Economia

Alla ricerca del ‘valore’ nella storia del pensiero economico

(di Alessio Abbate)

  1. Premessa*

Il marketing, così come la finanza aziendale, è incentrato sul concetto di ‘valore’. Si parla di ‘creazione di valore per il cliente’ piuttosto che di ‘stima del valore dell’impresa’. Non esiste un concetto univoco di valore. Si pensi al valore della marca (brand equity): anche questo può differire molto in base al punto di vista dell’analisi. Una marca potrebbe avere uno scarso valore per il (singolo) cliente e tuttavia generare elevati volumi di vendita, creando così valore per l’azienda che la commercializza. Allo stesso modo, il valore contabile di un’azienda è diverso dal valore economico della stessa. E il valore creato da un’azienda, o quello percepito dal singolo cliente, aggiunge valore anche all’intera economia? Che cosa è, in effetti, il valore? Il prezzo dei beni riflette sempre il loro valore?

Le definizioni di valore proposte dagli economisti nel corso di quattro secoli sono tutt’altro che univoche e possono essere essenzialmente ricondotte a due grandi sistemi di pensiero: quello classico e quello neoclassico[1].

In questo articolo sono descritte sinteticamente le principali teorie del valore proposte nella storia del pensiero economico, a partire dai mercantilisti fino ai teorici dei modelli di accumulazione.

E’ ovvio che la seguente trattazione non può considerarsi esaustiva, essendo la teoria del valore il principio base su cui si fonda l’intera scienza economica[2].

Nella ferma convinzione che ‘ogni conoscenza della realtà culturale […] (sia) sempre una conoscenza da particolari punti di vista[3]’, il proposito di questo articolo è fornire un giudizio di coerenza interna per ciascuna teoria, o gruppo di teorie, evidenziandone i principali pregi e limiti nell’ambito del ‘paradigma culturale’ di riferimento.

L’articolo si termina dunque con l’analisi del particolare punto di vista che accomuna ciascun gruppo di teorie.

  1. Il Mercantilismo[4]

I primi, sia pur frammentati e non formalizzati, tentativi di analisi sistematica del capitalismo (commerciale) possono essere ricondotti alle figure dei grandi mercanti che nel sec. XVII dominavano l’economia dei paesi colonialisti in una società caratterizzata da una forte struttura gerarchica, e che, per diletto o in quanto consulenti delle grandi compagnie commerciali, scrivevano precetti e raccomandazioni di politica economica rivolte ai capi degli Stati nazionali[5].

Le teorie mercantilistiche avevano, tuttavia, un fine extraeconomico: la descrizione della potenza dello Stato nazionale come diretta conseguenza dell’accumulazione di ricchezza (reale o monetaria).

La ricchezza (merci, beni, tesoro e oro) era vista dai mercantilisti come una quantità determinata (un fondo di valori): gli Stati nazionali competevano per aggiudicarsi la fetta più grossa della torta. L’arricchimento era il risultato di uno scambio diseguale con i Paesi sottosviluppati, basato sulla colonizzazione e, quindi, sull’imposizione di clausole vessatorie che assicuravano lavoro (schiavi), merci e metalli preziosi.

I mercantilisti osservarono che la moneta non era ‘neutrale’ nei confronti dell’economia reale, perché poteva avere un influsso sui prezzi e perché aveva la capacità di conservare, accrescere e trasferire il valore.

I mercantilisti, tuttavia, confusero i calcoli economici del singolo individuo (livello microeconomico) con quelli dell’intero sistema produttivo (livello macroeconomico).

  1. La Fisiocrazia[6]

I precursori del pensiero fisiocratico furono senza dubbio Petty – che nel libro l’Aritmetica Politica (1690) propose un metodo espresso in termini di ‘numero, peso e misura’ – e Cantillon

– che rilevò la necessità di privilegiare la produzione rispetto allo scambio, i valori d’uso rispetto ai valori di scambio, gli aspetti reali rispetto a quelli monetari.

I fisiocrati erano un gruppo di studiosi vissuti in Francia verso la metà del sec. XVIII.

In quel contesto, caratterizzato da una struttura economica essenzialmente agricola, essi svilupparono un concetto di valore che sarebbe poi divenuto centrale nell’analisi economica: quello di prodotto netto[7], la cui caratteristica fondamentale era che esso si formava soltanto in agricoltura. Il prodotto netto, quindi, era definito come la parte della produzione eccedente la ricostituzione dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza di quanti, con il proprio lavoro, avessero creato il prodotto medesimo. L’espressione ‘parte della produzione’ sottintende che il prodotto netto era espresso in termini materiali, cioè di ‘cose’, e non di valore in senso proprio[8]. E’ per questo motivo che il prodotto netto si formava, secondo i fisiocrati, solo in agricoltura, dove le ‘cose’ possono ritenersi sufficientemente omogenee e dove si può avere un accrescimento, e non una trasformazione di materia come nelle altre attività.

