA, onde evitare arbitraggi normativi, e la cui applicazione è prevista a decorrere dal prossimo 10 novembre 2021.

Merita, altresì, una menzione speciale il Regolamento europeo 2016/279, o General Data Protection Regulation (conosciuto come GDPR), che nasce con l’obiettivo di coordinare a livello europeo le norme relative alla protezione dei dati personali, superando così la frammentazione derivante dai diversi regimi nazionali. Tale normativa risulta essere il principale riferimento per gli operatori del settore in materia di gestione dei dati personali e di tutela della privacy degli utenti.

Grande importanza ha poi avuto la c.d. Direttiva NIS (Direttiva Europea 2016/1148 – Network and Information Security), recepita in Italia ad opera del d. Lgs. 18 maggio 2018, n. 65, intesa a definire le misure necessarie a conseguire un elevato livello di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi (c.d. cybersecurity). Il decreto sopracitato, si applica agli Operatori di Servizi Essenziali (OSE) e ai Fornitori di Servizi Digitali (FSD).

Gli OSE sono i soggetti, pubblici o privati, che forniscono servizi essenziali per la società e l’economia nei settori sanitario, dell’energia, dei trasporti, delle infrastrutture, della fornitura e distribuzione di acqua potabile e per ciò che qui rileva bancario e dei mercati finanziari oltreché delle infrastrutture digitali.

Gli FSD sono le persone giuridiche che forniscono servizi di e-commerce, cloud computing o motori di ricerca, con stabilimento principale, sede sociale o rappresentante designato sul territorio nazionale, chiamando in causa anche in questo caso soggetti che operano oggigiorno nel mercato finanziario.

Fermo restando la centralità delle normative fin qui richiamate, tornando ad una visione di insieme del fenomeno Fintech, si ricorda il lavoro svolto dal Comitato di Basilea nel 2018, il quale ha pubblicato un documento (Implications of fintech developments for banks and bank supervisors), dotato di 10 osservazioni, ove si è delineato il panorama fintech e gli auspicabili approcci di vigilanza legati ai suoi sviluppi, analizzando le implicazioni del fintech per le banche e le sfide che tale fenomeno comporta per l’attività di vigilanza, conducendo altresì indagini più dettagliate sul rapporto tra innovazione e prassi autorizzative. Il lavoro svolto dal Comitato ha dato opportuno rilievo alla necessità che l’azione di vigilanza sia orientata a preservare la sicurezza e la stabilità del sistema finanziario, senza però pregiudicare i benefici apportati dall’innovazione tecnologica nel settore.

Di preminente rilievo, poi, risulta essere la Direttiva 2007/64/CE (c.d. PSD, recepita nel nostro ordinamento mediante il d. lgs. n. 11/2010), nel settore dei servizi di pagamento, da ultimo sostituita ad opera della Direttiva 2015/2366/UE (c.d. PSD2), e recepita in Italia dal d.lgs. 15 dicembre 2017 n. 218, allo scopo di sviluppare un mercato interno della zona Euro (c.d. SEPA – Single Euro Payments Area), che garantisca l’efficienza e la sicurezza dei pagamenti e dei rapporti bancari.

In particolare, la PSD2, prendendo atto dell’imponenza del fenomeno dei pagamenti elettronici e delle differenti modalità con le quali essi si effettuano, ha inteso ampliare il novero dei prestatori di servizi di pagamento soggetti alla disciplina (anche i Third-Party Providers, sono assoggettati alla nuova disciplina PSD2), predisponendo, altresì, misure di sicurezza più rigide rispetto al passato (per rafforzare la sicurezza nei trasferimenti di denaro prevede la c.d. Strong Costumer Authentication, la quale deve permettere di poter chiaramente identificare sia l’utente che l’operazione che sta per compiere).

