Anomalie del mercato dell’arte contemporanea /3: il meccanismo di formazione dei prezzi
(di Marco Guenzi)
Un recente studio di Bocart e Hafner del 2011, che ha comparato i prezzi delle opere degli artisti “top 100 sellers” con quelli dell’indice della borsa americana S&P 500, evidenzia che le opere d’arte hanno una volatilità dei prezzi in linea con quella dei maggiori indici azionari[1]. Le oscillazioni dei mercati finanziari sono incrementate dall’utilizzo della leva finanziaria(leverage), cioè della possibilità di fare leva su strumenti finanziari ad hoc (come i derivati) allo scopo di aumentare i profitti (ma anche il rischio). Sul mercato immobiliare le forti oscillazioni e le bolle speculative sono pure dovute a iniezioni di capitale di debito (i mutui) che sospingono la domanda (come è successo con nel mercato dei sub-prime statunitensi che innescarono la crisi economica mondiale del 2008); nel mercato dell’arte invece la leva finanziaria è un aspetto quasi del tutto assente, in quanto né i collezionisti in genere chiedono denaro in prestito per comprare opere, né esiste un mercato di derivati, né c’è la possibilità di speculare al ribasso vendendo allo scoperto. In più le opere d’arte sono beni immutabili nel tempo, che non hanno variazioni nel reddito, mentre gli indici di borsa (che sono composti da titoli azionari) riflettono il complessivo andamento di un’economia, i cui fondamentali sono in continua evoluzione. Come si spiega allora la volatilità delle quotazioni dei top 100 sellers?
La formazione dei prezzi nei vari mercati
La risposta a questa domanda risiede in primis in un’altra peculiarità del mercato dell’arte (che va aggiunta a quelle fino qui esaminate), e cioè che il prezzo delle opere d’arte non costituisce solo una variabile endogena, risultante dall’incontro tra domanda e offerta[2], ma esso stesso è una variabile esogena in grado di influenzare i meccanismi interni del sistema, per cui vengono a crearsi forme di contrattazione e modalità di formazione dei prezzi sui generis che stanno alla base del manifestarsi di bolle speculative.
Se andiamo ad esaminare un mercato efficiente come quello finanziario, i prezzi dei titoli si formano telematicamente incrociando domanda e offerta: se io voglio comprare dieci azioni del titolo x al prezzo y, e c’è in quel momento una controparte che offre quel titolo alle stesse condizioni, la transazione avviene automaticamente senza neanche che si sappiano chi sono le controparti. Nel mercato immobiliare il prezzo pattuito si forma invece secondo un meccanismo di trattativa: io offro l’immobile x al prezzo y, faccio vedere l’immobile, e se non riesco a venderlo a quel prezzo scenderò fino a non incontrare un acquirente.
Velthuis (2005)[3] in un suo interessante scritto evidenzia che i meccanismi di pricing sul mercato dell’arte contemporanea dipendono direttamente dalla natura unica del bene arte, che lo rende un prodotto, se così lo si può chiamare, fortemente differenziato. La determinazione dei prezzi dell’arte contemporanea non segue un unico meccanismo standard, come in genere avviene per gli altri mercati, ma viene a dipendere dagli operatori che operano sul mercato, cioè su quello primario dalle gallerie (solo una piccola parte è gestita direttamente dagli artisti nei loro studi)[4] e su quello secondario da mercanti d’arte (tra cui le stese gallerie) e case d’aste.
In particolare i prezzi nel mondo dell’arte non assumono soltanto un valore economico, ma anche simbolico, diventando un’entità sociale, culturale e morale. Velthuis mette in evidenza che essi convogliano significati diversi: dal rappresentare lo sviluppo della reputazione di un artista, all’essere metro di giudizio della capacità del collezionista di capire i talenti, all’esprimere uno status della galleria all’interno della gerarchia del sistema. Nel prezzo dell’opera d’arte risiede quindi un intricato sistema di relazioni e significati, che sono anche la quintessenza del suo valore: in particolare un aumento del prezzo, oltre a designare un possibile aumento della sua appetibilità, è segno plausibile dell’accettazione di un’opera d’arte da parte di questo mondo; allo stesso modo una discesa delle quotazioni può minare la considerazione di un artista per il suo lavoro, oltre che svalutarne l’importanza.