I fisiocrati consideravano la società tripartita in: proprietari fondiari (identificati, cioè confusi, con i capitalisti), lavoratori agricoli salariati (che sono lavoratori produttivi), e lavoratori non agricoli (lavoratori sterili). Il prodotto netto confluiva o, meglio, si identificava con la rendita dei proprietari fondiari.

Lo schema fisiocratico, formalizzato da Quesnay nel Tableau économique del 1758, cade tuttavia in contraddizione laddove tra i beni usati dai lavoratori produttivi figurano dei manufatti prodotti dai lavoratori sterili.

  1. Adam Smith[9]

Con Adam Smith si apre il periodo dell’economia classica.

Il contesto storico di riferimento è quello di un paese in corso di industrializzazione: l’Inghilterra alla fine dell’XVIII secolo.

Smith si rese conto che il prodotto netto non poteva derivare esclusivamente dall’agricoltura, come sostenevano i fisiocrati, ma derivava anche e soprattutto dalla manifattura.

I temi centrali dell’analisi del valore smithiana possono essere sintetizzati come segue:

  1. a) la produttività del lavoro discende dalla divisione del lavoro;
  2. b) la struttura sociale dell’economia capitalistica può essere rappresentata con riferimento a tre classi fondamentali: 1) i lavoratori produttivi, il cui prodotto, attraverso i vantaggi apportati dalla divisione del lavoro, contiene un sovrappiù capace di sostenere anche le altre classi; 2) i proprietari fondiari che, attraverso la percezione della rendita, si appropriano di parte del prodotto netto; 3) i capitalisti che, attraverso la percezione del profitto, si appropriano della parte restante del prodotto netto; 4) i ‘lavoratori improduttivi’, cioè i domestici, i militari, i musicisti e altri così definiti perché consumatori puri di ricchezza;
  3. c) Il valore delle merci può essere inteso sia in termini di valore d’uso, sia di valore di scambio[10]. Il valore d’uso dipende da una valutazione individuale; il valore di scambio, invece, costituisce un requisito oggettivo: si tratta, in breve, del potere di acquisto di una merce sopra un’altra (la capacità di procurare ricchezza, cioè valore d’uso), tradotto sul mercato dal cosiddetto prezzo reale, così definito in contrapposizione alla sua espressione monetaria (prezzo nominale). Il prezzo nominale non è in grado di rappresentare il valore reale di una merce, in quanto le merci ‘si acquistano originariamente’ con il lavoro;
  4. d) in una società mercantile semplice la ricchezza di ogni individuo è la somma dei valori d’uso che sono a sua disposizione: la proprietà dell’intero prodotto è del lavoratore; il valore (di scambio) di una merce, per un individuo che non abbia intenzione di consumarla, è dato dal lavoro altrui che quella merce è in grado di ‘comandare’ sul mercato. In una società capitalistica, invece, lo stesso lavoro è venduto come merce: il prodotto scaturisce dal mero lavoro del lavoratore, ma la proprietà del prodotto è suddivisa (cioè, si distribuisce) fra il lavoratore (salario), il capitalista (profitto) e il proprietario fondiario (rendita).

Si osservi, tuttavia, che nella teoria del valore smithiana è insita una contraddizione, che costituirà il punto di partenza dello sviluppo dei due principali approcci successivi alla teoria del valore: quello di Marx e quello dei teorici neoclassici. Smith, infatti, sostiene anche che: ‘salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio[11]’.

Al di là di questa ambiguità teorica, ‘ciò che Smith non vede molto bene è che il rapporto in cui gli individui entrano tra di loro come operai facenti parte d’un medesimo processo produttivo, a differenza del rapporto di scambio tra produttori indipendenti, non è un rapporto sociale, ma è un rapporto tecnico, e che in questo caso il rapporto sociale vero e proprio, da cui quello tecnico discende, è il rapporto salariale, il rapporto cioè tra operaio e capitalista, che si svolge attraverso la compra-vendita della forza-lavoro[12]’.