Le scelte normative della PSD2 si fondano sui principi della neutralità rispetto ai profili tecnologici (le definizioni contenute nella direttiva non sono infatti vincolate dal riferimento a specifiche soluzioni tecniche, in modo da poter ricomprendere anche eventuali nuove fattispecie) e della proporzionalità (l’azione regolamentare e di vigilanza è infatti commisurata alle specifiche attività poste in essere dai diversi operatori e ai relativi rischi).

All’interno della normativa vengono annoverati sia i prestatori di servizi di disposizione di ordini di pagamento (o Payment Initiation Service Providers, PISPs) che i prestatori di servizi di informazione sui conti (Account Information Service Providers, AISPs).

Più in dettaglio, i servizi del primo tipo consentono al prestatore (PISP) di disporre un pagamento, per conto dell’utente, a valere su un conto intrattenuto da quest’ultimo presso un altro intermediario, assicurando contestualmente al beneficiario del pagamento che lo stesso è stato disposto. In termini tecnici, essi consentono di effettuare bonifici on line attraverso un software che fa da ponte tra il sito web del commerciante e la piattaforma di online banking della banca del pagatore.

I secondi (AISPs), invece, nascono con l’obiettivo di fornire all’utente informazioni relative ai conti che lo stesso intrattiene presso altri intermediari, consentendogli di avere un quadro generale della propria situazione finanziaria.

Significativa appare, dunque, l’attrazione delle attività in esame nell’alveo dei servizi di pagamento (con conseguente estensione del relativo regime normativo), se solo si osserva come le stesse, diversamente dalle altre fattispecie incluse nella medesima categoria, non si traducono nella gestione di conti di pagamento, né nell’esecuzione di operazioni di prelievo/versamento su conti o di pagamento mediante moneta scritturale, ma si risolvono in attività di mero impulso ad operazioni di pagamento che verranno eseguite da soggetti diversi, ovvero si limitano ad avere una valenza prettamente informativa.

La ratio dell’inclusione di tali fenomeni nella normativa discussa da parte del legislatore europeo, dunque, trova spiegazione nella volontà di assicurare un’adeguata cornice normativa, comprensiva di efficaci forme di controllo ad attività che, sfruttando le potenzialità insite nelle nuove tecnologie, risultano fondamentali per lo sviluppo dei pagamenti elettronici ma necessitano, al contempo, di regole che garantiscano l’efficacia e la sicurezza delle transazioni, nonché la protezione dei fondi e dei dati personali dei soggetti coinvolti, evidentemente esposti, a maggiori rischi di attacchi esterni.

 

  1. Le questioni

Emerge, dalle ultime considerazioni che precedono, l’ampio ventaglio di problematiche giuridiche che interessano la materia in esame, con particolare riferimento a ciò che riguarda i servizi di pagamento e la normativa di settore (c.d. PSD2).

Che la regolazione dei servizi di pagamento si adatti alle peculiarità del sistema di riferimento è una questione di particolare importanza sia da un punto di vista squisitamente economico, in considerazione della rilevanza pubblica degli interessi in gioco, sia da un punto di vista giuridico, in considerazione del fatto che si tratta di operazioni caratterizzate da un lasso temporale intercorrente dal momento in cui una data obbligazione viene negoziata e il momento in cui avviene il suo regolamento finanziario, oltre al fatto che in tale catena temporale di sovente intervengono diversi operatori.

Più precisamente, la dottrina che sino a questo momento si è occupata del fenomeno dell’open banking pare avere concentrato l’attenzione su alcuni specifici filoni d’indagine, riferibili, in particolare, a tre distinte macro-tematiche, così sintetizzabili:

  1. a) l’apertura del mercato a nuovi competitors e i relativi profili in materia di diritto alla concorrenza;
  2. b) tutela della riservatezza dei dati dei titolari dei conti, alla luce delle nuove procedure e nel difficile equilibrio tra GDPR e PSD2;
  3. c) il problema della sicurezza nelle transazioni e la correlativa responsabilità civilistica.

