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(di Marco Guenzi)
Dopo aver analizzato il mercato dell’art service e quello dell’art stock per quanto riguarda la produzione di nuove opere, in questo articolo si andrà a studiare l’offerta sul mercato secondario, cioè quello delle opere già in circolazione. Per completare l’argomento si prenderà in esame un importante aspetto dell’offerta, e cioè che il meccanismo di fissazione dei prezzi è tale per cui questi sono liberi di crescere, ma non di scendere, fenomeno (tra l’altro tipico anche dei salari) denominato in economia “viscosità verso il basso”.
Offerta potenziale e offerta effettiva
Nel caso dell’arte contemporanea, dove si presume l’artista sia ancora vivente, viene a crearsi una concorrenza tra l’offerta di opere appena prodotte (o rimaste invendute) messe in vendita sul mercato primario attraverso il circuito delle gallerie e quella di opere acquistate dai collezionisti, mercanti d’arte o investitori istituzionali e da questi successivamente messe in vendita sul mercato secondario.[1]
Cosa determina quindi l’importanza di un mercato rispetto all’altro? Per rispondere alla domanda bisogna distinguere innanzitutto tra offerta potenziale e offerta effettiva.
L’offerta potenziale (qui indicata con ) fa capo allo stock accumulato (quindi prodotto in passato dagli artisti), parte del quale tuttavia non è in vendita, poiché ad esempio fa parte integrante di una collezione di un privato o di un museo, o perché semplicemente è finita accatastata nel deposito di una galleria o nello studio dello stesso artista. Tale componente, sebbene sia molto consistente, non influenza direttamente il mercato, se non nel momento in cui i diversi proprietari dello stock dovessero decidere di metterlo in vendita. La consistenza dell’offerta potenziale per il singolo artista varia notevolmente in corrispondenza delle diverse fasi della sua carriera. Essa infatti tende costantemente a crescere con l’avanzamento dell’età, fino a fermarsi in corrispondenza della sua scomparsa.[2]
Un altro fattore che influenza il livello dello stock potenziale è il limite cui le opere sono soggette nel tempo, dovuto per alcune di esse alla natura immateriale delle opere d’arte (si pensi ad esempio alle performance); per altre al decadimento fisico cui esse sono soggette naturalmente[3]; per alcune infine alla loro distruzione[4].
L’ammontare dello stock potenziale sul mercato è inoltre ampliato per via del fenomeno della falsificazione delle opere. I falsi infatti, principalmente nel caso di artisti molto noti, costituiscono una importante porzione del mercato complessivo, che si sviluppa in genere dopo la loro scomparsa[5]. Da citare è anche il caso delle repliche, ricreate dagli stessi artisti per aumentare la produzione dei periodi rappresentativi (e più quotati), spesso accompagnate dalla pratica illecita della retrodatazione[6].
Infine la recente introduzione della stampa 3D può potenzialmente rappresentare un’invenzione rivoluzionaria, in grado di stravolgere il mercato, tenendo conto che le copie ottenute con tale tecnologia diventano riproduzioni perfette, impossibili da distinguere ad occhio nudo, e quindi il concetto di originale diventa del tutto labile.[7]
Se l’offerta potenziale coincide con il numero di opere esistenti, l’offerta effettiva (S) invece corrisponde al numero di opere messe effettivamente in vendita sul mercato. Si è precedentemente analizzata tale offerta sul mercato primario. Risulta ora interessante prendere in esame l’offerta effettiva sul mercato secondario, poiché essa influisce direttamente sul livello dei prezzi e risulta essere in concorrenza con il mercato primario.
L’offerta sul mercato secondario
Ha senso parlare di offerta effettiva sul mercato secondario solo per quegli artisti contemporanei per i quali esiste una domanda importante, dovuta al fatto che essi hanno conseguito una certa fama durante la loro carriera e le cui opere sono considerate quindi “liquide”, in quanto richieste dal mercato. L’offerta del mercato secondario poi si sostituisce in toto a quella del mercato primario una volta che l’artista di fama decede o decide di smettere la propria produzione. Per gli artisti invece nelle prime fasi della carriera (“non quotati”) il mercato secondario risulta essere marginale.
Sul mercato secondario si riscontrano diversi soggetti offerenti: non si tratta più delle gallerie che vendono le opere per conto degli artisti, o degli artisti stessi che vendono senza intermediazione, ma sono i collezionisti, i mercanti d’arte e gli investitori istituzionali ad offrire le opere, precedentemente acquistate. Sulla carta a questi soggetti bisognerebbe aggiungere la categoria dei musei. Essi, tuttavia, solo raramente vendono le opere acquisite.[8]
I collezionisti, da parte loro, in genere vendono sia nel caso in cui essi non ritengono più loro di gradimento un’opera (in corrispondenza quindi di un cambiamento personale o collettivo del gusto), sia quando essi devono fare cassa in ottica di operare nuovi investimenti. Motivo meno frequente, ma comunque rilevante, è il sopraggiungere di eventi sporadici (come le tre “D”: death, divorce e debt, cioè in caso di successione, divisione dei beni e di liquidazione fallimentare) che spesso comportano l’alienazione di opere dalla collezione.
I mercanti d’arte e gli investitori istituzionali invece legano la loro attività di vendita a scopi prettamente speculativi, per cui la determinante dell’offerta diventa l’aspettativa che si crea sull’andamento delle quotazioni dei diversi artisti, in relazione ai rendimenti delle attività di investimento alternative.
Come i soggetti offerenti, anche i meccanismi di formazione dei prezzi sono diversi e seguono logiche differenti. Due risultano essere di base le forme di contrattazione sul mercato secondario: la contrattazione privata e la vendita all’asta (nelle sue varie forme). La contrattazione privata in genere fa capo a due soggetti che entrano in contatto tra loro per opera di un mediatore, che segue la trattativa e funge da facilitatore. Come si è visto, essendo in causa solo due parti, il prezzo di vendita della contrattazione (huggling), è in genere più basso rispetto a quello all’asta, e corrisponde al prezzo di riserva del singolo compratore. Nella trattativa all’asta invece, condotta per mezzo di un auctioneer, vi sono molteplici possibili acquirenti e quindi il prezzo di aggiudicazione risulta essere mediamente più alto (nell’asta all’inglese esso risulta di poco superiore al secondo miglior prezzo di riserva tra gli astanti[9]). Ma forse la più grande differenza tra le due forme di contrattazione è che nella prima, secondo un accordo tra le parti, il prezzo è in genere tenuto privato, mentre nella seconda (se si escludono forme d’asta particolari come quelle in busta chiusa) il prezzo di aggiudicazione è sotto gli occhi di tutti.
Poiché sul mercato primario le vendite sono quasi esclusivamente eseguite tramite trattative private, le relative valutazioni delle opere risultano essere ufficiose. Si può quindi dire che i prezzi battuti all’asta sono l’unico sicuro (sebbene non sempre affidabile[10]) indicatore del valore delle opere sul mercato.
Sul mercato secondario, come pure su quello primario, risulta quindi esserci un grave problema di indeterminazione del valore intrinseco delle opere, essendo i prezzi dichiarati non veritieri dell’andamento del mercato. Soltanto gli addetti ai lavori, e cioè chi vende (galleristi, mercanti e case d’asta) hanno il polso sulla reale evoluzione della domanda, e usano queste informazioni confidenziali per speculare nella loro attività di compravendita.[11]
Questa premessa serve a sottolineare il fatto che la curva di offerta sul mercato secondario risulta variabile nel tempo. Come meglio si avrà modo di analizzare, in periodi di forte crescita del mercato (o meglio in presenza di bolle speculative), il fattore determinante dell’offerta diventa l’aspettativa di crescita dei prezzi. Poiché, in presenza di quest’ultima, nessuno vorrà vendere (se si escludono situazioni di necessità o di fattori contingenti, come nell’incorrere delle “tre D” o di manovre speculative per monetizzare l’alto livello delle quotazioni), l’offerta nel suo complesso tenderà a diminuire e a diventare più rigida spostando la relativa curva verso sinistra e inclinandola verticalmente (da S’ a S’’, si veda la figura 1).
Quando tuttavia scoppierà la bolla speculativa e si avrà un cambiamento nel paradigma dominante del gusto, si assisterà a un’ondata di vendite, sia perché le opere non saranno più alla moda, sia per limitare le perdite.[12] La curva di offerta del mercato secondario quindi tenderà a crescere considerevolmente spostandosi verso destra e a diventare più elastica, inclinandosi orizzontalmente (da S’’ a S’, vedere sempre la figura 1).
Il tasso di vacanza
Se si considera la carriera di un artista è possibile rilevare che agli esordi egli avrà una grande percentuale di sue opere rimaste invendute. Con il progredire della carriera questa percentuale tenderà a diminuire, sebbene possa essere soggetta nel breve periodo a fluttuazioni derivanti dall’andamento del mercato. E’ possibile denominare tale percentuale, che esprime il rapporto tra offerta effettiva e offerta potenziale (cioè la quota dello stock messa sul mercato sul suo totale), come tasso di vacanza delle opere (art-works vacancy rate).
Poiché, come si avrà modo di analizzare a breve, i prezzi delle opere d’arte risultano essere viscosi verso il basso, un eccesso di offerta sul mercato non si traduce in una immediata discesa delle quotazioni dell’artista, ma piuttosto in un aumento del suo vacancy rate. Per questo motivo è possibile affermare che questo tasso è il primo indicatore sul quale si riflette un cambiamento delle condizioni di mercato, prima ancora che esse agiscano sul livello dei prezzi. L’andamento del vacancy rate a livello di mercato, cioè espressivo di tutti gli artisti che ne fanno parte, risulta quindi predittivo dei cicli economici e culturali dell’arte.
In realtà è molto difficile analizzare il vacancy rate per i diversi mercati dell’arte, perché il settore risulta essere torbido dal punto di vista informativo e quindi mancano dati che ne riflettano il reale andamento (o, come nel caso del settore high-end, essi risultano essere manipolati e conseguentemente non veritieri). Chi poi è seppur parzialmente al corrente di quello che sta succedendo, si guarda dal comunicare ad altri le informazioni in suo possesso[13].
Esiste tuttavia un pratico modo per avere polso del mercato, e cioè quello di esprimere una misura del tasso di vacanza su scala temporale. Infatti, se si esprime il vacancy rate come variazione percentuale del tempo medio impiegato per vendere un’opera, tale tasso può essere utilizzato come indice previsionale che esprime la liquidità. Se infatti i tempi di vendita aumentano significa che si è in presenza di una flessione della domanda. Se tale fenomeno, che potrebbe avere natura congiunturale, si protrae significativamente nel tempo, significa che, come meglio si avrà modo di studiare, l’artista o il mercato potrebbero essere sopravvalutati e di conseguenza potrebbe insorgere il rischio che si sia creata una bolla speculativa pronta a scoppiare.
Un attento analista, oltre a saper valutare il vacancy rate, deve poi saper riconoscere quei segnali di dissimulazione dei prezzi da parte delle gallerie e delle case d’asta, che tendono a determinare una rigidità verso il basso delle quotazioni degli artisti. Di tale argomento ci si occuperà ora.
La viscosità verso il basso della curva di offerta
Come ultimo punto dell’analisi in corso, ma non per questo meno importante, si vuole evidenziare una particolarità della curva di offerta, e cioè che essa tende, come si è già anticipato, ad essere viscosa nei suoi spostamenti verso il basso[14]. La spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che i prezzi ufficiali di vendita di un artista (ovvero le sue quotazioni), alla stessa stregua dei salari dei lavoratori, raramente tendono a scendere. Il prezzo delle opere di un artista infatti costituisce un indicatore simbolico della sua appetibilità da parte del mercato. Un abbassamento delle sue quotazioni verrebbe a determinare una perdita di fiducia dei collezionisti nei suoi confronti e in ultima analisi la compromissione della sua carriera. Nelle fasce più basse del mercato, come si è visto, una discesa dei prezzi significa una percezione di minore qualità delle opere da parte dei collezionisti e quindi una minore domanda. Le gallerie sanno bene quindi che le quotazioni devono aumentare in maniera continuativa nel tempo e per questo cercano di farle crescere in maniera sostenibile, in relazione ad una corrispondente crescita della domanda (time driven strategy)[15].
Nel caso la domanda dovesse rivelarsi insufficiente a sostenere un determinato livello dei prezzi raggiunto, le gallerie e gli stake-holder tendono a ricorrere a collaudati stratagemmi per camuffare (per quanto possibile) la discesa dei prezzi. Le gallerie possono da una parte decidere, in attesa di tempi migliori, di aspettare a vendere le opere dell’artista, accumulandole nei propri depositi. Un altro metodo è quello di mettere in vendita solo le opere di maggiore qualità, o di grandi dimensioni maggiori, o che utilizzano tecniche più pregiate, che in genere hanno quotazioni più alte[16]. Le gallerie poi possono camuffare i prezzi concedendo sconti sui prezzi di listino non solo ai clienti maggiori ma anche a quelli nuovi e minori, tenendo poi segreti i prezzi effettivi di vendita. Un ulteriore stratagemma è quello di proporre all’artista di cambiare completamente genere di lavori e tecnica, così da dover applicare criteri di valutazione del tutto nuovi. Infine la galleria può consigliare all’artista stesso di trovarsene una nuova, così da poter ristrutturare i prezzi in maniera meno evidente.[17]
Non sono solo le gallerie, i cui prezzi non sono mai ufficiali, ma ufficiosi, a sostenere in maniera artificiale le quotazioni degli artisti, ma, anche le stesse case d’asta, benché esse operino sotto la luce del sole. I prezzi battuti infatti risultano spesso più alti dei valori di equilibrio del mercato, non solo perché durante le aste le auction houses fanno leva sui sentimenti di rimpianto e competizione dei collezionisti, ma piuttosto perché esse offrono ai venditori prezzi di vendita garantiti (detti “di riserva”) particolarmente appetibili, che tengono ovviamente segreti, e ai compratori commissioni ridotte e eventuali prestiti a tasso zero.[18] A volte la casa d’aste per raggiungere il prezzo di riserva prefissato procede a praticare rilanci fasulli (i cosiddetti “chandeliers bid”, così chiamati perché il banditore rilancia puntando ad un fantomatico lampadario), con il rischio (calcolato) che l’opera possa essere riacquistata internamente. Inoltre nell’attività di sostegno dei prezzi risulta fondamentale il ruolo dei “garanti esterni” (in genere altre case d’aste, mercanti d’arte o collezionisti con interessi coincidenti), che, in cambio di commissioni elargite dalla stessa casa d’aste, si impegnano a rilanciare sul prezzo finale di acquisto.”[19] Inoltre nel caso evidente di un calo della domanda, e conseguente forte rischio di invenduto, le case d’asta preferiscono consigliare ai propri clienti di aspettare per un lasso di tempo indeterminato, finché il mercato non si riprende, piuttosto che lucrare su improbabili commissioni e mettere a repentaglio la propria immagine[20].
Per le fasce superiori del mercato un ulteriore fattore che può in parte spiegare il fenomeno della viscosità verso il basso dei prezzi dell’arte contemporanea è legato al fatto che su tale mercato, al contrario di quanto avviene in quello azionario, non vi è la possibilità di vendere allo scoperto (short selling) e quindi di speculare sui ribassi. L’unico modo di lucrare sugli investimenti in arte è allora quello di vedere aumentare di valore nel tempo il capitale investito, in relazione alla crescita delle quotazioni degli artisti tenuti in portafoglio.
Conclusioni
Si è finora illustrato un modello di funzionamento del mercato dell’arte contemporanea, passando in esame domanda e offerta. Manca adesso all’appello lo studio della struttura stessa del mercato nei suoi singoli segmenti, dal punto di vista di un’analisi, sia della concorrenza, sia dei meccanismi di formazione dell’equilibrio (sempre che si riesca a raggiungere), sia delle imperfezioni che ne condizionano un efficiente andamento, nonché delle dinamiche che determinano i cicli economici dell’arte, ovvero di come si aggiustino i prezzi in relazione a variazioni della domanda e dell’offerta: argomenti per la cui trattazione si rimanda ai prossimi numeri.
Note
[1] Come si è già visto, il mercato secondario esiste solo per i settori più avanzati della carriera, cioè per quegli artisti che acquistano una fama tale da essere rivendibili (liquidi). In genere questo mercato si crea in corrispondenza della vendita delle opere dell’artista all’asta, che funge da riferimento per la fissazione dei prezzi relativi alle successive transazioni private.
[2] In realtà ciò paradossalmente non sempre è vero, specie per gli artisti di maggiore fama, poiché esiste collateralmente un grosso mercato dei falsi, che continua ad operare anche dopo che questi sono deceduti. Si veda poi.
[3] Molti artisti (come Joseph Beuys, Damien Hirst, Rirkrit Tiravanija e tanti altri) per loro scelta hanno utilizzato e utilizzano materiali (in genere di natura organica) che decadono nel tempo. Famoso è il caso dell’opera “The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living”, raffigurante uno squalo imbalsamato contenuto in una teca riempita di soluzione di formaldeide, prodotta nel 1991 dall’artista inglese Damien Hirst, che fu acquistata per 12 milioni di dollari da un collezionista. Nel 2004, il materiale organico ha cominciato a decomporsi. In seguito alle lamentele del collezionista, l’artista si ha quindi deciso di sostituire gratuitamente l’opera con una replica (Thomson D. (2009), Lo squalo da 12 milioni di dollari: la bizzarra e sorprendente economia dell’arte contemporanea, Milano, Mondadori). L’artista Felix Gonzalez-Torrez crea invece come opere degli enormi cumuli di caramelle, che il pubblico è libero di prendere e che quindi si scompaiono progressivamente (Negri-Clementi G. –Stabile S. (2014) (A cura di),”Opere d’arte effimere: conservazione e restauro tra tecnica e diritti dell’autore”, Art and Law, Studio Legale Associato Negri-Clementi, n. 3).
[4] Sono diversi i motivi che possono portare alla distruzione di opere d’arte: il volere dell’artista (si ricorda ad es. il caso dello scultore svizzero Jean Tinguely che costruiva macchine autodistruggenti), la mancanza di valore economico, i disastri naturali, i motivi ideologici, le guerre, .. Secondo il nostro ordinamento la distruzione volontaria di opere d’arte (altrui) costituisce un illecito penale (cfr. Benini S. (2014), “I reati in materia di beni culturali”, in D’angelo N. (2014) (a cura di), Reati e abusi edilizi, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna).
[5] I falsi vengono eseguiti da specialisti del mestiere, in genere su commissione, e corredati da falsi certificati di autenticità. I migliori falsi non sono riproduzioni dei lavori esistenti, ma piuttosto opere completamente nuove eseguite sulla falsariga di quelle già note per un artista. Non stupisce quindi la stima che su dieci Pollock ce ne sia in realtà solo uno autentico (cfr. Thomson D. (2009), Op. Cit.)