5. Jean Baptiste Say[13]

In Say il concetto di valore è un dato oggettivo, in quanto espresso in termini di scambio[14]: è ‘la quantità delle cose che si possono ottenere, dal momento che sono desiderate, in cambio della cosa di cui ci si vuole disfare[15]’. Lo scambio avviene quando, per entrambi gli individui, l’utilità (soggettiva) del bene che si acquisisce eccede il costo del bene che si cede.

La misura del valore di una ‘cosa’ è determinata dall’eccedenza dell’utilità (oggettiva) contenuta nei beni che si possono ottenere con la vendita della stessa cosa sui costi di produzione di essa. Questi ultimi fissano, quindi, il limite inferiore della misura del valore di un bene: in un’ipotesi di prezzo di mercato inferiore al livello dei costi, infatti, il bene non sarebbe più prodotto, per cui diverrebbe raro e, quindi, riacquisterebbe valore attraverso un prezzo maggiore o uguale al livello dei costi. ‘Se però ben si riflette egli (Say) rovesciò semplicemente il problema della determinazione del valore facendo dipendere non più i prezzi dal valore, ma il valore dai prezzi e dando a questi solo un limite minimo di variabilità. Era, infatti, dall’altezza dei prezzi che si potevano desumere, a posteriori, i valori[16]’.

  1. Thomas Malthus[17]

L’analisi del valore in Malthus, che riprende la distinzione smithiana fra lavoratori produttivi e improduttivi, è condotta su due distinti livelli d’indagine: 1) l’individuazione delle cause del valore, che scaturiscono dai vincoli alla produzione (lavoro contenuto); 2) l’individuazione delle cause della ragione di scambio fra due beni.

Il lavoro contenuto non poteva, secondo Malthus, misurare il valore, sia a causa della lunghezza del tempo intercorrente tra l’erogazione del lavoro e l’ottenimento del prodotto, sia per la mancanza di un legame immediato tra la quantità di lavoro erogato e il profitto richiesto (che per ogni prodotto è proporzionato al capitale anticipato). Le cause della ragione di scambio vanno ricercate piuttosto nel ‘gioco’ della domanda e dell’offerta.

Il profitto è la differenza fra il lavoro che si comanda nello scambio e il lavoro che si utilizza nella produzione: i beni acquistano valore quando i guadagni della vendita eccedono i costi di produzione.

I limiti della teoria del valore di Malthus possono essere essenzialmente ricondotti ad un’erronea individuazione dei fattori d’instabilità del sistema economico: da un lato i lavoratori improduttivi, che si limiterebbero a consumare il prodotto; dall’altro i risparmiatori che non consentirebbero la chiusura del circuito monetario. Malthus, dunque, non considerava la possibilità di effettuare investimenti.

  1. David Ricardo[18]

Per Ricardo la società ha una struttura capitalistica la cui categoria centrale è il saggio di profitto. La teoria ricardiana del valore può essere così sintetizzata:

  1. a) Ricardo condivide e approfondisce uno dei due lati della contraddizione teorica smithiana evidenziata precedentemente: il modo in cui il valore si genera è una cosa del tutto distinta dal modo in cui il valore si distribuisce;
  2. b) l’utilità non ha alcuna influenza sul valore di scambio;
  3. c) i beni possono essere suddivisi in due grandi macro-categorie: 1) i beni rari, la cui quantità non può essere aumentata con il lavoro e il cui valore di scambio è funzione della scarsità e dell’intensità del desiderio di chi vuole accaparrarseli; 2) i beni riproducibili con il lavoro, il cui valore è funzione della quantità di lavoro necessario per produrli. Ricardo, dunque, critica la teoria di Smith circa l’incapacità del lavoro contenuto di determinare i valori di scambio: i rapporti in base ai quali le merci si scambiano derivano dai rapporti tra le quantità di lavoro oggettivate nelle merci stesse[19].

In un secondo momento Ricardo si rese conto che il valore delle merci non dipendeva unicamente dalla quantità di lavoro in esse oggettivate, ma dipendeva altresì dal valore del lavoro stesso[20].

I limiti della teoria ricardiana del valore-lavoro sono stati ampiamente evidenziati, per motivi diversi, da Bailey, da Torrens, e da Marx[21].

Bailey criticò in Ricardo il riferimento ad un concetto di valore assoluto (cioè indipendente dalla relazione fra le merci), mentre il concetto di valore andava correttamente espresso in termini relativi.

Per Torrens, invece, il valore di scambio era determinato dal capitale e non dal lavoro: bisognava ridurre il lavoro in capitale (e non il capitale in lavoro) perché ciò che contava nella prospettiva del capitalista era il costo di produzione indipendentemente dall’origine della spesa (salario, materie prime o macchinari).

