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Marco Cardillo

Costi non deducibili se l’evasore totale non dimostra la certezza o la determinabilità in modo obiettivo

(A cura del Dott. Marco Cardillo)

La Suprema Corte di Cassazione con Sentenza n. 230, depositata in data 8 gennaio 2020, ha chiarito che i dati comunicati dai clienti di un contribuente negli elenchi “Clienti-Fornitori” – ossia i dati comunicati ai sensi dell’art. 21, D.L. 78/2010 (poi modificato dall’art. 2, comma 6, D.L. 16/2012), il quale ha introdotto l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle Entrate le operazioni rilevanti ai fini Iva – non costituiscono mere annotazioni.

La Suprema Corte, nelle motivazioni della Sentenza, spiega infatti che “corrispondevano a fatture regolarmente registrate in corrispondenza di prestazioni di servizi ricevute o di beni acquistati dal soggetto emittente le corrispondenti fatture sulle quali il cliente, in quanto titolare di partita IVA, è legittimato a detrarre la relativa imposta ed aventi perciò valore probatorio in ordine all’acquisto di beni.

Gli Ermellini riconoscono quindi corretto utilizzare i dati suindicati per la ricostruzione del volume di affari – corrispondente ai ricavi – del contribuente che ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi.

La Cassazione ha evidenziato che la riconducibilità delle fatture emesse dal contribuente “ricostruite sulla base di quelle ricevute dai clienti e regolarmente registrate, al volume di affari della società dal medesimo amministrata non costituisce alcuna presunzione, ma soltanto il frutto di un accertamento fiscale effettuato dalla Polizia tributaria che, avendo ricostruito sulla base di quanto figurante dall’elenco fornitori le cessioni di beni da costui effettuate, si sono limitati al calcolo matematico degli importi riportati sui singoli documenti per quantificarne il volume di affari dell’anno di imposta in contestazione”.

La stessa Corte ha voluto porre l’accento sul fatto che per la ricostruzione del reddito dell’impresa nell’esercizio di competenza concorrono anche le spese e gli altri componenti negativi, ma questi devono essere certi o comunque determinabili in modo obiettivo come previsto dall’art. 109, comma 1, TUIR, non potendo essere puramente e semplicemente presunti.

I giudici hanno evidenziato che è onere del contribuente, evasore totale, provare l’esistenza dei costi correlati ai ricavi ricostruiti o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta, non essendo legittimo presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza.


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Iva

(di Marco Cardillo)

La Cassazione, con la recente ordinanza n. 2862 del 31 gennaio 2019, ha ribadito che il destinatario di una fattura in “reverse charge”, relativa ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, “non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta”.

Infatti, nel caso di operazioni inesistenti in regime d’inversione contabile, il committente è l’effettivo soggetto d’imposta e l’IVA integrata a debito sulle fatture emesse a fronte di operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti è dovuta, in base al principio comunitario di cui all’art. 28-octies, anche quando si tratta di forniture inesistenti o diverse da quelle indicate in fattura. Conseguentemente, il cessionario non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta mancando   il   suo presupposto, ovverosia la corrispondenza anche soggettiva dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata, per il combinato disposto dall’art. 21, comma 7, art. 19, comma 1 e art. 26, comma 3 del DPR 633/1972.

La Suprema Corte ha evidenziato che non viene in rilievo la mera inosservanza di obblighi contabili, ma la totale assenza dei presupposti sostanziali suscettibili di dar fondamento al diritto alla detrazione, e ciò a fronte dell’esistenza dell’obbligo di corrispondere l’imposta portata in fattura.