Il mercato post-mortem dei falsi viene in genere controllato dagli eredi dell’artista e dalle fondazioni che ne curano gli interessi, attraverso la pubblicazione di cataloghi che ne descrivono la produzione completa e l’emissione di certificati di autenticità. Tuttavia in alcuni casi la falsificazione può andare nella direzione di favorire lo sviluppo del mercato dell’artista. Può succedere infatti che il numero di opere prodotto in vita dall’artista sia limitato rispetto alla sua fama e alla domanda da parte di collezionisti e musei (come nel caso di Manzoni la cui esigua produzione è conseguenza della sua prematura scomparsa). Poiché tende a sanare un’offerta asfittica e determina che l’artista possa finire in collezioni importanti, il fenomeno dei falsi a volte può quindi trovare il bene placet degli eredi e delle fondazioni (G.C. Negri-Clementi – S. Stabile (2014) (a cura di), I falsi di opere d’arte nel diritto italiano, Art and Law, Studio Legale Associato Negri-Clementi, n.2).
[6] Si ricorda ad esempio il pittore Giorgio de Chirico che produsse in tarda età molteplici repliche dei suoi capolavori del periodo metafisico (Candela G.- Scorcu A.(2004), Economia delle arti, Zanichelli, Bologna).
[7] Si pensi ad esempio che il museo Van Gogh di Amsterdam ha recentemente messo in vendita copie identiche dei capolavori dell’artista, o meglio dei veri e propri “cloni”, ottenuti con tecnologia digitale (Reliefography), a 22.000 Euro ciascuna (Mastrolilli F. (2013), “La stampa in 3D di opere d’arte”, Art and Law, Studio Legale Associato Negri-Clementi, n. 11).
[8] Ciò è dovuto alle politiche dei musei che raramente si disfano di opere acquisite, anche se, con il passare degli anni, queste dovessero rivelarsi di scarso valore culturale. Essi preferiscono piuttosto conservarle nei propri depositi e, qualora qualche altra istituzione ne facesse richiesta, cederle in prestito o in contropartita di altre opere. Per questo motivo quando nell’aggiudicazione di un opera incorrono i musei la competizione si fa più agguerrita: i possibili acquirenti sanno che un capolavoro finito nelle mani di un museo è un capolavoro tolto dal mercato (Thomson D. (2009), Op. Cit.)
[9] Infatti il prezzo battuto continuerà a salire finché esso sarà inferiore al secondo prezzo di riserva degli offerenti. Quando la competizione sarà tra due soli astanti, si aggiudicherà l’asta colui che farà un’offerta superiore al prezzo di riserva del concorrente. Talvolta l’ultima offerta va ben oltre il prezzo di riserva del concorrente e si avvicina al prezzo di riserva del maggior offerente (fenomeno chiamato dagli economisti winner’s curse: cfr. Thaler, R.H. (1992), The Winner’s Curse: Paradoxes and Anomalies of Economic Life, Princeton University Press, Princeton). Bisogna tuttavia pensare che a volte all’asta vengono fatte offerte con il solo intento di far alzare le quotazioni dell’artista (le cosiddette “chandeliers bids”, si veda poi) e quindi il prezzo di aggiudicazione potrà in realtà essere ancora maggiore.
[10] Si veda poi.
[11] E’ interessante osservare che, mentre il mercato dell’arte risulta non essere assolutamente regolamentato da un punto di vista informativo, i mercati finanziari vietano l’utilizzo di informazioni confidenziali per lucrare sull’attività di contrattazione (esso è punito come reato: l’insider-trading), nonché la diffusione di informazioni false e tendenziose al fine di influenzare l’andamento stesso del mercato (l’aggiotaggio).
[12] Tale ondata di vendite non interesserà naturalmente i capolavori e gli artisti di talento autentico, che, come il vino buono, invecchiando acquisiscono valore.
[13] Si noti a riguardo la differenza con i mercati finanziari, caratterizzati da un livello di efficienza informativa ben superiore, in cui l’andamento del mercato è di pubblico dominio (cfr. Guenzi (2014), “Efficienza dell’investimento in arte contemporanea”, Economia e Diritto, n. 8).
[14] Cfr. Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.
[15] Questa strategia è quella normalmente impiegata al giorno d’oggi dalle gallerie, memori degli effetti delle campagne di marketing intese alla sola massimizzazione dei prezzi nel breve che hanno portato alla formazione negli anni ottanta di bolle speculative che hanno stroncato la carriera ad artisti come il tedesco Julian Schnabel (Velthuis O. (2005), Op. Cit.).
[16] Il calcolo del valore di un opera in base alle dimensioni e la tecnica è pratica spesso utilizzata dalle gallerie. In Italia e in altri paesi, ad esempio, si applica nel caso dei dipinti il cosiddetto “parametro dell’artista”, indice del livello raggiunto dalle sue quotazioni, moltiplicandolo per dieci volte la somma in centimetri dei lati dell’opera. Un quadro di parametro “2” e dimensioni 80X120 cm. varrà 4.000 Euro (Candela G.- Scorcu A.(2004), Op. Cit.).
[17] Nel caso di artisti contemporanei già deceduti, sono le relative fondazioni che hanno il potere di controllare il livello dei prezzi attraverso una politica di restrizione dell’offerta. Questa viene effettuata negando la concessione di certificati di autenticità delle opere ai collezionisti (specie a quelli meno influenti). Cfr. Negri-Clementi G. –Stabile S. (2014) (A cura di),”I certificati di autenticità”, Art and Law, Studio Legale Associato Negri-Clementi, n. 2).
[18] Lewis B. (2009),The Great Contemporary Art Bubble, BBC (DVD), Londra.
[19] Thomson D. (2009), Op. Cit..
[20] Horovitz N. (2011), Art of the Deal, Contemporary Art in a Global Financial Market, Princeton University Press, Princeton.
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(di Sabrina Polato)
Il mercato mondiale delle acque minerali in bottiglia riguarda un volume annuale di oltre 245 miliardi di litri, che corrisponde ad una media di 35 litri di acqua in bottiglia bevuti annualmente a persona (dati 2013).
L’Europa dell’ovest è la maggior consumatrice, bevendo da sola quasi la metà del totale mondiale di acqua in bottiglia e tra gli europei, proprio noi italiani, beviamo più acqua in bottiglia di tutti.
Infatti, il mercato delle acque minerali ha un’importanza particolare per l’Italia, la quale si pone al terzo posto (dopo Messico e Thailandia) nella classifica del consumo mondiale pro capite (196 litri pro capite), con volumi che si sono triplicati in meno di vent’anni ed un giro d’affari valutato in circa 2,3 miliardi di euro, per un settore produttivo che vede operare ben 156 società e 296 diversi marchi. I profitti del settore sono molto elevati, anche in virtù dei canoni di sfruttamento, d’importo variabile da zona a zona, ma in generale particolarmente vantaggiosi.
Secondo la BMC (Beverage Marketing Corporation), i consumi annui pro capite più elevati sono presenti in 3 Paesi: Messico (254 litri pro capite), Thailandia (225 litri pro capite), Italia (196 litri pro capite). Seguono Belgio (148 litri pro capite), Germania (144 litri pro capite), Emirati Arabi Uniti (140 litri pro capite), Francia (136 litri pro capite), Stati Uniti (121 litri pro capite), Spagna (120 litri pro capite), Libano (114 litri pro capite), Slovenia (106 litri pro capite), Croazia (106 litri pro capite), Ungheria (104 litri pro capite), Svizzera (102 litri pro capite) [1].
Ovviamente, la situazione favorevole dei consumi interni fa sì che la capacità produttiva (e quindi di offerta) delle aziende produttrici italiane sia molto elevata, ponendo le nostre aziende in una posizione di leadership a livello mondiale, con risvolti positivi in termini di export e di quote di mercato estero.
E’ però altrettanto vero che i nostri produttori locali devono fare i conti con un mercato mondiale monopolizzato da due grandi multinazionali: Nestlé e Danone.
Nestlé è la numero uno nel mercato mondiale di acque minerali: la divisione “acque in bottiglia” rappresenta per la Nestlé circa il 25% del settore bibite ed il 7% del fatturato totale del gruppo. La “world water division” della Nestlé, la Terrier- Vittel SA, possiede marchi molto conosciuti anche tra i consumatori italiani (per citarne alcune Perrier, Vittel, Levissima, Lora Recoaro, Panna, Pejo, San Bernardo, San Pellegrino, Vera).
La Danone controlla invece il 9% del mercato mondiale delle acque minerali, superando la Nestlé in alcune regioni quali l’America Latina e l’area Pacifica dell’Asia. I suoi marchi principali sono Evian, Volvic e Badoit. In Italia, le etichette più importanti controllate dalla Danone sono Boario, Ferrarelle, Fonte Viva, Santagata e Vitasnella.
Nell’ultimo decennio, hanno fatto il proprio ingresso nel mercato delle acque minerali anche le multinazionali delle “soft dinks” ed in particolare Coca Cola (con BonAcquA) e PepsiCo (Acquafina), per lo più destinate al mercato U.S.A. .
PROSPETTIVE E POTENZIALITA’ DI EXPORT PER LE PMI ITALIANE DEL SETTORE
All’estero l’acqua minerale italiana piace. Le esportazioni del settore costituiscono infatti circa il 10% dei volumi complessivamente prodotti dalle nostre aziende produttrici italiane. Il saldo della bilancia commerciale del comparto è ampiamente positivo, dal momento che le importazioni sono praticamente inesistenti. Il settore delle acque minerali è dunque un settore strategico che produce ricchezza per il Paese Italia.
Infine, va sottolineato come il trend degli ultimi cinque anni è sempre stato positivo (+12% di media), con punte di crescita delle esportazioni che in alcune aree hanno raggiunto performance a doppie cifre.
L’incremento della domanda è l’effetto soprattutto delle maggiori richieste provenienti da mercati al di fuori della Unione Europea. In particolare, la domanda è cresciuta in America Settentrionale (+22,6%), in Medio Oriente (+27%), in Asia Orientale (+34,9%) e in Oceania (+39,1%). Le vendite verso l’Unione Europea, il cui peso è pari al 45% del fatturato export totale, si sono attestate comunque in crescita del 2,8%.
A trainare la domanda estera di acque minerali è stata sicuramente la presenza nel mondo di marchi forti ed universalmente riconosciuti come emblema del Made in Italy (anche se in realtà, come si è visto precedentemente, si tratta di marchi detenuti da società multinazionali quali Nestlé e Danone).
La PMI italiana, trainata da questi importanti brand, è riuscita negli anni a ritagliarsi una posizione di rilievo nell’ambito della ristorazione italiana di qualità all’estero, proponendo l’acqua minerale italiana come un prodotto altrettanto tipico della nostra gastronomia (come la pizza, la pasta, l’olio, il parmigiano), componente fondamentale dell’autentica dieta mediterranea[2].
Gli attuali principali mercati di destinazione delle esportazioni italiane sono USA, Francia, Germania, Svizzera, Canada, Australia, UK, Giappone. Da soli, questi 8 mercati assorbono l’80% del totale esportazioni, sia a valore che a quantità.
Incrementi della domanda considerevoli si sono avuti in Germania (+10,6%), Regno Unito (+96,4%), Lettonia (+88,6%), Lituania (+66,9%) e Bulgaria (+69,1%), all’interno della UE, e di Canada (+36,6%), Australia (+44,9%), Giappone (+32,2%) nei Paesi extra-Ue. Dal 2010, si è anche registrata, dopo un periodo di stallo, una forte ripresa del mercato statunitense, il quale rimane il principale mercato di destinazione delle nostre esportazioni[3].
Rappresentano invece aree promettenti per lo sviluppo del nostro export, quei Paesi dove è previsto un sensibile aumento dei consumi di acqua minerale in bottiglia nei prossimi anni: l’intero continente africano, il Medio Oriente (EAU ed Arabia Saudita in primis), Singapore e Turchia.
Il mercato africano di acque in bottiglia ha visto una forte crescita negli ultimi anni, con trend di sviluppo superiore alla nazioni occidentali. I consumatori, in possesso di un migliore potere di acquisto rispetto al passato, si rivolgono sempre di più all’acqua in bottiglia per evitare di bere l’acqua pubblica, per lo più non potabile, portatrice quindi di batteri e virus. Negli ultimi cinque anni, i livelli di crescita sono rimasti costantemente elevati in tutto il continente, con aumenti a due cifre in diversi paesi, tra cui spicca la Nigeria, il mercato più importante in assoluto nella regione. Benché la crescita in Nigeria sia rallentata negli ultimi anni, il consumo pro capite continua ad aumentare ed è ancora ben al di sopra della media regionale.
Per quanto riguarda il Medio Oriente, sebbene le bevande analcoliche gassate siano ancora le più bevute, l’incremento dei consumi di acqua minerale nell’area è dovuto principalmente a due fattori: la maggior consapevolezza dell’ incidenza allarmante dei problemi di obesità che affliggono la popolazione e la consapevolezza che l’acqua minerale, oltre ad essere senza calorie, è più dissetante delle bevande gassate. Inoltre, in molti casi, l’acqua del rubinetto non è potabile quindi l’acqua in bottiglia risulta essere una scelta obbligata.
Note
[1] Dati: 2013 – Fonte: http://efbw.eu/bwf.php?classement=07 (European Federation of Bottled Waters) and the Beverage Marketing Corporation.
[2] Fonte: “The Canadean Group market research – ed. 2013”
[3] Fonte: ICE – Settore industria italiana agro-alimentare – ed. 2013
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(di Marco Guenzi)
Durante la precedente analisi si è potuto constatare come il mercato dell’arte contemporanea non sia costituito da un blocco monolitico, ma che in realtà possono distinguersi al suo interno quattro segmenti, ognuno caratterizzato da logiche e dinamiche a sé stanti.
Nel presente articolo e nei prossimi si intende analizzare la natura dei diversi comparti del mercato dell’arte in base al livello delle quotazioni raggiunte (relativi cioè rispettivamente agli artisti esclusi dal sistema, emergenti, affermati e celebrità), andando a esaminare le loro caratteristiche e i relativi meccanismi di funzionamento. Si cominci l’analisi da basso, andando ad esaminare il mercato degli artisti esclusi dal mercato.
Analisi degli attori
Tale segmento, anche denominato (non sempre a ragione, come si vedrà) in termini dispregiativi Junk Market (“mercato spazzatura”)[1], rappresenta il comparto inferiore del mercato dell’arte contemporanea in relazione al livello delle quotazioni. Esso è costituito da tutti quegli (aspiranti) artisti agli esordi o che non sono riusciti a trovare rappresentanza da parte di una galleria che si trovano quindi nella condizione di non essere visibili all’interno del sistema, vivendo di fatto ai margini di esso.
Questi artisti non riescono di fatto a sbarcare il lunario con la sola arte, e quindi sono spesso costretti a trovare impieghi collaterali; ne consegue che la produzione di opere più che un mestiere si configura come un hobby. Ciò che quindi denota in primis questo settore è la non professionalità degli attori coinvolti. In secondo luogo bisogna sottolineare che le motivazioni che spesso spingono questo genere di artisti non sono di tipo economico ma piuttosto legate alla passione e al bisogno di comunicazione.
Sebbene mossi da un impeto creativo che porta a sperimentare moltissimo all’interno della loro attività produttiva, il fine che molti di questi artisti si pongono (soprattutto quelli più giovani spinti dal desiderio e dalla speranza di farsi strada) è quello di entrare nel circuito delle gallerie, così da perdere la condizione di apolidi all’interno del sistema.
I mezzi utilizzati nel tentativo di trovare l’appoggio di un gallerista possono essere diversi: cercare di produrre un’arte originale e significativa, in cui si possa distinguere chiaramente la stile personale dell’artista, in modo da essere apprezzabili e vendibili sul mercato; farsi notare da qualcuno partecipando ad esposizioni collettive e organizzando personali in spazi a disposizione; utilizzare lo spazio pubblico come palcoscenico (come fanno ad esempio gli street artist); cercare di mettere in atto una attività di Public Relationship (PR) frequentando gli eventi che si svolgono all’interno del sistema, in modo utilizzare le proprie conoscenze personali come canale per entrare nelle grazie di qualche gallerista o di critico o collezionista (la raccomandazione purtroppo costituisce agli esordi forse la via più facile ed efficiente per entrare in un sistema chiuso basato quasi esclusivamente sui rapporti interpersonali).
Poiché, come si è visto, le opere d’arte sono un bene in partenza senza un valore intrinseco, che viene poi attribuito successivamente in base al riconoscimento da parte del sistema, il valore delle opere risulta a questo stadio indeterminato e fortemente aleatorio. Per questo motivo l’attività che le gallerie mettono in atto è finalizzata a fungere da garante della qualità artistica (e quindi del prezzo), fornendo informazioni al mercato attraverso operazioni di segnalazione e screening[2].
Poiché nel segmento degli aspiranti artisti manca purtroppo la presenza di un intermediario, ciò determina che l’informazione sia distribuita in maniera inefficiente e asimmetrica, creando le premesse perché i potenziali acquirenti divengano disorientati nel dover scegliere un’opera, non avendo essi né le conoscenze né gli strumenti necessari per discernerne il valore e la qualità. Neppure ha senso che i collezionisti si avvalgano di una consulenza a pagamento ad hoc per opere di poca importanza, rendendo per loro preferibile non avventurarsi in acquisti di cui potrebbero presto pentirsi.
Ora, un possibile indicatore della qualità (gratuito e sempre a disposizione) c’è, ed è il prezzo di vendita delle opere sul mercato. Tuttavia si è visto che il prezzo perde di significatività in presenza di asimmetrie informative, poiché viene ad instaurarsi sul mercato un meccanismo di selezione avversa secondo cui non c’è modo di distinguere per l’acquirente tra le opere di qualità e “bidoni” (“lemons”)[3]. La conseguenza è che i migliori artisti di questo segmento, che invece svolgono ricerca e hanno consapevolezza dell’impegno da essi profuso, non vedono riconosciuto il valore simbolico delle proprie opere e sono quindi disincentivati a metterle in vendita. Spesso essi preferiscono non cercare uno sbocco su un mercato che non li premia, ma piuttosto accumulare le proprie opere nel proprio studio, andando avanti nella propria attività di ricerca artistica, nella speranza (che purtroppo non sempre si avvera) di venire un giorno scoperti ed apprezzati da un gate-keeper che gli possa aprire le porte del sistema.
A volte la chiusura di questi artisti nel loro guscio può essere legata più che a una consapevolezza del proprio valore a un loro eccessivo senso critico. Per contro gli artisti emergenti di minor valore spesso hanno una considerazione eccessiva del proprio valore, sovrastimando le proprie capacità in relazione al proprio desiderio narcisistico di essere riconosciuti. Di conseguenza essi tendono a praticare prezzi di vendita talvolta elevati rispetto al proprio valore, il che in ultima analisi riflette la percezione distorta che l’artista ha del proprio talento. Ciò comporta che in generale il livello dei prezzi praticati in questo segmento non rifletta assolutamente le capacità dei giocatori in campo, rendendo la scelta dei collezionisti un’operazione ardua e complessa.
Il meccanismo della selezione avversa determina quindi che nel segmento rimangano in vendita in prevalenza opere di bassa qualità, con il risultato di disincentivare ulteriormente i potenziali collezionisti dal tentare operazioni di avanscoperta (bisogna ricordare che i prezzi a cui è possibile acquistare le opere, in ragione della mancata presenza di intermediari, sono decisamente inferiori rispetto al comparto degli artisti emergenti).
