Diritto

La travagliata natura della responsabilità medica: progresso o ritorno al passato?

(di Paola Romito)

La travagliata natura della responsabilità medica: progresso o ritorno al passato?

Il nostro ordinamento riconosce e tutela costituzionalmente il diritto alla salute all’art. 32 Cost. e si preoccupa di garantire ad ogni individuo un’adeguata  tutela, conformemente a quanto prescritto dalla L. n. 833/78 istitutiva del servizio sanitario nazionale, nonché dai principi nazionali e comunitari.

Dibattuto nel tempo è stato il tema della responsabilità derivante dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento delle prestazioni sanitarie, tematica che si inserisce all’interno del più ampio contesto relativo alla responsabilità professionale.

A tal riguardo è opportuno precisare che il legislatore detta una regola generale all’art. 1176 co.2 c.c.,  prevedendo che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale la diligenza debba  valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata; ed una regola specifica all’art. 2236 c.c. in cui si stabilisce che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave.

Il prestatore inadempiente sarà, quindi, sottoposto all’ordinario regime prescritto dal legislatore: qualora dovesse riscontrarsi la violazione di un diritto previsto da un pregresso rapporto obbligatorio si applicherà la disciplina della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c.; mentre si farà ricorso alla disciplina della responsabilità extracontrattuale prevista dall’art. 2043 c.c. qualora la violazione derivasse da una attività illecita inerente ad una situazione giuridica protetta dall’ordinamento.

Generalmente , pertanto, ogniqualvolta sussista una base negoziale al prestatore d’opera intellettuale sarà invocabile la tutela predisposta dall’art. 1218 c.c.

La responsabilità professionale è stata a lungo oggetto di dibattiti dottrinali e giurisprudenziali con particolare riferimento all’onore della prova. In particolare, l’applicazione dell’art. 1218 cc. destava numerosi problemi di applicazione con riguardo  alle cd. obbligazioni di mezzi – ovverosia quelle attraverso le quali il prestatore si obbliga ad eseguire la prestazione dedotta con la diligenza prevista dall’art. 1176 cc. a nulla rilevando il conseguimento del risultato finale, che resta fuori dall’obbligazione- finendo per rimettere nelle mani del creditore la prova dell’inadempimento ed in quelle del debitore la prova della difficoltà della prestazione e della diligenza adoperata nell’esecuzione della stessa. Il criterio di distribuzione dell’onere della prova ruotava, in sostanza, attorno alla qualificazione della prestazione facile o difficile.

Per le obbligazioni di risultato – attraverso cui ci si impegna a portare a termine un preciso risultato a prescindere dai mezzi utilizzati – il debitore doveva,  invece, limitarsi a provare di essere incorso in una causa a lui non imputabile per essere esonerato dalla responsabilità.

In questo contesto intervennero nel 2001 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, in nome del principio di vicinanza della prova e della persistenza del credito, stabilirono una regola generale per la quale spettava al creditore l’onere di provare l’esistenza della fonte legale o negoziale del proprio diritto ed eventualmente la sussistenza di un termine, rimettendogli la mera allegazione dell’inadempimento e  riconoscendo, invece, al debitore  l’onere di provare il fatto estintivo dell’obbligazione e , cioè, l’avvenuto adempimento.

Con riferimento all’attività medica, in particolare, si era convenuto che spettasse al paziente l’onere di provare l’esistenza della fonte obbligatoria e l’eventuale aggravamento o l’insorgenza di una nuova malattia derivante dall’intervento e di allegare l’inadempimento; dovendo il medico, invece, provare l’esatto adempimento o che l’insuccesso non fosse dovuto a mancata diligenza.

La giurisprudenza successiva ha, poi, introdotto una nuova ipotesi di inadempimento derivante dalla cd. perdita di chances di guarigione con  conseguente  aumento di probabilità di esito negativo del risultato sperato, derivanti dall’inadempimento del sanitario, così consentendo di ottenere un ristoro economico mercé un meccanismo probatorio semplificato.