È evidente che la continua evoluzione della materia nonché la sovrapposizione che spesso si registra fra normative e organismi di regolazione necessita di un approccio settoriale, che cerchi di mettere in luce i risvolti che si sono via via registrati nelle summenzionate tematiche ed i suoi possibili sviluppi.

 

  1. L’apertura del mercato a nuovi operatori e profili di diritto della concorrenza.

Specie con riferimento alla PSD2, ma il discorso si presta anche in relazione alle altre normative di settore, l’ingresso di nuovi operatori (TTPs) nel mercato finanziario ha certamente rinnovato il tono competitivo, ammodernando i processi distributivi e garantendo una maggiore diffusione e velocità nei servizi di pagamento.

Chiaramente, questo ha richiesto una rivisitazione delle regole in materia, strumentali al raggiungimento di tali obiettivi. Ed infatti, è stato introdotto un vero e proprio obbligo normativo in capo agli istituti bancari (la c.d. access to account rule), che impone loro di condividere i dati dei propri correntisti con altri soggetti (nello specifico i PISPs o gli AISPs che dovessero richiederli, previo consenso del cliente, nell’esercizio delle proprie attività), in nome dell’innovazione, dell’efficienza e dello sviluppo competitivo del mercato dei servizi di pagamento.

Sotto diverso profilo, invece, le regole sull’accesso ai conti consentono di esonerare da responsabilità i correntisti rispetto alla violazione dell’obbligo di non comunicare a terzi quei dati riservati richiesti per la fruizione dei servizi di internet banking e per il compimento delle operazioni di pagamento, posto che tale condotta è ritenuta, di regola, indicativa di una grave negligenza, e dunque atta a fondare la responsabilità dell’utente per eventuali transazioni non autorizzate. Le due regole appena richiamate permettono, in sostanza, l’esercizio di attività che troverebbero altrimenti un ostacolo nelle regole generalmente indicate in materia.

A tal proposito, questione di non agevole soluzione, è l’individuazione degli strumenti di intervento attivabili dalle autorità antitrust a fronte di possibili comportamenti anticoncorrenziali degli ASPSPs, volti a negare o ad ostacolare l’accesso ai conti dei clienti da parte di TTPs debitamente autorizzati dai titolari dei conti stessi.

Il mercato bancario, si trova difatti sottoposto a due tipi di regolamentazione: quella di settore, tipicamente preoccupata della corretta gestione delle imprese e della stabilità e solvibilità delle banche che deve al contempo fare necessariamente i conti con le nuove caratteristiche dell’odierno mercato, e quella della tutela della concorrenza (legislazione antitrust), ponendo delicati problemi di conciliabilità fra gli scopi dei due complessi di norme e delle autorità preposte all’osservanza dei relativi precetti.

La dottrina appare divisa sul punto, oscillando fra chi giunge ad affermare che «i conti di pagamento nel loro insieme finiscono con il rivestire il ruolo di un’essential facility, e dunque la previsione di un’obbligatoria accessibilità consente di garantire la piena concorrenza tra tutti i prestatori di servizi di pagamento, anche non bancari, che operano sulla rete dei conti nell’interesse dell’utente finale dei servizi», mentre altri si limitano ad osservare, come «il “sistema dei conti di pagamento” assurge al ruolo di “infrastruttura essenziale” sui generis, con rilevanti impatti sul sistema di relazioni tra gli operatori».

In senso opposto, tuttavia, v’è anche chi ritiene che il legislatore europeo abbia inteso individuare nei conti di pagamento delle facilities “necessarie” per la fornitura agli utenti di nuove tipologie di servizi, ma non per questo “essenziali” ai medesimi fini, quanto meno non nella (restrittiva) accezione del termine comunemente accolto dal diritto della concorrenza; ed ancora, chi sostiene che richiamare, nella specie, l’accesso ad una essential facility risulti sostanzialmente fuorviante, sussistendo, oltre ad alcune significative differenze con le classiche figure di riferimento, notevoli difficoltà nell’individuare gli esatti confini del mercato rilevante, ovvero di ravvisare in capo alle banche una posizione dominante e, quindi, il presupposto primo per poter configurare eventuali condotte abusive.