La composizione di domanda e offerta
La domanda di opere d’arte di artisti che rimangono esclusi dal circuito delle gallerie risulta quindi essere asfittica, relegata in primis agli acquirenti di opere, sempre che non le si voglia considerare manufatti, di tipo “decorativo” (che facciano cioè pendant con le tende del salotto di casa o con il colore delle pareti di un ristorante), cui si somma uno sparuto gruppo di collezionisti che, con spirito pioneristico e incuranti del rischio, sicuri del proprio giudizio personale, dotati di una buona disponibilità finanziaria e di un certo bagaglio culturale, cercano di scovare la “vera avanguardia” (che purtroppo si è visto rappresentare solo una minima parte delle opere presenti sul Junk Market)[4]. Mentre per i primi l’opera d’arte costituisce integralmente un bene di consumo, mancando l’aspettativa di poterla successivamente rivendere con profitto, e il prezzo costituisce un indicatore fondamentale per la valutazione dell’acquisto, ciò non è vero invece per i collezionisti d’avanguardia. Per questi ultimi è rilevante piuttosto l’aspetto dell’investimento e le loro scelte si basano principalmente sulla selezione della qualità piuttosto che sulla convenienza economica. Essi sono dei veri e propri cacciatori di talenti (talent-scout): spesso riescono a scovare opere di loro gradimento visitando mostre organizzate direttamente dagli artisti o da organizzazioni no profit, oppure su segnalazione di qualche critico d’arte che conosce direttamente il lavoro dell’artista. Tra il collezionista e l’artista d’avanguardia si instaura in genere un rapporto di stima di tipo collaborativo, assumendo le sembianze di un vero e proprio mecenatismo in tempi moderni.
E’ interessante infine rilevare che, in virtù del fatto che i collezionisti non hanno in genere un rapporto continuativo con chi vende (come invece avviene nel caso delle gallerie), la costruzione di un legame di fiducia tra le controparti risulta essere meno determinante.
In relazione a queste considerazioni che forma avrà la curva di domanda del Junk Market?
La domanda di opere di tipo decorativo sarà influenzata negativamente dal prezzo[5], poiché viene ad instaurarsi un effetto convenienza[6], cioè la maggior appetibilità di beni che costano meno. Assumerà invece un’influenza marginale l’effetto qualità di Stiglitz[7], cioè l’importanza data al prezzo come fattore segnaletico della qualità (che come si vedrà risulta essere preponderante nel segmento degli artisti emergenti).
Per le opere d’avanguardia invece il prezzo di vendita non costituisce né tanto un fattore disincentivante (tenuto conto che in genere esso non comprende le commissioni di intermediazione ed è quindi mediamente più basso di quello applicato dalle gallerie) né un fattore segnaletico (i collezionisti di avanguardia hanno le idee ben chiare rispetto al genere di arte che gli interessa). La domanda di opere d’avanguardia, oltre ad essere di marginale importanza, risulta quindi essere maggiormente rigida.
Tuttavia questa diventa quasi nulla quando i prezzi assumono valori importanti, arrivando a raggiungere le quotazioni di base praticate dalle gallerie. Ciò è legato al fatto che, a causa di un elevato grado di rischio, non è conveniente investire somme rilevanti in questo mercato.
La domanda complessiva del settore, costituita dalla somma delle due componenti è rappresentata nelle figure 1 (breve periodo) e 2 (lungo periodo).
Per contro l’offerta di questo settore è svincolata nel breve periodo in gran parte da fattori economici. Quindi ne consegue che la produzione avviene spesso anche in perdita e che la curva di offerta, risultando quindi parzialmente insensibile al prezzo, divenga particolarmente rigida e spostata più a destra della curva dei costi marginali (vale a dire oltre il livello pareto-efficiente, si veda la figura 1)[8]. La produzione totale sarà di gran lunga superiore alla domanda e nel comparto si verificherà un grande accumulo di stock. Di questo, essendo la produzione artistica non finalizzata alla vendita nella maggioranza dei casi, solo una parte verrà messa sul mercato, e ulteriormente solo una piccola frazione di quest’ultima andrà venduta. La quasi interezza delle opere di artisti esclusi dal circuito delle gallerie nel tempo sarà quindi destinata a perdersi.
Nel lungo periodo invece, a causa dell’accumulo di stock, l’offerta sarà più spostata verso destra e risulterà più elastica che nel breve (figura 2), poiché gli artisti non si trovano nella condizione di avere vincoli di tempo per sviluppare la propria creatività (sebbene essi debbano sottostare alla necessità di trovare una forma continuativa di sostentamento, spesso decidendo di svolgere attività collaterali per finanziare la propria produzione artistica).
Per quanto riguarda il mercato Junk dell’art service, ovvero l’utilizzo di opere d’arte ai fini espositivi, se si esclude il pubblico interessato alle opere degli artisti di avanguardia, la domanda tende a coincidere con quella di art stock. In realtà in corrispondenza del limite superiore del comparto, cioè per quei pochi aspiranti artisti (d’avanguardia) che riescono a vendere a prezzi simili a quelli delle gallerie, viene a crearsi una divergenza tra le due variabili (si veda la figura 3).
Ciò è dovuto principalmente al fatto che, mentre, al salire delle quotazioni, questi artisti divengono poco appetibili per chi deve comprare, essi invece cominciano ad acquistare interesse per il pubblico. Il divario tra domanda di art stock e di art service, come meglio si vedrà, tende poi a ricucirsi parzialmente quando si passa al segmento degli artisti emergenti.
Anche l’offerta di art service è, se comparata agli altri settori del mercato, piuttosto limitata, sebbene vi siano diversi modi attraverso cui gli aspiranti artisti possono ottenere visibilità al di fuori delle mura domestiche: l’organizzazione eventi espositivi in gallerie negozio (cioè quelle gallerie che non svolgono la funzione di intermediari, pretendendo una percentuale sulle vendite, ma affittano il proprio spazio direttamente agli artisti); l’organizzazione di mostre sia in spazi istituzionali pubblici, sia di enti no-profit o autogestiti dagli artisti; la possibilità di utilizzare lo spazio pubblico come palcoscenico (esempio emblematico è quello della street-art); la partecipazione a premi (spesso con iscrizione a pagamento), che nel caso di selezione alla fase finale danno un diritto all’inserimento delle opere nel catalogo e alla presenza presso una collettiva dove vengono premiati i migliori lavori; la presenza sui diversi portali d’arte su Internet, visitati da un vasto pubblico costituito da altri giovani artisti, da critici e curatori alle prime armi e dai collezionisti d’avanguardia.
Tuttavia a questi artisti sono precluse le chiavi di ingresso per le porte principali nel sistema: se è raro che gli artisti non rappresentati dal circuito delle gallerie possano entrare a far parte di collezioni private importanti, è ancora più improbabile essi finiscano esposti in qualche museo.
Le caratteristiche del mercato
Il Junk Market quindi è un “mercato non mercato”, caratterizzato dall’impossibilità della formazione di un prezzo di equilibrio[9], dove pochi artisti riescono fortuitamente a trovare una controparte, mentre una gran parte di essi o non riesce a piazzare le proprie opere, o nemmeno ci prova. Ne consegue che in questo segmento il tasso di vacanza (ovvero le opere invendute sul totale) è molto alto, così come è praticamente nulla la sua liquidità.
Le prospettive degli artisti senza rappresentanza non sono tuttavia così nere. Bisogna rilevare che la diffusione di Internet e del web ha contribuito fortemente a far crescere il peso di questo comparto di mercato. Le nuove tecnologie da una parte infatti hanno creato l’occasione per gli artisti di avere nuove vetrine dove mostrarsi e farsi apprezzare (i propri siti web, i social network, i siti tematici di arte). Dall’altra, attraverso gli strumenti offerti dall’eCommerce e da alcune piattaforme specializzate, si è potuto far incontrare più facilmente domanda ed offerta, con la conseguenza di far diminuire notevolmente i costi di transazione del segmento. Inoltre la presenza di siti tematici d’arte e di social network in cui confrontarsi sul tema forniscono agli utenti del web nuovi strumenti di valutazione, permettendo ai collezionisti di acquisire una maggiore capacità critica che costituisce l’unica arma per fronteggiare il problema delle forti asimmetrie informative che connotano il questo mercato.
Nel Junk Market la domanda e l’offerta tendono ad essere legate al luogo di produzione, in quanto è raro sia che le opere d’arte siano trasportate in luoghi diversi, sia che un pubblico non autoctono entri in contatto con il lavoro di questi artisti. Ne consegue la assoluta località di questo genere di mercato. Lo sviluppo di Internet come canale di intermediazione globale ha tuttavia determinato la possibilità del comparto di assumere una dimensione più globale.
Gli artisti “Junk”, risultando al pubblico come veri e propri sconosciuti, non sono per nulla differenziati tra di loro e la loro firma non viene a costituire una riserva di valore. Il valore aggiunto di un’opera è quindi legato soltanto alle sue qualità intrinseche, a prescindere dal soggetto che l’ha prodotta. Ciò determina in primo luogo che l’opera d’arte può essere rivenduta, ma solo a patto che trovi qualcuno che ne apprezzi le caratteristiche estetiche e creative.
Al giorno d’oggi sostanzialmente per questo genere di opere esiste il solo mercato primario, in quanto, essendo gli autori sconosciuti, il grado di liquidità risulta quasi nullo.
L’introduzione delle nuove tecnologie informatiche e di piattaforme web dove scambiare beni usati (come ad esempio ebay.com), fa però presumere la possibilità dello sviluppo di un vero e proprio mercato secondario di questi lavori, che tuttavia sarà soltanto parzialmente in concorrenza con quello vero e proprio (per intendersi quello intermediato da mercanti d’arte e case d’aste), poiché l’anonimato (di fatto) dell’autore ne rende diversa la finalità: non tanto investimento, status symbol e collezionismo, ma piuttosto pura fruizione estetica.
Poiché gli artisti in questo mercato non hanno un nome (o meglio una “firma”), non possono esistere per essi delle quotazioni di riferimento[10]. Il meccanismo di fissazione dei prezzi delle opere risulta essere quindi fortemente aleatorio (come pure il relativo valore), e il prezzo di vendita sarà risultante da una vera e propria contrattazione tra artista e acquirente.
La distribuzione del surplus sul mercato, oltre a essere soggetta naturalmente all’inclinazione della curva di domanda e di offerta, verrà a dipendere quindi dal fatto che il meccanismo di contrattazione di fatto finisce per pattuire un prezzo finale pari appunto alla disponibilità di spesa del collezionista (sempre che essa abbia appunto una base di partenza superiore al prezzo di riserva di chi compra). Questa meccanismo di formazione del prezzo consente quindi all’offerta (cioè all’artista) di appropriarsi, secondo una discriminazione dei prezzi di primo grado, di gran parte del surplus della domanda (cioè del collezionista).
Il Junk Market risulta poi essere fortemente concorrenziale. Si consideri infatti che il prodotto non risulta essere fortemente differenziato e che non esistono barriere all’entrata (tenuto conto che i costi di produzione sono in genere bassi, che le idee creative e un minimo di tecnica artistica sono appannaggio di molti e che non è necessario alcuna licenza, concorso o titolo di studio per praticare l’attività di artista). Al riguardo è interessante notare che la concorrenza non avviene tanto sul prezzo, ma piuttosto sul fatto di trovare dei potenziali acquirenti che siano in grado di apprezzare la qualità artistica.
Si può quindi concludere che questo mercato offre ben poche possibilità di guadagno sia per gli artisti sia per i collezionisti. Gli artisti si trovano nella condizione di dover praticare prezzi notevolmente inferiori a quelli delle gallerie (pena il rivolgersi dei collezionisti a queste ultime per acquisti più sicuri), e di dover nello stesso tempo sostenere oltre alle spese di produzione anche quelle di promozione. Gli acquirenti d’altro canto si trovano anch’essi ad acquistare opere caratterizzate da un bassissimo, per non dire nullo, grado di liquidità e da un rischio molto elevato, legato al fatto di poter pagare un prezzo non conforme alla qualità dell’opera. A ciò si deve aggiungere che il meccanismo della contrattazione non gli garantisce alcuna partecipazione al surplus sul mercato.
La carriera degli artisti e le politiche economiche
Nella teoria della produzione precedentemente presentata[11] si è visto che gli artisti impiegano i diversi fattori produttivi (tra cui in primis la ricerca artistica e la promozione) al fine di creare un valore culturale delle opere, che l’antropologo francese Bourdieu definisce “capitale simbolico”[12]. Bourdieu analizza il caso delle avanguardie, artisti che, pur rappresentando una porzione numericamente marginale di coloro che non trovano spazio nel sistema, rivestono un vero e proprio ruolo sociale, cioè quello di spingere il mondo dell’arte e la società nel suo complesso verso forme più evolute. Lo studioso mette in evidenza che il capitale simbolico da essi creato spesso non trova una adeguata contropartita in denaro, ovvero non viene tramutato in “capitale economico”.
Si pensi ad esempio al caso di Vincent Van Gogh, che da vivo non trovò praticamente nessuno disposto a comprare le sue opere, mentre una volta scomparso il suo successo divenne planetario. Quello di Van Gogh rappresenta naturalmente un caso limite, ma in realtà la storia dell’arte è costellata da altri artisti che per secoli non hanno trovato un adeguato posto in relazione al loro valore, per non parlare degli innumerevoli altri artisti di talento che sono rimasti e tuttora sono dimenticati.
Nel caso delle avanguardie vengono quindi a crearsi sul mercato esternalità positive, cioè non viene loro riconosciuto economicamente il ruolo che esse hanno nel sistema (naturalmente ciò è sempre vero ai loro esordi, ma spesso anche nel prosieguo della loro carriera nel caso questa rimanga ancorata alle prime fasi di sviluppo). Urge quindi un intervento pubblico nel Junk Market a sostegno di questa categoria, in modo da premiare la qualità artistica.
In quest’ottica le politiche economiche e sociali in questo comparto devono andare nella direzione della meritocrazia più che assistere nel suo complesso la categoria degli artisti esclusi dal mercato, il cui valore aggiunto dal punto di vista artistico risulta in media molto basso. Allo stato attuale invece è possibile assistere spesso a misure di tipo assistenzialistico, come i sussidi o bonus fiscali concessi agli artisti del comparto in maniera indiscriminata (si ricordi ad esempio nel nostro paese le agevolazioni IVA per le vendite senza intermediazione[13]).
Il problema che gli artisti di avanguardia hanno agli inizi della loro carriera è che tendono ad essere più propensi ad investire le loro risorse nella ricerca artistica, trascurando invece quell’attività relazionale e promozionale che diventa un fattore strategico per entrare nel circuito delle gallerie, finendo per essere by-passati da artisti di mercato e sensazionalistici che invece hanno nella strategia di marketing il loro punto di forza[14].
Secondo quest’ottica politiche socio-economiche di stampo meritocratico possono ottenersi ottemperando diverse misure che vanno dall’istituzione di premi gratuiti che diano visibilità e ricompensino economicamente i migliori artisti senza rappresentanza; l’organizzazione di mostre tematiche in musei e istituzioni pubbliche che siano realmente aperte a tutti nella loro partecipazione (in questo caso la selezione va effettuata non sulla base di inviti da parte dei curatori, ma attraverso un vero e proprio concorso, la cui giuria deve risultare composita al fine di garantire l’imparzialità del processo selettivo); l’istituzione dell’obbligo per i musei e le maggiori istituzioni culturali pubbliche di impiegare una parte delle proprie risorse nell’acquisto di opere di artisti non riconosciuti da esporre periodicamente nelle proprie sedi (alla stregua delle quote rosa per la selezione dei candidati politici); la creazione di nuovi canali alternativi attraverso cui il pubblico possa fruire dell’arte di avanguardia (che vanno dalla creazione di portali artistici sul web, all’utilizzo di spazi pubblici per la diffusione del lavoro di giovani artisti); l’istituzione di centri di aggregazione e confronto per artisti apolidi; l’elargizione di borse di studio e residenze che premino gli artisti più originali.
Se si pensa poi che uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo di questo comparto di mercato è costituito dalla presenza di asimmetrie informative, una possibile misura potrebbe essere quella di comprendere nel programma di storia dell’arte che viene insegnata nelle scuola dell’obbligo e alle superiori anche l’arte contemporanea fino al giorno d’oggi. Naturalmente per applicare tale misura bisognerebbe prevedere costanti corsi di aggiornamento per gli insegnati di storia dell’arte.
Infine un punto interessante della questione delle politiche economiche risiede nel cambiamento di alcune dinamiche di mercato che determinano un meccanismo di selezione avversa degli artisti, per cui le gallerie di scoperta, che fungono da gate-keeper nel sistema, preferiscono investire le loro risorse nei confronti di artisti dalle dubbie capacità artistiche, ma di facile vendibilità sul mercato, piuttosto che aprire le loro porte ad artisti di qualità. Di questa questione e più in generale del mercato degli artisti emergenti (Alternative Market) si parlerà nel prossimo articolo.
Note
[1] Cfr. Zorloni A. (2011), L’economia dell’arte contemporanea, Mercati, strategie e star system, Franco De Angeli, Milano.
[2] Sebbene la qualità artistica sia comunque un fattore soggettivo, legato ai gusti e alle conoscenze individuali, essa tuttavia trova pur sempre degli elementi oggettivi nella condivisione di misure di giudizio comuni. Per un’analisi delle asimmetrie informative cfr. Guenzi (2014), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: le asimmetrie informative nel processo di contrattazione”, Economia e Diritto, n.10.
[3] Akerlof G. A. (1970), “The Market for ‘Lemons’: Quality Uncertainty and the Market Mechanism”, Quarterly Journal of Economics, Vol. 84, n.3, pp. 488-500.
[4] E’ interessante notare che la domanda istituzionale sul Junk Market è praticamente nulla.
[5] Oltre che dal prezzo la domanda i opere decorative è influenzata da altri fattori quali la configurazione del gusto in un determinato periodo storico, la numerosità degli acquirenti (quindi della popolazione), il livello di reddito pro-capite, il grado di istruzione medio e la dimensione media delle abitazioni.
[6] Nella teoria microeconomica classica l’effetto convenienza viene scomposto effetto reddito ed effetto sostituzione. Cfr. Varian H. R. (2007), Microeconomia, Cafoscarina, Venezia.
[7] Stiglitz J. (1987), “The causes and consequences of the dependence of quality on price”, Journal of Economic Literature, Vol. 25, n. 1 , pp. 1-48.
[8] Inoltre l’elasticità della curva di offerta dipende dalla composizione anagrafica degli artisti (e quindi dallo stadio assunto dalle opere nel ciclo di vita del prodotto). I giovani artisti infatti hanno una curva di offerta più elastica, avendo prodotto poco in passato, mentre essa risulta essere mediamente più rigida per quegli artisti di una certa età che non hanno trovato sbocchi sul mercato e hanno accumulato un notevole stock di opere invendute.