Meccanismi di vendita e case d’asta
Velthuis rileva che artisti, gallerie e case d’aste hanno sistemi di determinazione dei prezzi differenti e (parzialmente) in concorrenza tra di loro[5]. Ciò in ragione del fatto che ognuno di questi segue logiche diverse e ha finalità complementari.
Gli artisti che cercano di vendere direttamente le loro opere sono in genere coloro che non sono ancora riusciti ad entrare nel circuito o ne sono risultati esclusi: se in termini numerici questi artisti possono essere una parte rilevante del mercato, in termini di controvalore la loro importanza è marginale. Gli artisti in genere ricevono i collezionisti nei loro studi e cercano di vendere le opere secondo un meccanismo che è quello della contrattazione.
Le case d’aste invece hanno l’interesse a massimizzare i profitti delle singole vendite (quindi sul breve periodo), cercando di spuntare il prezzo più alto ottenibile sul mercato. Il meccanismo d’asta infatti permette di ottenere attraverso la discriminazione dei prezzi un prezzo di vendita più alto che con altri meccanismi di pricing.
Vi sono due meccanismi d’asta che vengono comunemente utilizzati: la first-price sealed-bid auction (o FPSB) e l’asta all’inglese[6]. Con la first-price sealed-bid auction gli offerenti (bidder) partecipano all’asta con una sola offerta segreta. Si aggiudica il lotto colui il quale ha fatto l’offerta più alta. Ne consegue che il prezzo di vendita è il più alto possibile ottenibile sul mercato e, poiché si tratta di una discriminazione dei prezzi di primo grado, tutto il surplus legato alla transazione viene spartito tra il venditore e la casa d’aste (sotto forma di commissioni). Con questo meccanismo si riesce così a non rendere pubblico il prezzo di vendita. Nell’asta all’inglese invece (la più diffusa) il prezzo viene fissato in corrispondenza dell’ultimo rialzo, dove gli astanti rilanciano con offerte pubbliche. Lo svantaggio tuttavia (e non si tratta di un particolare secondario) è che il prezzo di vendita risulta essere pubblico e si paga inoltre un piccolo pegno in termini di prezzo finale che risulta essere generalmente più basso (pari alla seconda miglior offerta). In entrambe le tipologie di asta tuttavia, qualora il prezzo battuto (hammered) sia inferiore al valore ritenuto giusto dal venditore (prezzo di riserva) il lotto non viene aggiudicato.
Per la natura stessa dell’intermediazione, le gallerie sono in genere interessate a garantire una crescita continua e prolungata dei prezzi dell’artista, preferendo un’ottica di lungo periodo a una di breve. Esse, afferma Velthuis, danno maggiore importanza, prima ancora che ai loro profitti, alle quotazioni degli artisti, poiché queste ultime risultano essere un chiaro segnale distintivo della qualità del lavoro svolto. A tal fine, nelle sue scelte di vendita, il gallerista tenderà a privilegiare come clienti soprattutto i musei e i grandi collezionisti di brand (che danno un grande ritorno in termini di pubblicità), nonché chi compra con intenti non speculativi. Tale scelta di “piazzare” i lavori non segue una logica di ritorno immediato ma cerca, coinvolgendo variabili culturali, di avere un orizzonte di più lungo raggio.
I meccanismi di vendita delle gallerie
Se i galleristi risultano essere in contrasto con le case d’asta per il diverso livello di prezzi praticato, ciò non significa invece che essi che lo siano invece internamente tra di loro. Le opere d’arte (se si escludono quelle riproducibili come le fotografie e i video) sono beni molto eterogenei, difficilmente sostituibili l’uno con l’altro, soprattutto quando sono il prodotto di artisti che hanno conquistato un certo grado di notorietà nel sistema, e quindi comparabili in termini di prezzi. Costruendo rapporti di rappresentanza in esclusiva con gli artisti, i galleristi riescono così a garantirsi che la competizione interna al sistema non si basi tanto sul livello praticato dei prezzi (difficilmente confrontabile), quanto semmai sulla capacità di rassicurare il collezionista sul valore economico e soprattutto simbolico delle opere d’arte messe in vendita. Ciò non significa che il prezzo delle opere non assuma importanza: anzi esso, come si vedrà, diviene a costituire il punto nevralgico su cui le gallerie basano le loro strategie di marketing. In questo frangente infatti il prezzo delle opere non assume più il significato di valore di riferimento dell’equilibrio del mercato ma diviene invece indice del valore simbolico della produzione artistica: esso viene quindi determinato in una maniera assolutamente peculiare rispetto agli altri mercati di investimento.