Secondo Marx il motivo per cui Ricardo non estese in maniera rigorosa la teoria del valore al lavoro risiedeva nella mancata comprensione del vero oggetto di scambio tra il capitalista e il lavoratore (operaio): la forza-lavoro (non il lavoro, in quanto tale).

  1. Marx[22]

Per Marx ‘un valore d’uso o bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivizzato o materializzato lavoro astrattamente umano[23]’. Nell’economia capitalistica, che per Marx è un modo di produzione storicamente determinato, il valore non è altro che l’espressione di una contraddizione tra lavoro e capitale.

In particolare, per superare i limiti delle teorie del valore di Smith e Ricardo, Marx volle risolvere il problema dell’origine del profitto. Il punto di partenza era costituito dall’analisi dello scambio: oggetto di scambio tra il capitalista e l’operaio è la forza-lavoro (capacità di lavoro) dell’operaio stesso, non il lavoro come tale.

L’intero processo capitalistico, secondo Marx, si regge su questo scambio, che è uno scambio diseguale o tra non equivalenti, nel senso che il lavoro prestato dall’operaio in un determinato lasso di tempo eccede il lavoro incorporato nei mezzi di sussistenza consumati dallo stesso operaio nel medesimo arco temporale. In altri termini, l’operaio produce un valore maggiore del valore della sua capacità di lavoro e questa eccedenza, che è alla base del profitto, è definita da Marx plusvalore. E’ in questo senso che Marx, per definire il profitto, parla di un valore in termini di rapporto contraddittorio fra capitale e lavoro: il capitale è un risultato (un prodotto) del lavoro, ma al tempo stesso il lavoro (in quanto capitale variabile) è un risultato (una parte) del capitale stesso[24].

Considerando l’aspetto qualitativo, piuttosto che quello quantitativo, della teoria di Marx, ‘se lo scopo della teoria del valore è quello di evidenziare i rapporti sociali esistenti dietro lo scambio […] è sufficiente assumere come ipotesi che i valori non siano altro che ‘cristalli di lavoro’ per scoprire la natura dello sfruttamento[25]’.

In conclusione, Marx perviene ad una spiegazione logica (accettata da alcuni e rinnegata da altri) del sovrappiù (plusvalore), ovvero della causa del valore. Se si considera l’aspetto qualitativo della teoria del valore di Marx, essa appare dunque contraddistinta da un’indiscutibile logica interna; se si considera, invece, l’aspetto quantitativo (il processo di ‘trasformazione’), secondo parte della letteratura, Marx non è riuscito ad individuare la misura del valore.

  1. Walras e Bohm-Bawerk: l’equilibrio economico generale[26]

I principali teorici marginalisti furono sicuramente Jevons, Menger e Walras.

Jevons sviluppò il metodo matematico nell’elaborazione e nello sviluppo dell’apparato analitico dell’economia politica e individuò nel consumo il punto di partenza dell’indagine economica. Il suo contributo principale alla teoria del valore fu l’introduzione del concetto di utilità marginale come ‘ponte’ fra l’utilità (soggettiva) e il valore (oggettivo).

Menger diede voce al pensiero prevalente dell’epoca, che vedeva l’utilità come ‘l’attitudine di un bene a soddisfare un umano bisogno[27]’ e definiva il valore in termini di scarsità relativa, a partire dal rapporto tra beni e bisogni.

Walras definì la rarità di una cosa in termini di contemporanea presenza di due caratteristiche: l’utilità e la limitatezza. Egli, inoltre, generalizzò ad un sistema economico le conclusioni cui era pervenuta la teoria neoclassica per il caso di un soggetto isolato[28].

Walras classificò gli elementi che compongono la ‘ricchezza sociale’ in due macro-categorie:

1) i beni che si impiegano più di una volta (capitali), suddivisibili ulteriormente da un lato in capitali suscettibili di essere oggetto di scambio e quindi di avere un prezzo (risorse naturali e capitali propriamente detti), e dall’altro lato in capitali in cui il prezzo può essere attribuito soltanto ai servizi che ne scaturiscono (capacità personali); 2) i beni che si impiegano una volta sola (redditi), suddivisibili ulteriormente in beni di consumo, beni intermedi e servizi.

Sul mercato sono presenti quattro tipi di soggetti: i detentori di risorse naturali (proprietari fondiari), i detentori di capacità personali (lavoratori), i possessori di capitali propriamente detti (capitalisti), e i soggetti in grado di combinare, assieme ai beni intermedi, i servizi che scaturiscono dai tre tipi di capitali precedenti (imprenditori).