[9] Situazione che alcuni economisti definiscono “fallimento del mercato”.
[10] Si rileva a proposito che la mancata importanza della firma dell’artista determina un’assenza del fenomeno dei falsi nel segmento, che invece caratterizza i mercati dove la riconoscibilità dell’artista è la determinante per la quotazione di un’opera. Al contrario su questo mercato (soprattutto per quanto riguarda le opere d’avanguardia) sussiste il rischio del plagio, poiché gli artisti risultano avere pochi mezzi per difendere la loro proprietà intellettuale (soprattutto nei confronti dei loro colleghi più affermati).
[11] Guenzi (2015), “La teoria della produzione del valore artistico”, Economia e Diritto, n. 15-16.
[12] Bourdieu P. (1996), The Rules of Art, Stanfort University Press, Stanfort, e Bourdieu P. (1993), The Field of Cultural Production. Essay on Art and Literature, Polity Press, Cambridge.
[13] Nel nostro ordinamento è infatti previsto che gli artisti che vendano un’opera direttamente ad un collezionista siano soggetti ad un’IVA ridotta del 10%, mentre le vendite delle gallerie devono scontare un’imposta del valore aggiunto pari all’aliquota normale del 22%. Cfr. Pirrelli M., Barrilà S. (2011), “Dove conviene comprare? Confronto del tax rate in 20 paesi del mondo”, in ArtEconomy24, Plus24, supplemento de “Il Sole 24Ore” del 29 gennaio 2011 e Rossi E. (2014), “Le tasse nel mondo”, Il giornale dell’arte, n. 342, maggio 2014.
[14] Cfr. Guenzi (2015), Op. Cit..
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(di Marco Guenzi)
In questo e nel prossimo articolo si intende analizzare l’offerta di opere d’arte nel suo complesso, andando a studiare come essa in realtà si componga di diverse componenti: quella di art service e quella di art stock; quella relativa al mercato primario e quella del mercato secondario. Dallo studio delle diverse componenti sarà possibile delineare come la curva di offerta si configuri nei singoli comparti del mercato individuati durante l’analisi della domanda.[1]
Offerta sul mercato dell’art service
L’offerta di art service si riferisce alla componente culturale dell’offerta, cioè all’attività di presentazione e esibizione delle opere in spazi istituzionali e non, visitabili liberamente dal pubblico, in genere esigendo come contropartita l’acquisto di un biglietto di ingresso. Nell’offerta di art service si devono includere, oltre alle esposizioni presso i musei pubblici e privati, anche: gli eventi organizzati dalle gallerie (in genere gratuiti, al fine di vendere e di farsi pubblicità); le manifestazioni temporanee, sia di ordine culturale (come le biennali), sia commerciale (come le fiere); l’offerta sui media (stampa, televisione e world wide web) e l’attività espositiva autogestita dagli artisti (tra cui si annovera quella che utilizza come palcoscenico gli spazi pubblici, come nel caso della land art o della più recente street art).
Poiché le opere d’arte degli artisti di maggior credito sono richiestissime tra il pubblico e arrivano ad avere prezzi di mercato proibitivi per la maggior parte degli individui, in un simile contesto l’art service diventa un egregio sostituto dell’art stock, rendendo possibile la fruizione di capolavori che altrimenti sarebbero appannaggio di pochi fortunati collezionisti d’élite. Tale discorso si applica naturalmente ai settori più alti del mercato. In quelli più bassi, invece, la domanda di culturale tende a coincidere con quella di investimento, poiché le opere non vengono normalmente esposte in maniera continuativa e sono per contro a portata di mano (o meglio del portafoglio) di buona parte dei collezionisti. La relazione tra domanda di art service e art stock in funzione del prezzo di quest’ultimo è mostrata nella figura 1. Si noti che quanto è minore la distanza tra le due curve tanto più i beni divengono tra di loro sostituti e aumenta il grado di concorrenzialità tra i due mercati.
Per quanto riguarda l’offerta culturale, essa è legata ad un vincolo economico cui devono rispondere il museo o le altre istituzioni che la gestiscono. Secondo tale logica i costi (di gestione, cui fanno capo quelli legati al possesso e alla manutenzione della sede e quelli del personale; di acquisizione delle opere; di trasporto; di pubblicità; di organizzazione di mostre) devono essere sostenuti dai diversi proventi (finanziamenti pubblici, donazioni o sponsorizzazioni private, vendita biglietti, abbonamenti, cataloghi e merchandising). In particolare è interessante sottolineare che all’interno del budget di tali istituzioni assumono maggiore importanza i finanziamenti pubblici (specie in Europa) e le donazioni (specie negli Stati Uniti), mentre i biglietti, cataloghi e merchandising hanno un peso marginale.[2] Ne consegue che scelte dei musei pubblici e privati risultano essere più influenzabili da fattori di ordine “politico” (quali la soddisfazione degli interessi di coloro che potrebbero portare utili risorse all’istituzione) piuttosto che badare alle preferenze espresse dal pubblico.
Per essere più precisi bisogna sottolineare che nel settore delle arti visive la domanda culturale è una domanda indotta (pushed demand), circostanziata al ristretto numero di artisti presenti nel panorama locale e internazionale, prescelti secondo le politiche dei direttori dei musei. In tal senso questo meccanismo di selezione si differenzia notevolmente da quello di altri settori del mondo della cultura, quali la letteratura, la musica, il cinema, il teatro, dove la domanda, trovando un’offerta più ampia, è essa stessa, esprimendo e facendo valere le proprie preferenze, a determinare il successo degli artisti (pulled demand).
Nell’ultimo decennio tuttavia va segnalato che l’ampiezza dell’offerta culturale è notevolmente aumentata anche nel campo delle arti visive grazie allo sviluppo del web (e in particolare dei blog, dei forum e dei social networks), che ha permesso la fruizione da parte del pubblico di prodotti di nicchia, secondo il citato fenomeno della long tail economy. Rimane tuttavia il forte limite di una fruizione meno immediata delle opere d’arte visiva online rispetto ad altri settori della cultura (ad es. quelli performativi, musicali e letterari). Ciononostante è possibile presumere un’evoluzione nella direzione di organizzare sempre più eventi di arte visive in rete, in modo da ampliare l’offerta culturale. Infatti, per mezzo del passaparola, attraverso la segnalazione di eventi cui partecipare, la condivisione di commenti e giudizi su mostre, opere e artisti, il pubblico trova in Internet un alleato, uno strumento con cui far sentire la propria voce, finora inascoltata dai poteri forti del sistema. In questa direzione, e cioè quella di creare (seppur parzialmente) una domanda di tipo pull, vanno anche le politiche sociali che prevedono nelle scuole dell’obbligo una formazione in storia dell’arte che comprenda anche gli ultimi sviluppi dell’arte contemporanea, in modo da fornire ai potenziali futuri utenti un metro di giudizio indipendente nelle loro scelte di consumo culturale (e di investimento) in grado di contrastare le politiche dell’offerta.[3]
Prezzo dell’art service e prezzo dell’art stock
E’ interessante rilevare che il prezzo dell’art service, vale a dire il costo del biglietto di ingresso praticato dalle istituzioni che organizzano mostre, non corrisponde tanto al valore culturale ed economico delle opere esposte, ma semmai tale prezzo viene fissato in relazione al livello delle spese correnti sostenute e dei finanziamenti avuti. Nel caso delle gallerie, il cui intento è promuovere la propria immagine e vendere, il servizio espositivo (spesso corredato di buffet inaugurale) viene offerto in maniera gratuita. Nel mercato dell’arte quindi, al contrario di quanto è possibile riscontrare sugli altri mercati degli investimenti, si riscontra un’importante anomalia, e cioè che tra il valore della variabile di flusso (che corrisponde al prezzo pagato per godere di un’opera) e quello della variabile di stock (il prezzo da pagare per possederla) possa sussistere un legame molto blando.[4]
Ciò tuttavia non significa che i due segmenti del mercato, quello relativo all’art stock e quello dell’art service, non si influenzino l’uno con l’altro. Si pensi infatti che, poiché l’arte risulta essere un bene di lusso o di Veblen, la domanda e il prezzo dell’art stock viene a risentire fortemente della fama dell’artista. Ma il grado di notorietà acquisito è direttamente legato alla domanda art service, cioè al giudizio e al passaparola presso il pubblico, che, come si è visto, risente a sua volta delle relative politiche dell’offerta, cioè dalle decisioni dei direttori dei musei.
L’offerta di art stock
Nello studio dell’offerta, accanto alla sua componente culturale (art service supply) è possibile trovare quella economica o di investimento (art stock supply), che si concretizza nella messa in vendita sul mercato dei lavori degli artisti.
In realtà l’offerta di art stock avviene su due mercati differenti: il mercato primario, dove le opere sono messe in vendita dalle gallerie per conto degli artisti (o da questi ultimi direttamente nel caso non avessero trovato una galleria), e il mercato secondario, dove sono coloro che hanno precedentemente acquistato le opere d’arte (cioè i collezionisti, i mercanti d’arte e gli investitori istituzionali) a decidere di rimetterle in vendita.
L’offerta di art stock, che coincide con il quantitativo di opere d’arte in commercio sul mercato, fa quindi capo da una parte al numero di artisti presenti e alla loro produzione (mercato primario) e dall’altra dal numero di opere già prodotte messe successivamente in vendita (mercato secondario e mercato delle opere rimaste invendute).
L’offerta del mercato primario
Secondo la teoria microeconomica[5] nel breve periodo la curva di offerta del singolo artista sul mercato primario coincide con la curva dei costi marginali (MC), nel tratto in cui essa è superiore ai costi variabili medi (AVC). Nel lungo periodo tale curva assume come forma l’inviluppo di tutte le curve dei costi marginali di breve periodo che si ottengono variando tutti i fattori produttivi, questa volta con il vincolo che l’offerta sia maggiore del livello dei costi medi totali (AC). La configurazione della curva di offerta di settore infine è costituita dalla somma delle singole curve di offerta individuali.
E’ interessante notare tuttavia come non abbia senso studiare a livello aggregato l’offerta nel settore dell’arte contemporanea, come si è invece fatto analizzando la domanda. L’arte infatti è un bene fortemente differenziato, il cui valore economico dipende in primis dalla firma dell’artista che lo ha prodotto[6]. Ogni artista ha quindi un proprio mercato, che fa riferimento ad un’apposita domanda per le sue opere espressa dai collezionisti. La singola domanda per l’artista assume nello specifico settore cui egli appartiene una conformazione uguale a quella della domanda aggregata, seppur con parametri propri.[7] Ma come si configura invece l’offerta del singolo artista?
Riprendendo l’analisi relativa alla teoria della produzione del valore artistico[8], si prendano in esame i diversi settori del mercato. Nel segmento degli aspiranti artisti (“senza mercato”), poiché non ci sono barriere all’entrata e le motivazioni di chi produce arte (specie agli inizi) prescindono da un diretto ritorno economico, l’offerta avviene anche in perdita e risulta essere di gran lunga superiore alla domanda. Questo comparto è quindi caratterizzato da un accumulo dello stock: le opere degli artisti sconosciuti rimangono in gran parte invendute, destinate a non trovare padrone e ad andare perdute nel tempo. L’offerta, poiché parte di essa prescinde da motivi economici, risulta quindi parzialmente insensibile al prezzo, con la conseguenza che la relativa curva sarà inclinata verticalmente (figura 2).
Nel lungo periodo, avendo gli artisti meno vincoli di tempo per sviluppare la propria creatività, risulterà relativamente più elastica (figura 3).
Nel comparto degli artisti emergenti sono invece presenti barriere all’entrata legate all’impossibilità, da parte delle gallerie presenti sul mercato, di rappresentare tutti gli aspiranti artisti. Le gallerie dovranno quindi provvedere ad una selezione in modo da soddisfare i propri obbiettivi in termini di profitto, crescita dell’immagine e promozione culturale[9]. Poiché esse devono sostenere notevoli costi fissi in promozione, esse richiedono agli artisti di garantire loro una produzione sufficiente per ammortizzare tali spese. Gli artisti saranno in grado di produrre fin quando i loro costi marginali (legati in primis alla loro limitata capacità creativa[10]) non saranno uguali ai ricavi marginali, cioè al prezzo cui è possibile vendere l’ultimo lavoro prodotto.[11]
La curva di offerta risulterà quindi nel breve periodo inclinata positivamente, intersecando la curva dei costi variabili medi nel suo punto di minimo (ved. figura 2). Nel lungo periodo, come meglio si vedrà, invece, per gli artisti che proseguono nella carriera (ovvero quelli dotati di maggiore creatività e di migliori appoggi all’interno del sistema), questa curva risulterà essere completamente rigida. Questa particolarità dipende dal fatto che ci si trova in un mercato con una struttura di concorrenza monopolistica, con minime barriere all’entrata e profitti vicini allo zero, per cui il punto di ottimo deve stare sulla curva dei costi medi, sulla curva di domanda e soddisfare la condizione per cui il costo marginale è pari al beneficio marginale[12]. Essendo la curva di domanda inclinata positivamente in questo settore, la curva dei costi marginali e quella dei costi medi devono quindi coincidere ed essere tangenti alla curva di domanda nel punto di massimo dei prezzi e della produzione, che sarà il punto di equilibrio (ved. la figura 3). Ma accanto a quella analitica è possibile trovare una spiegazione di tipo economico. In una situazione particolare di mercato dominata dall’effetto qualità,[13] per cui all’aumentare del prezzo aumenta la domanda di opere d’arte, le gallerie cercano di far lievitare lentamente, attraverso le proprie campagne promozionali, le quotazioni dell’artista. Il ritmo di crescita dei prezzi deve essere controbilanciato dalle sue capacità creative, in modo da creare un sufficiente quantitativo di opere (e di adeguato valore simbolico) cosicché l’offerta sia in grado di incontrare la domanda. Nel caso la carriera dell’artista prosegua nei modi sperati, la sua produzione crescerà nel tempo fino a raggiungere il punto di massima domanda. In quel punto l’offerta diviene rigida poiché le gallerie non vorranno più vendere opere dell’artista, pena un eccesso di opere sul mercato e quindi una tendenziale discesa delle quotazioni (che comprometterebbe la carriera dell’artista e la reputazione della galleria). Una via d’uscita dall’empasse consiste per l’artista nel passare ad una galleria di maggior prestigio e fare un salto di categoria, entrando nel segmento appena superiore del mercato.
Il segmento degli artisti affermati ha un mix ottimale di lungo periodo più orientato verso la ricerca artistica, sebbene si sia messo in evidenza che nel breve periodo possa essere premiante la ricerca di appoggi politici all’interno del sistema. Le curve di costo avranno quindi diverse conformazioni a seconda dell’orizzonte temporale di riferimento. Nel breve periodo esse assumeranno la classica forma ad U, con la conseguenza che la conformazione dell’offerta assomiglierà a quelle degli artisti emergenti, con l’unica differenza che sarà traslata verso l’alto (si veda la figura 2), mentre nel lungo periodo, l’offerta risulterà essere relativamente rigida a causa della necessità di rendere sempre più proficua l’attività di ricerca artistica, che si scontra il un limite fisiologico della capacità creativa di questi artisti (ved. la figura 3). Tuttavia, come meglio si avrà modo di vedere, la presenza di un mercato secondario rende l’offerta di questo comparto più elastica, soprattutto nel lungo periodo e specialmente durante le fasi di cambiamento della congiuntura del mercato (cioè in occasione dello scoppio di bolle speculative), in cui viene riversata su quest’ultimo una grande quantità di opere precedentemente acquistate.
Il segmento delle celebrità (arti-star) si differenzia da quello degli artisti affermati perché vengono ad instaurarsi per questi artisti esternalità di rete che fanno crescere in maniera esponenziale la loro fama, la relativa domanda e il livello delle quotazioni[14]. Anche la struttura del mercato risulta essere, come si vedrà, profondamente diversa, con un prodotto talmente differenziato, potremmo dire “brand-izzato”, tale da non avere concorrenti, con pochi venditori e acquirenti che si contendono rispettivamente la commercializzazione e la proprietà di queste illustri opere. Nella struttura dei costi, per la sostenibilità di una crescita rapida e continua delle quotazioni nel lungo periodo, assume un rilievo fondamentale l’attività di ricerca artistica, mentre nel breve periodo un aumento del prezzo delle opere dell’artista può essere sostenuto grazie alle sole manovre di marketing. In questo segmento di mercato sussiste quindi un paradosso di fondo, e cioè che gli artisti possono permettersi di non preoccuparsi nel breve periodo del livello del valore simbolico (cioè della qualità) delle proprie opere. Gli arti-star infatti, con il sostegno loro alleati (cioè gli stake-holders: collezionisti, mercanti e auction houses interessati per ragioni diverse a massimizzare le quotazioni), attraverso campagne promozionali e di camuffamento dei prezzi[15], riescono a piazzare sul mercato i propri lavori a prezzi di gran lunga superiori al loro valore simbolico (cioè al prezzo di equilibrio sul lungo termine), lasciando i futuri compratori con un cerino acceso in mano, destinato a trasformarsi in cenere. Queste manovre portano i loro frutti perché determinano un abbassamento delle curve di costo marginale e medio rispetto ai livelli di lungo periodo (figura 2).
La conseguenza è che l’offerta delle celebrità sul mercato primario risulta essere paradossalmente particolarmente elastica nel breve periodo e maggiore del livello pareto-efficiente, grazie anche alla produzione di opere in serie, ottenuta per mezzo del lavoro di vere e proprie art factories organizzate in catene di montaggio. Nel lungo periodo tuttavia questo discorso non vale più perché il mercato tende verso i propri valori di equilibrio e cioè viene ad instaurarsi una corrispondenza tra la qualità insita nelle opere e il valore di mercato: gli artisti quindi, se vorranno che le loro quotazioni non scendano, sono obbligati ad investire in ricerca artistica e la loro produzione, che coincide con il livello dei costi marginali di lungo periodo, diventerà più cara e rigida (figura 3).[16]
L’offerta di questo segmento inoltre risente in maniera preponderante anche della componente relativa al mercato secondario, che la rende ulteriormente elastica, specie nel lungo periodo e in occasione dello scoppio di bolle speculative sul mercato, come già accennato e come si avrà modo di vedere meglio nel prossimo articolo.
Note
[1] Cfr. Guenzi M. (2015a), “La natura della domanda e la segmentazione del mercato dell’arte”, Economia e Diritto, n. 1.
[2] Il modello museale del “Vecchio Continente” differisce notevolmente da quello americano. Mentre nel primo si cerca di favorire la politica culturale attraverso l’intervento pubblico, e quindi i musei sono in gran parte pubblici e funzionano attraverso i finanziamenti dagli organi centrali verso quelli locali, nel secondo essi sono in gran parte privati (costituiti per volere dei grandi magnati tra il XIX e XX secolo) e funzionano grazie ad una legislazione che prevede forti agevolazioni fiscali per le donazioni e le sponsorizzazioni in ambito culturale (Cfr. F. Poli (2011), Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, Bari.).