Ulteriore fattore di complicazione, poi, è riscontrabile nella natura eterogenea dei nuovi competitors degli istituti di credito, tra le cui fila non si osservano solo imprese del ramo Fintech ma, come già accennato, le c.d. Big Tech companies che, grazie alle loro dimensioni, alla loro potenza economica, nonché all’alto grado di digitalizzazione di cui sono strutturalmente fornite, sono in grado di alterare profondamente le dinamiche e l’assetto dell’attuale mercato finanziario e creditizio. È, d’altra parte, innegabile il vantaggio competitivo di cui quest’ultime godono, se solo si considerano non solo le loro dotazioni tecnologiche, ma altresì che lo sfruttamento della grande massa di dati raccolti all’interno del proprio bacino di utenti (c.d. Big data) è una pratica di cui sono stati indubbiamente pionieri e verso la quale detengono una vera e propria egemonia.

Appare lecito, dunque, interrogarsi sulla necessità di adottare strumenti che consentano di riequilibrare la relazione competitiva tra banche e Big Tech.

Su questi temi, ancora poco esplorati, ha iniziato a confrontarsi parte della dottrina, muovendo specificamente dal presupposto che le norme della PSD2 vietano sì, in linea di principio, lo sfruttamento dei dati dei conti da parte dei TPPs per scopi diversi dall’erogazione dei servizi di pagamento dagli stessi prestati, ma non sembrano impedire, tuttavia, che i dati e le informazioni acquisite nell’espletamento dei servizi in questione possano essere ulteriormente utilizzati e/o incrociati dal provider. Più specificatamente, non sembra sussistere alcun divieto perché gli operatori utilizzino tali informazioni di concerto con altri dati relativi all’utente, ai fini di una prestazione mirata, più efficiente e maggiormente personalizzata dei servizi medesimi, con benefiche ripercussioni anche per l’innovazione.

Proprio in virtù di tale possibile sviluppo, è stata prospettata la possibilità di prevedere una clausola di reciprocità nei confronti delle Big Tech companies che abbiano deciso di agire sul mercato come TTPs, ipotesi che, qualora confermata, farebbe sì da efficace contrappeso agli evidenti vantaggi che la normativa odierna riconosce ai colossi dell’industria tecnologica, ma aprirebbe al contempo la strada ad ulteriori quesiti interpretativi sul piano normativo ed applicativo (rispetto a quali imprese? E a che condizioni? E limitatamente a quale tipologia di dati?).

 

  1. b) Tutela della riservatezza dei dati dei titolari dei conti di pagamento ed accessibilità dei medesimi da parte di soggetti terzi.

Ulteriore profilo controverso attiene alla tutela dei dati personali dei clienti, atteso che il nuovo regime di open banking postula l’accesso ai conti e ai relativi dati da parte di soggetti esterni (TTPs o terzi), con la conseguente necessità di tutelare gli utenti da un uso illegittimo dei suddetti, oltre che dal rischio di frodi perpetrate abusando di informazioni personali e riservate.

A dispetto dell’indubbia rilevanza pratica del problema, la PSD2 detta, sul punto, regole piuttosto scarne, limitandosi sostanzialmente a vietare un uso dei dati dei correntisti diverso da quello direttamente correlato all’attività tipica dei TPPs. In estrema sintesi, infatti, il PISP non può chiedere al pagatore dati diversi da quelli strettamente necessari a prestare il servizio di disposizione di ordini di pagamento, non usa e non conserva dati e non vi accede per fini diversi dalla prestazione del servizio, né conserva dati sensibili relativi ai pagamenti eseguiti dal pagatore; l’AISP, per canto suo, accede alle sole informazioni sui conti di pagamento designati e sulle operazioni di pagamento eseguite su detti conti, senza richiedere dati sensibili relativi ai pagamenti, e senza usare né conservare detti dati, né potendovi accedere per fini diversi dalla prestazione del servizio di informazione sui conti.