Sotto determinate condizioni[29], Walras pervenne ad una rappresentazione del processo economico attraverso un sistema di equazioni algebriche che descrive l’equilibrio economico generale. Si tratta di un equilibrio dei prezzi, intesi come rapporti di scambio tra beni e servizi: essi possono essere interpretati come rapporti di equivalenza economica (sia tecnologica che soggettiva) fra due beni, cioè in termini di valori[30].

La contraddizione insita nella teoria neo-classica del valore consiste nell’ipotesi di unicità del saggio di rendimento dei vari capitali. Condizione che non può essere soddisfatta, dal momento che i capitali propriamente detti, a differenza degli altri capitali (risorse naturali e capacità personali), non sono originari, bensì prodotti.

E’ a partire da questa contraddizione che Bohm-Bawerk sviluppò una teoria volta a ridurre il capitale (mezzi di produzione) al lavoro (risorsa originaria) che nei periodi antecedenti quello corrente era stato impiegato nella produzione di quei mezzi. Egli tenne in considerazione– a differenza di quanto avevano fatto Ricardo e Marx – tutti i periodi di investimento delle singole frazioni di quantità di lavoro (rispetto al totale), e precisò che il contributo dato al valore del prodotto dal lavoro indiretto è superiore al contributo fornito dal valore diretto, a ragione dell’interesse cui darebbe ‘psicologicamente’ diritto il risparmio per la rinuncia a una disponibilità presente di ricchezza contro una disponibilità futura.

Anche questa ‘versione’ di equilibrio economico generale conduce, tuttavia, ad un circolo vizioso: essa necessita, infatti, della definizione di un periodo medio, assunto come dato, in grado di misurare la quantità di capitale. Quantità che però verrebbe a dipendere da tutte le altre variabili del sistema (in particolare dal saggio d’interesse), per cui non sarebbe più un dato.

In definitiva, la circolarità delle teorie di Walras e di Bohm-Bawerk è una diretta conseguenza della concezione contradditoria del capitale, già evidenziata da Marx: il capitale si configura, da un lato come un concetto unitario all’origine del saggio d’interesse (saggio generale del profitto in Marx), ma al tempo stesso esso è un insieme frantumato in ogni singola parte (somma di capitali).

  1. I modelli di accumulazione[31]

Questi modelli, sviluppati nella prima metà del ‘900[32], vedono il capitale come fine a se stesso: esso è il punto di inizio, ma anche il punto d’arrivo del processo produttivo (e non è un fattore originario).

Nel modello della crescita quantitativa di Von Neumann gli input del periodo ‘n’ sono gli output del periodo ‘n-1’: il mezzo è omogeneo al fine e il saggio di profitto, in un regime di concorrenza, coincide con il saggio di espansione. Il prodotto netto di ogni periodo è reinvestito nel periodo successivo, cosicché la crescita risulta bilanciata.

Questa ultima ipotesi rende tuttavia il modello non applicabile alla realtà, in quanto esso non è in grado di spiegare la maggiore velocità di crescita di alcuni settori rispetto ad altri.

In realtà, il limite più forte del modello sta nel fatto che esso non prevede la possibilità di innovazione tecnologica (responsabile della velocità di crescita dei settori).

E’ in questo senso che si sviluppa la teoria di Schumpeter dell’innovazione come fonte del profitto.

In definitiva, i modelli di accumulazione presentano la seguente duplice caratteristica: da un lato hanno alla base un concetto robbinsoniano di economia come scienza della scarsità, dall’altro sono modelli di produzione circolari alla stregua del modello ricardiano[33]. Essi contengono, cioè, un concetto di valore ricollegato a quello di Marx: i prodotti sono anche mezzi di produzione.

  1. Conclusioni

Le teorie del valore costituirono il tema centrale di riflessione nel periodo classico della storia dell’analisi economica. Successivamente, esse vennero considerate dai teorici neoclassici (e forse ancora oggi) una mera questione accademica[34]: pur essendo ritenute il fondamento scientifico dell’economia, la recente analisi economica è pervenuta ad una teoria dei prezzi prescindendo dalle teorie del valore e dal concetto stesso di valore, considerando quest’ultimo in termini di utilità[35].

Per capire le ragioni che hanno indotto, da un lato gli economisti classici a ricercare le cause del valore dei beni andando oltre i prezzi e, dall’altro i motivi che hanno spinto i teorici neoclassici ad abbandonare questo tipo d’impostazione, è necessario collocare i due sistemi di pensiero all’interno dei rispettivi ‘paradigmi culturali’.