[3] Allo stato attuale non si può che riscontrare l’inefficienza del processo di selezione degli artisti, che non premia i più dotati, ma piuttosto coloro con le maggiori entrature nel sistema (cfr. Guenzi M. (2014a), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: il problema della selezione avversa degli artisti e delle gallerie”, Economia e Diritto, n. 11.). Tali meccanismi di selezione producono l’effetto di spostare il sentiero del valore verso un maggior impiego del fattore promozione (o meglio del capitale relazionale) e una minore importanza della ricerca artistica, mentre l’introduzione di spazi espositivi e di discussione online vanno (fortunatamente) nella direzione opposta, e cioè di ridare dignità all’innovazione culturale, alle capacità espressive e al talento artistico (si veda Guenzi M. (2015b), “La teoria della produzione del valore artistico”, prima e seconda parte, Economia e Diritto, n.2-3).
[4] Si pensi ad esempio che sul mercato azionario la variabile di stock, cioè il prezzo delle azioni, dipende direttamente dal flusso di utili netti prodotti (e attesi) delle aziende. Sul mercato immobiliare invece il prezzo raggiunto delle case dipende dalla domanda abitativa, che a sua volta si riflette sul livello degli affitti, ovvero (al netto delle spese e delle tasse) sulla redditività degli immobili. In entrambi i casi la relazione tra variabili di stock e di flusso risulta essere tanto più salda quanto è più lungo l’orizzonte temporale di riferimento.
[5] Varian H. R. (2007), Microeconomia, Cafoscarina, Venezia.
[6] Cfr. Sagot-Duvarot D. (2011), “Art Prices”, in Towse R. (2011) (a cura di), A handbook on Cultural Economics, Second Edition, Edward Elgar, Cheltenham, e Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.
[7] Ciò in relazione al fatto che i fattori che determinano la domanda aggregata di opere d’arte (Cfr. Guenzi (2015a), Op. Cit.) sono gli stessi nel caso della domanda per un singolo artista.
[8] Guenzi M. (2015b), Op. Cit..
[9] Guenzi M. (2014a), Op. Cit.
[10] Guenzi M. (2015b), Op. Cit..
[11] Il prezzo di vendita è determinato, oltre che dalla qualità artistica dell’opera, dall’efficacia delle politiche promozionali da parte delle gallerie e in ultima analisi dal tipo di concorrenza che viene ad instaurarsi sul mercato, dai meccanismi di determinazione dei prezzi e delle quantità, nonché dalla conformazione della curva di domanda. Si analizzerà l’equilibrio dei diversi settori di mercato prossimamente.
[12] Cfr. Chamberlin E. (1933), The Theory of Monopolistic Competition: A Re-orientation of the Theory of Value, Harvard University Press, Harvard, e Robinson J. (1933), The Economics of Imperfect Competition, Macmilian, Londra.
[13] Cfr. Stiglitz J. (1987), “The causes and consequences of the dependence of quality on price”, Journal of Economic Literature, Vol. 25, N. 1 , pp. 1-48
[14] Adler (1985), “Stardom and Talent”, American Economic Review, Vol. 75, pp. 208-212.
[15] Cfr. Guenzi M. (2014b), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea: il meccanismo di formazione dei prezzi”, Economia e Diritto, n. 12.
[16] Cfr. Guenzi M. (2015b), Op. Cit..
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(di Marco Guenzi)
Nello scorso articolo, analizzando la questione delle asimmetrie informative, si è potuto vedere come queste diano origine a un meccanismo di selezione avversa sul mercato, cioè comportino che i beni di maggiore qualità non possano essere distinti da quelli scadenti (e quindi valorizzati come dovuto), con la conseguenza che il mercato viene a comporsi di quei soli prodotti “bidone” e rischi di non trovare più domanda. In questo articolo esamineremo nel dettaglio il meccanismo di selezione avversa applicato alla selezione di artisti e gallerie, evidenziando come esso determini il fatto che gli artisti migliori spesso non trovino posto nel sistema dell’arte e che le opere messe in commercio siano quelle in genere di minore qualità; nello stesso tempo si vedrà che i galleristi di maggior successo non sono quelli caratterizzati da più alta professionalità e competenza in ambito artistico, ma bensì quelli che possiedono migliori doti di marketing, con l’effetto di un minor valore aggiunto culturale che si riflette in termini di sviluppo sul sistema socio-economico.
Il problema della promozione
Gli artisti, specie quando sono alle prime armi, si trovano di fronte al problema di promuovere la loro produzione, affinché essa sia notata e segnalata come qualcosa di pregevole all’interno del sistema dell’arte. La promozione costituisce una fase delicatissima agli inizi della carriera di ogni artista, poiché da essa dipende la possibilità fare di quest’attività una vera e propria professione e in ultima analisi l’opportunità costruire un avvenire di successo nel mondo dell’arte.
L’attività di promozione può tuttavia essere svolta con modalità diverse, che presuppongono innanzitutto la scelta del canale attraverso cui espletare la propria attività. In tal senso è possibile identificare tre diverse alternative[1]: da una parte la strada della committenza diretta da parte del collezionista, in auge nel passato, ma ora non più praticabile (se si escludono i rari casi di mecenatismo di stampo moderno); dall’altra quella del mercato, che prevede la commercializzazione diretta (autopromozione) o attraverso il circuito delle gallerie; infine la strada attraverso i legami istituzionali, cioè l’attività curatoriale di musei e istituzioni pubbliche (che purtroppo risulta essere fortemente carente in molti contesti istituzionali).
Per la forma e la struttura stessa in cui si è conformato oggi il sistema dell’arte[2], allo stato attuale è il mercato, e più precisamente la vendita attraverso i canale delle gallerie (e successivamente delle case d’asta) a rappresentare la strategia dominante, se non l’unica, che può assicurare all’artista prospettive di successo.
Infatti, se l’autopromozione diviene una scelta obbligata per chi è escluso dal circuito delle gallerie, essa tuttavia costituisce una scelta fortemente penalizzante per l’artista (perché distoglie energie utili al lavoro) e di difficile attuazione (perché in genere chi possiede capacità artistiche risulta spesso alquanto impacciato nell’autopromuoversi).
Sul mercato dell’arte infatti si è in presenza di asimmetrie informative che impediscono che i collezionisti possano apprezzare il valore delle opere senza l’intervento di gallerie che selezionino e facciano uno screening degli artisti. In mancanza dell’attività di intermediazione delle gallerie ci si troverebbe in una situazione in cui i migliori artisti deciderebbero di non mettere le loro opere sul mercato, consci del fatto che i propri lavori non verrebbero valutati quello che effettivamente valgono, senza peraltro la possibilità (se li vendessero) di goderne in futuro i capital gain[3]. Sarebbero invece più incentivati a cedere le proprie opere gli artisti di minore qualità, con conseguente abbassamento della qualità generale dell’offerta e contrazione della domanda.
Se quindi la rappresentanza di una galleria è il percorso utile, privilegiato e quasi obbligato per gli artisti, soprattutto i più meritevoli, nel farsi strada nel mondo dell’arte, le gallerie sono davvero interessate ai lavori di questi ultimi e più in generale sono in grado di garantire loro un giusto successo nel sistema?
Un modello interpretativo
Il circuito delle gallerie (ma si può in questo caso dire l’intero sistema dell’arte, perché con esse lavorano critici, curatori, direttori di musei, collezionisti) deve procedere nel difficile compito di selezionare gli artisti da rappresentare e successivamente di fare entrare un ristretto numero di essi negli annali della storia dell’arte.
A prima vista l’unico sensato criterio di valutazione nel percorso di selezione degli artisti risulterebbe essere il merito artistico. Secondo Sacco[4] il valore artistico si misura sulla base della loro capacità di generare “processi di senso”, ovvero portare una ricerca innovativa in termini di linguaggio dell’arte. Il linguaggio dell’arte fa riferimento alle categorie mentali di una piccola élite di specialisti che decidono chi ha meriti in questo campo.
Tuttavia le gallerie nel loro processo di selezione iniziale tendono in genere ad usare altri parametri, sia in relazione alle difficoltà e all’alto grado di soggettività nel processo di formazione di un giudizio di valore, sia perché preferiscono utilizzare elementi oggettivi di più facile valutazione (e soprattutto di più alto valore segnaletico) quali gli studi effettuati, le relazioni interpersonali comuni, e soprattutto le motivazioni sottostanti e la tipologia di arte prodotta[5].
Prendendo spunto dal lavoro portato avanti da Sacco[6] si cercherà ora di capire, per mezzo di un modello interpretativo sviluppato ad hoc, il processo di selezione degli artisti da parte delle gallerie.
Si riconducano tutte le variegate tipologie di artisti a soli tre generi: gli artisti “d’avanguardia”, “di mercato” e “sensazionalistici”. Gli artisti d’avanguardia (o “puri”) sono coloro che hanno come obbiettivo primario l’investimento sulla loro ricerca artistica e non investono, come dice appunto Sacco, in capitale relazionale. Ciò naturalmente costituisce un problema, poiché tendono a non curare abbastanza l’attività di promozione. Essi sono artisti dotati di grandi capacità innovative e in grado di produrre opere di elevato valore artistico, che tuttavia essendo appunto d’avanguardia e di nicchia, non vengono in genere apprezzate dal grande pubblico.
Gli artisti di mercato privilegiano invece la problematica del proprio sostentamento, anche al costo di perdere in qualità artistica. La loro produzione tende quindi a incontrare i gusti del pubblico e a conformarsi con il gusto corrente, senza essere quindi particolarmente innovativa (in genere essa è sulla falsariga di stili già affermati nel mondo dell’arte). Essi destinano buona parte del proprio tempo al conseguimento di un certo capitale relazionale, che gli serve per entrare nel mercato.
Gli artisti sensazionalistici invece tendono soprattutto a conseguire l’obbiettivo della notorietà, sia attraverso l’investimento in capitale relazionale, sia per mezzo di astute manovre di marketing. Il loro prodotto artistico e la loro condotta individuale divengono quindi funzionali al loro successo, cioè assumono tratti provocatori e in linea con una strategia di comunicazione che si basa sul far parlare di sé[7].
Gli artisti ai loro esordi per vendere cercano di interfacciare con le gallerie di scoperta (o commerciali), cioè quelle (in genere piccole) gallerie che si occupano di scoprire nuovi talenti e di dar loro rappresentanza. Le gallerie di scoperta hanno il compito di garantire ai collezionisti la qualità delle opere che vendono (screening) attraverso l’elargizione di informazioni e segnali di valore (signaling), tra cui in primis il prezzo. La loro attività risulta fondamentale in quanto esse ricoprono il ruolo di gatekeeper nel mercato dell’arte, cioè fungono da garanti dell’ingresso degli artisti nel fulcro del sistema.
Se si sono potuti distinguere gli artisti riconducendoli a tre categorie, lo stesso è possibile fare con i galleristi, che possono essere classificati in “appassionati”, “speculatori” e “strategici”. I galleristi appassionati svolgono la loro professione principalmente per passione. Non hanno grandi ambizioni di carriera e il loro intento è soprattutto la promozione della qualità e del merito dal punto di vista artistico. I galleristi speculatori sono interessati soprattutto al guadagno immediato. Il loro fine è quindi massimizzare nel breve periodo i profitti. Essi quindi tendono, qualora si presentasse l’occasione (cioè quando si fosse in presenza di un moral hazard), ad assumere comportamenti opportunistici. I galleristi strategici invece hanno l’ambizione di salire i gradini del sistema dell’arte. Il loro orizzonte è quindi di lungo periodo e i loro comportamenti sono assoggettati all’obbiettivo di ottenere potere e notorietà.
I fattori critici di successo
Nel primo step nel processo di selezione gli artisti si presentano alle gallerie di scoperta fornendo segnali delle loro qualità: in particolare l’accademia in cui hanno studiato (importante più che per il livello della formazione per il capitale relazionale accumulato[8]); le piccole mostre, sia personali che collettive, cui hanno partecipato (anch’esso indicatore più del capitale relazionale che della bravura); last but not least la “tipologia di prodotto” offerta, cioè l’appartenenza più o meno a qualche corrente artistica, i medium utilizzati, le tematiche affrontate.
Il secondo passo è quello in cui le gallerie procedono nel loro processo valutativo. Naturalmente nelle loro scelte esse dovranno tener conto di diversi fattori: delle loro inclinazioni, di quelle dell’artista e soprattutto delle probabilità di successo di quest’ultimo. Ma cosa è che rende l’artista di successo diverso rispetto agli altri? Quali sono i fattori che determinano il suo essere “speciale”?
Il successo artistico è stato studiato da alcuni economisti, che ne hanno dato la loro interpretazione.
Secondo Rosen[9] viene premiato il talento. Rosen afferma che il talento è una risorsa rara e che, poiché l’utilità marginale dei collezionisti è crescente con l’aumentare della qualità, i consumatori tendono a concentrare le proprie preferenze nei confronti degli artisti più bravi, come risulta chiaro per esempio dal caso dei cantanti. Nel caso del mercato dell’arte contemporanea, ciò significa che i collezionisti tenderebbero a orientarsi verso gli artisti d’avanguardia, ovvero quelli con maggiori capacità artistiche. Tuttavia si è visto che sul mercato dell’arte si è in presenza di asimmetrie informative e il talento artistico per emergere ha bisogno dell’attività di screening e signaling delle gallerie. Le stesse gallerie, soprattutto se agiscono in un’ottica speculativa o strategica, sono assoggettate ad un moral hazard che rende probabili che attraverso mirate manovre di marketing alcuni galleristi e critici possono far passare come artista di valore chi effettivamente non lo è. Il talento artistico non risulta essere quindi la prima discriminante secondo cui i galleristi selezionano gli artisti: in ultima analisi ciò significa che il modello di Rosen mal si applica al mercato dell’arte.
Un’interpretazione più centrata in questo caso risulta essere quella di Adler[10]. Adler ha un’idea diversa: viene premiata la capacità di farsi notare. Poiché la scelta degli artisti in presenza di asimmetrie informative è difficile, le scelte dei collezionisti tendono a concentrarsi su coloro sui quali hanno più facilmente informazioni. Essi per scegliere i “loro” artisti si affidano ai “segnali del mercato” cioè il grado successo raggiunto, che può essere desunto dalla galleria che li rappresenta, il livello di prezzo conseguito, le mostre fatte, le biennali a cui hanno partecipato: indicatori che vengono (erroneamente) proclamati come indici sintetici della qualità. Da questo punto di vista le scelte dei collezionisti tenderanno a premiare le opere e gli artisti sensazionalistici, perché essi comportano minori costi iniziali di reperimento delle informazioni e quindi (a parità di prezzo di partenza) un minor costo pieno. La scelta iniziale da parte dei collezionisti di comprare un artista sensazionalista fa sì che, ceteris paribus, sia vantaggioso per le gallerie rappresentare questo genere di artisti, ai danni di quelli d’avanguardia, magari di maggiore qualità, ma per i quali ci sono alti costi di reperimento delle informazioni e quindi minor domanda. Gli artisti d’avanguardia hanno inoltre un livello di rischio maggiore rispetto a quelli di mercato o sensazionalistici, le cui opere sono infatti più facilmente apprezzabili dai collezionisti (sia da un punto di vista dell’investimento che del gusto). Per capire l’avanguardia infatti bisogna essere aggiornati, il che richiede dedizione e competenze che solo pochi collezionisti hanno.
Ma risulta qui interessante approfondire questa chiave interpretativa. Un altro motivo perché la domanda si concentra sugli artisti più noti (e si badi bene non più validi) è data dalla loro componente di esclusività. Un nome quanto più è noto tanto più ha un appeal sulle masse (basti pensare ai cachet dei divi del Grande Fratello che non hanno alcun talento, ma solo notorietà). Avere un’opera conosciuta in casa significa avere un brand distintivo da mostrare agli amici. Se l’autore non fosse conosciuto (e di conseguenza costasse poco) il suo grado di esclusività sarebbe, a parità di condizioni, minore. Il successo risulta avere quindi un appeal osmotico, per cui fa sentire importante chi ha vicino qualcuno, o qualcosa che riguarda qualcuno, che ha acquisito notorietà (si pensi ad esempio al caso dei cimeli di personaggi famosi acquisiti a prezzi fuori mercato). Si applica in questo caso il concetto di esternalità di rete, per cui la notorietà crea successo e il successo crea notorietà, in modo da instaurare dei circoli virtuosi che portano alla ribalta gli artisti, con la conseguenza che in poco tempo essi divengono superstar (o meglio arti-star) e le loro quotazioni divengono fuori mercato. Una volta raggiunto un certo livello di notorietà, essi riescono a vivere di rendite di posizione. La propria fama infatti viene a costituire una forma di barriera all’entrata, grazie alla quale essi tendono a escludere dall’ingresso nel gotha dell’arte i possibili concorrenti, magari anche più talentuosi.
Le logiche delle gallerie
Nel suo processo decisionale selettivo la galleria di scoperta non deve valutare soltanto le possibilità di vendita. Certo, se l’artista non vende, la galleria si trova con un investimento improduttivo; deve interrompere il rapporto, e i costi sostenuti per lanciarli divengono sunk cost. Tuttavia anche se l’artista è molto di successo si pone un problema: quello della credibilità[11]. Santagata spiega che, qualora l’artista abbia forti riconoscimenti dal sistema, egli può decidere di abbandonare la galleria e farsi rappresentare da una galleria più importante, cioè una galleria tradizionale. Viene quindi a crearsi un moral hazard che ugualmente comporta che i costi sostenuti per la promozione non divengano più recuperabili.
Le gallerie di scoperta quindi cercano di cautelarsi di fronte a questo rischio, sia chiedendo alte cifre per l’intermediazione (questo spiega il livello molto elevato dei costi di transazione per i giovani artisti) sia comprando o prendendo in conto vendita un grande quantitativo di opere dell’artista a bassissimo prezzo. Questa operazione di “stoccaggio” infatti, in previsione che le quotazioni dell’artista salgano fortemente, permette alla galleria di non essere esclusa dalla partecipazione dei profitti aggiuntivi.
Da questo punto di vista quindi i migliori artisti (o meglio i meno rischiosi) per le gallerie di scoperta sono quelli di mercato, perché da una parte vendono più di quelli d’avanguardia, dall’altra è difficile che ti lascino perché è improbabile che ottengano un successo tale da abbandonare la galleria (come può più facilmente avvenire per quelli sensazionalistici).
Al di là di queste considerazioni generali bisogna tenere conto che le gallerie seguono nel processo di selezione le proprie inclinazioni personali. Si può quindi dire che, in condizioni normali, le scelte delle gallerie appassionate ricadranno principalmente sugli artisti d’avanguardia; quelle speculative sceglieranno soprattutto artisti di mercato; le gallerie strategiche infine tenderanno a privilegiare gli artisti sensazionalistici. Il tutto in un ottica naturalmente di diversificazione del portafoglio. Alla fine queste scelte, che comportano diverse prospettive di crescita, avranno conseguenze dirette sulla loro attività.
