La deducibilità dei costi sostenuti con soggetti residenti in paesi a regime fiscale privilegiato
(di Paolo Antonio Iacopino)
1. Premessa
L’art. 110, commi 10 e ss., TUIR, che disciplina i c.d. costi black list, è un istituto complesso che merita un’attenta analisi. La norma introduce una presunzione di indeducibilità dei costi intercorsi con soggetti residenti nei c.d. paradisi fiscali, che può essere superata dal contribuente dimostrando una delle due esimenti previste dalla disciplina dell’istituto.
In questo intervento esamineremo la ratio della norma e le esimenti che il contribuente deve dimostrare per disapplicare il regime di indeducibilità. Nei prossimi numeri affronteremo il tema della compatibilità del regime di indeducibilità in esame con le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni.
2. La ratio dell’istituto
Una delle questioni su cui si è maggiormente dibattuto è la natura antielusiva o antievasiva dell’istituto dell’indeducibilità dei costi derivanti da operazioni con imprese residenti in Stati aventi un regime fiscale privilegiato.
La tesi di una ratio legis tesa a contrastare l’elusione è sostenuta da molti commentatori per i quali l’art. 110 comma 10 Tuir mira a neutralizzare i vantaggi fiscali conseguenti all’imputazione di costi, generalmente riferiti ad operazioni commerciali fittizie o prive di una ragione economica, con conseguente riduzione dell’utile di esercizio (Gallo, Adonnino). La norma nasce infatti per contrastare operazioni il cui risultato è semplicemente quello di creare in modo artificioso o fittizio componenti negativi di reddito che vanno a ridurre il risultato positivo d’esercizio altrimenti soggetto ad una tassazione più elevata. Anche l’Amministrazione Finanziaria condivide questa impostazione ritenendo l’art. 110, comma 10, Tuir una disposizione antielusiva (tra le altre circ. 51/E/2010).
In dottrina non mancano le tesi difformi che attribuiscono alla disciplina dell’indeducibilità dei costi black list una funzione di contrasto al fenomeno dell’evasione. Secondo questa impostazione le norma in esame porrebbe una presunzione di simulazione o comunque di inesistenza dell’operazione (Zizzo, Cordeiro, Guerra, Stevanato). La funzione di contrasto all’evasione si ricaverebbe proprio dalla presunzione relativa di inesistenza dell’operazione commerciale. La ratio di questa impostazione si basa sul fatto che l’operazione da cui deriva il componente negativo di reddito sia del tutto inesistente, dato che dalla sua applicazione scaturisce l’integrale indeducibilità del costo e sulla circostanza che la sua applicazione è esclusa qualora il contribuente riesca a provare direttamente o indirettamente (dimostrando che la società estera svolge un’effettiva attività economica) che l’operazione ha avuto concreta esecuzione.
3. Individuazione paesi black list
Prima dell’entrata in vigore della Legge n. 244/2007 (legge finanziaria 2008) il sistema di individuazione dei c.d. paradisi fiscali ai sensi degli articoli 110 e 167 TUIR era incentrato sulle c.d. black list, ovvero un elenco di Stati esteri individuati secondo i diversi criteri indicati dagli articoli richiamati ed emanato con decreto dal Ministero delle Finanze.
A seguito della legge finanziaria 2008 il regime di individuazione dei Paesi a fiscalità privilegiata è stato modificato con l’introduzione nel Tuir dell’art. 168 bis, in base al quale i paradisi fiscali vanno individuati non più con riferimento a liste negative (black lists), verificando la loro collocazione in un determinato decreto ministeriale, ma con riferimento a liste positive (white lists), accertando il mancato inserimento di uno Stato estero in un nuovo e diverso decreto ministeriale che contiene un elenco di Paesi stranieri, per così dire, virtuosi. In altri termini è un paradiso fiscale il Paese estero che non è inserito in una white list. Ne consegue logicamente che i criteri da tenere in considerazione per emanare i nuovi decreti contenenti l’elenco di Paesi esteri (non paradisi fiscali) sono cambiati radicalmente. Elemento fondamentale è l’adeguato scambio di informazioni con gli altri Stati, nel senso che un Paese che non attua un tale scambio di informazioni non può essere inserito nella white list e dunque rientrerà tra gli Stati per i quali trova applicazione l’art. 110 comma 10. L’art. 168 bis, infatti, stabilisce al primo comma: “con decreto del Ministero dell’economia e della finanze sono individuati gli Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni, ai fini dell’applicazione delle disposizioni […] art. 110 commi 10 e 12 bis” Tuir.
