Politiche di liberalizzazione ed effetti redistributivi del reddito: un difficile equilibrio
(di Livia Cherubino)
PARTE PRIMA
LE LIBERALIZZAZIONI, FAVORENDO LA CONCORRENZA, RILANCIANO LA CRESCITA ECONOMICA
1.1. Le liberalizzazioni a presidio del rilancio dello sviluppo economico
La concorrenza (1) è alla base della capacità di un sistema economico di valorizzare le proprie risorse, di attrarne di nuove e di generare ricchezza. Promuoverla vuol dire stimolare l’innovazione negli individui e nelle imprese, e questo è il motore dello sviluppo.
Porre l’attenzione sulle regole, per tutelare il libero funzionamento del mercato e al tempo stesso per ovviare ai suoi fallimenti, è un caposaldo del pensiero liberale. Ma se, per tradizione, detto pensiero s’incardina sull’idea che il libero mercato perfettamente concorrenziale sia la modalità organizzativa più efficiente per rendere massimo il benessere materiale di tutti, ad oggi si fa sempre più dilagante la convinzione che si tratti di una modalità non esistente in natura e che sia, per lo più, una creazione dell’uomo evoluto, perché un mercato non sottoposto a regole né controlli finirebbe con l’autodistruggersi a causa dell’endemica tendenza dei soggetti che vi operano a ridurre la concorrenza o a collocare il mercato stesso su traiettorie esplosive.
Per questo, più che una totale e piena eliminazione delle regole poste a presidio dei meccanismi economici, ciò di cui il momento economico abbisogna è di norme primarie chiare e stabili, una regolamentazione del mercato e delle professioni di qualità e non più di quantità. Se la concorrenza va guidata e limitata in alcuni casi ben individuati e va garantita e tutelata in altri, le liberalizzazioni sono comunque il perno da cui deve ripartire il rilancio dello sviluppo economico.
Se questo era già chiaro a valle delle numerose indagini empiriche portate avanti da tempo e intensificate negli ultimi anni, ad oggi sembra rappresentare un imperativo economico. Relativamente al rapporto tra liberalizzazioni e crescita, le evidenze empiriche e la stessa letteratura economica (2) hanno ampiamente confermato che una regolamentazione eccessiva e onerosa ostacola l’ingresso sul mercato di nuovi soggetti, scoraggia gli investimenti e incide negativamente sulla
produttività; per contro, alcuni studi hanno stimato che un miglioramento della qualità della regolamentazione aumenterebbe il tasso di crescita annuo del PIL, quantificando, dunque, i vantaggi legati alle politiche di liberalizzazione non solo in termini di risparmio economico per i consumatori, ma anche di crescita dell’intero Paese.(3)
La qualità delle regole, dunque, non costituisce solo un elemento essenziale allo Stato di diritto, in risposta alle basilari esigenze delle democrazie liberali; il sistema regolatorio condiziona in modo significativo il funzionamento delle economie di mercato e per questo è addotto quale fattore essenziale di crescita e strumento utile per uscire dalle crisi.(4)
La crisi economica, infatti, necessita di una tipologia d’interventi normativi chiari e ben calibrati, sia per porre un argine alle onerose ricadute date dai difetti del sistema regolatorio, sia perché rappresenta una politica di crescita a “costo zero”, o comunque a basso costo. La qualità delle norme costituisce un valido strumento per l’innalzamento degli investimenti, del livello di competitività del Paese (5), nonché della credibilità, influenza e forza impositiva dello stesso sul piano internazionale, perché non bisogna dimenticare che spesso è la (positiva) percezione di un sistema a “qualificare” il sistema stesso.
Da ciò è ragionevole trarre che le regole sono, al tempo stesso, sia (con)causa che valido strumento per uscire dalle situazioni di crisi (6).
Il riordino della legislazione, unita a un’analisi d’impatto della regolazione, volta preventivamente a valutare i vantaggi e gli svantaggi di ogni nuova disposizione normativa, si pone a monte delle manovre finanziarie, il cui apparato di regole prende il nome di “regolamentazione economica” e impone di riconsiderare il ruolo dello Stato nell’economia che -attraverso una programmazione di regole non di quantità ma di qualità, chiare, accessibili ed emanate nel quadro di una valutazione di priorità e coerenza degli interventi- persegua la politica della concorrenza, finalizzata all’apertura dei mercati per contribuire ad accrescere la produttività e a rafforzare la crescita economica.
Anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 8/2013, ha dichiarato che tra l’attività di razionalizzazione dell’attività economica e quella di gestione della finanza pubblica corre un legame evidente: dal momento che le politiche di liberalizzazione sono prodromiche alla crescita economica, “[…] è ragionevole ritenere che le politiche economiche volte ad alleggerire la regolazione, liberandola da oneri inutili e sproporzionati, perseguano lo scopo di sostenere lo sviluppo dell’economia nazionale”. Con tale pronuncia anche la Corte, con una chiarezza senza eguali, prende posizione relativamente all’importanza della concorrenza, sostenendo la liberalizzazione dell’attività economica come strumento di crescita del Paese.