L’attività di investimento in avanguardia comporta infatti di base un grande rischio intrinseco in quanto risulta molto difficile per le gallerie dare segnali dell’effettiva qualità di un’opera, così da poterla vendere ad un prezzo più alto[12]. Le opere d’avanguardia non sono quindi apprezzate dalla grande maggioranza dei collezionisti (se si escludono quelli “di tendenza”), in quanto ciò comporterebbe un processo di affinamento culturale e di raccolta di informazioni che richiede notevole tempo nonché grandi energie. La loro domanda risulta quindi essere di nicchia.
Per quanto riguarda le opere di mercato esse invece vanno incontro al gusto di gran parte dei collezionisti e nello stesso tempo risultano essere sia relativamente facili da contestualizzare da un punto di vista culturale, sia poco rischiose dal punto di vista dell’investimento.
Le opere sensazionalistiche, anche se non conquistano il gusto del pubblico e risultano in genere di dubbio valore artistico, hanno il pregio di far parlare di sé, e quindi di accrescere la notorietà e le quotazioni dell’artista. Tale forma di investimento è quindi ottimale per una galleria in un rapporto di medio-lungo periodo, ma ciò in realtà è poco plausibile perché gli artisti sensazionalistici tendono a passere alla prima occasione ad una galleria più importante che li rappresenti.
Il processo di selezione agli esordi
Agli inizi tutti gli artisti partono sulla stessa linea di partenza. Il prezzo di partenza, al di là del talento artistico, in genere tende ad essere simile, non essendoci ancora elementi chiari su cui attuare una strategia dei prezzi; le gallerie fissano per gli artisti ai loro esordi delle quotazioni standard: né troppo basse (ciò toglierebbe valore all’artista e indirettamente alla galleria), né troppo alte (iniziare con una quotazione alta significherebbe diminuire le prospettive di crescita dell’artista e in altri termini la sua appetibilità come investimento).
Successivamente sono molti i fattori che determineranno la crescita nella carriera e nelle quotazioni di un artista. Se, una volta entrato nel mercato, il suo talento da una parte può essere di aiuto, in quanto permette di ricevere apprezzamenti all’interno del sistema, tuttavia ancora più importanti risultano essere le strategie commerciali messe in atto (oltre che da lui stesso) dalle gallerie che lo rappresentano.
Le gallerie infatti cercano attraverso la loro attività promozionale di farsi garanti della qualità delle opere che vendono. Al di là delle qualità intrinseche del prodotto, importa, come d’altronde in qualsiasi attività di commercializzazione, cosa il venditore è in grado di far percepire al compratore riguardo a ciò che vende. La galleria quindi non è tanto interessata a vendere cose di qualità, ma a vendere piuttosto cose che sembrano essere di qualità. A tal fine essa cerca di far di tutto per camuffare il proprio prodotto nel migliore dei modi, in modo da poterlo vendere al massimo prezzo.
Per far ciò farà perno sulle leve del marketing che avrà a disposizione: la qualità (l’originalità) percepita dell’opera, laddove sarà in grado di giustificarla; il suo prezzo, che dipende direttamente da questa prima e indirettamente serve da fattore di rinforzo (si ricorda che il prezzo delle opere d’arte assume un valore simbolico della qualità)[13]; le selling-out situation, che giustificano una sua maggiore appetibilità in quanto fanno presumere una crescita dell’artista in termini di quotazioni.
Da questi punti di vista gli artisti d’avanguardia risulteranno essere appetibili solo qualora passi il messaggio della loro espressività o capacità di innovare; la promozione degli artisti di mercato si baserà soprattutto sulle capacità tecniche; mentre gli artisti sensazionalistici venderanno sulla base di quanto è conosciuto il proprio nome.
Quali artisti emergeranno? Probabilmente coloro che riusciranno a concentrare su di sé tutte le diverse qualità, così da poter fronteggiare i diversi movimenti del gusto e del mercato[14].
Il risultato complessivo è che gli artisti di mercato costituiranno la maggioranza di quelli selezionati, benché ci sarà comunque una piccola rappresentanza di quelli sensazionalistici (per definizione chi riesce a far sensazione non può essere che un numero ristretto di individui) e d’avanguardia (in quanto non apprezzati per la loro rischiosità dalle gallerie)[15].
La via verso il successo
La promozione degli artisti nella fase iniziale è rappresentata dall’organizzazione di mostre personali e collettive nello spazio della galleria, nell’ottenimento qualche recensione sulle riviste d’arte minori e nella presentazione dell’artista nelle fiere nazionali. Lo step successivo nella carriera d’artista è quello di essere rappresentato da una galleria tradizionale.
Le gallerie tradizionali risultano essere di un gradino superiore nella gerarchia del sistema dell’arte. Esse, composte dai galleristi di scoperta che hanno fatto carriera, in genere operano anche sul mercato secondario come mercanti d’arte e tendono ad includere nel loro portafoglio oltre ai migliori artisti di mercato, anche gli artisti d’avanguardia e gli artisti sensazionalisti che si sono affermati. Inoltre esse acquisiscono un profilo internazionale rappresentando anche artisti stranieri. La loro promozione in questo step viene attuata attraverso l’organizzazione di mostre in spazi istituzionali, recensioni e saggi critici su riviste importanti, la partecipazione a fiere internazionali, il sostegno verso l’ottenimento dei maggiori premi nazionali, la partecipazione a biennali, la vendita sul mercato secondario attraverso contrattazioni private e la messa all’asta delle opere. A questo punto solo coloro che riescono a superare tutte le prove previste dalla strategia commerciale, cioè i migliori artisti d’avanguardia e sensazionalisti, possono ambire ad essere rappresentati dalle gallerie di punta.
Le gallerie di punta (che sempre svolgono parallelamente una attività di compravendita e sono anche quindi mercanti) cercano di lanciare i pochi partecipanti in una corsa verso il traguardo di entrare nel gotha dell’arte. Esse supportano attivamente, grazie alla loro rete di contatti, gli artisti nella loro attività, cercando di far ottenere loro mostre nei musei più importanti in modo da storicizzarli. Inoltre sostengono le quotazioni degli artisti, in cordata con i collezionisti che ne detengono le opere, intervenendo in base d’asta grazie alle enormi risorse finanziarie di cui dispongono. In questa corsa naturalmente gli artisti sensazionalisti partono avvantaggiati, poiché possiedono tutte le armi del mestiere del marketing manager. Questi artisti riescono a produrre opere facilmente riconoscibili (secondo il principio del branding) e in grande quantità (non si occupano loro direttamente della produzione, che avviene attraverso una catena di montaggio, ma devono semplicemente supervisionare il tutto). Essi sono poi in grado di smerciarle sul mercato poiché sono in grado di attuare strategie di differenziazione del prodotto (e dei prezzi) in modo da attingere alle diverse fasce di mercato. I più audaci addirittura, visto il potere commerciale del proprio brand, possono decidere di bypassare il sistema delle gallerie e vendere direttamente le opere prodotte all’asta, così da avere minori costi di intermediazione e spuntare un prezzo più alto[16]; oppure possono decidere di organizzare direttamente, in accordo con i direttori dei grandi musei, grandi mostre antologiche.
Gli artisti d’avanguardia invece faranno molta più fatica ad affermarsi e solo una piccolissima parte di essi riuscirà a scalare le vette del sistema. Gli artisti di mercato, invece, avranno maggiori facilità ad entrare nel mercato, ma difficilmente riusciranno a farsi strada.
Nello stesso modo, per quanto riguarda le gallerie, sono i galleristi strategici, che, avendo un’ottica di medio-lungo periodo (al contrario di quelli speculativi) e conoscendo bene le leve del marketing (al contrario di quelli appassionati), a riuscire ad avere maggiori probabilità di scalare le vette del mondo dell’arte[17].
L’intervento pubblico
Le accurate campagne di marketing delle gallerie e degli artisti di punta permettono a questi di ottenere enormi margini e profitti, ai danni dei loro fratelli minori che, seppur meritevoli, rimangono esclusi dalle risorse economiche messe a disposizione dal mercato. Di fronte ad un fenomeno che ha l’effetto perverso di obnubilare al pubblico gran parte della sperimentazione artistica in atto, facendo invece brillare poche stelle (che con ogni probabilità si riveleranno essere comete), urge un intervento riparatore da parte delle istituzioni pubbliche.
Un intervento pubblico dovrà andare in direzione di rendere evidenti i meriti degli artisti esclusi dal mercato attraverso l’attività di screening da parte di critici e curatori indipendenti, legati ad realtà istituzionali no profit, che svolgano la loro attività proprio in direzione di segnalare i casi di artisti di valore che non trovano visibilità.
Inoltre dovrebbe essere incentivata, attraverso l’erogazione di fondi pubblici, l’istituzione di organizzazioni che si occupano di promuovere esclusivamente l’attività di questi artisti attraverso l’organizzazione di mostre e premi indipendenti[18]. Gli stessi musei, compresi i maggiori, dovrebbero essere obbligati a dedicare parte della loro attività espositiva ad artisti senza galleria, con il vincolo, da inserirsi a livello statutario, che una certa percentuale della loro collezione permanente fosse composta dai lavori di questi ultimi, alla stessa stregua delle cosiddette “quote rosa”, che cercano anch’esse di garantire, seppur in altro ambito, il principio delle pari opportunità.
Infine è auspicabile un sostegno pubblico nella direzione di fornire, utilizzando il canale web, degli art hub che siano in grado di mostrare le offerte più interessanti dell’arte alternativa e che riescano ad operare un crowdfunding (cioè il finanziamento dal basso di progetti artistici di valore da parte di privati in cambio di un qualche riconoscimento del sostegno dell’opera).
Conclusioni
E’ possibile quindi evincere che allo stato attuale il sistema dell’arte è fortemente gerarchizzato, poco permeabile alla qualità artistica, e che al suo interno i meccanismi di selezione e di remunerazione di artisti e gallerie (almeno da un punto di vista culturale, non manageriale) non si basano su criteri strettamente meritocratici. La conseguenza è che gran parte del surplus del sistema, e cioè della profittabilità che incentiva gli artisti a produrre e le gallerie a promuovere i loro lavori, diventi appannaggio di pochi privilegiati, per cui chi sta in alto nella piramide guadagna da solo tanto quanto buona parte di coloro che ne sono in basso, togliendo così a questi i mezzi di sostentamento per la loro produzione[19].
I diversi modelli comportamentali di artisti e gallerie sottopongono purtroppo il sistema dell’arte a una selezione naturale di stampo darwiniano, dove solo i più forti sopravvivono e i più deboli sono destinati a soccombere. Questo fenomeno di selezione è inoltre rinforzato da un meccanismo emulativo-adattivo del genere lamarquiano: poiché nelle diverse fasi storiche esistono modelli comportamentali più di successo rispetto ad altri, è più probabile che artisti e gallerie tendano a seguirli al fine di colmare il gap competitivo. L’inevitabile dell’instaurarsi di questi meccanismi non è però tanto nei termini di una perdita di profitto sul mercato (la domanda infatti, come si avrà modo di vedere, risulta essere poco elastica alla qualità delle opere offerte), ma quella di abbassare (con danno per la collettività) la qualità media dell’offerta culturale.
Che misure si possono prendere allora per ovviare al problema della selezione avversa degli artisti? Purtroppo non esiste la possibilità di istituire una corsia preferenziale (cioè un percorso di carriera diverso) per quegli artisti che abbiano come obbiettivi primari l’autenticità, l’originalità e la ricerca artistica. L’unica soluzione indiretta è rappresentata dalla creazione (grazie ad un intervento pubblico) di canali alternativi attraverso questi artisti, nel caso fossero esclusi dal sistema, possano comunque avere delle chance di venire apprezzati da un pubblico più o meno vasto e venire segnalati alle gallerie. Tutto ciò tuttavia non avrà effetti rilevanti se non inserito all’interno di un pacchetto più ampio di interventi mirati a revisionare il sistema dell’arte nel suo complesso, nella direzione di una maggior efficienza e un minor intreccio di interessi all’interno del mercato.
Note
[1] Santagata W. (2005), Beni d’arte, modelli di scambio, istituzioni di mercato, in Santagata W. (a cura di) (2005), Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte e della cultura, Torino, Utet, pp. 15-42.
[2] Cfr Guenzi M. (2014), “Il sistema dell’arte”, Economia e diritto, n. 3-6.
[3] Se si escludono meccanismi di ricompensa, marginali rispetto all’ammontare totale dei capital gain, come il Diritto di Seguito.
[4] Sacco P. (2005), “La selezione dei giovani artisti nei mercati delle arti visive”, in Santagata W. (a cura di) (2005), Economia dell’arte. Istituzioni e mercati dell’arte e della cultura, Torino, Utet, pp. 42-75.
[5] Cfr. Guenzi M. (2014), “Anomalie del mercato dell’arte contemporanea /1: le asimmetrie informative nella contrattazione di opere d’arte”, Economia e Diritto, no. 10.
[6] Sacco P. (2005), Op. Cit..
[7] Gli artisti sensazionalistici trovano come capostipite la figura di Andy Wharol, che fu il primo ad utilizzare lo strumento dei mass media per dar eco delle sue gesta, e, come precursori, artisti eccentrici come Dalì: “[Nel 1941] Dalì faceva fatica a sopravvivere. Cercava chi gli commissionasse ritratti, ma con scarsi risultati. Mio padre [Wildestein, mercante d’arte a Parigi e New York] un giorno lo convocò e disse: «Così non puoi più andare avanti. Bisogna che tu faccia un numero, che ti metta veramente in evidenza. Inventa qualcosa che faccia scalpore!» Così una sera, invitato dai Whitney – grandi collezionisti che facevano parte dell’ambiente più snob d’America – si presentò a casa loro in pigiama, portando una capra al guinzaglio, dopo aver mandato in frantumi una vetrina di Tiffany con una grossa pietra. Ecco il colpo che aveva escogitato. E funzionò.” Da Wildestein D. – Stavridès Y. (2001), Merchands d’art, Artema, Torino, p. 72, cfr. Candela G. – Scorcu A. (2012), Economia delle arti, Zanichelli, Bologna. Si cita inoltre come esempio di strategia di comunicazione moderna l’esempio di Maurizio Cattelan che ad esempio nel 2004 appese nei giardini di Porta Ticinese di Milano delle riproduzioni di bambini impiccati (subito rimossi) o nel 2010 (sempre a Milano) espose, questa volta con il benestare del Comune, un dito medio di dimensioni monumentali innalzato davanti alla sede della Borsa.
[8] Ad esempio gli artisti della Young British Generation (YBG), che hanno ormai acquisito un successo internazionale (tra cui ricordiamo, per fare un nome, Damien Hirst), hanno tutti frequentato il Goldsmith College di Londra negli anni ottanta e sono stati lanciati insieme. Thornton S. (2008), Il giro del mondo dell’arte in sette giorni, Feltrinelli, Milano.
[9] Rosen (1981), “The Economics of Superstars”, American Economic Review, Vol. 71, pp. 845-858.
[10] Adler (1985), “Stardom and Talent”, American Economic Review, Vol. 75, pp. 208-212.
[11] Santagata (2005), Op. Cit., p. 37. Si tenga conto che tra artista e galleria il rapporto di rappresentanza raramente assume la forma di una contrattazione scritta. Molto più spesso esso risulta da un accordo orale tra le parti, che può essere facilmente rescisso qualora venisse meno la comunanza di interessi su cui esso si basa (Candela G. – Scorcu A. (2012), Op. Cit.).
[12] Gli elementi più discriminatori come indicatori di qualità delle opere sono il prezzo e le selling-out situation (cioè l’accadimento di eventi che potrebbero influenzarne l’andamento nel futuro). Purtroppo, come meglio si vedrà nel prossimo articolo, il prezzo effettivo di vendita delle opere non viene rivelato dalle gallerie. Il prezzo quindi che viene dichiarato, cioè quello di offerta, è solo indicativo nel processo di contrattazione con il collezionista; esso quindi può essere deliberatamente tenuto alto per dimostrare l’alto valore dell’opera. Allo stesso modo le selling-out situation, come si è visto in precedenza, sono facilmente pilotabili dalle gallerie (tanto più quanto è maggiore la loro influenza nel mondo dell’arte) e quindi neppure sono effettivamente significative del valore dell’artista. Last but not least, lo stesso gusto del grande pubblico risulta, come pure avviene nel mondo della moda, fortemente influenzabile “dall’alto” in direzione quindi della produzione che si ritiene essere “più conveniente”: le manovre di lancio e di sostegno di nuovi correnti artistiche (trattasi al giorno d’oggi vere e proprie campagne di marketing) vengono camuffate dalle gallerie come qualcosa che trae origine dal merito artistico e attuato per mano di importanti critici che, proclamatisi indipendenti (e invece prezzolati dalle gallerie), creano ad hoc “forti giustificazioni culturali” in sostegno di questo o quel movimento.
[13] Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton University Press, Princeton.
[14] Si può dire che il mercato, come meglio si avrà occasione di vedere, tende a privilegiare, attraverso l’evoluzione del gusto, gli artisti d’avanguardia nei brevi momenti di scoppio delle bolle speculative, per poi progressivamente dirigersi verso quelli di mercato e infine verso quelli sensazionalistici per tutta la durata della sua fase di crescita.
[15] Secondo Cellini e Cuccia il mercato ha bisogno oltre che degli artisti d’avanguardia (innovativi) anche degli artisti di mercato (ripetitivi) poiché questi, essendo più remunerativi, attraggono gli investimenti privati. In questo senso, se gli artisti d’avanguardia fossero troppo numerosi, urgerebbe un intervento pubblico a sostegno del settore. Inoltre poiché l’investimento in arte dipende dal livello dei rendimenti degli investimenti alternativi è più probabile che in periodi floridi ci si trovi in presenza di un “consolidamento del gusto”, mentre in periodi recessivi ci sia spazio per emergere per le avanguardie, sostenute dalle politiche economiche dello Stato. (Cellini R., Cuccia T. (2003), “Incomplete Information and Experimentation in the Arts: A Game Theory Approach”, Economia Politica, Il Mulino, Bologna, No.1 p. 21-34).
[16] Così come fece l’artista Damien Hirst nel 2008 quando vendette per mezzo di Sotheby’s direttamente al pubblico le sue opere, riuscendo a piazzare (a detta dell’artista) 223 lavori per un controvalore di 111 milioni di sterline inglesi. Lewis B. (2009), The Great Contemporary Art Bubble, BBC (DVD), Londra.
[17] I galleristi appassionati invece legheranno le loro possibilità di successo (oltre al loro capitale relazionale) alla capacità di scoprire nuove tendenze e nuovi talenti, mentre quelli speculativi si affideranno soprattutto alla loro capacità di vendere e comprare le opere ai prezzi per loro più vantaggiosi.
[18] Si pensi ad esempio in campo musicale la rilevanza di manifestazioni come i talent show, che utilizzando (associata al merito) la logica della notorietà per lanciare gli artisti, hanno cambiato le regole attraverso cui i cantanti possono emergere.
[19] L’artista e scrittrice Rosler (Rosler M. (1997), “Money, Power, Contemporary Art”, Art Bulletin, No. 79) vede il mondo dell’arte, in analogia con la teoria informatica delle reti (sociali), come un insieme di cerchi concentrici concatenati che rappresentano il sistema di relazioni che si vengono a creare al suo interno: alcuni cerchi, veri e propri nodi vitali del sistema, sono centrali e per questo più importanti; altri sono più periferici e quindi marginali. Per una classifica dei personaggi più influenti del mondo dell’arte si veda la Power 100 di Art Review: http://www.artreview100.com. Per gli artisti più affermati si veda invece la classifica di kunstkompass della rivista tedesca Capital.