Il meccanismo di formazione dei prezzi di vendita delle opere d’arte da parte delle gallerie assomiglia molto a quello dei beni immobiliari, poiché è anch’esso basato sulla contrattazione in base ad un prezzo di partenza. Con una grande differenza però: mentre il mercato immobiliare è molto consistente come volumi di vendita e il livello dei prezzi delle contrattazioni è sotto gli occhi di tutti (basti vedere gli innumerevoli annunci immobiliari presenti sul web, quotidiani e giornali specializzati), i prezzi effettivi delle transazioni delle opere d’arte sul mercato primario non vengono esposti e sono in genere riservati. Ciò comporta che il possibile compratore ha difficoltà a trovare un parametro oggettivo di giudizio su cui basare la sua stima sul valore reale dell’opera, ed ha come base di partenza per la contrattazione il prezzo ufficioso che gli viene comunicato dal venditore.
Vedendo la questione più da vicino, il meccanismo di determinazione dei prezzi segue da una parte un valore di riferimento, che dipende direttamente dal brand, ovvero dalla galleria che vende l’artista, e dall’altra si forma attraverso i pricing script, cioè un sistema tacito di regole cognitive per la determinazione dei prezzi condiviso dalla comunità[7]. Questo modello ben spiega come si aggiustano i prezzi delle gallerie. Queste ultime, come si è visto, investono in self-reputation, attraverso segnali che danno al mercato (come la fama dei propri artisti, il prestigio della sede, lo status economico dei propri collezionisti, la partecipazione a fiere importanti, ecc..) che servono a giustificare al pubblico un proprio valore di riferimento, utilizzato per fissare tetti minimi e massimi ai prezzi: sulla base di questo parametro le gallerie poi applicano i pricing script, basati sulla reputazione e le quotazioni pregresse dell’artista, sulla tecnica utilizzata e sulla dimensione delle opere, nonché dipendenti dalle cosiddette sell-out situations, cioè degli eventi nella carriera dell’artista che ne fanno aumentare il valore delle opere.
I pricing script sono in grado di semplificare di molto la decisione per una galleria di fissare un prezzo piuttosto che un altro (senza l’assillo di dover dare un giudizio sulla qualità artistica dell’opera, che viene lasciato all’acquirente) e soprattutto possono essere una giustificazione del suo valore, oltre a rappresentare l’occasione di fornire un excursus narrativo, impregnato di aneddoti e metafore, che può affascinare l’acquirente: “Innanzitutto l’opera appartiene a x, artista di fama, uno dei fondatori del movimento w, che ha appena venduto all’asta l’opera y a 10.000 $ al collezionista z; tenuto conto che la dimensione di quest’opera è il doppio di y e quindi l’opera vale due volte tanto l’altra; che la tecnica di questo dipinto è olio e quindi vale tre volte tanto rispetto all’acquarello; che il nostro artista ora fa parte della collezione di z e ha fatto recentemente una mostra alla galleria di arte moderna k: quindi ora vale il 30% in più. Il prezzo sarebbe di 80.000 $, ma per lei facciamo 50.000.”
Questo meccanismo è un’altra ragione dell’inefficienza del mercato, in quanto inibisce un meccanismo flessibile di aggiustamento dei prezzi verso il loro valore di equilibrio rispondente alle leggi della domanda e dell’offerta. Infatti gli script hanno come ulteriore regola che i prezzi, per favorire una lunga e duratura carriera dell’artista, non debbano mai scendere, ma invece progredire progressivamente. Nel caso vi fosse un forte calo della domanda il gallerista ha dalla sua parte la possibilità di nascondere una discesa temporanea dei prezzi, secondo sempre ben collaudate regole[8]. Nel caso in cui la domanda risulti temporaneamente superiore all’offerta invece molte gallerie evitano una veloce lievitazione del livello dei prezzi, ma preferiscono, oltre a incentivare l’attività produttiva dell’artista (cercando di renderla seriale), istituire vere e proprie liste d’attesa, in cui i primi posti sono a beneficio dei clienti più fedeli ed appetibili.