La cultura della concorrenza si radica alla base della convinzione per cui la riduzione delle barriere nei mercati, così come la diminuzione dei vincoli normativi, riesca a imprimere un forte slancio alla crescita produttiva perché, nei sistemi in cui i limiti all’attività economica sono contenuti, le risorse si allocano in modo efficiente traducendosi in guadagni di produttività.
L’elaborato, attraverso un’analisi sommaria degli effetti macroeconomici delle politiche di deregolamentazione e –più attentamente- di liberalizzazione delle attività professionali (con specifico riferimento alla “vicenda taxi”), si pone l’obiettivo di delineare gli effetti redistributivi del reddito che dalle stesse discendono, rilevando come dette politiche siano necessarie, ma nello stesso tempo sia indispensabile individuare il modo migliore per attuarle, per consentire a tutti gli operatori economici di raggiungere condizioni di maggiore efficienza.
1.2. L’imperativo economico della concorrenza
L’Italia è uno dei paesi Ocse con la più alta regolamentazione nei diversi comparti dell’economia, per questo le misure di volta in volta adottate sono tese a promuovere quel recupero di efficienza suddetto attraverso l’iniezione di competitività.
Le inefficienze, derivanti per lo più dalla cattiva regolamentazione, gravano in misura rilevante sulla pulsione alla concorrenza e sul potere d’acquisto dei consumatori, per un ammontare di svariati miliardi di euro (7). In questo contesto è fatto obbligo ai Governi di procedere con azioni orientate al recupero di più alti livelli di produttività, reimpostando l’organizzazione e l’assetto dei mercati in ottica concorrenziale e di snellimento burocratico (c.d. deregulation).
La deregolamentazione è una tipologia di politica economica attraverso cui i Governi eliminano le restrizioni presenti sul piano economico, mediante la rimozione o diminuzione delle norme, al fine di favorire un maggior livello di concorrenza, di produttività ed efficienza del mercato, da considerare -in quest’ottica- come un organismo autoregolatore, ove l’intervento pubblico produrrebbe l’effetto contrario di alterarne il funzionamento e di determinare un aumento dei prezzi.
Il permanere di barriere alla concorrenza e rendite di posizione rende necessario intervenire sulle variabili strutturali di numerosi settori, attuando un esteso programma di liberalizzazioni, capace di favorire l’affermazione di contesti realmente competitivi. Tuttavia, è importante distinguere i diversi campi in cui operano e dovrebbero operare le liberalizzazioni, verificandone i diversi effetti con riguardo all’impatto che determinano sui consumatori, sul mercato e sulla collettività.
Gli effetti economici che, in via di principio, le liberalizzazioni producono sono pacifici: prendendo in considerazione le due contrapposte situazioni di mercato concorrenziale e di regime anti-concorrenziale, le liberalizzazioni sono in grado di creare un effetto a catena, in base al quale l’eliminazione delle barriere all’entrata determina l’aumento della competitività, il conseguente abbassamento dei prezzi, l’incremento della quantità prodotta e consumata dei beni e quindi, complessivamente, un rilevante accrescimento del benessere sociale (8).
È importante, però, distinguere tra due tipi di concorrenza (9): quella tra imprese che operano già in un certo mercato e quella attuata tra imprese “nuove” entranti, perché le politiche di liberalizzazione volte a creare condizioni più favorevoli alla concorrenza o a facilitare l’ingresso di nuovi concorrenti richiedono -a monte- strumenti diversi e determinano -a valle- effetti differenti.
Quando si fa generico riferimento alle liberalizzazioni poste a monte del primo tipo di concorrenza si pensa alla rimozione di quegli ostacoli che, a suo tempo, Guido Carli chiamò “lacci e lacciuoli”: si pensa all’eliminazione dei limiti orari all’apertura degli esercizi commerciali, al numero dei produttori, delle tariffe; la loro soppressione è, sì, condizione necessaria affinché possa esservi concorrenza, ma non sufficiente.
Non basta, infatti, ridurre i “lacci” per avere un sistema più efficiente, dal momento che la pulsione a competere è piuttosto bassa; per accelerare la crescita sarebbe necessario aprire il mercato ai nuovi concorrenti capaci di rompere gli schemi consolidatisi nel tempo. Questi interventi, come quelli di effettiva liberalizzazione su mercati tradizionalmente chiusi e inefficienti, comportano – quale diretta conseguenza- un impatto sociale non trascurabile, che determina, innanzitutto, un rimescolamento sociale e, di riflesso, conseguenze sull’economia (10).
A tal riguardo, può essere esemplificativo della diretta connessione tra apertura dei mercati e sviluppo economico -da intendersi in termini di aumento del PIL-, la deregulation del trasporto aereo, iniziata negli anni Settanta del Novecento negli Stati Uniti, e del settore delle telecomunicazioni. La caduta dei vecchi monopoli legali ha prodotto indubbi effetti benefici: il potenziamento dell’offerta a prezzi accessibili e, soprattutto, -nel medio periodo- la nascita di nuove attività e nuovi posti di lavoro.