La disposizione ha, oltretutto, carattere generale, riferendosi alla protezione dei dati personali nel contesto della prestazione di ogni tipo di servizio di pagamento (compresi, dunque, quelli erogati dai TPPs).

Relativamente ai punti trattati, dunque, l’impianto della PSD2 risulta alquanto asciutto, ma soprattutto sprovvisto, per altro verso, di regole idonee a garantire un efficace coordinamento con la normativa generale in materia di protezione dei dati personali (Regolamento UE 2016/679, c.d. GDPR), della quale si assume l’applicazione contesto della prestazione dei servizi di pagamento.

Ed invero, la coesistenza delle due normative non appare affatto semplice, sollevando una serie di questioni interpretative che, in difetto di un adeguato raccordo, non sembrano trovare agevole risposta.

Nel merito, voglia innanzitutto considerarsi la diversa portata che rivestono, e dunque i differenti riflessi che ne conseguono, alcune nozioni rievocate da entrambe le normative in analisi, quali il concetto di «dati sensibili» o di «consenso esplicito» dell’utente. A ciò si aggiungano i dubbi circa il trattamento dei dati delle c.d. silent parties (ovvero i beneficiari dei pagamenti) da parte dei TPPs, o, per fornire un ulteriore esempio, dei criteri distribuzione di responsabilità tra prestatore di servizi di pagamento del conto e TPP, a fronte di un illecito utilizzo dei dati del cliente, specie in assenza di appositi accordi contrattuali tra tali soggetti.

È chiaro, quindi, che in materia di servizi di pagamento, le delicate questioni appena richiamate devono trovare una propria regolamentazione tramite una lettura congiunta di quanto disposto dal PSD2, che si pone quale specifica normativa di settore, ed il GDPR, che è al contempo la normativa di riferimento per la tutela della privacy degli utenti.

Pertanto, è auspicabile che venga chiarita la reale estensione dei limiti all’utilizzo dei dati medesimi, per come effettivamente imposti dall’ordinamento.

Basti ricordare, che il divieto di sfruttare ulteriormente a fini commerciali i dati acquisiti dai TPPs nello svolgimento dei nuovi servizi di pagamento non sembra precludere, alle imprese che ne abbiano la capacità e le competenze, la combinazione degli stessi con altre informazioni relative agli utenti, in funzione di una prestazione maggiormente personalizzata dei servizi medesimi. A ben considerare, infatti, in simili casi si rimarrebbe nell’ambito di un uso dei dati personali del cliente ai fini della (migliore) erogazione degli stessi servizi rispetto ai quali l’originario trattamento era stato autorizzato dall’interessato.

Il dubbio che può sorgere, tuttavia, è se sia concepibile l’uso dei dati dei conti anche per scopi diversi e ulteriori rispetto a quelli sopra descritti, e segnatamente in vista della prestazione di servizi (finanziari e non) distinti da quelli nel contesto dei quali tali dati siano stati già acquisiti e trattati.

Deve dirsi che, a tal proposito, giungono forti testimonianze da altri ordinamenti (quali, ad esempio, quello statunitense o del Regno Unito) ove i servizi di informazione sui conti, si traducono nell’aggregazione di un vasto set di informazioni di natura finanziaria riferite ai clienti, poi utilizzate anche ai fini della vendita ai medesimi di prodotti e servizi del ramo finanziario (creditizi, di investimento, assicurativi o previdenziali), individuati come adeguati alle loro specifiche caratteristiche ed esigenze personali.

Al riguardo, sebbene il tenore letterale delle disposizioni di riferimento (art. 66-7, PSD2) induca, a prima vista, ad intravedere l’esistenza di un divieto assoluto, a carico dei TPPs, di ulteriori trattamenti dei dati personali dei titolari dei conti), tale interpretazione si porrebbe palesemente in contrasto con le disposizioni del GDPR, che non sembrano affatto escludere, nella specie, la liceità di trattamenti ulteriori di dati già raccolti.