Questo articolo si termina, dunque, con l’individuazione del paradigma classico e di quello neoclassico.

  1. a) Il paradigma culturale dei classici[36]

Il periodo classico ricopre un arco temporale che coincide all’incirca con il XIX secolo. Gli economisti di quel periodo erano prevalentemente inglesi. Lo scenario che essi avevano di fronte era, dunque, quello della rivoluzione industriale inglese (agli albori, per Smith). La struttura sociale dell’economia capitalistica era caratterizzata dalla presenza di soggetti appartenenti a classi distinte, i cui interessi erano sostanzialmente contrapposti.

Lo schema analitico che ne derivò colse necessariamente le diversità delle classi sociali e quindi dei soggetti economici che vi appartenevano, i quali furono analizzati, nei loro scopi e atteggiamenti, in base al tipo di reddito percepito. Inoltre, la tripartizione della società in lavoratori produttivi, proprietari fondiari e capitalisti, mantenne fuori dall’analisi i redditi e i soggetti appartenenti al settore dei servizi e a quello pubblico. Del resto, la visione del capitale come un insieme di beni materiali riproducibili qualificava inevitabilmente come ‘non produttivi’ tutti i lavoratori che fornivano servizi. Infine, la costante preoccupazione per la ricostituzione del capitale fisso e del capitale circolante comportava la ricerca delle determinanti dei costi di produzione (fattori originari) e quindi dei ‘prezzi naturali’ o valori, rispetto ai prezzi di mercato.

  1. b) Il paradigma culturale dei neoclassici[37]

Come anticipato, i problemi aperti sulla teoria del valore, lasciati dalla teoria classica del valore-lavoro, furono completamente ignorati con la ‘rivoluzione marginalista’, che avvenne tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX . Gli anni compresi fra il 1870 e il 1900 furono ricordati dagli storici dell’economia come quelli della ‘grande depressione’. L’attenzione degli economisti si spostò inevitabilmente dal momento della produzione e dall’analisi del lungo periodo al momento della circolazione e ai problemi congiunturali di breve periodo, in particolare all’equilibrio dei mercati.

Il nuovo paradigma si sviluppò a partire dalle considerazioni di Senior e Robbins.

Per indagare il legame tra capitale e valore, Senior introdusse un fattore originario diverso dal lavoro: l’astinenza. La distribuzione del reddito divenne, così, simmetrica, nel senso che l’astinenza stava al profitto come il lavoro stava al salario. Ciò comportava la negazione del concetto classico di ‘prodotto netto’, nel senso che ‘ogni quota distributiva, cioè tanto il salario quanto il profitto, diventa il valore di un contributo produttivo specifico, e la distribuzione del prodotto non è più il risultato del rapporto di forza tra classi sociali antagonistiche, ma risulta governata da una legge economica determinata[38]’.

Si sviluppò quindi l’opportunità di una nuova teoria economica che, rifiutando il concetto di prodotto netto, potesse stabilire una simmetria fra il reddito dei diversi soggetti economici e il prezzo pagato per i fattori produttivi di cui ognuno di essi era proprietario. In questo modo, il possesso di risorse tecnologicamente differenti, e non l’appartenenza a classi storicamente determinate, sarebbe stato in grado di spiegare la distinzione fra i soggetti economici. Questa teoria, in altri termini, doveva dare alla scienza economica un carattere universale.

In questo senso, Robbins fornì una definizione analitica di scienza economica: ‘L’economica è la scienza che studia la condotta umana in quanto sia una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi[39]’.

Nel paradigma neoclassico, allora, il valore non è più – come in Smith o in Marx – legato esclusivamente allo scambio in quanto categoria mercantile: lo scambio è solo uno dei modi in cui il valore può manifestarsi.

  1. c) Il paradigma culturale del XXI secolo

Siamo ancora nel paradigma culturale neoclassico o abbiamo bisogno di una nuova teoria del valore? Informatica e telecomunicazioni sono state le ‘materie prime’ di una terza rivoluzione industriale e la crisi dei mercati finanziari mondiali del 2008 ha testimoniato i rischi connessi alla dipendenza dell’economia reale dalla finanza. La crisi finanziaria del 2008 (e la conseguente crisi economica) è un fenomeno ben diverso dalla grande depressione del 1929. Tra le cause macroeconomiche spiccano le differenze tra flussi di capitali tra economie emergenti ed economie industriali, i bassi tassi di interesse reali e la produzione di strumenti finanziari dal prezzo errato rispetto all’effettivo ‘valore’. Di conseguenza, le banche hanno ridotto l’erogazione del credito, nell’impossibilità di valutare adeguatamente le attività in portafoglio. Si pensi, inoltre, a quante agenzie di rating nel corso della crisi hanno contribuito alla creazione di rischio sistemico attraverso la pubblicazione di rating erroneamente elevati. Uno degli obiettivi di Basilea 3 è quello di colmare le lacune del sistema bancario nelle tecniche utilizzate per la misurazione e la gestione dei rischi.