A tal riguardo, bisogna valutare che, se è vero l’assunto per cui riducendo il potere di monopolio nell’offerta di un certo bene si ha un sostanziale incremento del PIL, bisogna considerare che questo risultato dipende dalla contestualizzazione del bene in un dato modello di riferimento, in base al quale più di quel prodotto consumiamo meglio stiamo. In questo caso, alla riduzione del prezzo si accompagna un aumento della domanda. Ma se si prendono come parametro di riferimento gli interventi mirati unicamente a ridurre i prezzi, come – ad esempio- quelli dei farmaci, avremo un concreto risparmio dei consumatori, ma alcun valido motivo per cui si dovrebbe alterare significativamente la produttività: tale effetto sarà solo marginale, in quanto la distribuzione delle risorse avverrà solamente fra farmacisti e popolazione, poiché alla riduzione del prezzo non corrisponderà un aumento del consumo dei farmaci. Viceversa, una modifica della normativa sulla distribuzione degli stessi andrebbe a determinare una maggiore riduzione dei prezzi in proporzione alla più numerosa diffusione di punti vendita diversi dalle farmacie, perché stimolerebbe le medesime a competere (11).
È questo il fine cui le politiche di liberalizzazione devono tendere, in quanto i produttori non esposti alla concorrenza godono di rendite, determinate dalla possibilità di fissare prezzi assai più elevati dei costi, o di vivere in modo inefficiente a scapito dei consumatori. La concorrenza andrebbe a erodere questo sistema, configurando una politica di ridistribuzione, dai percettori di rendite a favore dei consumatori (12).
Se, poi, in secondo luogo, le politiche di liberalizzazione andassero a determinare un incremento (sostenibile) del numero dei professionisti, si avrebbero altri effetti redistributivi -con impatto potenzialmente maggiore- con la creazione di un guadagno di nuova occupazione (13).
Note:
1 Secondo una puntuale definizione, “… concorrenza significa, data la libertà di entrata e di uscita (dal lato dell’offerta) e la libertà di scelta (dal lato della domanda), operare in assetti di mercato ove l’unico possibile esito del gioco è l’efficienza (allocativa e produttiva), quindi il massimo benessere sociale”. Così si è pronunciato a riguardo Giuseppe Tesauro, ex Presidente dell’Autorithy nazionale per l’antitrust.
2 Banca d’Italia, Rapporto sulle tendenze del sistema produttivo italiano, 2008.
3 Una crescita del PIL, così come misurata dalla Banca Mondiale, di oltre due punti percentuali, o comunque tra il +1 e +2% come dal calcolo più frenato dell’Adiconsum, con un contributo importante alla crescita dell’economia nazionale nel medio-lungo periodo: la produzione di un incremento stabile del PIL di circa l’1,4% annuo, che si produrrebbe nell’arco di un ventennio, così come stimato da un report del Centro studi di Confindustria, elaborato sulla base dei dati della Banca d’Italia.
4 Anche a livello comunitario, si evidenzia che la domanda di qualità della regolazione si
acuisce in tempo di crisi e che la riforma della regolazione diventa per questo urgente. Così, Commissione UE, Comunicazione Smart Regulation in European Union, COM, 2010, 543 final.
5 World Economic Forum, The Global Competitiverness Report 2012-2013, 2012.
6 Moreira U., Rangone N., Sistema regolatorio e crisi economica, in Analisi Giuridica dell’Economia, n. 2/2013, pp. 383 ss.
7 Ravazzoni R. et al., Liberalizzazioni e concorrenza nel terziario italiano, in Economia dei Servizi, n. 3/2010, pp. 451-469.
8 Considerazioni pacificamente accolte dalla dottrina economica, tant’è che, per contro, Nicoletti e Scarpetta, in Regulation, productivity, and growth: OECD evidence, 2003, hanno dimostrato che la regolamentazione nel mercato dei prodotti rallenta la crescita della produttività.
9 Scoca, Relazione introduttiva, in Sticchi Damiani (a cura di), Studi in tema di liberalizzazioni. Riflessi giuridici sull’evoluzione della disciplina. Atti del Convegno di Lecce, 30- 31 marzo 2007, Torino, 2008, p. 6.
10 Cavuoti M., Pierani M., L’impatto delle liberalizzazioni sull’economia delle famiglie, in Consumatori, Diritti e Mercato, n. 7/2007, pp. 123-135.
11 Ad esempio, il processo di liberalizzazione che interessò la distribuzione al dettaglio dei farmaci di “autocura”, operato dal “decreto Bersani” (d.l. n. 223/2006 convertito in l. n. 248/2006), sviluppò dei risparmi stimati a famiglia (spesa media pro capite) pari solo a 36 € l’anno, ma innescò un meccanismo competitivo prima assente, dato dall’aumento del numero e della tipologia di esercizi abilitati alla vendita, determinanti un miglioramento qualitativo del servizio offerto.
12 Silva F., Liberalizzazioni, consumatori e produttori, in Consumatori, Diritti e Mercato, n. 1/2007, pp. 86-91
13 Il Sole 24 Ore, Il difficile dosaggio delle ricette, 2012.