4. La prima esimente
Ai fini dell’applicazione della disposizione in commento è considerata attività commerciale qualsiasi attività idonea a produrre redditi d’impresa ai sensi dell’art. 55 (ex art. 51) Tuir. Per cui per imprese commerciali si devono intendere tutte quelle indicate nell’articolo 2195 del codice civile, che ricomprende quelle industriali, bancarie, assicurative e finanziarie.
La dottrina maggioritaria condivide questa nozione di attività commerciale e non l’ha rivista nemmeno dopo l’entrata in vigore nell’ordinamento dell’art. 167 TUIR sulle Controlled Foreign Companies dove si fa riferimento alla “attività industriale o commerciale effettiva”.
Per disapplicare l’istituto non basta che le imprese residenti in paesi black list esercitino un’attività commerciale ma è necessario che tali attività siano “effettive”. L’effettività va intesa come elemento che prova la sostanza dell’attività di impresa e l’esistenza di elementi che vanno oltre la semplice forma. La prevalenza dell’attività commerciale va intesa con riferimento ad altre eventuali attività, non commerciali, svolte dall’impresa black list tanto nello Stato a fiscalità privilegiata quanto all’estero. Ai nostri fini sono considerate non commerciali le attività di mero godimento di beni come ad esempio la percezione dei dividendi, interessi o royalties.
Per stabilire la prevalenza occorre fare riferimento a un dato economico e in particolare alla percentuale di fatturato generato dall’attività commerciale. Parte della dottrina ritiene che al criterio dei ricavi possano essere affiancati altri criteri, quali la consistenza relativa delle attività utilizzate o del personale impiegato per lo svolgimento dell’attività commerciale.
Altri, invece, sostengono che per stabilire la prevalenza il solo dato dei ricavi non è sufficiente, dovendosi tenere conto, oltre alla consistenza delle attività utilizzate e al personale impiegato, anche di altri fattori quali, ad esempio, i redditi generati dalle diverse attività e il capitale investito. La prassi amministrativa condivide il criterio basato sulla prevalenza dei ricavi.
Gli elementi di prova che il contribuente può produrre all’Amministrazione Finanziaria per dimostrare l’esistenza dell’effettività dell’attività commerciale del soggetto black list sono molteplici. L’Agenzia delle Entrate con la Circolare n. 29/E del 23 maggio 2003 ha elencato, in via esemplificativa e non esaustiva, i seguenti documenti: bilancio, certificazione del bilancio, prospetto descrittivo dell’attività esercitata, contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività, copia delle fatture delle utenze elettriche e telefoniche relative agli uffici e agli altri immobili utilizzati, contratti di lavoro dei dipendenti che indicano il luogo di prestazione dell’attività lavorativa e le mansioni svolte, conti correnti bancari aperti presso istituti locali, estratti conto bancari che diano evidenza delle movimentazioni finanziarie relative alle attività esercitate, copia dei contratti di assicurazione relativi ai dipendenti e agli uffici, autorizzazioni sanitarie e amministrative relative all’attività e all’uso dei locali.
Per provare l’esistenza di una adeguata struttura organizzativa nel paese a fiscalità privilegiata non basta il solo bilancio, ma servono degli altri documenti. In tal senso assumono rilevanza i contratti di locazione degli immobili adibiti a sede degli uffici e dell’attività, necessari a verificare la reale localizzazione dell’impresa nel Paese o territorio a fiscalità privilegiate e l’idoneità dei locali stessi allo svolgimento di quella specifica attività.
5. La seconda esimente
La seconda esimente sposta l’attenzione dall’attività commerciale del fornitore black list all’effettivo interesse economico dell’operatore nazionale per la transazione commerciale. Infatti, il l’art. 110, comma 11, TUIR recita che “le disposizioni di cui al comma 10 non si applicano quando le imprese residenti in Italia forniscano la prova che …………… le operazioni poste in essere rispondono ad un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione …”
Per una parte della dottrina l’effettivo interesse economico è una specificazione ulteriore del più generale principio dell’inerenza, per cui i costi in commento sono deducibili se permettono all’impresa di conseguire un maggior reddito.