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(di Marco Guenzi)
Nello scorso articolo si sono analizzati i diversi fattori di inefficienza del mercato dell’arte contemporanea da un punto di vista paretiano o allocativo. Si è visto che su tale mercato fattori distorcenti, come la presenza di asimmetrie informative, esternalità positive, beni pubblici, di forme di mercato non concorrenziali, impediscono sia che la produzione artistica risponda in termini qualitativi ai bisogni culturali della collettività sia che essa sia allocata ed esposta in modo tale da massimizzare i benefici dei collezionisti e del pubblico più in generale.
Secondo l’approccio finora seguito si sono considerate le opere d’arte alla stregua di semplici beni di consumo, ma in realtà esse risultano essere nello stesso tempo anche beni di investimento. In questo articolo quindi si andrà ad analizzare il concetto di efficienza con un occhio diverso, quello relativo ai mercati degli investimenti.
L’efficienza valutativa
Un importante fattore perché un mercato degli investimenti risulti essere costantemente in equilibrio è che il prezzo rifletta in ogni istante il vero valore intrinseco del bene scambiato. Tale condizione è detta efficienza valutativa. Se si pensa che per allocare in modo ottimale le risorse nel processo di scambio è necessario che il prezzo rifletta il vero valore del bene scambiato sul mercato, è possibile concludere che l’efficienza valutativa risulta essere un presupposto per l’efficienza allocativa.
L’efficienza valutativa è naturalmente un ottimo teorico, difficilmente raggiungibile in realtà, in quanto ha come presupposti che gli operatori siano perfettamente razionali, che questi ultimi siano in possesso in ogni istante di tutte le informazioni necessarie per determinare il valore del bene scambiato (efficienza informativa) e che i mercati funzionino nel migliore dei modi (efficienza operativa).
Più in particolare secondo la teoria finanziaria[1] il valore intrinseco di un titolo (o più in generale di un’azienda o di un asset) è pari al valore attuale netto (VAN o NPV, Net Present Value) di tutti i flussi futuri in entrata e in uscita, scontato ad un tasso che rappresenta il costo opportunità del capitale per l’investitore.
Nell’ipotesi di un mercato efficiente dal punto di vista valutativo, un’opera d’arte dovrebbe quindi avere un prezzo pari alla somma attualizzata della differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto (cioè il capital gain) meno i costi gestionali annessi al bene (deterioramento, custodia, trasporto, ecc..) più il cosiddetto flusso di “dividendo estetico” (cioè l’utilità goduta per il possesso del bene espressa in termini monetari). Se si considera che la rivalutazione dell’opera d’arte dipende dall’andamento della fama dell’artista, che i costi gestionali sono in genere proporzionali al valore della stessa, e che il dividendo estetico è tanto più alto tanto maggiore è la sua qualità artistica, in ultima analisi il valore di un opera viene a dipendere secondo il principio di efficienza valutativa dalla sua importanza culturale nel corso del tempo.
L’ottenimento di un’efficienza valutativa risulta tuttavia ostacolata da tutta una serie di fattori:
1) L’opera d’arte in sé è un bene unico, che dipende solo parzialmente dalle quotazioni dell’artista. Vi sono infatti opere d’arte fortemente significative per il loro valore storico e altre decisamente marginali, i cui valori si discostano notevolmente.
2) I compratori non sono per niente razionali nelle loro scelte. Come si è visto alcuni collezionisti hanno come finalità il collezionismo in sé, cioè il possesso di oggetti del medesimo tipo; altri prediligono una soddisfazione del proprio gusto personale; altri ancora acquistano opere da mostrare come status symbol; infine alcuni sono mossi dalla mera ottica dell’investimento.
3) Il valore dell’opera d’arte in genere non dipende direttamente dai costi di produzione o dal tempo di esecuzione. Ciò rende ancor più difficile determinare il valore di un opera d’arte, al pari di altre applicazioni dell’ingegno e dell’intelletto.
4) Il valore del “dividendo estetico” di cui un collezionista gode è fortemente soggettivo e di ardua determinazione in termini monetari. Il dividendo estetico fa capo naturalmente all’apprezzamento personale del collezionista o del pubblico nel caso di musei, collezioni private o prestiti a musei.
5) L’informazione per la determinazione del valore culturale di un’opera è fortemente carente sul mercato. A causa della presenza di un sistema dell’arte che impone il suo metro di giudizio ad un pubblico, spesso secondo finalità diverse da quella culturale, è difficile per l’acquirente destreggiarsi nei meandri dell’arte contemporanea.
6) I mercati su cui viene scambiato il bene risultano essere illiquidi e inefficienti da un punto di vista operativo. A causa della carenza di informazione sul mercato, i collezionisti, nel caso volessero vendere un’opera, non possono essere sicuri di trovare una controparte disposta a corrispondere un equo prezzo. Ne consegue una maggiore aleatorietà del valore delle opere (specie quelle di artisti minori) sul mercato.
7) I meccanismi per la determinazione dei prezzi seguono standard diversi a seconda essi vengano intermediati da gallerie o case d’asta. Come meglio si vedrà, le gallerie tendono a giustificare i prezzi di vendita con degli “script”, cioè un insieme di regole informali che fanno da riferimento per le quotazioni, mentre le case d’asta fissano i prezzi di partenza sulla base di segnali della loro qualità, ma poi essi vengono determinati dalla domanda.
Alla luce di tali considerazioni è importante sia che il mercato funzioni nel migliore dei modi, cioè riesca a mettere insieme domanda e offerta (efficienza operativa), sia che l’informazione su questo presente sia inglobata nei prezzi di vendita (efficienza informativa).
L’efficienza operativa
L’obbiettivo di efficienza valutativa può essere raggiunto solo in presenza di un mercato che funzioni nel migliore dei modi, ovvero che sia efficiente da un punto di vista operativo; sappia cioè mettere assieme domanda e offerta (matching), a costi minimi e con il miglior risultato.
La minimizzazione dei costi del mercato si ottiene soltanto attraverso un sua efficiente organizzazione. In tal senso bisogna considerare che l’opera d’arte è un bene unico e quindi difficilmente descrivibile e per la maggioranza dei casi veramente apprezzabile solo di prima persona. Inoltre, come si è detto sopra, il valore culturale dell’opera, cui il prezzo dovrebbe fare riferimento, è di difficile determinazione. Infine esiste una soglia minima di ingresso per l’investimento in arte contemporanea che è spesso cospicua, soprattutto per gli acquisti di opere d’arte di artisti affermati. Tali fattori complicano molto il funzionamento del mercato, tantoché sono sorte numerose figure di intermediari che nel loro complesso hanno costituito un vero e proprio “sistema”[2].
La massimizzazione del risultato si ottiene per via della competenza degli intermediari presenti sul mercato. In tale ottica si possono individuare alcuni utili interventi:
a) Da una parte è auspicabile un abbassamento dei costi di transazione attraverso una struttura più competitiva del mercato degli intermediari, tale da premiare coloro che offrono servizi migliori a prezzi più competitivi. Ciò è possibile soltanto attraverso una normativa anti-trust che punisca posizioni dominanti e l’istituzione di barriere istituzionali (chinese walls), in modo da limitare la strutturazione per caste e sanare i conflitti di interessi interni al sistema dell’arte.
b) Dall’altra è fondamentale l’introduzione di nuove tecnologie informatiche che facilitino l’incontro tra domanda e offerta. In tal senso è fortemente auspicabile lo sviluppo di Internet Art Hub, che possano dare all’acquirente tutta l’informazione necessaria per allargare da una parte i propri orizzonti in termini di artisti considerati, per restringere dall’altra il campo delle proprie scelte sulla base di criteri selezionati da questi.
c) Poi è auspicabile, affinché il mercato acquisti maggiore liquidità (nelle sue dimensioni di ampiezza e spessore della domanda), che nuove forme di investitori, come ad esempio i fondi di investimento in arte contemporanea[3], siano regolamentate, nonché, come si vedrà nel prossimo paragrafo, il mercato abbia una efficienza informativa in modo da attirare nuovi capitali ed investitori.
d) Infine è interessante valutare gli effetti di un’eventuale introduzione nel nostro ordinamento di una nuova forma giuridica in tema di comproprietà applicata all’arte, sul modello della multiproprietà azionaria, che potrebbe togliere ridurre di molto la soglia di ingresso degli investimenti in opere d’arte, oltre a, come meglio si vedrà, risolvere alla base il problema dell’azzardo morale dovuto ai conflitti di interesse[4].
L’efficienza informativa
Un altro fattore importante per l’ottenimento dell’efficienza valutativa, e in ultima analisi allocativa, è costituito dal fatto che il prezzo di mercato di un’attività finanziaria rifletta in misura più o meno completa l’informazione disponibile. Quando tale condizione risulta vera un mercato è detto efficiente da un punto di vista informativo.
Mentre quindi secondo il principio di efficienza valutativa il prezzo deve riflettere il valore del bene, secondo il principio di efficienza informativa esso deve riflettere solo l’informazione disponibile sul mercato. Da questo punto di vista l’efficienza informativa risulta essere meno restrittiva dell’efficienza valutativa, o meglio una condizio sine qua non perché quest’ultima si manifesti.
Il concetto di efficienza informativa dei mercati finanziari è stato introdotto da Fama (1970) in un suo famoso scritto[5]. Secondo Fama è possibile distinguere in tal senso tre tipi di efficienza:
a) Debole: i prezzi osservati sul mercato riflettono tutta l’informazione contenuta nella serie storica dei prezzi stessi. In tal senso, comprando opere d’arte sulla semplice base dell’andamento delle quotazioni di mercato, non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media, poiché essi seguono un andamento casuale (random walk).
b) Semi-forte: i prezzi di mercato riflettono non solo l’informazione contenuta nella serie storica dei prezzi, ma anche qualunque altra informazione pubblica. In tal senso, comprando opere d’arte sulla semplice base dell’andamento delle quotazioni di mercato e dell’informazione pubblica (e cioè disponibile su quotidiani, riviste e Internet), non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media.
c) Forte: i prezzi di mercato riflettono, oltre all’informazione dei punti a e b, qualunque informazione privata. In tal senso, comprando opere d’arte considerando tutta l’informazione presente sul mercato (compresa quella privata di appannaggio dei singoli operatori, come ad esempio la futura organizzazione di mostre presso qualche importante museo o la prossima selezione in qualche Biennale), non è possibile mediamente avere un rendimento superiore alla media.
Poiché il prezzo stabilito sul mercato riflette tutte le informazioni ivi presenti, il concetto di efficienza informativa risulta essere interessante in quanto, in ipotesi di aspettative razionali degli operatori, diviene un indicatore dell’impossibilità di una speculazione da parte degli investitori.
Uno studio del 2013 di David, Oosterlinck e Szafarz[6], nel quale vengono analizzati più di un milione di opere bandite all’asta nel periodo 1957-2007, ha messo in evidenza che sul mercato delle opere vendute all’asta non vi è neppure un’efficienza informativa in senso debole dei prezzi. L’alto tasso di autocorrelazione positiva tra i prezzi fa presumere che su questo mercato siano presenti forti possibilità di speculazione. Gli autori cercano di spiegare la questione non in base a fattori di ordine psicologico (teorizzati invece da Frey e Eichenberger[7]), ma piuttosto con il fatto che, quando il prezzo bandito non supera quello di riserva, la transazione non avviene e quindi non vi è traccia nel database. Ciò è confermato dal fatto che, nell’ipotesi che il mercato delle opere battute all’asta fosse efficiente dal punto di vista informativo, non ci sarebbe alcun bisogno di fissare un prezzo di riserva in quanto il prezzo di equilibrio esprimerebbe in quel momento il vero valore del bene. Purtroppo questa ipotesi è confutata dalla realtà dei fatti. Inoltre, poiché secondo il citato studio i prezzi battuti all’asta risultano essere sensibilmente più alti di quelli di equilibrio, e nello stesso tempo poiché i primi vengono ad assumere un valore indicativo per tutte le altre contrattazioni private gestite dai mercanti d’arte e dalle case d’asta stesse, è possibile dedurre che nel loro complesso le quotazioni relative agli artisti battuti all’asta siano in genere sopravvalutate.
Ma cosa è possibile fare per intervenire nel senso di una maggiore efficienza informativa?
Si ritiene che una prima importante misura sia la regolamentazione dell’insider trading e dei conflitti di interesse, come da decenni avvenuto nei mercati finanziari. Al momento attuale, infatti, mentre nei mercati finanziari l’insider trading costituisce reato, nel caso del mercato dell’arte contemporanea si può dire che esso costituisca la prassi. Parallelamente mentre nei mercati finanziari sono stati istituiti, più o meno efficacemente, contro l’insorgere di conflitti di interesse e il rischio di comportamenti opportunistici (moral hazard) e quindi a tutela degli investitori, i cosiddetti “chinese walls”, cioè una separazione sostanziale tra funzioni di dealing e di consulenza, nel sistema dell’arte, come si è avuto occasione di vedere, è norma che non vi sia alcuna linea di demarcazione tra i diversi ruoli.
Una seconda misura che si ritiene fondamentale per far sì che il mercato dell’arte contemporanea diventi più efficiente da un punto di vista informativo, e che quindi sia in grado di attirare in maniera considerevole maggiori capitali, sottraendoli ad altri mercati di beni copertura (hedge) come ad esempio l’oro, è l’ufficialità di tutti i prezzi di vendita, siano essi battuti all’asta, intermediati da un mercante o da una galleria, o fonte di una transazione diretta tra artista e collezionista.
In tal senso è auspicabile l’istituzione (prima a livello nazionale e poi internazionale) di un registro di pubblica consultazione dove siano iscritti e consultabili tutti i dati delle transazioni avvenute. In esso potrebbero figurare ad esempio l’artista, l’opera venduta, l’immagine dell’opera, la data e l’importo della transazione, mentre verrebbero mantenuti riservati per ragioni di privacy i soggetti che effettuano la transazione. Ciò determinerebbe che tutto il novero degli artisti nel suo complesso, e non solo i pochi battuti all’asta, avesse una quotazione e quindi una maggiore liquidità sul mercato[8].
Per fare sì che tale misura non possa venire elusa urge tuttavia mettere un malus fiscale per chi non dovesse dichiarare l’acquisto. Se ad esempio si introducesse accanto all’IVA e in sostituzione del Diritto di seguito un’imposta sul valore culturale (IVAC) che assumesse, all’atto del primo acquisto, una valenza di imposta sul consumo a carico dell’acquirente; e successivamente, all’atto della seconda e delle successive vendite, di una tassazione sui capital gain a carico del venditore, verrebbe a mancare l’interesse del compratore a non dichiarare la transazione[9].
Il suddetto registro, oltre a consentire una migliore difesa del diritto d’autore, andrebbe inoltre nella direzione di avere una tracciabilità della storia di tutte le opere d’arte, fungendo da censimento e nello stesso tempo da certificazione dell’autenticità, fattore sempre più critico in presenza di nuove tecnologie riproduttive che fanno altresì venir meno il confine tra originale e copia.
Conclusioni
In questo articolo si è messo in evidenza come, da un punto di vista dell’investimento, il mercato dell’arte risulti fortemente inefficiente, sia da un punto di vista valutativo che operativo e informativo. Le ragioni di tutto ciò risiedono sia nelle caratteristiche intrinseche del bene arte, unico e difficilmente valutabile; sia nella struttura del mercato, poco concorrenziale e caratterizzato da conflitti di interesse e insider trading; sia dalla riservatezza dei prezzi attuati dalle gallerie da una parte e dall’omissione delle contrattazioni battute all’asta che non raggiungono il prezzo di riserva dall’altra. Tutti questi fattori risultano in ultima analisi penalizzare l’investimento in arte, rendendolo particolarmente illiquido e rischioso per i non addetti ai lavori. In quest’ottica ci si augura un intervento del legislatore nella direzione di sanare le cause di inefficienza con interventi mirati quali ad esempio la creazione di chinese walls nel sistema arte, la penalizzazione dell’insider trading, l’istituzione di un registro di tutte le compravendite che renda ufficiali i prezzi delle transazioni (accompagnato da un meccanismo fiscale che ne incentivi la dichiarazione), una normativa anti-trust per favorire la concorrenza degli intermediari, la formazione di nuove figure di investitori quali i fondi di investimento in arte contemporanea e la normazione della comproprietà artistica.
Tutti questi interventi, se a prima vista possono sembrare penalizzanti per coloro che godono di privilegi acquisiti all’interno del sistema, in realtà possono portare ad aprire il mercato verso un numero sempre più considerevole di investitori, portando nuovi capitali e in ultima istanza dando impulso ad un crescente sviluppo dell’arte contemporanea e della cultura nella nostra società.
[1] Guatri L., Bini M. (2007), La valutazione delle aziende, EGEA, Milano.
[2] Guenzi M. (2014), La struttura del sistema dell’arte contemporanea, Economia e Diritto, n. 3-6.
[3] I fondi di investimento in arte non sono ancora presenti nel nostro paese, ad eccezione del “Pinacotheca” di Vegagest autorizzato da Banca d’Italia, che non investe tuttavia in arte contemporanea.
[4] La multiproprietà artistica sarebbe, mutatis mutandis, paragonabile alla partecipazione al capitale di rischio di un’impresa da parte dei collezionisti, che fungerebbero da investitori, guidata dalla galleria o dal critico alla stregua di un venture capitalist. D’altra parte anche gli artisti stessi potrebbero usufruirne, in modo da finanziarsi secondo una forma più moderna di“mecenatismo”. L’introduzione di questa nuova forma giuridica va nella direzione di avvicinare all’arte contemporanea nuovi investitori, prima timorosi nei confronti di questo mondo, incrementando il livello degli investimenti e la liquidità del mercato.
[5] Fama E.F. (1970), “Efficient Capital Markets: a review of theory and empirical work”, Journal of Finance, Vol. 25 n. 2 pp. 383-417.
[6] David G. – Oosterlinck K. – Szafarz A. (2013), “Art Market Inefficiency”, Economic Letters, n. 121, pp. 23-25.
[7] Frey B.S. – Eichenberger R. (1995), “On the rate of return in the art market. Survey and evaluation”, European Economic Review, Vol. 83 n. 5 pp. 528-537.
[8] L’effetto è simile a quello di una società che si quota in borsa: le proprie azioni hanno una quotazione ufficiale e divengono immediatamente più liquide.
[9] Guenzi M. (2013), Il mercato dell’arte contemporanea: politiche economiche, fiscali e diritto di seguito, in G. Negri-Clementi – S. Stabile(a cura di), Il diritto dell’arte, La circolazione delle opere d’arte, Ginevra-Milano, Skira.