Vi sono tuttavia possibili differenze nell’applicazione degli script a seconda anche del back-ground etico, culturale e motivazionale delle gallerie. Si può genericamente distinguere tra le gallerie d’avanguardia (nello scorso articolo definite “appassionate”) tese a promuovere artisti emergenti e nuove correnti culturali, che hanno un’ottica di medio lungo-periodo, e le gallerie puramente commerciali (“le speculative”), la cui finalità primaria è quella della massimizzazione dei profitti nell’immediato. Per le prime i pricing script seguono una strategia improntata sulla domanda (o demand driven strategy), cioè l’assunto che la crescita dei prezzi dovrebbe accomodarsi alla maggiore richiesta da parte dei collezionisti (come è avvenuto per decenni sul mercato dell’arte), sulla spinta dell’evoluzione del gusto. Le gallerie commerciali invece adottano tecniche di determinazione dei prezzi più aggressive (price driven strategy), cercando di manipolare, con la complicità del sistema (e a volte con pratiche scorrette), la carriera dell’artista a suon di sell-out situations. Esse cercano di supportare il successo dell’artista attraverso il loro “sistema relazionale”, che porta gli artisti ad avere degli appoggi nella creazione di riferimenti di valore esterni al prezzo stesso e soprattutto alla domanda (come mostre, recensioni, premi, biennali e presenze in musei e collezioni importanti), in modo da poter giustificare artificiosamente un aumento del livello dei prezzi. Ciò porta, per il fatto che i prezzi risultano il primario indicatore della qualità di un artista per i collezionisti, a indurre come effetto collaterale una crescita indotta della domanda.
La prospettiva è, secondo il meccanismo di una profezia che si auto-avvera, quella di creare aspettative irrazionali (animal spirits) verso l’apprezzamento delle quotazioni dell’artista; il che crea una spirale inarrestabile al rialzo dei prezzi e ingenti guadagni immediati per le gallerie. Ma questa strategia comporta anche grandissimi rischi. Essa, in voga negli anni ottanta, ha prima portato alla formazione delle bolle speculative sul mercato, a cui è seguito un successivo collasso e una discesa inesorabile delle quotazioni di numerosi artisti, stroncandone la carriera (nonché la reputazione delle gallerie che li rappresentavano).
Ai giorni d’oggi si preferisce utilizzare una terza strategia (time driven strategy, cui fanno riferimento le gallerie definite “strategiche” ovvero quelle il cui obiettivo di è la conquista di una posizione dominante nel sistema) che cerca di coniugare i punti di forza delle altre due: da una parte si cerca di non forzare troppo la domanda nel breve periodo, secondo un obiettivo di una crescita sul medio-lungo, dall’altra, per supportare la carriera degli artisti, si fa massiccio utilizzo delle sell-out situation (e di altre operazioni di marketing in grado di aumentarne la visibilità), in modo da convincere i collezionisti che trattasi di investimenti sicuri e non speculativi.
La relazione tra prezzi delle gallerie e prezzi delle aste
Poiché i prezzi applicati dalle gallerie sono, per la natura stessa del meccanismo di contrattazione, tendenzialmente più bassi di quelli all’asta[9], questi intermediari cercano in genere di creare delle barriere o dei muri divisori tra i due canali di vendita, impedendo in questo modo la possibilità per i collezionisti di speculare sui prezzi tramite operazioni di arbitraggio.
I galleristi utilizzano diverse strategie per disincentivare la messa in vendita delle opere da esse vendute sul circuito delle case d’aste. Da una parte utilizzano il mezzo legale apponendo nei contratti di vendita clausole che impediscano al collezionista di rivendere liberamente l’opera (“first right of refusal”). Dall’altra istituiscono a livello corporativo vere e proprie liste nere (black list) dei collezionisti che operano arbitraggi, in modo da escluderli dal mercato. Inoltre gestiscono i rapporti con la clientela secondo un fitto sistema di relazioni sociali e di favori personali, attraverso cui selezionano e fidelizzano i collezionisti, in modo da avere più possibilità di un comportamento leale da parte di questi ultimi.