Nulla, invero, sul piano giuridico sembra impedire ad un utente di poter autorizzare (conferendo apposito e distinto mandato ai TTPs) il trattamento e l’utilizzo ulteriore dei propri dati personali registrati in uno o più conti di pagamento, nell’ottica della successiva fruizione, nel proprio interesse, di altri prodotti e servizi a valore aggiunto, che presuppongano l’uso di tali informazioni. finalità).

In simili ipotesi, pertanto, non si configurerebbe alcuna violazione del divieto espresso dagli artt. 66 e 67 PSD2, bensì l’esercizio di un diritto soggettivo all’uso dei propri dati, riconosciuto dalle disposizioni generali in materia di data protection (GDPR) in conformità alle quali deve essere letta e applicata la normativa di settore (PSD2). Atteso che, se questa lettura fosse confermata, ciò aprirebbe ad una nuova prospettiva ove potrebbero incoraggiarsi progetti che sconfinano dalla specifica area tematica dei servizi di pagamento per involgere alle ulteriori e innovative modalità di interazione, è evidente che l’ambigua disciplina odierna presta il fianco a non pochi dubbi interpretativi.

 

  1. c) Open banking e sicurezza delle transazioni. Responsabilità civilistica dei TPPs in relazione alla prestazione dei servizi di pagamento.

La frammentazione della catena procedimentale in materia di servizi di pagamento e l’inserimento entro quest’ultima di soggetti terzi (TTPs) in modalità digitale, ha aumentato i rischi di frodi informatiche a danno degli utenti.

È proprio il tema delle operazioni di pagamento non autorizzate e delle relative responsabilità uno dei più caldi della materia, che ha impegnato tanto la dottrina quanto la giurisprudenza nel tentativo di coordinare le normative interne con quanto previsto in materia dalla PSD2.

Deve subito sottolinearsi come la normativa in esame ponga una chiara scelta di favor nei confronti del cliente, rilevabile con riferimento al regime dell’onere probatorio. Ed infatti, è espressamente previsto che, in caso di contestazione di una specifica operazione di pagamento, per sottrarsi al rimborso del relativo importo il prestatore di servizi deve in primo luogo dimostrare che essa è stata autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che non ha subito le conseguenze di guasti tecnici o altri inconvenienti, per poi offrire l’ulteriore prova della frode o della grave negligenza da parte dell’utente.

Il prestatore dei servizi di pagamento, infatti, è tenuto a rispondere anche della sicurezza e dell’affidabilità del servizio nei confronti dell’utenza, in virtù sia di quanto stabilito dalla normativa di settore, sia, più in generale, degli obblighi di diligenza professionale qualificata gravanti ex lege sull’intermediario (art. 1176, comma 2, c.c.). In questa logica si spiega, dunque, l’obbligo per ogni prestatore di servizi di pagamento di adottare i presidi di sicurezza e gli accorgimenti tecnici più evoluti al fine di prevenire eventuali frodi.

D’altronde, il grande rilievo dato ad opportuni sistemi di sicurezza è testimoniato da quanto previsto all’art. 74.2 PSD2 (art. 12, comma 2-bis, d. lgs. n. 11/2010), il quale prevede la c.d. autenticazione forte, che consiste in una procedura che consente al PSP di verificare l’identità di un utente o la validità dell’uso di uno strumento di pagamento (compreso l’uso delle credenziali di sicurezza personalizzate), basata sull’impiego di due o più elementi tra loro indipendenti (classificabili nelle categorie del «qualcosa che solo l’utente conosce», «qualcosa che solo l’utente possiede», o «qualcosa che caratterizza l’utente») e concepita in modo da assicurare la riservatezza dei dati di identificazione.