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(di Alessio Rombolotti)
L’Ipotesi dei Mercati Efficienti è sempre un caposaldo della teoria economica nonostante i paradossi e l’evidenza della realtà, secondo questa ipotesi siamo tutti esseri razionali e il Mercato si esprime con scelte razionali. Per l’Economia Comportamentale invece l’uomo non è un soggetto razionale e il Mercato soffre diverse distorsioni che si riflettono sulle proprie scelte. Ma possiamo sostenere che l’uomo sia completamente razionale o completamente irrazionale ?
Il costante risultato di un test sul nostro comportamento rispetto al rischio è il seguente: quando abbiamo davanti a noi diverse alternative di guadagno siamo portati a scegliere le opzioni con minor rischio e minor guadagno, ma quando ci si presentano delle opzioni di perdita, invece di essere coerenti siamo portati a scegliere le opzioni con maggior rischio. Questa è un’asimmetria reale, si chiama avversione al rischio, che contrasta con la teoria dei mercati efficienti e dell’utilità. Qual è la ragione di questo comportamento ? Stupidità ? In realtà c’è una spiegazione razionale e riguarda qualcosa insito profondamente dentro di noi.
Vediamo un altro test: avete davanti a voi un’urna con 50 palle rosse e 50 nere, dichiarate uno dei due colori ed estraete una palla, se è del colore dichiarato vincete 10,000 Euro. Poi vediamo un’altra urna, con 100 palle, rosse o nere, potrebbero essere tutte rosse, tutte nere o qualsiasi numero, ma sicuramente sono 100 e sicuramente sono rosse o nere. Dichiarate uno dei due colori ed estraete una palla, se è del colore dichiarato vincete 10,000 Euro. Quanto siete disposti a pagare per giocare con la prima urna ? Quanto siete disposti a pagare per giocare con la seconda urna ?
Immancabilmente, la maggior parte delle persone a cui viene posto il quesito sarà disposta a pagare molto di più per giocare con la prima urna, eppure la vincita attesa, o se volete la probabilità di vincita, è la stessa per entrambe le urne. Perché allora siamo disposti a pagare molto di più per giocare con la prima urna ? Quando fate questa domanda alle persone che hanno partecipato al test la risposta è molto semplice: “perché non sò quante palle rosse e quante palle nere sono contenute nell’urna”. Nel caso della prima urna abbiamo a che fare col “rischio” di non vincere, nel caso della seconda urna abbiamo a che fare con “l’incertezza” sull’entità del rischio. nei processi decisionali “rischio” e “incertezza” sono concetti diversi. Quando abbiamo incertezze sui rischi che affrontiamo siamo portati a ritirarci dal gioco, questo è il comportamento insito dentro noi stessi ed è un comportamento assolutamente intuitivo dal punto di vista evolutivo della specie. Questo comportamento spiega come mai assets che hanno un mercato, anche molto liquido, nel giro di pochi giorni diventano completamente illiquidi, il pubblico che non conosce i rischi ai quali tali assets sono esposti si ritira.
Quello che abbiamo chiamato “incertezza” è il rischio di un rischio, un meta-rischio, questo suggerisce l’esistenza di strati di rischio, per esempio sulla prima urna agisce il rischio di primo livello mentre sulla seconda urna agisce un rischio condizionato, un rischio di secondo livello e potremmo andare avanti.
L’economista Frank H. Knight[1] fu il primo ad indagare la differenza fra “rischio” e “incertezza” nei comportamenti economici. Secondo Knight esiste il rischio calcolabile e il rischio non calcolabile, come dire un rischio per il quale sia possibile comprare una polizza assicurativa e un rischio per il quale non troverete nessuno disposto ad assicurarvi. Knigth cercava di giustificare la creazione di grandi ricchezze ma non riusciva a offrire una risposta appropriata secondo la teaoria economica. Ragionando sulle diverse tipologie di rischio propose una possibile spiegazione: noi non siamo remunerati con grandi somme di denaro per assumerci un rischio quantificabile, per esempio con poche domande siamo in grado di prevedere quando morirà una persona con una precisione decisamente inquietante, ma piuttosto le grandi ricchezze sono la remunerazione per chi si assume un rischio non quantificabile, un rischio di livello superiore.
Quando sottoposte a specifici test, le persone, anche quelle che conoscono il calcolo probabilistico, mostrano un comportamento di questo tipo: assegnano una probabilità del 50% all’accadimento di un particolare evento e una probabilità del 75% al non-accadimento dello stesso evento[2]. Il punto è che le nostre facoltà cognitive non sono immediatamente adatte a gestire le probabilità e questo rende possibile la formazione di situazioni di arbitraggio[3] (vi sono numerosi esempi reali nei titoli a reddito fisso). Per fortuna impariamo dagli errori e dopo alcune esperienze negative siamo portati a cambiare le nostre credenze probabilistiche, assegnando le probabilità in modo tale che la loro somma sia 1, e le condizioni che avevano reso possibile un arbitraggio cesseranno di esistere. Per quanto irrazionale l’uomo riesce quindi a porre un limite alla propria irrazionalità[4], in altre parole il mercato è capace di essere razionale. La domanda che sorge naturale è quanto sia grande la capacità del mercato di diventare razionale, di correggere ed eliminare le condizioni che rendono possibile il profitto senza l’assunzione di rischio, naturalmente alle spese di qualcuno che si assume inconsapevolmente una perdita certa, a giudicare dalla coda della crisi del 2008 tale capacità non è così grande ed è il caso di ricordare le parole di Keynes: “il mercato può restare irrazionale molto più a lungo di quanto noi possiamo rimanere solvibili”.
Note
[1] Frank H. Knight, Risk Uncertainty and Profit, 1964.
[2] Questo test viene condotto in una stanza semi-buia in cui si pongono una serie di domande le cui risposte implicano l’assegnazione di una probabilità all’accadimento e al non-accadimento di un evento.
[3] Un arbitraggio è un reddito guadagnabile senza rischio.
[4] Vedi Andrew W. Lo, The Adaptive Market Hypothesis, 2004.
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di Marco Guenzi
Nel primo articolo di questa rubrica, studiando le caratteristiche dell’arte in quanto bene di scambio, si è avuto modo di vedere come l’opera d’arte (visiva) si differenzi dalle altre forme artistiche per cui vige il diritto d’autore (come ad esempio la musica, la letteratura, il cinema, il teatro) per due sue proprietà intrinseche, e cioè per il fatto di essere: a) un bene unico (tranne nel caso di opere riproducibili come stampe, fotografia e video, che però hanno in genere un numero limitato di copie); b) un bene durevole (fanno eccezione le performance e talune installazioni)[1] e in quanto tale forma di investimento soggetta allo scambio non solo in un mercato primario, ma anche in uno secondario.
Proprio per queste sue caratteristiche di unicità e durevolezza l’opera d’arte, sempre restando in un ottica di tipo economico, può essere accostata ai beni immobiliari. Ma il parallelismo non si ferma qui. Sia l’arte che gli immobili posseggono una doppia natura: infatti, da una parte consistono in un bene di consumo (art service/housing service), fruibile da parte di chi ne fa uso (lo spettatore/l’inquilino); dall’altra possono essere considerati anche come forme di investimento, in quanto conservano un valore scambiabile sul mercato (art stock/housing stock) che fa capo alla proprietà del bene[2]. Art service e art stock non necessariamente devono far capo allo stesso soggetto: se i collezionisti detengono l’art stock e nello stesso tempo utilizzano l’art service per se stessi, i musei invece possono essere al limite visti come dei proprietari che “affittano” il bene arte agli spettatori.
Questo parallelismo diventa interessante se andiamo a paragonare le strutture dei due mercati. Un importante indice per valutare il grado di trasparenza e di efficienza di un mercato è rappresentato dal livello dei costi di transazione[3], quei costi cioè che sorgono nel far funzionare il mercato stesso, e che possiamo ricondurre, in gran parte, ai costi di mediazione[4].
Se si va ad esaminare in Italia il livello dei costi di transazione per un immobile, benché essi siano notevolmente più alti della media degli altri paesi OCSE[5], questi si aggirano per le spese di mediazione intorno al 6% del valore dell’immobile (3% a carico di ogni controparte), più i vari oneri notarili e imposte di registro, ipotecarie e catastali: generalmente il totale dei costi di transazione immobiliari non supera il 12% del valore della contrattazione. Nel mercato dell’arte invece, la quota del prezzo di compravendita pattuito spettante alla mediazione delle gallerie sul mercato primario non è raro che arrivi al 50%, e in alcune occasioni persino al 70%[6], mentre nel mercato secondario l’onorario delle case d’aste si attesta tra il 20 e il 35%[7]. Sulle transazioni sul mercato secondario inoltre grava a carico degli acquirenti anche il diritto di seguito (o droit de suite), un’applicazione del diritto d’autore a favore degli artisti, con percentuali che vanno dallo 0,25 al 4% a seconda degli importi[8].
Se si fa un parallelo con l’altro grande mercato degli investimenti, quello finanziario, decisamente più trasparente ed efficiente poiché basato essenzialmente su tecnologie telematiche, lo scarto è ancora più forte: sul mercato azionario ad esempio per la mediazione di compravendita di un’azione la commissione in genere non supera sul mercato secondario lo 0,2% del valore della transazione. Nel computo dei costi di transazione per i titoli in valuta diversa (su FOREX, Foreign Exchange Market) si deve aggiungere il differenziale tra prezzi vendita (ask o lettera) e di acquisto (bid o denaro) praticati dagli intermediari, che può andare dallo 0,1% fino a importi decisamente più elevati (a seconda del broker, della valuta o del titolo). Il differenziale si applica anche per i titoli acquistati fuori dai mercati regolamentati (su OTC, Over The Counter Market), in sostituzione però delle commissioni di compravendita. Mediamente l’insieme complessivo dei costi di transazione per una compravendita azionaria è decisamente inferiore all’1%[9]. Sul mercato primario il livello di tali costi, che nella fattispecie corrispondono alle spese di quotazione di un titolo in borsa, è considerevolmente più alto, comprendendo l’onorario di un global coordinator, di un financial advisor, le spese legali, i costi di comunicazione e le imposte e i fee istituzionali. Esso comunque è per lo più compreso tra il 3,5 e il 7% del valore della quotazione[10]. Rispetto a tali dati non si discostano per ordine di grandezza quelli relativi ai titoli obbligazionari, ai fondi di investimento, e alle altre attività finanziarie[11].
L’alto livello dei costi di transazione è un fenomeno negativo per il mercato dell’arte contemporanea: esso oltre ad essere indice dell’inefficienza e della poca trasparenza del mercato, ha come diretta conseguenza quella di gravare sui ricavi degli artisti, erodendoli, e sui prezzi di vendita pagati dai collezionisti, aumentandoli[12]. Inoltre abbassa il numero di scambi tra le controparti, rendendo l’investimento in arte particolarmente illiquido e quindi, ceteris paribus, più rischioso e meno appetibile rispetto ad asset alternativi. Si rende quindi auspicabile un intervento pubblico che vada nella direzione di sanare questa situazione[13].
A cosa è dovuto allora un livello così elevato dei costi di intermediazione in rapporto agli altri mercati? In parte questo fenomeno forse può venire a dipendere dalle maggiori spese (in relazione al volume d’affari) delle gallerie e case d’aste rispetto ad agenti immobiliari e intermediari finanziari. Sicuramente infatti l’attività di mediazione sul mercato dell’arte risulta più complessa e più ampia, includendo competenze organizzative e culturali[14]. Tuttavia questa spiegazione da sola non risulta essere pienamente convincente: probabilmente la maggiore causa di tale livello dei costi di transazione risiede nella struttura intrinseca dei diversi mercati.
Continuando con il parallelo fra immobili e opere d’arte per quanto riguarda il loro aspetto di beni unici ed eterogenei, se si vanno a considerare le caratteristiche di un edificio che ne determinano il valore (al metro quadro), si trova in primo luogo la sua collocazione geografica (location). Per quanto riguarda un’opera d’arte la caratteristica che in primis ne determina il valore è sicuramente data dall’artista che l’ha eseguita[15].
Questo porta a differenti conseguenze: mentre la collocazione geografica è una caratteristica di facile identificazione da parte della domanda (il compratore sceglierà un immobile in base alle sue esigenze, ad esempio in modo da raggiungere facilmente il luogo di lavoro), la scelta di apprezzare un artista piuttosto che di un altro è oggi, nella maggioranza dei casi, una scelta intermediata dal “sistema dell’arte”.
E’ il “sistema dell’arte” (e con questo termine si intende principalmente l’attività di un piccolo gruppo di influenti gallerie, case d’aste, musei, curatori, critici, artisti, collezionisti e investitori) che determina la visibilità e il valore del lavoro di un artista sul mercato. Il mercato dell’arte risulta essere dunque “intermediato” (e quindi non trasparente), in quanto non vi vige propriamente la legge della domanda e dell’offerta, ma è pilotato nelle sue scelte dagli operatori professionisti che vi operano. Al contrario di campi come la letteratura, la musica, il teatro, il cinema, dove vige un principio “democratico” del successo, determinato dal giudizio diretto del pubblico, nel settore delle arti visive invece quest’ultimo è quasi ininfluente, evidentemente non ritenuto capace (o all’altezza) di capire gli sviluppi dell’arte contemporanea.
Su tale aspetto, e cioè sul fatto che sia giustificabile che un circoscritto numero di individui, seppur profondi conoscitori della materia (ma purtroppo anche con interessi sia di parte sia di casta), determinino le scelte e condizionino i gusti del pubblico, si può aprire un ampio dibattito, che però non si intende al momento affrontare in questa sede. E’ lecito però domandarsi: perché è nato e come funziona questo sistema? Come è connesso con l’altissimo livello dei costi di transazione e la scarsa trasparenza del mercato dell’arte? E quale è l’influenza che esso ha sull’andamento dei prezzi di un’opera? Di queste questioni ci si occuperà in dettaglio negli articoli a seguire.
[1] Nel caso delle performance e di installazioni temporanee non trasportabili (si pensi ai lavori di Christo), ciò che assume valore ed è scambiabile sul mercato non è l’opera d’arte in sé, ma tutto ciò che la rappresenta o ne è testimone (un disegno,una fotografia, un video, un oggetto o materiale utilizzato..).
[2] Per quanto riguarda i beni immobili cfr. Olsen, E.O. (1969), A competitive theory of the housing market, American Economic Review, Vol. 59, pp. 612–622.
[3] Williamson O.E. (1987), Le istituzioni economiche del capitalismo. Imprese, mercati, rapporti contrattuali, Milano, Franco Angeli.
[4] Più specificatamente i costi di transazione fanno riferimento alle attività di ricerca delle informazioni per la ricerca della controparte, di negoziazione della compravendita e della messa in atto della transazione da un punto di vista legale.
[5] OECD (2011), Housing and the Economy: Policies for Renovation, in Economic Policy Reforms 2011, Going for Growth, OECD Publishing, http://www.oecd.org/newsroom/46917384.pdf.
[6] Tra artista e gallerista è inevitabile vi sia un conflitto di interessi legato alla spartizione del valore dell’opera. La rilevanza delle commissioni di intermediazione in genere dipende dal potere contrattuale delle controparti. Gli artisti ai loro esordi in genere sono obbligati a sottostare alle condizioni imposte dalle gallerie, pur di trovare qualcuno che li rappresenti. Gli artisti di successo invece riescono a spuntare alle gallerie condizioni più favorevoli, che possono scendere in rari casi anche sotto il 30%. Diverso tuttavia è il caso in cui le gallerie si impegnino a comprare (senza mandato) all’artista l’opera ad un prezzo pattuito e la rivendano successivamente; oppure la circostanza in cui esse paghino una sorta di stipendio in cambio dell’attività produttiva dell’artista, fissata contrattualmente. In tal caso le gallerie si assumono per intero il rischio di vendita: non si tratta quindi di una commissione di mediazione (e quindi un costo di transazione), ma di un utile per attività di commercializzazione, che è normale sia di una certa consistenza.
[7] Nel caso delle case d’aste la commissione a carico dell’acquirente è pubblica e dipende dal valore del bene. In genere le commissioni d’acquisto (meglio chiamate premi) variano dal 10-15% (per importi molto consistenti) fino al 25% (per piccole cifre) (Thomson D. (2009), Lo Squalo Da 12 Milioni Di Dollari: La Bizzarra E Sorprendente Economia Dell’arte Contemporanea, Milano, Mondadori). Per un riferimento sulle commissioni d’asta dal 1975 al 2009 cfr. Horovitz N. (2011), Art of the Deal, Contemporary Art in a Global Financial Market, pp. 172-173, Princeton, Princeton University Press e O. Ashenfelter – K. Graddy (2011), Art Auctions, in R. Towse (a cura di), A handbook of Cultural Economics, Cheltenham, Edward Helgar. Le commissioni a carico del venditore invece sono contrattabili e si aggirano in genere intorno al 10% (sebbene questi dati non siano mai ufficiali). E’ da notare che nel caso delle gallerie il costo della mediazione è completamente a carico del venditore, mentre per le case d’aste esso grava maggiormente su chi compra.
[8] Cfr. Pirrelli M. – Barrilà S. (2011), Dove conviene comprare? Confronto del tax rate in 20 paesi del mondo, in ArtEconomy24, Plus24, supplemento de Il Sole 24Ore del 29 gennaio 2011.
[9] Secondo la transaction cost analysis, ITG (2013), ITG Peer analysis, Global cost review Q1/2013, ITG Publishing, http://www.itg.com/marketing/ITG_GlobalCostReview_Q12013_20130725.pdf
[10] C. Berretti – F. Di Massa – A. Farina – E. Orsini – E. Pellizzoni (2002), Attività, tempi e costi del processo di quotazione: un’analisi per il periodo 1999-2001, Borsa Italiana,
Fai clic per accedere a costiquot6027.pdf
[11] Cfr. www.borsaitaliana.it
[12] I costi di transazione vanno incidere sulla domanda e sull’offerta in misura diversa in base alla misura della loro elasticità rispetto al prezzo.
[13] Per una disamina di come abbassare i costi di transazione per mezzo di politiche economiche e fiscali cfr. M. Guenzi (2013), Il mercato dell’arte contemporanea: politiche economiche, fiscali e diritto di seguito, in G. Negri-Clementi – S. Stabile (a cura di), Il diritto dell’arte, La circolazione delle opere d’arte, Ginevra-Milano, Skira.
[14] E’ giusto che il contributo del gallerista sia remunerato se questo è volto alla valorizzazione dell’artista e delle sue opere, poiché egli investe in reputazione e quindi crea un valore aggiunto. Ciò giustifica i maggiori margini di mediazione delle gallerie rispetto alle case d’aste, nonostante queste abbiano comunque funzioni accessorie alla vendita quali la promozione dell’evento, il trasporto, lo stoccaggio e la consegna, la verifica dell’autenticità della provenienza delle opere nonché della solvibilità degli acquirenti (Thomson D. (2009), op. cit.).
[15] Velthuis O. (2005), Talking Prices: Symbolic Meanings of Prices on the Market for Contemporary Art, Princeton, Princeton University Press. In secondo luogo ciò che maggiormente determina il prezzo di un’opera è la sua dimensione (e non invece la sua qualità); successivamente la tecnica utilizzata e il prezzo di vendita ad un museo.
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