Ma non sempre è così. Il documentarista Ben Lewis in un suo discusso lungometraggio prodotto dalla BBC[10] mette in luce un intreccio di interessi all’interno del sistema per determinare prezzi sempre maggiori attraverso pratiche di rilancio nelle vendite all’asta, che sta alla base delle bolle speculative nel mercato dell’arte contemporanea. Se da una parte le vendite all’asta risultano negative per alcuni galleristi perché determinano un artificioso aumento del valore delle opere non mantenibile nel lungo periodo, dall’altra esse rappresentano l’unico indicatore pubblico delle quotazioni degli artisti. Ciò significa che i portatori d’interesse verso la carriera di un artista (i cosiddetti stake-holder, cioè, oltre naturalmente agli artisti stessi, le gallerie che devono promuoverne l’attività e i collezionisti/mercanti d’arte che ne detengono i lavori in portafoglio) vedono nel livello ufficiale del prezzo d’asta il parametro di partenza per tutte le loro contrattazioni private. Poiché le transazioni battute all’asta, che risultano essere ufficiali, sono marginali rispetto al totale delle contrattazioni sul mercato, ne consegue che gli stake-holder (oltre naturalmente alle case d’aste stesse), hanno tutto l’interesse nel cercare gonfiare artificialmente le quotazioni di un artista, agendo in cordata e rilanciando sulla base d’asta[11]. Secondo un meccanismo che ricorda quello della leva finanziaria consegue infatti che quanto più alto sarà il prezzo finale di una singola aggiudicazione all’asta tanto maggiori saranno di riflesso le quotazioni dell’artista e quindi il valore complessivo del portafoglio opere detenuto dagli stake-holder.
Un prezzo elevato battuto all’asta ha poi l’effetto non secondario di dare visibilità e valore simbolico all’artista. Poiché i collezionisti, a causa delle forti asimmetrie informative e dell’irrazionalità dei loro comportamenti (che sta alla base dell’effetto di band-wagon ipotizzato da Liebenstain[12]), tendono ad agire come banchi di sardine (copy-cat behaviour) seguendo il parere e l’esempio di pochi opinion leader che hanno una grande influenza sul mercato, un’importante aggiudicazione ha l’effetto di far crescere la domanda; quindi di instaurare aspettative che si auto-avverano relative ad un aumento delle quotazioni dell’artista; infine di favorire la creazione di bolle speculative sul mercato.
Conclusioni
La caratteristica principale dei meccanismi di determinazione dei prezzi delle opere d’arte è quella di essere inefficiente, con l’effetto diretto di creare bolle speculative sul mercato e con evidenti riflessi sulla volatilità dei prezzi delle opere e sulla rischiosità degli investimenti in arte.
Spesso si parla delle opere d’arte, al pari degli immobili e dei metalli preziosi, come di beni rifugio a basso rischio, cioè una forma di investimento alternativa (hedge o di copertura), che ben conserva il proprio valore nel tempo e permette di abbassare il rischio di portafoglio. In realtà, come si è visto, questa percezione non è del tutto vera. Se da una parte l’arte è in grado di essere uno scudo rispetto al rischio di inflazione e di variazione dei tassi di interesse, si è osservato che questo genere di investimento è però caratterizzato (soprattutto per chi è ignaro delle dinamiche interne al sistema) da un forte grado di illiquidità e di aleatorietà, che a volte lo rendono un vero e proprio gioco d’azzardo per pochi privilegiati[13]. Da una parte infatti le quotazioni dei giovani artisti sono caratterizzate da una forte imprevedibilità; dall’altra le quotazioni astronomiche e sempre crescenti degli artisti di successo (i cosiddetti “arti-star”) non sono mantenibili nel lungo periodo, e il gioco che si configura per i collezionisti è quello del cerino, che passa di mano finché non brucerà le dita di qualcuno[14].