Le decisioni della giurisprudenza in materia tendono, invero, a considerare lo squilibrio che informa il rapporto tra le due parti. Per tali motivi, è stato più volte ribadito il principio secondo il quale la mera dimostrazione documentale che l’autenticazione è stata effettuata con le credenziali dell’utente non libera, di per sé sola, l’intermediario dalle proprie responsabilità.

Al riguardo, il Collegio di Coordinamento (decisione n. 22745/2019), anche sulla scorta del costante orientamento dei Collegi territoriali, ha recentemente rilevato che «l’onere probatorio previsto nei commi 1 e 2 dell’art. 10 del decreto [d.lgs. n. 11/2010 di recepimento della PSD, come da ultimo modificato dalla PSD2] deve necessariamente essere assolto dal PSP con riguardo ad ambedue i profili (autenticazione ed esecuzione delle operazioni di pagamento, nonché colpa grave dell’utilizzatore), da ritenersi necessari e complementari».

Pertanto, ove non assolto l’onere probatorio richiesto, l’utente non potrebbe essere chiamato a sopportare il danno derivante dall’operazione di pagamento non autorizzata, neppure qualora si vertesse in un’ipotesi di colpa grave (in tal senso il Collegio di Napoli, decisione n. 22389/2019).

D’altronde, sempre in relazione all’analisi del comportamento delle parti, accade frequentemente che l’Arbitro Bancario Finanziario rilevi una responsabilità dell’intermediario per la mancata attivazione del servizio di sms alert. Al riguardo, va sottolineato che il Collegio di Coordinamento, uniformandosi al consolidato orientamento dei Collegi territoriali sul punto, ha ravvisato nella mancata attivazione del servizio «una carenza organizzativa imputabile all’intermediario resistente il quale, data la natura di misura di sicurezza del sistema di sms alert, non dovrebbe limitarsi a proporlo al cliente ma dovrebbe adottarlo in modo generalizzato».

Infatti, con la decisione n. 24366/2019 (richiamando Cass. n. 2950/17 e n. 9158/18), il Coll. Coord. ha stabilito che «fra i doveri di protezione dell’utente gravanti sull’intermediario rientra l’onere di fornire il servizio di sms alert o assimilabili da cui l’intermediario può essere esonerato solo dimostrando l’esplicito rifiuto dell’utente ad avvalersene».

Ebbene, il quadro normativo sopra rappresentato è stato sostanzialmente esteso anche agli operativi attivi nel nuovo panorama dell’open banking, ove gli aspetti di maggiore novità concernono, tuttavia, la definizione dei rapporti tra i prestatori di servizi di pagamento di radicamento dei conti e i PISPs, con specifico riferimento alle ipotesi in cui le operazioni di pagamento siano state disposte tramite questi ultimi. L’intervento di un provider terzo, legittimato ad inserirsi nel rapporto tra ente detentore del conto di pagamento e soggetto pagatore, rende infatti necessario stabilire quale, tra i predetti prestatori di servizi di pagamento, sia responsabile di eventuali transazioni fraudolente (come anche inesatte, o ineseguite) in danno dell’utente.

In tali ipotesi di intervento del PISP, vale la regola generale secondo la quale chi assume di essere stato danneggiato da un pagamento non autorizzato o fraudolento ha diritto ad ottenere il rimborso della relativa somma, che dovrà essere eseguito (non dal PISP, ma) dall’ASPSP entro la giornata operativa successiva alla richiesta, salvo che non sussista un ragionevole sospetto di frode. Il PISP, tuttavia, dovrà immediatamente rimborsare all’intermediario presso il quale è radicato il conto l’importo dell’operazione contestata, nonché risarcire quest’ultimo anche per le perdite subite (Art. 74.2 PSD2, art. 11, comma 2-bis, d. lgs. n. 11/2010).