Nel 2008, infine, la Cassazione a Sezioni Unite ha precisato il precedente orientamento stabilendo che il paziente che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la prova della  fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare la circostanza dell’inadempimento “qualificato” della controparte, tale cioè da aver costituito causa o concausa efficiente alla produzione del danno,  rimettendo al debitore l’onere di provare l’intervenuto adempimento o l’ininfluenza dello stesso ai fini della produzione del danno.

In base a questa ricostruzione si evince chiaramente come a partire dal 2001 la giurisprudenza prevalente abbia intrapreso una strada ben diversa da quella preesistente e dai criteri previsti dall’art. 1218 c.c., seppur confinando analogamente la responsabilità dei prestatori sanitari nell’alveo della responsabilità contrattuale. Le recenti riforme legislative hanno, come noto, rimesso in discussione tale qualificazione giuridica, rendendo necessarie alcune considerazioni.

Originariamente si  tendeva a scindere la responsabilità contrattuale della struttura ospedaliera nascente dal cd. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria perfezionatosi con il paziente al momento della sua accettazione in clinica, da quella extracontrattuale gravante sul medico in virtù del rapporto indiretto che lo legava a quest’ultimo. Successivamente, però, cominciò a prevalere una concezione unitaria di responsabilità contrattuale ravvisabile anche con riferimento alla responsabilità del medico, in virtù di un’applicazione estensiva dell’art. 28 Cost., ovvero facendo ricorso al principio dell’immedesimazione organica, o ancora utilizzando gli schemi negoziali del contratto a favore di terzo o del contratto con effetti protettivi verso il terzo.

 La svolta si ebbe, però, con l’emersione della nuova figura giuridica del cd. contatto sociale qualificato, volta a tutelare quelle situazioni a confine tra il contratto ed il fatto illecito, in cui i soggetti sono posti in contatto tra loro pur in assenza di un formale contratto, ma con obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire e  tutelare gli interessi sorti o messi in pericolo per via del predetto contatto.

Tale teoria è stata, quindi, adattata al caso del medico a partire da una celebre pronuncia del 1999 e successivamente confermata dalle Sezioni Unite, nonché dal crescente fenomeno del consenso informato che conferma, in sostanza, il contatto avvenuto tra medico e paziente e va a costituire in caso di sua violazione una tipica ipotesi di inadempimento ex art. 1218 c.c.

La presunta omologazione raggiunta in materia si è, però, frantumata a seguito dell’introduzione dell’art. 3 del D.L. n. 158/12, convertito nella legge n. 189/12, meglio noto come decreto Balduzzi, in cui si statuisce che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alla linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve, salvo l’obbligo ex art. 2043 cc.

A ben vedere la scarsa chiarezza e la drastica inversione della disciplina sulla responsabilità che sembra desumersi da una rigida  interpretazione letterale della norma, ha ingenerato molteplici contrasti in dottrina e soprattutto in giurisprudenza. Diversi sono gli orientamenti che si sono manifestati a seguito di questa novella normativa, tra cui è possibile individuare un netto schieramento di  coloro i quali propugnano per una applicazione marginale del 2043 c.c., lasciando pressoché inalterata la disciplina ex art. 1218 c.c. e  coloro i quali, all’opposto, tendono ad interpretare estensivamente la norma al punto da ricondurre la disciplina in questione, tanto nelle forme di inadempimento derivante dal rapporto medico- paziente, quanto  in quelle relative al rapporto paziente-struttura ospedaliera, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale.