Ma come ovviare dunque a questa situazione paradossale, che certo non giova ad avvicinare nuovi collezionisti al mercato? Le soluzioni si sono già ampiamente illustrate in precedenza[15]. Tuttavia si vuole dare enfasi ad una misura che propriamente sarebbe in grado di correggere tutte le distorsioni dovute ai meccanismi di pricing del mercato dell’arte contemporanea: quella di costituire un pubblico registro di tutte le transazioni di opere accanto all’obbligo per le gallerie di esporre (o comunque rendere pubblici) i listini dei prezzi delle opere in vendita, come oggi avviene per i ristoranti. Un intervento in tale direzione infatti andrebbe a minare i presupposti dell’attuale sistema di mercato, andando a togliere gli strumenti attraverso cui le gallerie attuano le loro pricing strategies. Tale registro avrebbe il grande pregio di costituire un indicatore del valore delle opere ben più ampio e significativo rispetto ai prezzi di vendita delle case d’aste; di rappresentare uno strumento di tracciabilità e autenticità delle opere, in un’epoca dove si pone il problema della autenticità e riproducibilità; di rendere impossibili le politiche di sostegno dei prezzi delle gallerie; e in ultima analisi, mirando ad una maggiore trasparenza del mercato, di attirare nuovi investitori e capitali verso questo importante settore culturale.
Note
[1] Bocart F., Hafner C., Econometric analysis of volatile art market, Discussion Paper, Humboldt-Universität zu Berlin, Berlino 2011. Vi sono altri studi meno recenti come quelli di Baumol (Baumol W.J., Unnatural value: or Art Investment Floating Crap Game, in “American Economic Review”, 76, n. 2, pp. 10-14, 1986) e Goetzmann (Goetzmann W., Accounting for Taste: Art and the Financial Markets over Three Centuries, in “American Economic Review”, 83, n. 5, pp. 1370-76, 1993) che, studiando il mercato dell’arte su un intervallo di tre oltre secoli, mettono in rilievo addirittura che la volatilità di questo è in realtà molto superiore di quella degli indici azionari.
[2] Il prezzo delle opere d’arte, come meglio si vedrà, è influenzato anche dall’andamento congiunturale di variabili sia macro-economiche che socio-economiche, come (per la domanda) il livello del reddito, la sua distribuzione, il grado di istruzione della popolazione e (per l’offerta) i costi di promozione (più ancora che quelli di produzione).
[3] Cfr. Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.
[4] Nel 2008 si ha il caso più eclatante in cui un artista (Damien Hirst) abbia venduto opere da lui prodotte (quindi relative al mercato primario) direttamente all’asta. Tale pratica è tuttavia per il momento poco diffusa e appannaggio solamente di artisti già affermati.
[5] Questa concorrenza può essere paragonata a quella che avviene tra diversi operatori nel sistema della grande distribuzione organizzata (GDO). Da una parte abbiamo piccole strutture come le cooperative di artisti (che possono essere viste alla stregua di mercatini), poi la distribuzione al dettaglio, cioè le gallerie (che sono paragonabili ai negozi) e infine grandi organizzazioni che raccolgono numerosi prodotti, cioè le case d’aste/ipermercati. Se si considera anche la presenza di luoghi di scambio come le fiere (dove vengono raccolti in un unico spazio i singoli venditori in modo da facilitare l’operazione di comparazione e acquisto dei prodotti da parte della clientela) si configura un’analogia con una quarta tipologia di forma di distribuzione: i centri commerciali.
[6] Cfr. Candela G. – Scorcu A. (2012), Economia delle arti, Zanichelli, Bologna.
[7] Velthuis (2005), Op. cit..
[8] Quando la domanda è inferiore all’offerta i galleristi utilizzano diversi espedienti per camuffare la discesa dei prezzi. Innanzitutto la galleria può decidere, in attesa di tempi migliori, di non vendere temporaneamente l’artista e di accumulare le sue opere nei propri depositi. Secondariamente può cercare di vendere opere di dimensioni maggiori, così da giustificare la presenza di prezzi più alti. Terzo è solita concedere sconti non solo ai clienti maggiori ma anche a quelli nuovi, tenendo segreti i prezzi di vendita. Quarto propone all’artista di cambiare completamente genere di lavori e tecnica, così da dover applicare criteri di valutazione del tutto nuovi. Quinto può consigliare all’artista stesso di cambiare galleria, così da poter ristrutturare i prezzi in maniera meno evidente. Velthuis O. (2005), op. cit..