La questione analizzata si riferiva alla cessione di rottami, constatata come operazione inesistente.  La disciplina nazionale per il commercio dei rottami prevede che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizioni di cui al D.P.R. n.  633  del 1972, art. 21 e s.s., e con l’indicazione di cui all’art. 74, comma  8,  che si tratta di operazione con Iva non addebitata in via di rivalsa; la fattura è quindi integrata dal cessionario, che diviene soggetto passivo  d’imposta, con l’indicazione dell’aliquota e della imposta  stessa,  per  essere,  poi, registrata nel registro delle vendite  dal  cessionario,  che  in  tal  modo assolve l’obbligo di  pagamento  del  tributo,  detratto  con  la  parallela annotazione  nel  registro  degli  acquisti;   trattandosi   di   operazione imponibile, inoltre, il cedente conserva il diritto all’ordinaria detrazione dell’imposta relativa agli acquisti inerenti.

Nella vicenda esaminata dai giudici ermellini, non è contestato che la   società contribuente abbia regolarmente effettuato l’inversione contabile a suo carico e reso neutrali le operazioni; rileva, invece, che dette operazioni siano state ritenute soggettivamente inesistenti.

La Corte di Giustizia su tale problematica  ha  precisato che “la presentazione di false fatture o di false dichiarazioni,  alla  pari di qualsiasi altra alterazione di prove, è idonea ad impedire la riscossione dell’importo esatto dell’imposta e, pertanto, è atta a compromettere il buon funzionamento  del  sistema  comune  dell’IVA”  e  “pertanto,   il   diritto dell’Unione non impedisce agli Stati membri di  considerare  l’emissione  di fatture irregolari alla stregua di una frode fiscale e di negare l’esenzione in una siffatta ipotesi” (sentenza, 7 dicembre 2010, in C-285/09, R.,  punti 48 e 49);

I giudici europei, con la sentenza 11 dicembre 2014, in C-590/13, “Idexx Laboratoires Italia”,  hanno statuito che gli artt. 18, paragrafo 1, lettera d),  e  22  della  direttiva 77/388/CEE, come modificati, devono essere interpretati nel senso  che  tali disposizioni dettano requisiti formali  del  diritto  a  detrazione  la  cui mancata osservanza, “in circostanze come  quelle  oggetto  del  procedimento principale“, non  può  determinare  la  perdita  del  diritto  medesimo  ove sussistano i requisiti sostanziali del diritto a detrazione che sono  quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione  del  diritto,  la  sua insorgenza, (punto 41 sentenza “Idexx”), e consistono nelle  circostanze che gli  acquisti  siano  stati  effettuati  da  un  soggetto  passivo,  che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi  siano  utilizzati  ai  fini  di  proprie  operazioni imponibili (punto 43).

La Cassazione ha ritenuto che le fatture oggettivamente o soggettivamente inesistenti, non sono carenti dei presupposti formali ma risultano prive dei presupposti sostanziali.