Una diversa corrente di pensiero ritiene che la deducibilità sia legata all’entità e alla congruità del corrispettivo pattuito. Per cui ciò che rileva, ai fini dell’effettivo interesse economico, è la valutazione del prezzo a cui è stata conclusa la transazione rispetto al valore normale di una transazione comparabile.
La tesi della dottrina prevalente, che è da preferire, ritiene che l’effettivo interesse economico debba essere valutato in ragione di tutte le variabili commerciali dell’operazione, al fine di verificarne la logica economica, gestionale e commerciale. A questo fine bisogna dimostrare non solo che la transazione sia stata realmente effettuata (concreta esecuzione), ma anche che la stessa sia giustificata da ragioni gestionali, economiche e commerciali che prescindono dalla localizzazione del fornitore estero. In questo caso l’onere della prova si amplia in quanto il contribuente oltre alla dimostrazione dell’esecuzione dell’operazione deve dare contezza della logica economica della stessa. Questa impostazione è più stringente rispetto a quelle prima richiamate, dato che non si limita alla dimostrazione dell’economicità dell’operazione intesa come conseguimento di un maggior profitto, ma sposta l’attenzione alle scelte gestionali dell’imprenditore.
L’Agenzia delle Entrate (cir. 51/2010, Ris 46/04, Ris 127/03) ha chiarito che la valutazione della sussistenza o meno dell’effettivo interesse economico va effettuata tenendo conto di tutti gli elementi e le circostanze che caratterizzano il caso concreto quali ad esempio: il prezzo della transazione, la presenza di costi accessori, quali, ad esempio, quelli di stoccaggio, magazzino, le modalità di attuazione dell’operazione (ad esempio, i tempi di consegna), la possibilità di acquisire il medesimo prodotto presso altri fornitori, l’esistenza di vincoli organizzativi/commerciali/produttivi che inducono ad effettuare la transazione con il fornitore black list o, comunque, che renderebbero eccessivamente onerosa la medesima transazione con altro fornitore.
6. ambito oggettivo di applicazione della disposizione
Il regime dell’indeducibilità dei costi c.d. black-list si applica, ai sensi dell’art. 110 commi 10 e 11 d.P.R. 917/86, alle spese e agli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse con soggetti residenti in Paesi diversi da quelli indicati nella white list (cd. Paesi black list). I documenti di prassi, in particolare la CM 51/2010 par. 9.2, chiariscono che i componenti negativi di reddito sono i costi di acquisto dei beni, le svalutazioni, le minusvalenze, gli ammortamenti, le perdite e ogni altro componente negativo. Il riferimento alle minusvalenze estende l’indeducibilità ai componenti negativi derivanti in modo “indiretto” da tali operazioni. Ne consegue che l’eventuale minusvalenza, realizzata per effetto del trasferimento di beni ammortizzabili acquistati da un soggetto black list deve essere indicata nel modello di dichiarazione relativo al periodo di imposta in cui questa assume rilevanza fiscale. Mentre sulla sussistenza delle esimenti necessarie per consentire la deducibilità del componente negativo indiretto di reddito occorre far riferimento all’originaria operazione di acquisto intercorsa con il soggetto black list, posto che tale componente reddituale scaturisce dalla differenza negativa tra il corrispettivo o l’indennizzo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo fiscale non ammortizzato del bene. Dalla lettura della disposizione normativa e dei documenti di prassi i costi indiretti da considerare ai fini dell’applicazione dell’istituto sono solo quelli che determinano una minusvalenza e non anche una plusvalenza dalla cessione del bene strumentale. È inutile ribadire che come per minusvalenza anche per la plusvalenza occorre far riferimento all’originaria operazione di acquisto intercorsa con il soggetto black list, posto che tale componente reddituale scaturisce dalla differenza, questa volta positiva, tra il corrispettivo conseguito ed il costo fiscale non ammortizzato del bene.
L’esclusione dal novero delle operazioni rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 110, commi 10 e 11, TUIR delle plusvalenze genera un effetto distorsivo del sistema, che permette la deduzione in via indiretta di un componente negativo di reddito, il costo di acquisto di un bene strumentale, derivante da un’operazione intercorsa con un soggetto black-list. Pur ammettendo di poter contrastare la deduzione del componente negativo indiretto derivante da un operazione con un soggetto black list con uno degli strumenti accertativi previsti dal nostro ordinamento il contribuente, comunque, non sarebbe più gravato dell’onere di provare le esimenti previste dall’art. 110, comma 11, TUIR.