Attualmente la pronuncia più accreditata è quella resa dal Tribunale di Milano nel 2014 che, analizzando la disciplina pre e post decreto Balduzzi si preoccupa di dettare una disciplina transitoria e mediana tra le due, distinguendo le ipotesi in cui sussista un espresso contratto di spedalità con la struttura sanitaria e di prestazione d’opera intellettuale con il medico, per i quali continua ad applicarsi la vecchia disciplina ex art. 1218 c.c., da quelle in cui manchi tale contratto per cui, si sostiene, potrà applicarsi la disciplina ex art. 2043 cc. laddove ne sussistano i requisiti. È,  però, previsto che essendo unico il fatto dannoso, qualora l’attore voglia agire in giudizio sia nei confronti della struttura sanitaria che nei riguardi del medico dovrà distinguere le due azioni, che presentano presupposti e termini differenti, ma in caso di accoglimento delle domande il risarcimento sarà dovuto in solido ex 2055 c.c.

Questo travagliato dibattito giurisprudenziale è destinato ad esaurirsi nel giro dei prossimi mesi.

Difatti è in corso di approvazione un disegno di legge, già licenziato dalla Camera dei Deputati ed attualmente all’esame del Senato, involgente una serie di aspetti problematici messi in luce anche dalle criticità emerse a seguito della riforma normativa intervenuta con il Decreto Balduzzi. Tra  gli obiettivi principali della proposta di legge finalizzata, tra l’altro, a scongiurare il ricorso alla c.d. “medicina difensiva” così come evincibile dai lavori preparatori, sembra  desumersi il definitivo superamento della teoria da contatto sociale precedentemente delineata e della disciplina ad essa correlata.

Il lungo e travagliato percorso giurisprudenziale imprescindibilmente legato all’esigenza di tutelare maggiormente il paziente rischia, così, di esser vanificato dal d.d.l. Gelli che, riconducendo la responsabilità civile del medico nell’alveo dell’art. 2043 c.c., sembra destinato a rimetter nuovamente in discussione le conclusioni a cui, dopo anni di tormentati dibattiti, si era giunti. Ciò che, invece, dovrebbe restare inalterato è la responsabilità contrattuale delle strutture sanitarie e dei medici liberi professionisti, alla stregua di quanto similmente aveva prospettato il Tribunale di Milano nella pronuncia richiamata.

In tal modo si stravolge completamente la precedente ricostruzione della responsabilità civile del medico e si introduce, per converso, un sistema basato su di un “doppio binario” in cui la responsabilità è quella contrattuale per le strutture sanitarie pubbliche e private nonché per i liberi professionisti;  extracontrattuale per i medici che svolgano la propria attività tanto presso le strutture sanitarie pubbliche o private, tanto in rapporto convenzionale con il servizio sanitario nazionale.

Conseguentemente, in quest’ultima ipotesi, va a delinearsi una disciplina senz’altro più gravosa a carico del paziente, il quale dovrà dimostrare di aver subito un danno provando non soltanto la natura e l’entità della lesione subita, ma anche il nesso causale tra la condotta e il danno ed entro il più breve termine prescrizionale quinquennale.

Tali considerazioni hanno già sollevato dubbi di incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, laddove nel configurare la responsabilità del medico dipendente come extracontrattuale e quella del medico libero professionista e dell’ente ospedaliero in termini di responsabilità contrattuale, possa dar luogo ad una violazione del fondamentale principio di uguaglianza.

Si sottolinea, inoltre, come così facendo si cristallizzi un definitivo “ritorno al passato” che non tiene conto dei progressi giurisprudenziali raggiunti con fatica negli ultimi decenni né dell’affidamento riposto dai pazienti, comuni fruitori del servizio sanitario, i quali risultano così sottoposti ad un innovativo, quanto opinabile sistema di tutela.

Alla luce di tali considerazioni si auspica che il legislatore, recependo i dubbi

emersi dalla più attenta dottrina, possa fugare ogni dubbio predisponendo una disciplina che sia in grado di arginare efficacemente il fenomeno della medicina difensiva ed, al contempo, tutelare nel modo più adeguato gli interessi dei pazienti.