Risulta opportuno ricordare che tale conclusione è frutto di un orientamento giurisprudenziale sia domestico sia unionale, vedasi sentenza n. 958 del 17 gennaio 2018 della Cassazione Civile, Sez. V.  In quest’ultima sentenza i giudici hanno altresì precisato che non possono trovare applicazionei più favorevoli trattamenti fiscali e sanzionatori previsti dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9, 9-bis.1,  9-bis.2,  e  9-bis.3, introdotti dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15  posto  che  alle  operazioni imponibili soggettivamente inesistenti fa  riferimento  soltanto  il  citato comma 9-bis.3 che prevede che siano espunti in sede di accertamento  sia  il debito che la  detrazione  computate  nelle  liquidazioni  dell’imposta  dal cessionario o committente che applica l’inversione contabile  ma  solo  ‘per operazioni esenti, non  imponibili  o  comunque  non  soggette  a  imposta’. Quindi, tali favorevoli trattamenti ‘non trovano applicazione nel caso di operazioni imponibili soggettivamente inesistenti ancorché regolate in regime domestico d’inversione contabile”. Stessa interpretazione è stata espressa con sentenza n. 16679 del 9 agosto 2016  della Cassazione Civile, Sez. V. Risulta opportuno sottolineare che in quest’ultima sentenza i supremi giudici hanno precisato che: “[…] il D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 9 bis, n. 3,  introdotto  dal decreto di riforma del sistema sanzionatorio tributario (D.Lgs. n.  158  del 2015, art. 15), prima stabilisce: ‘Se il cessionario o  committente  applica l’inversione contabile per operazioni esenti, non imponibili o comunque  non soggette a imposta, in sede di accertamento devono  essere  espunti  sia  il debito computato da tale soggetto nelle  liquidazioni  dell’imposta  che  la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette, fermo restando  il  diritto del medesimo soggetto a recuperare l’imposta eventualmente non  detratta  ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 26, comma 3, e del D.Lgs.  31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2’. Poi aggiunge: ‘La disposizione si applica anche nei casi di operazioni inesistenti, ma trova in tal caso applicazione la sanzione amministrativa compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 Euro’.  Il che significa che devono essere espunti sia il debito computato che la detrazione operata nelle liquidazioni dell’imposta anche nei casi di operazioni inesistenti che siano astrattamente ‘esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta e che siano regolate dal cessionario coll’inversione contabile interna’.  Per l’insidiosità che verosimilmente si ritiene che tale fattispecie rivesta, trova solo in tale ultimo caso applicazione la sanzione amministrativa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile (con un minimo di mille Euro).  Dunque, i più favorevoli trattamenti fiscali e sanzionatori introdotti dal comma 9 bis, n. 3, non trovano applicazione nel caso di operazioni imponibili soggettivamente inesistenti ancorché regolate in regime domestico d’inversione contabile.  La diversa conclusione, che potrebbe essere desunta dal non chiaro tenore della relazione illustrativa laddove si parla di “procedura”, non rileva poiché ogni testo normativo deve essere interpretato secondo il suo contenuto obiettivo mentre i lavori preparatori non costituiscono elemento decisivo per la sua interpretazione (Cass. 1654/1962). Non rileva neppure la recentissima modifica dell’art.  21, comma 7, D. Iva: ‘Se il cedente o prestatore emette fattura per operazioni inesistenti, ovvero se indica nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura’. Si tratta di disposizione che, introdotta dal D.Lgs.  n.  158  del 2015, art. 31,  è  applicabile  dal  primo  gennaio 2016 sempre  ai  sensi dell’art. 32, comma 1 (mod. L. n. 208 del  2015,  art.  1,  comma  133).  La relazione illustrativa afferma che la modifica opera ‘al fine di rendere chiaro che la relativa prescrizione non riguarda le ipotesi di operazioni soggette a reverse charge’. Ciò tocca, però, unicamente la posizione del cedente verso il fisco e non quella del cessionario il quale per le operazioni inesistenti, anche se solo soggettivamente, ma pur sempre imponibili perde comunque il diritto di detrazione per effetto del combinato disposto dell’art. 19, comma 1, e dell’art. 26, comma 3 D. Iva.

In estrema sintesi, l’orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema Corte di Cassazione, in riferimento a fatture in “reverse charge”, per operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, evidenzia che tali fatture non sono carenti dei presupposti formali ma risultano prive dei presupposti sostanziali, conseguentemente l’IVA è indetraibile per il committente.

Le considerazioni esposte nell’articolo sono personali dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza dello stesso.

Redditi diversi

(di Marco Cardillo)

L’art.36 co. 29 lett. b) del D.L. 233/2006 (cd. decreto Bersani), ha introdotto una modificata all’art. 54 del D.P.R. 917/86 “Determinazione del reddito di lavoro autonomo” al comma 1 quater, che così statuisce: “concorrono a formare il reddito i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”.
Tale riforma è stata inserita nel Titolo III del Decreto Bersani, il quale richiama le misure in materia di contrasto all’evasione ed elusione fiscale e di recupero della base imponibile; proprio per il richiamo al recupero della base imponibile, alcuni autori hanno interpretato che prima della suindicata riforma i corrispettivi per la cessione della clientela fossero redditi esenti, mentre l’interpretazione maggioritaria considerava tale corrispettivo, fino alla riforma introdotta dal Decreto Bersani, come reddito diverso ai sensi dell’art. 67, comma I lett. l) del D.P.R. 917/86.
Risulta opportuno ricordare che:
1. Il Testo Unico delle Imposte sui Redditi, al Titolo 1 Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, art. 1 recita: presupposto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è il possesso di redditi in denaro o in natura rientranti nelle categorie indicate nell’art.6;