Sembrerebbe quindi che il focus degli economisti si sia spostato adesso sulla ricerca dell’equilibrio dei mercati finanziari attraverso la corretta valutazione di attività e rischi. Torna quindi a emergere il concetto di valutazione e di ‘valore’.

In conclusione, la globalizzazione finanziaria mette in discussione le basi della ‘legge economica determinata’ che governerebbe la distribuzione del prodotto nel paradigma neoclassico. La velocizzazione delle informazioni e la ‘finanziarizzazione’ dell’economia suggerirebbero che è arrivato il momento di chiedersi se esiste una ‘teoria del valore’ adatta al paradigma culturale di oggi.

 

 

Note

*Gli spunti critici contenuti nel presente articolo, eccetto l’ultimo paragrafo, vanno attribuiti a C. Napoleoni e a E. Zagari, i cui testi – entrambi citati nel seguito – hanno guidato l’impostazione e i contenuti di questo sforzo di sintesi. Naturalmente la responsabilità di tali contenuti e degli eventuali errori o omissioni è esclusivamente dell’autore.

[1] Per comprendere il punto di partenza della teoria classica e l’evoluzione della teoria neoclassica, e per fornire una visione ampia delle teorie del valore, saranno esaminate anche le teorie antecedenti quella classica (mercantilisti e fisiocrati) e le teorie successive a quella neoclassica (modelli di accumulazione).

[2] C. Napoleoni, Il Valore, Oscar Studio Mondatori, Milano, 1982, p. 7.

[3] M. Weber, L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale in Il metodo delle scienze sociali, Einaudi, Torino, 1958, p. 97.

[4] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, Storia dell’economia politica – dai mercantilisti a Marx, Giappichelli, Torino,1991 p. 39 e ss.

[5] Nei secoli precedenti non si riscontra la presenza di “sistemi unitari di pensiero”, ma soltanto di grandi pensatori isolati (come Platone, Aristotele o Tommaso d’Aquino).

[6] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. (in particolare, per i precursori dei fisiocrati) E. Zagari, op. cit., p. 88 e ss.; C. Napoleoni, op. cit., p. 12 e ss.

[7] o plus-prodotto, o sovrappiù (surplus).

[8] I fisiocrati dunque non svilupparono una vera e propria teoria del valore.

[9] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, a cura di F. Batoli, C. Camporesi e S. Caruso, ISEDI, Milano 1973; C. Napoleoni, op. cit., p. 21 e ss.

[10] Questa distinzione risale però ad Aristotele (cfr., per es., K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori riuniti, Roma, 1993, p. 9, in nota).

[11] A.Smith, op. cit., p. 53.

[12] C. Napoleoni, op. cit., p. 22.

[13] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 160 e ss.

[14] Anche per J. S. Mill, il valore è un concetto intimamente legato allo scambio e, aggiunge Mill, deve essere analizzato con riferimento a due prospettive temporali diverse: nel breve periodo, il valore di scambio va inteso come valore di mercato o corrente, determinato dalla domanda e dall’offerta; nel lungo periodo, invece, il valore di scambio diviene un valore naturale o di equilibrio, determinato dal costo di produzione – somma dei valori anticipati ai lavoratori – e dal saggio medio di profitto – somma dei compensi per l’astinenza dal consumo per chi aveva anticipato il capitale.

[15] Say, Trattato di economia politica, libro II, cap. I, p. 224, secondo la trad. it. del Cours Complet d’économie politique, a cura di F. Ferrara, per la “Biblioteca dell’economista”, prima serie, vol. VI, 1854.

[16] E. Zagari, op. cit., p. 162.

[17] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 175 e ss.

[18] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 31 e ss.

[19] Queste ultime quantità sono le somme delle quantità di lavoro prestato nell’ambito del processo produttivo (lavoro diretto) e delle quantità di lavoro incorporato nei mezzi di produzione utilizzati (lavoro indiretto).