[9] Si è visto che i prezzi battuti all’asta per le modalità di determinazione risultano essere ben superiori a quelli praticati dalle gallerie. Non per questo significa che i prezzi praticati dalle gallerie siano bassi: esse riescono a spuntare valori superiori a quelli di equilibrio di mercato operando nei confronti del collezionista una discriminazione dei prezzi su più livelli: di primo grado, grazie al meccanismo della contrattazione (haggling o bargaining); di secondo grado, grazie alla concessione di sconti alla persona; e (in misura minore) di terzo grado, grazie alla concessione di sconti sulla quantità (Guenzi M. (2014), “L’efficienza paretiana nel mercato dell’arte contemporanea”, Economia e diritto, n. 7). Un’altra ragione per cui i prezzi di aggiudicazione delle case d’asta sono in genere più alti è che la domanda risulta essere solitamente più concentrata. Non per niente le maggiori auction houses di comune accordo fissano le loro aste nel medesimo luogo e a pochi giorni di distanza: vogliono agevolare la presenza dei collezionisti. Le gallerie a loro volta cercano di far fronte a questo handicap partecipando alle maggiori fiere internazionali, dove meglio possono concentrarsi domanda e offerta.
[10] Lewis B. (2009),The Great Contemporary Art Bubble, BBC (DVD), Londra.
[11] Come le gallerie, anche le case d’aste sono in grado di sostenere in maniera artificiale i prezzi degli artisti: oltre a fare leva sui sentimenti di rimpianto e competizione dei collezionisti, offrono ai venditori prezzi di vendita garantiti particolarmente appetibili (che tengono ovviamente segreti) e ai compratori commissioni ridotte e eventuali prestiti a tasso zero (Lewis B. (2009), op. cit.). Inoltre risulta fondamentale nel sostenere i prezzi il ruolo di “garanti” esterni (altre case d’aste con interessi coincidenti, mercanti d’arte o collezionisti), che si impegnano a rilanciare in cambio di commissioni (elargite dalla stessa casa d’aste) sul prezzo finale di acquisto. Thomson D. (2009), Lo squalo da 12 milioni di dollari: la bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, Milano, Mondadori.
[12] Secondo Leibenstein (Leibenstein H. (1950), “Bandwagon, Snob, and Veblen Effects in the Theory of Consumers’ Demand”, in Quarterly Journal of Economics, Vol. 64 N.2, pp. 183–207), intorno ai beni di lusso si vengono a creare due diversi effetti contrastanti di natura psicologica che influiscono sulle preferenze e quindi sulle scelte del consumatore del bene Arte: un “effetto snob” di tipo distintivo secondo cui più un bene è richiesto meno diviene appetibile ad alcuni consumatori (il fatto di possedere e ostentare un’opera di valore è un aspetto elitario per il grande collezionista); un “effetto corteo” (bandwagon) di tipo emulativo secondo cui più un bene è richiesto più diviene appetibile al grande pubblico (se il mio vicino ha un Murakami, un Koons o un Hirst anche io devo averlo).
[13] Baumol (1986) W., op. cit..
[14] Il gioco tuttavia a volte si riprende se si trovano nuovi collezionisti pronti ad entrare con capitale nel mercato, come sta succedendo ora, grazie all’apporto di cinesi, indiani e russi: dopo il collasso della bolla speculativa del 2008 i prezzi sono ritornati agli stessi livelli di 5 anni fa (Baia Curioni S. (2012), op. cit.). Il cerino si spegne soltanto quando finiscono le politiche di marketing e di mercato a sostegno dell’arti-star. Ciò che si configura non è tuttavia una repentina discesa dei prezzi ufficiali, visto la loro viscosità verso il basso, ma se mai l’impossibilità per il collezionista di trovare una controparte e di riavere il capitale immobilizzato, a meno di voler vendere l’opera sottoprezzo (e sottobanco) a degli intermediari che si impegneranno a rivenderla successivamente sul mercato.
[15] Guenzi M. (2014), “L’efficienza dell’investimento in arte contemporanea”, Economia e Diritto, n.8.