Nonostante la scelta operata dal legislatore europeo e trasfusa all’interno del nostro ordinamento debba essere apprezzata, per il mantenimento di un trattamento di favor verso l’utente (che risulterà ad ogni modo, e celermente, rimborsato), non può negarsi che la normativa in esame non chiarisce opportunamente la dinamica dei rapporti intercorrenti fra i vari operatori intervenuti durante la catena di pagamento.

La questione è ancor più controversa se si considera che, all’interno della normativa italiana, la disciplina non è stata ricalcata pedissequamente, e i rapporti tra PISP e ASPSP sembrerebbero articolati, secondo una sequenza procedimentale che contempla una prima fase a carattere sommario (legata all’urgenza, stabilita per legge, di provvedere al massimo entro una giornata lavorativa), durante la quale il primo è tenuto a corrispondere al secondo, dietro semplice richiesta, l’importo dell’operazione contestata dal cliente, cui farebbe seguito una seconda (ed eventuale) fase di merito, nel contesto della quale potrebbe trovare più adeguato spazio l’esercizio delle azioni per il risarcimento delle (possibili) maggiori perdite subite dal prestatore di servizi di pagamento di radicamento del conto, o delle azioni di regresso tra intermediari.

Invero, tale sequenza logico temporale non trova alcun conforto nella normativa europea (PSD2), che pare semmai orientata verso una soluzione maggiormente unitaria, prevedendo che il PISP, se responsabile dell’operazione non autorizzata, debba immediatamente risarcire l’ASPSP, su richiesta di quest’ultimo, per le «perdite subite o gli importi pagati in conseguenza del rimborso al pagatore, compreso l’importo dell’operazione di pagamento non autorizzata» (art. 74.2 PSD2). È auspicabile, pertanto, che quanto prima si riesca a dotare la disciplina di un’interpretazione più coerente, ancor più se si considera che la PSD2 è intervenuta al fine di armonizzare le soluzioni adottate dai singoli Stati membri, ed evitare discrasie di qualsiasi sorta.

 

  1. Le prospettive

Quello del credito digitale è, con tutta evidenza, un fenomeno multiforme ove plurimi sono gli strumenti da esaminare, i soggetti da tenere in considerazione e le implicazioni che discendono dall’interazione degli uni con gli altri. Come si è visto, tale caratteristica del fenomeno si è tradotta in una difficoltà anche sul piano normativo, ove l’auspicio è quello di assistere, in tempi brevi, alla dotazione di una regolamentazione aperta e flessibile, capace di adattarsi in un approccio funzionale ad una materia che è in continuo divenire. D’altra parte, il dibattito attuale europeo è volto a comprendere verso quale paradigma regolatorio stiamo andando.

Sarebbe auspicabile, dunque, tenuto ben conto di quanto precede, individuare una interpretazione della normativa nei suoi vari spazi applicativi che contemperi adeguatamente gli interessi in gioco, con uno sguardo che per quanto mosso dal fine primario di tutelare gli utenti, consideri correttamente che l’innovazione tecnologica, oltre ad essere un processo oramai irreversibile, deve essere intesa quale occasione per ampliare il benessere delle persone, e dunque il più possibile accolta e favorita.

Impedire l’evoluzione in esame andrebbe a pregiudicare lo stesso interesse degli intermediari tradizionali, che si troverebbero nell’arco di poco tempo al di fuori delle richieste del mercato, in un sistema che con tutta evidenza non si presenta più come bancocentrico. Ma ancor più, ed in generale, non risulterebbe funzionale a favorire la libera concorrenza del settore, finalizzata alla massimizzazione dei servizi e la conseguente evoluzione degli strumenti adoperati.

Sembrerebbe, dunque, opportuno promuovere l’elaborazione di un linguaggio intersettoriale realmente unitario e condiviso, volto a garantire l’uniforme e coerente interpretazione ed applicazione dei testi normativi, a definire con maggiore precisione gli ambiti di applicazione delle disposizioni rilevanti, a coordinare e rendere più efficienti i controlli e a razionalizzare gli adempimenti a carico degli operatori.

(A cura di Martina Motta)


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