[20] Per risolvere questo punto egli si sforzò di individuare una “misura invariabile del lavoro” alla quale riferire tutti i valori di scambio. Questo problema è stato risolto, in tempi recenti, da Sraffa, la cui teoria non verrà considerata in questa sede poiché si condivide la tesi di Napoleoni, op. cit., p. 177, secondo cui “lo schema di Sraffa costituisce la prima teoria dei prezzi che è formulata totalmente al di fuori di una teoria del valore”.

[21] Oltre che da un gruppo unitario di autori noti come ‘socialisti antiricardiani’, i quali non sono stati inclusi nel presente articolo poiché non svilupparono una teoria del valore, ma si servirono del concetto di sovrappiù per evidenziare esclusivamente l’opportunità di una distribuzione ottimale del surplus a favore dei lavoratori.

[22] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 407 e ss.; C. Napoleoni, op. cit., p. 46 e ss.

[23] K. Marx, Il Capitale, Editori riuniti, Roma, 1970, libro I, pag. 69.

[24] In questa sede non verrà affrontato il problema della ‘trasformazione’ secondo la successione logica ‘valore, saggio del profitto, prezzo’ perché si ritiene che il problema, peraltro risolto da Sraffa, sia essenzialmente matematico, laddove l’aspetto pregnante della teoria del valore di Marx sembrerebbe essere quello qualitativo, piuttosto che quello quantitativo. Per un approfondimento sulla questione, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 87 e ss.; E. Zagari, op. cit., p. 386 e ss.

[25] E. Zagari, op. cit., p. 407.

[26] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 112 e ss.

[27] C. Menger, Principi fondamentali di economia politica, Laterza, Bari, 1925, p. 13.

[28] Su questo tema occorre necessariamente menzionare Marshall, il cui contributo alla teoria del valore può essere sintetizzato nella distinzione fra valori ‘correnti’ o ‘di mercato’, o ‘occasionali’ (di breve periodo), e ‘valori normali’ (di lungo periodo). Cfr. A. Marshall (trad. it. a cura di A. Campolongo), Principi di Economia, Utet, Torino, 1959, passim.

[29] (mercato concorrenziale, soggetti massimizzanti, definizione dei prezzi di equilibrio a partire dall’incontro tra la domanda e l’offerta).

[30] In realtà il valore, nello schema di equilibrio economico generale, può essere espresso anche a prescindere dai prezzi, utilizzando il criterio paretiano (un insieme di grandezze, non confrontabili tra di loro, è definito ‘massimo’ quando non si può aumentare una di queste grandezze senza diminuirne almeno un’altra) per descrivere l’utilità di un sistema nel suo complesso. E’ possibile dimostrare che il problema dell’equilibrio generale presenta infinite configurazioni ottime nell’allocazione delle risorse, relativamente ad una data distribuzione delle stesse.

[31] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 133 e ss.

[32] Keynes non si occupò di teoria del valore. Tuttavia la sua concezione dell’interesse come una sorta di rendita, di determinazione monetaria dove il capitalista è un rentier, da un lato ebbe un influsso non indifferente sulle teorie del valore successive, dall’altro avrebbe potuto essere ulteriormente sviluppata rinvenendo l’esistenza di un sovrappiù nei ‘redditi non da lavoro’.

[33] Si osservi che anche il modello di Von Neumann, a ben vedere, implica una ripresa del concetto classico di prodotto netto o sovrappiù.

[34] In un contesto di risorse scarse, se si definisce il saggio di trasformazione del bene da produrre A rispetto al bene B come la quantità di A alla quale bisogna rinunciare per ottenere un’unità aggiuntiva di B, è ovvio che il concetto di valore è dedotto senza alcun riferimento allo scambio.

[35] Concetto che Smith aveva considerato non legato al valore, poiché egli aveva a riferimento l’utilità totale e non quella marginale (l’utilità dell’ultimo “piccolo” incremento del bene). La rarità delle pietre preziose, per esempio, comporta un’elevata utilità marginale e, quindi, un prezzo elevato; al contrario, per i beni di prima necessità come, per esempio, il pane, la cui quantità a disposizione è molto abbondante, l’utilità marginale è molto piccola e con essa il prezzo.

[36] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. E. Zagari, op. cit., p. 472 e ss.

[37] Per approfondimenti sulle tematiche affrontate in questo paragrafo, cfr. C. Napoleoni, op. cit., p. 102 e ss.

[38] C. Napoleoni, op. cit., p. 102.

[39] L. Robbins, Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, UTET, Torino 1947, pag. 20.