2. all’art. 6, co. 1 del predetto T.U.I.R., si legge: i singoli redditi sono classificati nelle seguenti categorie:

a. redditi fondiari;
b. redditi di capitale;
c. redditi di lavoro dipendente;
d. redditi di lavoro autonomo;
e. redditi di impresa;
f. redditi diversi.

3. Proprio nella categoria dei redditi diversi di cui alla precedente lettera f., sono da ricondurre i corrispettivi ricevuti dalla cessione della clientela, infatti l’art. 67, comma I lett. l) del D.P.R. 917/86, stabilisce che fanno parte di redditi diversi i redditi derivanti dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.

In questi giorni, la Cassazione Civile – Sez. V, Ord. con sentenza del 06-02-2019, n. 3400 ha confermato che il corrispettivo ricevuto per la cessione della clientela era da ricondurre ai redditi diversi ai sensi dell’art. 67 TUIR.
In particolare il contribuente denunciava “la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l), nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la ricorrente lamentava che la CTR abbia incluso fra i redditi diversi i proventi derivanti dalla cessione della sua attività professionale, che ne andavano invece esclusi, come confermato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 29, che, disciplinando per la prima volta la fattispecie, ha inserito i corrispettivi per la cessione della clientela tra i redditi riferibili all’attività professionale, aggiungendo il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54, comma 1 quater”.
Altresì, il contribuente deduceva la violazione a falsa applicazione dell’art. 23 della Costituzione per aver ritenuto tassabile un provento pur in assenza di una disposizione normativa che lo prevedesse.
La Suprema Corte ha chiarito che è stato introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36, comma 29 un regime di tassazione specifico per i corrispettivi di tali cessioni, modificando il TUIR all’art. 54, comma 1 quater, che nel disciplinare il reddito da lavoro autonomo, così espressamente recita “concorrono a formare il reddito (di lavoro autonomo) i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale“. In presenza di una cessione avvenuta ante 2006, e quindi non soggetta temporalmente a tale normativa innovativa, l’Agenzia delle Entrate aveva comunque sottoposto a tassazione il provento dell’operazione economica riconducendolo ad un reddito diverso D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 67, comma 1, in quanto “non conseguito nell’esercizio di arti o professioni“, e rientrante nella lett. l) che ricomprende “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente o dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere“. Conseguentemente, la correttezza della motivazione va dunque verificata in riferimento esclusivo a tale disposizione.
L’art. 67 cit., all’incipit del comma 1, esclude in termini generali dalla qualificazione come redditi diversi solo quelli che siano conseguiti nell’esercizio dell’attività professionale, e non tutti quelli che trovino occasione o comunque origine in tale attività, per cui va ritenuto che il provento della cessione dell’attività professionale, in quanto non costituisce il corrispettivo di una specifica prestazione professionale resa ad un cliente, non rientri nell’esenzione, e che la norma ben possa essere applicata per sottoporre a tassazione detto provento in presenza delle altre condizioni ivi previste.
Ai sensi della lett. l) suindicata sono, tuttavia, redditi diversi tassabili esclusivamente quelli derivanti dall’assunzione di un obbligo di fare, non fare o permettere, e non, complessivamente, tutti quelli derivanti dalla cessione di attività imprenditoriale in forma di impresa, che ontologicamente ricomprende una pluralità di elementi materiali ed immateriali.
La Suprema Corte di Cassazione ha concluso che il corrispettivo ricevuto per la cessione della clientela debba essere tassato quale “reddito diverso” ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 1, lett. l).

Le considerazioni esposte nell’articolo sono personali dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza dello stesso.

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